di Federico Cella

Categoria "Social"

L’esperto di geopolitica internazionale Robert Kelly durante la sua imperdibile diretta con la Bbc

L’esperto di geopolitica internazionale Robert Kelly durante la sua imperdibile diretta da casa con la Bbc

Quello che era smart per pochi – poco più di mezzo milione di lavoratori “agili” in Italia fino a poche settimane fa – ora è diventato necessità per molti. Su Corriere Tecnologia abbiamo aperto una sezione apposta dedicata ai servizi e contenuti digitali diventati “essenziali” in questi giorni all’insegna del #iorestoacasa. Il lavoro, per chi può, diventa un affare domestico, con i suoi pregi e le invece enormi difficoltà a rendere il proprio appartamento (anche) un luogo di lavoro. Considerando anche i figli che non vanno a scuola e partner alle prese con le stesse esigenze. Secondo il sito App Annie, verso la metà di marzo le app per video-conferenza hanno raggiunto i 62 milioni di download, record senza precedenti. In Italia Zoom è stato scaricato 55 volte più spesso del solito, Hangouts Meet di Google 140 di più, Teams di Microsoft 30. Se parliamo di applicazioni più sociali invece si registra da noi – Paese forse più indietro degli altri in materia di dotazione software – un aumento pari a 423 volte dei download di Houseparty.

L'andamento dei download delle app per videoconferenza

L’andamento dei download delle app per videoconferenza

Settato uno spazio adeguato, risolti i problemi di connettività e di vpn, reti personali che permettono un collegamento sicuro alle risorse in rete della propria azienda, e pianificata l’intera giornata per tutta la famiglia – non solo per crearsi gli spazi di lavoro ma perché è sano per tutti avere una buona agenda fatta appunto di lavoro e compiti ma anche di esercizio fisico e tempo di condivisione famigliare – siamo pronti a partire. Alle 9.30 ho la mia prima riunione a distanza… con quale software? Ce n’è tanti e pare che a ognuno dei nostri interlocutori piaccia usarne uno differente. Confusione, ma se ne viene a capo. Che si tratti di uno dei nuovi leoni della tele-presenza, oppure del vecchio Skype, rimane un grande problema: come mi presento? Mi si nota di più se mi pettino oppure se escludo il video e lascio una bella icona? Pare che la seconda soluzione sia da evitare, a meno che non sia condivisa da tutti i partecipanti. Dunque il tema del look, non solo il mio ma quello di tutto lo sfondo, ossia la mia casa, rimane aperto. Su Pinterest, per dire, le ricerche sul setup casalingo per le videoconferenze è aumentato di oltre il mille per cento a cominciare dal 6 marzo. Al punto che i temi di sfondo da usare con Zoom – app gettonatissima con qualche problema di privacy – sono diventati materia di studio. Uno studio che ha affrontato qualche giorno fa anche il New York Times chiedendo lumi a esperti del settore. Smart worker di lunga data e designer degli interni. Ecco i loro consigli.

La situazione dei download in Italia (e Spagna)

La situazione dei download in Italia (e Spagna)

 

Partiamo dalla considerazione che non solo dobbiamo cercare di apparire professionali malgrado le circostanze non ottimali – dai figli (giustamente) scatenati alla chiusura dei parrucchieri -, ma che con la videochiamata mettiamo in esibizione vasti tratti della nostra vita privata. Dai panni stesi alla cucina da riordinare, dal passaggio della moglie (o del marito) in mutande al grido d’attacco della figlia che si sente di aver subito un torto dall’altra. Che fare? Il quadro dietro alle spalle lo tolgo? Metto la cuffia così i capelli sembrano più in ordine? Mi faccio la barba? Una cosa è certa, ci ricorda il Nyt: (se è possibile) chiudete sempre la porta della stanza dove state facendo l’incontro virtuale. Perché altrimenti succedono cose imbarazzanti come all’ormai rinomato commentatore Bbc del video qui sotto (dovete cliccare sull’immagine, anche il blog mostra segni di stanchezza).

Immagine anteprima YouTube

Passiamo poi al setup, cioè a organizzare ogni dettaglio per la nostra riunione. Ecco questo è il primo consiglio: non andate a caso, preparate bene software e hardware ma anche il contesto. L’improvvisazione davanti a un certo numero di colleghi (o peggio: clienti) potrebbe non portare niente di buono. Partiamo quindi con Gideon Mendelson, designer di interni a New York, che ci da un primo consiglio: “State più semplici possibili”, cioè evitate sfondi di riunione che distraggano i vostri interlocutori. La semplicità è complessa, specialmente in casa, va costruita: “Create una piccola composizione dietro di voi”, una lampada, un paio di libri, una pianta con dei fiori. Lauren Rottet, collega di Mendelson, sposa la linea basic e suggerisce di trovare in casa il muro più neutrale che abbiamo. Meglio se con colori leggeri – grigio o blu chiaro, ma anche bianco e beige, no assolutamente arancione, giallo e rosso -, da evitare accuratamente le fantasie di ogni genere. Distraggono.

