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Per questo mi chiamo Giovanni

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Per questo mi chiamo Giovanni
AutoreLuigi Garlando
1ª ed. originale2004
GenereBiografia
Sottogenereromanzo a sfondo pedagogico
Lingua originaleitaliano
AmbientazionePalermo nel 2002
ProtagonistiGiovanni
CoprotagonistiLuigi
Antagonistila mafia
Altri personaggizia Nuccia, Maria, Tonio, Simone

Per questo mi chiamo Giovanni è un romanzo di Luigi Garlando edito da Rizzoli e uscito nel 2004.

La prefazione è stata scritta da Maria Falcone, sorella del magistrato Giovanni Falcone, ucciso a Capaci da Cosa nostra nel 1992.

Trama

Il narratore del libro è il piccolo Giovanni, un bambino di quasi 10 anni nato e cresciuto a Palermo.

Qualche giorno prima del suo decimo compleanno, suo padre Luigi decide di raccontargli la storia di Bum, il suo scimpanzé di peluche con i piedi bruciati, e gli comunica che l'indomani andranno al mare e faranno un giro per Palermo, un viaggio nella storia della sua città e dei suoi cittadini.

Il giorno dopo, padre e figlio partono da via Castrofilippo, strada dove, al numero 1, il 18 maggio 1939, nacque un certo Giovanni Falcone. Era un bambino come tanti, figlio di un medico e di una casalinga. La madre Luisa era una donna molto severa con un'idea fissa: bisogna sacrificarsi per il bene e fare il proprio dovere senza paura. Falcone era cresciuto con questi ideali e con l'esempio di zii bersaglieri e capitani di aviazione morti da eroi. Frequentava la scuola del Convitto nazionale di piazza Sett'Angeli, ma non era il primo della classe e spesso si azzuffava con i compagni, quasi sempre per difendere qualcuno che gli "spiritosoni" delle classi superiori avevano preso di mira. Gli piaceva giocare a ping pong all'oratorio con la sorella Maria, i soldatini di piombo, i super eroi e i libri di avventura. Dopo il liceo classico partì per Livorno per studiare all'Accademia navale, ma tornò presto a Palermo per diventare un giudice, ottenendo il suo primo incarico a soli 24 anni presso il carcere di Favignana, anche se dopo poco fu trasferito a Trapani, dove incontrò per la prima volta un terribile mostro che avrebbe deciso di combattere per tutta la sua vita.

Con una metafora particolarmente significativa, papà Luigi spiega al piccolo Giovanni in che cosa consiste questo mostro, ovvero la mafia: lo Stato è come la scuola, dove ci sono il preside e le maestre, che hanno l'obbligo di far rispettare la legge. Un compagno del piccolo Giovanni, Tonio, obbliga gli altri bambini a dargli i soldi che hanno in tasca. Tutti pagano perché hanno paura tranne Simone, che si rifiuta e si ritrova con le stringhe delle scarpe legate e un braccio rotto, ma purtroppo nessuno sembra aver visto cosa è successo, quindi la maestra non può punire il colpevole. In questo modo si creano due leggi, quella giusta della maestra e quella illegale di Tonio, il più forte, e se per cento anni Tonio continua a riscuotere i soldi di tutta la classe, alla fine pagare non sembrerà più un'ingiustizia ma una cosa normale. Allo stesso modo funziona la mafia: essere costretti a pagare il pizzo al boss di turno in cambio di una presunta protezione e non dire nulla al riguardo diventa una cosa normale quando lo si fa da tanto tempo.

La mafia è un carciofo: ogni foglia è una famiglia, che impone la sua legge ingiusta in un quartiere della città, e per entrare a far parte di una famiglia si deve fare un giuramento versando qualche goccia del proprio sangue su un santino che si deve tenere in mano mentre viene bruciato. Per far capire al figlio la ferocia di questo mostro che Giovanni Falcone si apprestava a combattere, Luigi racconta del dodicenne Giuseppe Di Matteo, tenuto prigioniero per più di due anni e poi ucciso sciolto nell'acido perché figlio di un uomo d'onore che si era reso disponibile ad aiutare lo Stato a combattere la mafia.

Falcone non riuscì a rimanere a guardare mentre i mafiosi scioglievano bambini nell'acido e trasformavano il mare di Palermo in un cimitero di uomini con i piedi nel cemento, rifugiandosi dietro l'omertà e dietro l'onore di persone che continuavano a sostenere di non sapere nulla di tutto ciò che succedeva. Per fortuna, quando arrivò al tribunale di Palermo, incontrò Rocco Chinnici, un magistrato che non si faceva spaventare dalla mafia e che anzi aveva pensato di fondare un gruppo di magistrati per combatterla, insieme al quale cominciò a indagare sulle concessioni edilizie a Palermo e a "rompere le scatole" cosí tanto che nel 1980 lo misero sotto scorta. Le indagini cominciavano a dare fastidio a Cosa nostra, che nel 1983 uccise Rocco con un'automobile imbottita con cinquanta chili di tritolo.