Un tipico esempio di setup non preparato

Un tipico esempio di setup non preparato

Per essere sicuri di potersi sentire bene, durante la riunione, Mandelson suggerisce stanze con tappeti e finestre fono-assorbenti. Mentre per quanto riguarda il proprio aspetto personale, Rottet sconsiglia vivamente di mettersi sotto una luce diretta: lunghe ombre calerebbero sotto i nostri occhi e naso. Da preferire una lampada o (meglio ancora, diciamo noi) una finestra di fronte a noi, o di fianco, che non solo renderebbero più onore al nostro viso segnato dal non mettere il naso fuori di casa, ma eviterebbero anche fastidiosi aloni di luce sullo schermo. Da evitare ovviamente fonti di luce dirette di fronte alla telecamera del pc o tablet.

Pare che questa libreria fotografata da Ria Puksas sia uno sfondo molto gettonato per Zoom

Pare che questa libreria fotografata da Ria Puksas sia uno sfondo molto gettonato per Zoom

 

Al contrario, altri esperti sentiti dal Times suggeriscono invece di sfruttare la chance della tele-presenza per mostrare aspetti di ottimismo o addirittura messaggi di speranza. Piante, poster allegri o che invitano alla riflessione, pezzi d’arte adeguati, un professore dice di collegarsi con i propri studenti mettendo sempre sullo sfondo delle insegne della scuola (ora chiusa, ovviamente). L’artista mette gli schizzi dei propri lavori, l’esperta di mindfulness candele profumate. Insomma, ognuno a seconda delle proprie attitudini ed esigenze, di contesto lavorativo e reali opportunità, dettate dagli interlocutori. E se vi viene il dubbio che quanto raccontato finora abbia un che di superficiale, visto il periodo, sappiate che la collega Julie Lasky ha avuto la stessa sensazione. E ha quindi voluto concludere il reportage con i consigli di mr Korins, designer di Broadway, che dice che in questo periodo le preoccupazioni sull’apparire devono dissolversi a favore della sostanza delle comunicazioni: “Posso darvi consigli sul setup ma la realtà è che a me adesso interessa solo sapere che tutti stanno bene”. Banale, forse, ma non si può che condividere. Perché, se l’ambiente di lavoro ovviamente lo consente, è meglio per questa serie infinita di videoconferenze giornaliere raggiungere due obiettivi: 1) quello concreto della riunione, in fretta e senza troppe distrazioni; 2) approfittare di questi momenti “indiretti” di socialità per rassicurare se stessi e gli altri che tutto andrà bene.

 

Aggiunta
Se l’articolo vi è piaciuto, oppure al contrario, lo trovate inutile, a questo link trovate un racconto ben fatto della collega Rizzacasa con altri consigli, e un taglio differente, più di netiquette. Un’integrazione, o un doppione, vedete voi: coordinarsi in smart working è maledettamente difficile, a prescindere dagli sfondi.

milano-digital-weekA poco più di 7 mesi dalla fine della precedente edizione, è già arrivato il momento per la nuova Digital Week di Milano. Parte infatti oggi la call for proposal lanciata dal Comune insieme a IabFondazione Cariplo per i progetti che daranno vita alla terza edizione dell’iniziativa promossa dell’assessorato alla Trasformazione Digitale e Servizi Civici. Giunta alla terza edizione, la Digital Week della città è il più grande evento sull’innovazione digitale in italia. Si ripartirà, dall’11 al 15 marzo 2020, dagli oltre 500 eventi del 2019 e un titolo dedicato alla Città Aumentata. A presentare il sito che è online da oggi proprio per raccogliere le candidature – da questa pagina, guidati da un chatbot -, l’assessora Roberta CoccoCarlo Noseda presidente Iab, Carlo Mango presidente di Cariplo Factory e Nicola Zanardi, il curatore della Milano Digital Week.

IMG_0156“Vogliamo passare dal concetto di smart city a quello di smart citizen“, ha spiegato Roberta Cocco. “Il digitale dev’essere una leva per i cittadini per sviluppare la loro vita in città che sia più utile e vicina alle loro necessità. Il digitale dev’essere in funzione di inclusione, non deve dividere ma ingaggiare e coinvolgere tutti con servizi più semplici. Quello che certo non vogliamo è  digitalizzare l’inefficienza“. L’assessora alla Trasformazione Digitale, in carica da 3 anni dopo i 25 passati in aziende di information technology, ha quindi messo sul piatto le cifre del molto sviluppato in città, dal Comune per i cittadini, verso una maggiore efficienza basata sui servizi digitali (nell’immagine sotto).

IMG_0161Il Fascicolo del Cittadino, una risorsa dove trovare diverse pieghe del proprio rapporto con l’istituzione cittadina – dai certificati alla gestione della vita scolastica dei propri figli –  dall’aprile 2017 (data dell’esordio del servizio, accessibile tramite Spid o altre forme di autenticazione) ha visto la cifra di ben 930 mila visite. Con un risultato – “che  ci pone nella fascia molto alta della media europea” – del 64% dei certificati che sono stati scaricati digitalmente. “A questo”, ha aggiunto Cocco, “si affiancano i traguardi economici raggiunti da PagoPA, quella che da informatica definisco la vera killer application del nostro sistema”.

Quello che rimaneva da fare, secondo l’assessora, era di comunicate correttamente ai cittadini le novità a loro disposizione. “Motivo per il quale abbiamo chiesto a personaggi “loschi” come quelli del Milanese Imbruttito di aiutarci a raccontare i nostri progetti. E prenderci anche un po’ in giro”. Il video in questione, lo vedete sopra, ha totalizzato oltre 1 milione di visualizzazioni su Facebook e 400 mila su Youtube.

Facebook CEO Mark Zuckerberg speaks at Georgetown University, Thursday, Oct. 17, 2019, in Washington. (AP Photo/Nick Wass)

Mark Zuckerberg durante il discorso tenuto alla Georgetown University

Interessante forse anche oltre le intenzioni, il discorso tenuto da Mark Zuckerberg agli studenti dell’Università di Georgetown a Washington. Il tema era la libertà d’espressione, difesa dal fondatore di Facebook – proprietario anche di Instagram e WhatsApp – contro ogni forma di censura. Finché ovviamente non si arriva agli insulti e all’incitamento alla violenza. «In una democrazia penso che spetti alle persone decidere ciò che è credibile, non alle società tecnologiche», ha detto Zuckerberg, che di fatto ha sostenuto maglie più larghe sui social in risposta alle polemiche sulla diffusione su Facebook di una pubblicità sulla rielezione di Donald Trump che conteneva false informazioni sul rivale democratico Joe Biden. «In caso di dubbio – ha detto – dovremmo sempre inclinarci verso una maggiore libertà di espressione». Dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, e il cosiddetto RussiaGate, la vigilia delle Presidenziali americane del 2020 è calda per Facebook, che deve riguadagnare credibilità e appetibilità per gli investitori. Per cui il ragazzo prodigio – 35 anni e un patrimonio personale da circa 70 miliardi di dollari – ha insistito su temi importanti: «Dove stabilire il limite? Non credo che la maggior parte delle persone voglia vivere in un mondo in cui possiamo mettere online solo cose che le aziende tecnologiche ritengono vere al 100%», ha ribadito.

 

Zuckerberg durante il discorso ha fatto anche sfoggio di una certa ironia: «In questo momento stiamo facendo un ottimo lavoro nel far arrabbiare tutti con noi». Ironia che però non è stata condivisa da molti dei giornalisti presenti all’evento. E per un motivo ben preciso, come spiega Associated Press: in occasione della conferenza sulla libertà d’espressione non era permesso ai giornalisti di fare domande. Sembra una battuta, non lo è. Gli unici a poter porre questioni al fondatore di Facebook erano gli studenti dell’Università di Georgetown. Ma come fa notare AP, erano domande filtrate da un moderatore. Allo stesso modo, in occasione di un dibattito sulla libera circolazione di parole e pensieri, non era possibile fare video. Sul tema l’agenzia americana ha intervistato Sally Hubbard, direttore della strategia di controllo dell’Open Markets Institute, associazione americana che sensibilizza l’opinione pubblica verso i rischi dati dal monopolio. Hubbard va giù dura: «La chiave per la libera espressione è di non avere una società che controlla il flusso di parole a più di 2 miliardi di persone, usando algoritmi che amplificano la disinformazione al fine di massimizzare i profitti».

 

L’Associated Press ha infine posto l’accento sull’attacco di Zuckerberg al fenomeno social del momento, l’app cinese Tik Tok. Sottolineando come Facebook e WhatsApp sono state utilizzate da manifestanti e attivisti in tutto il mondo, il ceo ha spiegato come «su Tik Tok queste stesse proteste sono censurate, anche qui negli Stati Uniti». Con un chiaro riferimento alle manifestazioni in corso da settimane a Hong Kong. L’AP fa notare come Zuckerberg – due settimane dopo la lettera del senatore Rubio dove si chiedeva una supervisione della censura applicata dall’app cinese – abbia attaccato quello che sta diventando un fenomeno social tale da erodere parte del pubblico delle proprietà di Facebook, soprattutto nella fascia giovane.

Oculus Quest Lifestyle 5Guardando i numeri di mercato della realtà virtuale, dove per il 2024 alcuni analisti prevedono un valore intorno ai 50 miliardi di dollari, verrebbe da chiedersi come sia possibile prevedere un fatturato simile (oggi siamo intorno agli 8 miliardi) per un prodotto ben lontano dall’essere pronto per il mercato di massa. È pur vero che queste analisi includono utilizzi lontani dal consumatore finale, cioè di ambito professionale. Ma in ogni caso le previsioni appaiono azzardate. E così abbondano i pessimisti, quelli che ritengono la tecnologia Vr sia un flop non solo annunciato ma già avvenuto. È però, dall’altra parte, impossibile non notare come marchi importanti, come Playstation – che con PsVr di fatto ha messo in commercio la prima vera piattaforma di massa, con 4 milioni di giocatori dichiarati – oppure Nintendo con il suo Labo Vr arrivato poche settimane fa, ci stanno puntando con un grado sempre maggiore di convinzione. Con un invece minore impatto sul mercato, vanno però poi considerate le tante le aziende come Lenovo, Htc, Acer o Hp (per citarne alcune) che continuano a sfornare nuovi modelli sempre più avanzati. Tutti, va detto, senza mai spingere troppo per non bruciare quella che sono convinti sarà uno standard per l’intrattenimento e la formazione a vari livelli, tra pochi anni.