Falcone era costretto a vivere rintanato come un topo nel bunker di via Notarbartolo. Divorziò dalla moglie Rita e si innamorò della collega Francesca Morvillo, che sposò in gran segreto. Un giorno si ritrovò ad interrogare il capo di una foglia del carciofo, un certo Tommaso Buscetta, detto don Masino, con cui da piccolo aveva giocato insieme all'oratorio. Don Masino era la chiave per conoscere il mostro, visto che la cosca di Corleone aveva ucciso i suoi figli e molti suoi familiari: Falcone e Ninni Cassarà, i due giocatori più agguerriti del pool antimafia, effettivamente nato dopo la morte di Rocco, sapevano che se fossero riusciti a fare breccia nel cuore di quell'uomo ferito, catturare il mostro sarebbe stato più semplice.

Falcone e Cassarà fecero quindi tornare Buscetta dal Brasile e lo convinsero a dire loro ciò che sapeva; grazie alle sue informazioni, il 29 settembre del 1984, arrestarono decine di mafiosi nei loro letti, tra cui Vito Ciancimino, l'ex sindaco di Palermo. Ninni venne ucciso con 200 colpi di Kalashnikov il 6 agosto del 1985, ma Falcone non si diede per vinto e cominciò a curiosare nelle banche del mostro insieme all'amico Paolo Borsellino, con cui si ritirò per alcune settimane in Sardegna, nella prigione dell'isola Asinara. L'8 novembre del 1985 furono depositate seicentomila pagine di prove: 474 uomini d'onore avrebbero dovuto presentarsi in tribunale per difendersi dall'accusa di mafia.

Il successivo 11 febbraio cominciò il Maxiprocesso di Palermo, nell'aula bunker del carcere dell'Ucciardone preparata per l'occasione, con 210 mafiosi dentro 30 gabbie. Dopo quasi due anni ecco la sentenza: il mostro è colpevole e deve scontare diciannove ergastoli e 2665 anni di carcere e pagare una multa di più di 11 miliardi e mezzo.

Giovanni Falcone stava vincendo, ma Cosa nostra cercò di farlo fuori nel giugno del 1989 con una bomba fatta da 57 candelotti di dinamite lasciata sul molo della sua villa all'Addaura; la bomba venne disinnescata in tempo, ma il giudice capì comunque che era il momento di lasciare Palermo per andare a Roma al Ministero di Grazia e Giustizia. Qui creò una squadra ancora più potente del pool antimafia, con più poteri e più armi a disposizione, la Superprocura, continuando a ricevere minacce e biglietti, a testimonianza di come la mafia davvero avesse amici ovunque.

Il 23 maggio 1992 Falcone tornò in Sicilia per assistere alla mattanza dei tonni di Favignana; purtroppo Totò u curtu, della famiglia dei corleonesi, era diventato il re del carciofo e aveva ordinato ad una decina dei suoi uomini più fidati di organizzare l'attentatuni, il più grande attacco di Cosa nostra ad un uomo dello Stato. I picciotti di Totò nascosero cinque quintali di tritolo in un cunicolo sotto l'autostrada che collega Palermo all'aeroporto di Punta Raisi, vicino al bivio per Capaci, e, nel momento esatto in cui l'auto di Giovanni imboccò la strada, lo stesso mafioso che aveva sciolto nell'acido il piccolo Giuseppe Di Matteo (conosciuto come u verru, cioè il maiale), spinse la levetta del radiocomando. Nell'esplosione persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca e i tre agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

Lo stesso giorno, a Palermo, mentre per le strade risuonavano le sirene delle ambulanze e delle volanti di polizia e carabinieri, Luigi correva in ospedale con la moglie e un fazzoletto bianco che sventolava dal finestrino: suo figlio stava per nascere nello stesso giorno in cui la mafia aveva chiuso gli occhi di un grande eroe che non aveva voluto mettere al mondo orfani. Luigi ha compreso il suo sacrificio meglio di chiunque altro e ha voluto ripagarlo dando a suo figlio lo stesso nome di questo coraggioso uomo: è questo il motivo per cui il ragazzino protagonista si chiama Giovanni.

Pochi mesi dopo tutti i responsabili della strage di Capaci vennero arrestati e condannati all'ergastolo.

Luigi continua il suo racconto: anche lui, proprietario di un negozio di giocattoli in via Libertà, per molti anni ha dato da mangiare al mostro, pagando il pizzo ai picciotti che si presentavano l'ultimo venerdì di ogni mese, ma dopo il sacrificio di Falcone ha capito che non può più andare avanti in questo modo e, la prima volta che i mafiosi sono andati nel suo negozio dopo la strage di Capaci, ha detto loro "Qui non si vendono più bambole" e li ha denunciati alla polizia. La mafia, per vendetta, ha fatto esplodere una bomba nel negozio e lo scimpanzé con i piedi bruciati è l'unico articolo a non essere andato distrutto; Luigi si è salvato soltanto perché un fortissimo mal di denti lo aveva costretto a correre dal dentista, quindi non si trovava lì al momento dell'esplosione.

Dopo aver ascoltato il racconto, Giovanni capisce che non può più lasciare che Tonio rubi i soldi e che spinga giù dalle scale Simone per poi passarla liscia perché nessuno dice la verità su di lui, così decide di affrontarlo e di denunciarlo alla maestra, seguendo l'esempio del famoso giudice che portava il suo stesso nome. Per questo motivo si ritrova con un occhio nero, ma al contempo diventa anche amico di Simone, mentre Tonio viene mandato in un riformatorio.

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