Arrivano poi già ora sul mercato prodotti come Oculus Quest, direttamente dall’azienda che dal 2014 è in mano a Facebook, che fanno capire come arrivare al mercato di massa, dunque a un numero critico di consumatori, non è un’utopia ma una realtà raccontata da visori che tolgono quasi ogni barriera all’accesso alla realtà virtuale. Il team di Hugo Barra ha presentato i Quest, insieme al fratello maggiore Rift S, in occasione della conferenza F8 di questi giorni. Ma il caschetto, che arriverà sul mercato dal 21 maggio a 449 euro (nella versione con 64 Gb di memoria, quella da 128 costerà 549), gira per le redazioni dei giornali già da qualche giorno. Ed è senza se e senza ma una piacevole sorpresa. Perché? Prima di tutto è un cosiddetto stand-alone – cioè un prodotto che non necessita come il Rift di alcun collegamento a un computer (potente, peraltro) per funzionare – che a differenza del predecessore Oculus Go non lesina in qualità visiva per poter essere contenuto come peso e indossabilità. Usare software, per lo più videogiochi, in realtà virtuale sul Quest non crea quella sensazione di povertà di immagine spesso provata quando si passa da un visore collegato a un’unità di calcolo esterna (il pc) a uno che fa tutto da sé. È un piccolo gioiello, cosa che si può notare già da quella che forse rimane la barriera principale. Il prezzo, unico vero ostacolo per la diffusione. Ma per quello basteranno le versioni successive di certo in arrivo nei prossimi anni, man mano sempre più contenute nei costi e dunque nel prezzo. La cosa importante è capire che con il nuovo lancio da parte di Zuckerberg, la realtà virtuale per tutti, quella da famiglia, gustosa e tonda nell’esperienza e comoda da usare e indossare, è qui ed è pronta.Oculus Quest White Backdrop 1

È questa la sensazione che si ha subito, quando si apre la scatolona nera, elegante nel packaging come ormai (quasi) tutte le grandi aziende sanno fare dopo averlo imparato da Apple. Il setup, i passaggi per passare dalla scatola a provare subito la realtà virtuale, è semplice e veloce. Così come per il Go, basta scaricare l’app di Oculus, connettersi a un wi-fi con telefono e visore e pochi tocchi sull’app preparano all’immediato utilizzo. Una volta dentro, l’immagine di quello che ci circonda (nella realtà) appare in un curioso bianco e nero pixelato dato dalle telecamere che si trovano sull’esterno del visore: passata la sorpresa dell’effetto “visione notturna”, la proiezione del reale dentro il visore si spiega con la necessità di impostare il campo di gioco. Parliamo di campo di gioco perché di fatto i software disponibile sull’Oculus Store, salvo rari esempi, sono tutti videogiochi: come accaduto in passato per altre tecnologie, sono i videogame ad aprire la strada. Utilizzando i due controller che si tengono in mano, si imposta disegnandola sul pavimento, l’area sicura, quella dove possiamo muoverci senza rischiare di sbattere contro il divano o un muro. Svolto questo compito, il software chiamato Guardian svolge il lavoro intuibile dal nome: crea una rete che all’interno della simulazione ci impedisce di perdere le coordinate e finire in zone a rischio. Due rapidi tutorial, con razzi da lanciare e robot ballerini, spiegano quindi il funzionamento base dei controller. Afferrare, lanciare, colpire, selezionare: tutto è facile e intuibile. E così una bambina di 8 anni è subito pronta a lanciarsi nel bellissimo Beat Saber, una spada laser a ritmo di musica.Beat Saber Quest Screenshot 01

Il salto in avanti lo si può apprezzare anche in termini di riduzione della cosiddetta motion sickness, la nausea da chinetosi sempre in agguato con la realtà virtuale e “misurata” come rischio con differenti gradi di “confort” assegnati alle diverse esperienze in Vr sull’Oculus Store. Maggiore è la qualità, anche in termini di attenzione all’utente, e minore è il rischio mal di testa. Questo dipende anche dalla dotazione tecnologica a bordo del Quest, che è interessante – soprattutto considerando lo scarso peso, 571 grammi ben distribuiti sulla testa – dai 4 Giga di Ram a un processore Snapdragon non nuovissimo (per chi ne capisce è l’835) ma che svolge egregiamente il proprio lavoro. Questo soprattutto per due motivi: due formidabili schermi Oled, da 1600 x 1440 pixel per occhio, e il fatto che i titoli disponibili sullo Store (non molti a dire il vero, per il momento) sono realizzati specificatamente per questi visori, e dunque ottimizzati al massimo.Angry Birds VR - Red Flying

Facebook al lancio dei visori durante l’F8 ha sottolineato il concetto dei 6 gradi di libertà – DoF, Degrees of Freedom – dati dal Quest che permette e riconosce i movimenti del corpo in tutte le direzioni. E questo come detto si applica principalmente – basta vedere sotto la lista dei 53 software che saranno disponibili al lancio – su videogiochi. Il volano di ingresso. Ma se è vero che tutti i big si stanno impegnando per diventare (anche) un marchio di gaming, la realtà virtuale per Facebook e Zuckerberg – come anticipavamo cinque anni fa – non può che essere una nuova soglia di interazione social. Se Portal, in arrivo in Europa, è un primo passaggio di upgrade, quello definitivo per relazioni digitali è quello virtuale. Come si può ben intuire dalla foto sotto che arriva direttamente da San Francisco.PHOTO-2019-05-01-20-27-37

    Ecco i titoli disponibili al lancio di Oculus Quest
  1. Angry Birds VR: Isle of Pigs, Resolution Games
  2. Apex Construct, Fast Travel Games
  3. Apollo 11, Immersive VR Education
  4. Bait!, Resolution Games
  5. Ballista, High Voltage Software
  6. Beat Saber, Beat Games
  7. Bigscreen Beta, Bigscreen VR
  8. Bogo, Oculus
  9. Bonfire, Baobab
  10. Box VR, Fit XR
  11. Creed, Survios
  12. Dance Central, Harmonix
  13. Dead and Buried II, Oculus Studios
  14. Drop Dead: Duel Strike, Pixel Toys
  15. Electronauts, Survios
  16. Epic Roller Coasters, B4T Games
  17. Face Your Fears 2, Turtle Rock Studios
  18. First Contact, Oculus
  19. Fruit Ninja VR, Halfbrick
  20. Guided Tai Chi, Cubicle Ninjas
  21. I Expect You To Die,Schell Games
  22. Job Simulator, Owlchemy Labs
  23. Journey of the Gods, Turtle Rock Studios
  24. Keep Talking And Nobody Explodes, Steel Crate Games
  25. Moss, Polyarc
  26. National Geographic VR Explore, Force Field VR
  27. Nature Treks, Greener Games
  28. Ocean Rift, Dr. Llyr Ap Cenydd
  29. Oculus Browser, Oculus
  30. Oculus Gallery, Oculus
  31. Oculus TV, Oculus
  32. Oculus Video, Oculus
  33. Orbus VR, Orbus Online
  34. PokerStars VR, LuckyVR
  35. Racket Fury: Table Tennis, Pixel Edge Games
  36. Rec Room, Against Gravity
  37. Robo Recall, Drifter Entertainment
  38. Rush, Binary Mill
  39. Shadow Point, Coatsink
  40. Skybox VR Video Player, Source Technology Inc
  41. Space Pirate Trainer, I-Illusions
  42. Sports Scramble, Armature Studios
  43. Superhot VR, Superhot Team
  44. The Exorcist: Legion VR, Developer Wolf & Wood
  45. Thumper, Drool
  46. Tilt Brush, Google
  47. Ultrawings, BitPlanet Games
  48. Vader Immortal, ILMxLab
  49. Virtual Desktop,Virtual Desktop, Inc.
  50. Virtual Virtual Reality, Tender Claws
  51. VR Karts, Viewpoint Games
  52. VRChat, VRChat
  53. Wander, Parkline Interactive

 

lensballComplice l’utilizzo sempre più esclusivo delle piattaforme on demand, la pubblicità è praticamente scomparsa dalla televisione di casa. In sua sostituzione arriva quella sul telefono. In particolare il mio personale mondo dell’advertising è quasi esclusivamente popolato dai video sponsorizzati di Instagram. Meravigliosi. Dispiace un po’ dirlo ma è così. L’investimento di uomini e mezzi da parte del proprietario Facebook è legato ovviamente alla crescente popolarità del mezzo — che si è ingoiato Snapchat in un boccone — insieme all’incredibile efficacia delle inserzioni pubblicitarie, presentate in un format che le rende senza soluzione di continuità con gli altri post. Se poi l’utente è talmente sprovveduto non solo dal cliccare i link proposti (gli unici permessi sul social, esclusi quelli sulle Stories), ma arriva anche a comprare il prodotto venduto, ebbene la trappola è servita.

 

Non solo ho cliccato, non solo ho comprato — un gadget tecnologico del tutto inutile, ma irresistibile nella sua inutilità a basso prezzo —, ma con la sempre maggiore precisione con cui vengo tracciato, continuo a guardare video che mi propongono oggetti che sono tagliati apposta sulle mie debolezze da mancato (per poco) acquirente compulsivo. Anche pochi giorni fa sono arrivato a un clic dal comprare ma mi sono fermato grazie allo sprazzo di lucidità che mi ha mostrato l’oggetto del desiderio nella sua reale essenza: una perfetta idiozia da malato di Instagram. Si trattava di una sfera trasparente in una qualche lega pregiata di plastica, levigata a mano, che permetteva di fare tramite smartphone delle foto a «tutto tondo» dei panorami. «LensSphere», 24,95 euro in super-offerta, con consegna gratuita in quanto nuovo cliente (già, perché la denominazione del negozio online cambia sempre). E dovevo pure sbrigarmi, perché la richiesta era molta e «in magazzino ne sono rimaste solo 10». Stessa cosa per la irresistibile videocamera full-hd grande come un bottone, da attaccare nei posti più impensabili-indiscreti, la fascia per la postura corretta al pc, il porta-telefono magnetico da auto e altre cose che attentano costantemente alla mia stabilità. Un po’ come le «scimmie d’acqua» o gli «occhiali a raggi x» pubblicizzati nelle pagine finali di Diabolik quando ero piccolo. Con la differenza che adesso ho una carta di credito, e che questa è attivabile con un solo sguardo al telefono.

gaming-disorder

Non smette di far discutere l’inclusione ufficiale, seppur in bozza, della dipendenza da videogiochi nella nuova Classificazione Internazionale delle malattie. E sarebbe strano il contrario, dato che si parla della forma di intrattenimento più diffusa (nel mondo a spanne si censiscono 2 miliardi di gamer) e in costante crescita economica (siamo oltre i 110 miliardi di fatturato). Un’attività che come poche altre crea spesso una spaccatura generazionale, nelle famiglie ma non solo. Fatto sta che da lunedì il “Gaming disorder” è una malattia ufficiale riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che già aveva anticipato la novità nei mesi scorsi. La cosiddetta International Classification of Diseases nella sua versione 11, la prima peraltro in versione digitale in modo da poter essere consultata in ogni parte del mondo, entrerà in vigore dal prossimo maggio e segnala tra le nuove patologie la dipendenza da videogiochi nel capitolo delle malattie mentali, dove si riscontra tra chi ne è afflitto «una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti che prendono il sopravvento sugli altri interessi della vita». Tre i criteri decisivi nella decisione, con un meccanismo descritto che richiama dipendenze simili a quelle date dalle droghe, e basate sul concetto di “ricompensa”. Sul New York Times, lo psichiatra Petro Levounis esplicita il paragone spiegando come segue pazienti “che soffrono di una dipendenza da Candy Crush Saga che sono sostanzialmente simili alle persone che arrivano con un disturbo da cocaina”.

In Italia il settore vale 1,5 miliardi di euro, il triplo del cinema, e interessa 18 milioni di italiani, due terzi dei quali tra i 25 e i 54 anni. Un tema dunque che non riguarda solo gli adolescenti, «anche se i candyCrushSagavideogame sono la loro forma di intrattenimento principe». Ne abbiamo parlato con Matteo Lancini, psicoterapeuta presidente della Fondazione Minotauro che si occupa delle tematiche del cosiddetto “ritiro sociale”. «Questa attenzione posta dall’Oms è importante perché ci porta a indagare su un fenomeno, quello dei videogiochi, talmente diffuso da non poter più essere trascurato. Ma che non deve neanche essere demonizzato”. La questione sul tavolo è la possibile confusione tra quello che è un sintomo – il ragazzo chiuso in un mondo digitale – e l’effettiva causa di questo disagio. Se dunque l’abuso da giochi elettronici è un pericolo da non sottovalutare (qui una nostra inchiesta dentro l’ambulatorio specializzato del Policlinico di Roma), soprattutto in un periodo della vita così delicato come quello dell’adolescenza, non è corretto considerare il mezzo come causa del disagio. “La riflessione deve essere ampia e senza preconcetti, perché è anche vero che spesso i giochi e la Rete, le chat, possono essere viste come una prima forma di cura“. Pratiche cioè di socializzazione digitale che significano un’apertura verso il mondo esterno invece che una chiusura verso questo.

Inevitabilmente più dura è la presa di posizione dell’industria dei videogiochi nei confronti delle scelte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In Italia è stata l’Associazione editori e sviluppatori videogiochi italiani (Aesvi) ha rilasciare un commento: “Ci rammarichiamo di constatare che la dipendenza da videogiochi è ancora presente nell’ultima versione della classificazione ICD-11 nonostante la significativa opposizione da parte della comunità medica e scientifica”, chi parla è Thalita Malagò, direttore di Aesvi. “Ci auguriamo che l’OMS decida di riconsiderare il volume crescente di dati a sua disposizione prima della versione finale della classificazione“.

Molly Headshot BW (1)«Non ci accontentiamo di raccontare le notizie, vogliamo che il pubblico diventi parte della storia». Molly Swenson è produttore di Ryot, un’agenzia che realizza video a 360 gradi passata ad Aol e dunque nella grande famiglia di Verizon, l’operatore telefonico americano. Swenson sarà alla Fira di Barcellona non per parlare di un nuovo smartphone né di un piano tariffario, ma di quei contenuti che ci portiamo sempre in tasca con il telefonino. Senza i quali sarebbe un guscio vuoto. E se i video da mobile sono ormai visti dal 57% della popolazione mondiale che possiede uno smartphone, il fenomeno emergente è la capacità di un documentario di portarci «fisicamente» dentro la realtà che racconta. «Se indossi un visore, l’immersione nei nostri lavori è totale». Niente astronavi o dinosauri, però: Ryot racconta di proteste in piazza e della vita dei detenuti nelle celle d’isolamento. «Questa secondo me è la vera realtà virtuale, quella che vale la pena vivere in prima persona». Esserci per capire. Swenson, 29 anni, ha un passato che va dall’apprendistato alla Casa Bianca alla partecipazione ad American Idol: nominata da Forbes come uno dei giovani più influenti nei nuovi media, ora si dedica a produrre video-notizie di «giustizia sociale». Con una tecnica, le riprese con telecamere a 360°, che può curare il male delle fake news. «Nei nostri servizi non scegliamo un punto di vista: raccontiamo quello che accade a tutto tondo, nel vero senso della parola». Mezzo e contenuto si mischiano: dai rifugiati in fuga dalla Siria («Watani» di Ryot è in nomination agli Oscar di quest’anno) al dramma della diffusione del virus Ebola in Africa («Body Team 12» è stato nella short-list nel 2016), l’effetto emotivo è sconvolgente. «Perché è realtà vera, raccontata senza i filtri». Se non quello dello schermo del telefono attraverso cui la vediamo. Per seguire i lavori di Molly e dei suoi colleghi: ryot.org.

google-twitterGoogle si avvicina ad un pezzo di Twitter. La compagnia di Mountain View ha acquistato un insieme
di prodotti di Twitter per gli sviluppatori. Si tratta di Fabric, una piattaforma creata per agevolare gli sviluppatori a realizzare app e servizi integrati con i cinguettii del microblog. L’acquisizione è ufficializzata da entrambe le compagnie, pur senza specificare i dettagli finanziari dell’operazione. Secondo alcune fonti citate dal sito Recode anche Microsoft era interessata a questo pezzo di società di
Twitter.
La compagnia guidata da Jack Dorsey, alle prese con trimestrali non brillanti e problemi finanziari, sta dismettendo alcuni dei suoi fiori all’occhiello. Prima di Fabric è toccato a Vine, la piattaforma per i video lampo di sei secondi `spenta´ proprio qualche giorno fa. Attiva nel 2014, Fabric fornisce agli sviluppatori gli strumenti per creare applicazioni e in appena due anni, si legge sul suo blog, ha raggiunto due miliardi e mezzo di dispositivi mobili. Tra i suoi strumenti, ora di Google, anche Crashlytics e Answers, per stabilità e analisi delle applicazioni. I dipendenti lavoreranno nel team di sviluppatori di Google, in particolare nella piattaforma Firebase, creata da Big G appunto per aiutare gli sviluppatori a creare app più performanti.

Sempre Google, altra notizia

Google punta a migliorare la ricerca in rete da dispositivi mobili e lo fa pensando ai momenti o alle
aree in cui la connessione a internet è intermittente o debole. La compagnia ha reso disponibile un sistema che fa effettuare ricerche sul motore di Big G anche «offline», per poi restituire i risultati non appena l’utente torna connesso. La novità è disponibile nell’ultima versione dell’app di Google per Android.

Il meccanismo appena implementato, spiega Google sul suo blog, non funziona in assenza totale di internet, ma permette di inoltrare richieste anche nei momenti «offline». Il motore le accoglie e poi processa e restituisce i risultati quando torna la connessione, avvisando l’utente. Un modo per evitare perdite di tempo quando si cerca qualcosa dal telefonino con la copertura di rete che va e viene. Ad esempio quando si è in viaggio, oppure in zone con connessione debole. Finora in casi come questi bisognava riavviare le ricerche una volta tornati online, ora Google le conserverà e avviserà quando ha i risultati disponibili. La compagnia rassicura anche chi teme per la quantità di dati scaricata e per la durata della batteria del dispositivo: il sistema è tale da non impegnare più risorse del dovuto, dice Big G. Insomma non prosciughera’ la batteria e l’autonomia dello smartphone. In qualsiasi momento
inoltre si potrà gestire la coda dei termini di ricerca digitati mentre ci si trova offline.

Ansa

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Sei un comandante pirata con un budget da 50 mila dollari investiti da leader tribali locali e altre realtà. Il tuo compito è di guidare l’equipaggio in incursioni dentro e intorno al Golfo di Aden, attaccare e catturare altre navi. E negoziare con successo un riscatto.ff_piratehelp_attack

Con questo rapido briefing iniziava il videogioco online “Cutthroat capitalism“, “Capitalismo assassino”. Era il 2009 e a produrlo era stato il sito di Wired. Dunque una realtà giornalistica. Tutto nasceva dall’idea che un reportage sui pirati somali, pubblicato in quelle settimane per esempio dal New York Times o dal Guardian, poteva essere più efficace se raccontato sotto forma di videogioco. Un cosiddetto gestionale, in cui nel ruolo di capo pirata dovevamo far girare l’economia della costa alle spese dell navi commerciali ff_piratehelp_negotiatebattenti bandiera straniera costrette a passare da quel lembo di mare.

Il progetto editoriale creato dal mensile americano è uno dei primi, e più riusciti, esempi di news gaming. Un taglio giornalistico interattivo che porta il lettore a giocare con la notizia, dunque a farla sua. A essere informato in modo non passivo e intrigante, certamente a patto che il gioco, i suoi contenuti e regole sia ben gestiti. Sia da un punto di vista giornalistico, sia da quello di game design.

E questo è un lavoro da professionisti di settore, dei due settori. Ecco perché è il Corriere della Sera a dare vita al primo hackathon italiano dedicato al news gaming, una maratona di 36 ore aperta a studenti, professionisti e startup che vogliono cimentarsi nel creare app e widget che rendono l’informazione (anche) un gioco. L’appuntamento è nel contesto di Italia Digitale, l’evento in cui racconteremo l’innovazione nel Paese partendo dall’alto ma anche dal basso. Alle ore 11 del 7 novembre sarà proprio l’hackathon a dare il via alla due giorni del Pavillion di piazza Gae Aulenti, uno dei luoghi di italia-digitaleMilano che già da solo parla di futuro.

Partner dell’iniziativa saranno Politecnico di Milano, Aesvi e Digital Bros Academy. Le iscrizioni si apriranno venerdì 14 ottobre in occasione della Games Week, la fiera italiana dei videogiochi. Per saperne di più, possiamo incontrarci il giorno prima, il 13 ottobre all’Igds, l’Italian Game Developer Summit.

I campionati Europei appena iniziati in Francia hanno il marchio dei più tecnologici di sempre. Niente di strano, perché ogni nuovo evento avrà una marcia più tech del precedente. Ma Francia 2016 sarà di fatto il primo evento calcistico a essere ufficialmente seguito su due schermi. Se è vero che in occasione dei grandi tornei di calcio, in Italia – e non solo ovviamente – si cambia il parco televisori perché la TV è e rimane il palcoscenico privilegiato per vedere le partite insieme agli amici, non è più possibile sottovalutare l’importanza del second screen, ossia di smartphone e tablet prima, dopo e soprattutto durante le partite.

Le risorse di “appoggio” al match sono innumerevoli, Facebook e gli altri social ovviamente, e poi il sito ufficiale UEFA.com che attende di ricevere durante il mese della manifestazione poco meno di 200 milioni di visitatori. Letteralmente da ogni parte del pianeta. A questo si aggiungono le app ufficiali e le tante affiliate, per esempio quelle dei servizi locali, sia all’interno degli stadi francesi, sia nelle città dove si giocano le partite. Al centro di tutto questo scorrere di big data e server c’è un uomo, Daniel Marion, cto di Uefa che qualche giorno fa – prima di essere sepolto dai dati – ci ha raccontato di questa enorme macchina organizzativa. “Il calcio è l’unico sport che riesce a muovere fan da tutto il pianeta, le richieste di accesso al nostro sito arrivano veramente da ogni angolo anche più remoto”, spiega Marion. “Ovviamente l’Europa è prima, ma il traffico dall’Asia è in costante crescita ed è impressionante”. Questo a fronte di uno sport che da sempre invece è allergico all’innovazione. “Perché la paura è di rovinarlo, che con l’innesto di tecnologie in campo si perda la magia unica”, continua il cto UEFA. “Così se il gioco rimane artigianale, allora lavoriamo su tutto quello che gli sta attorno. A cominciare dagli stadi – quelli francesi sono un esempio di strutture moderne, da voi in Italia c’è invece tanto lavoro da fare – per proseguire con la hospitality fino ad arrivare ai fan lontani. Quelli che seguono l’evento soprattuto via web e che è nostro compito non far sentire distanti dai campi di gioco”.

 

Tutti i terabyte di dati che vengono originati dagli Europei risiedono nella nuvola, nel cloud professionale fornito a UEFA da Interoute, un accordo nato con il più grande operatore europeo del settore ormai anni fa e che prosegue nella sfida forse più difficile. Quella con l’evento come dicevamo più maturo a livello digitale di sempre. I flussi di richieste ai server andranno a ondate, e così la necessità di servire i contenuti. Con i rischi conseguenti di attacchi da parte degli cyber-hooligans. Marion si dice tranquillo, con la sua struttura di ingegneri e uomini dal pronto intervento. “Durante Euro 2012 abbiamo avuto diversi attacchi, tutti respinti. Sono fiducioso che nel 2016 non saremo certo da meno”.

 

Intanto un po’ di tecnologia in campo sta arrivando, in realtà. Prima di tutto con Hawk-Eye, l’occhio sulla linea delle porte che fa il debutto in una manifestazione di questa portata. Poi parliamo invece di una possibile rivoluzione del futuro, la partita a 360 gradi: la sta filmando, così come era accaduto con la finale di Champions, Nokia con le sue videocamere Ozo. Al momento è un esperimento che nessun spettatore, se non quelli addetti ai lavori, potrà vedere. Ma si tratta di un esperimento interessante, a detta di molti, ma non di tutti. Marion non vede un futuro per il calcio nei visori: “Il nostro è un sport sociale, non è pensabile di goderlo davvero isolandosi dentro a sistemi di realtà virtuale”.

 

Parlando di virtuale, arriviamo a un ultimo capitolo sugli Europei tecnologici. Ed è quello legato alle anticipazioni date da Microsoft su come il torneo si svolgerà, dai risultati dei gironi fino ad arrivare al vincitore finale. Non ci voleva molta fantasia a indicare la Germania, ma da Redmond non si sono basati su facili statistiche ma sull’analisi anche qui dei big data del calcio europeo. Numeri, ranking, risultati precedenti, ogni tipo di variabile e buzz dai social hanno per esempio sancito la sconfitta dell’Italia lunedì contro il Belgio, il nostro passaggio come seconda del girone e la conseguente eliminazione agli ottavi con il Portogallo. Conte non ne sarà contento, specialmente se si considera con i Mondiali brasiliani i dati di Microsoft si sono dimostrati affidabili nel 94% dei casi. Abbiamo dunque il restante 6% da tifare.