Per un certo periodo tra la metà degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, Pamela Anderson è stata una delle donne più famose, celebrate e ahilei desiderate del pianeta. Le ci è voluto relativamente poco per guadagnarsi quella fama: le copertine di Playboy, le corse al rallentatore sulla spiaggia di Baywatch, il matrimonio con un rocker bello e maledetto. Le ci è voluto ancora meno per perdere tutto, a causa di una storia dalla quale sembra che tutto il mondo tranne lei abbia guadagnato qualcosa. Da allora Pamela Anderson è rimasta sostanzialmente intrappolata in un personaggio difettoso: la bambolona sexy, non particolarmente sveglia, che a causa della sua superficialità e leggerezza sa solo combinare casini, e che non ha davvero il talento per sopravvivere a Hollywood, solo un bel corpo.

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Pamela, a Love Story, documentario uscito da poco su Netflix, è un tentativo ben riuscito di ribaltare questa narrazione, diretto dal signor Ryan White ma guidato al 100% da Pamela Anderson stessa, protagonista assoluta, narratrice, unico punto di vista di questo documentario che assomiglia più che altro a una confessione, un’intervista-fiume nella quale, con l’assoluto candore che l’ha sempre contraddistinta e che per anni è stato scambiato per frivolezza quando non stupidità, l’ex modella, ex attrice, oggi cantante a Broadway, racconta la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, senza risparmiarsi e ammettendo senza battere ciglio che “non ho mai davvero amato nessuno nella mia vita a parte il padre dei miei figli”.

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Immagino che un’operazione del genere possa essere accusata di parzialità, di prendere inequivocabilmente le parti del suo soggetto senza mai neanche premurarsi di provare ad ascoltare l’altra campana. Credo siano accuse sceme, e credo soprattutto che Pamela Anderson si meriti per una volta di poter dire la sua senza essere messa in discussione o interrotta per una domanda sulle sue tette: con il senno dell’oggi, i numerosi inserti di talk show dell’epoca con i vari Jay Leno e David Letterman che non le danno neanche modo di rispondere a una domanda senza virare sul suo abbondante seno sono agghiaccianti.

È un po’ il tema di tutto il documentario, in realtà. Voglio dire che la cronaca la conosciamo, e anche tutto il contorno alla cronaca che ha colorato la storia di Pamela Anderson e in particolare quella del famoso sex tape. Magari non tutti sanno tutto: Anderson dedica parecchio tempo alla sua infanzia, racconta degli abusi perpetrati ai suoi danni dalla sua babysitter per quattro lunghi anni, di quella volta che, ancora dodicenne, venne stuprata da un venticinquenne, dell’alcolismo e della violenza del padre… non necessariamente chi è cresciuto con il mito di Pamelona conosce questi aspetti della sua vita, e in questo senso Pamela, a Love Story è sicuramente utile a dare un po’ di contesto a una delle persone più oggettificate e svuotate della loro stessa anima della storia dell’intrattenimento moderno.

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Quello che colpisce davvero, però, è il racconto di quello che è venuto dopo, di tutto quello che le è successo quando ha abbandonato l’intimità dell’isola canadese sulla quale è cresciuta per trasferirsi in America in cerca di fortuna. La parabola di Pamela Anderson comincia come una bella storia di empowering, la storia di un’adolescente timida e appena sbocciata che viene notata per la prima volta quando viene inquadrata sul jumbotron di uno stadio di football, che viene convinta a intraprendere la carriera da modella e che, la prima volta che sale sul set e deve spogliarsi, scopre di avere trovato un modo per sconfiggere quella timidezza ed esprimersi finalmente al massimo del suo potenziale.

“Non ho mai visto un soldo di diritti per le mie foto su Playboy”, dice Anderson nel documentario, sorridendo, e neanche sarcasticamente o cinicamente: il ritratto che viene fuori da A Love Story è quello di una persona genuinamente ottimista e felice di essere al mondo, piena di energia, capacissima di prendersi in giro, estremamente intelligente ma forse troppo affezionata al qui e ora e fisicamente respinta dalla progettualità a lungo termine. È incredibile come a 55 anni Pamela Anderson riesca, anche solo per la durata di un documentario, a mantenere lo stesso spirito e la stessa voglia di fare che aveva quando era giovane; incredibile perché quello che ha passato, e come lo ha passato, è roba medievale anche se risale solo a una trentina d’anni fa.

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Ovviamente la vera ferita aperta del documentario è l’episodio del sex tape rubato, dei cinque milioni di dollari offerti alla famiglia per la cessione dei diritti, del loro rifiuto e della pubblicazione e distribuzione del video, del suo arrivo su Internet e del processo che portò Anderson e Tommy Lee davanti a un giudice contro il fondatore della compagnia di distribuzione Seth Warshavsky. Del quale ci viene presentata una breve dichiarazione in cui afferma di non aver fatto nulla di male: è una delle tante opinioni simili che il documentario propone nel raccontare la storia, e fa il paio con altre chicche come “è abituata a stare nuda sulle copertine, che problema c’è?” e “è una celebrità, non ha diritto alla privacy”.

Ma è così eh, non sto esagerando per far ridere. Le robe che si dicevano al tempo sulla questione, delle quali il documentario propone una selezione tutto sommato limitata, oggi suonano allucinanti, e si possono sostanzialmente riassumere in “colpa sua, se l’è cercata”. Perché avete girato quel video? Non potevate scopare e basta? Che differenza c’è tra questo e le tue copertine? Davvero ti disturba questa roba quando sei diventata famosa correndo sulla spiaggia al rallentatore? Come fai a pensare che questo materiale ti appartenga, visto che sei famosa?

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E voglio dire: alla fine mica ha avuto ragione lei. La coppia non riuscì neanche a vincere la causa contro IEG e Seth Warshavsky. “In quel momento ho capito che la mia carriera era finita”, dice Pamela Anderson nel documentario, ed è difficile darle torto. Quanti anni (e quanti leak simili, pensate a Paris Hilton prima e a Jennifer Lawrence tra le altre più di recente) ci sono voluti prima che la narrazione intorno alla “storia del sex tape di Pamela Anderson e Tommy Lee” cominciasse a cambiare e a prendere in considerazione che forse non stiamo parlando di una cosa divertente - eh eh tette - ma di un’intollerabile violenza?

A giudicare sempre dal documentario, la risposta è “parecchi anni”. C’è un altro passaggio che mi ha colpito profondamente, forse anche più della clamorosa violenza subita da Anderson a causa del famigerato sex tape. Si parla di quando Tommy Lee venne arrestato per violenza domestica (aveva dato un calcio alla moglie, che aveva peraltro in braccio il figlio neonato), un episodio sul quale l’attrice non ha chiaramente voglia di soffermarsi. Per riempire il minutaggio Ryan White ci propone quindi un pezzo di archeologia dell’orrore televisivo: un’intervista a un ripulitissimo Tommy Lee che si pente, prova a giustificarsi, spiega di non aver mai davvero picchiato sua moglie (“L’ho solo afferrata, scossa e spinta via, è una cosa che succede tra marito e moglie”, giuro) e in generale fa gli occhi da cucciolo per chiedere scusa alla moglie e all’America. Al suo fianco, una presentatrice a un passo dalle lacrime, chiaramente commossa dal buon cuore di quest’uomo che è stato solo frainteso e che ha per la moglie e i figli un amore viscerale e sincero.

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C’è di peggio: diverse dichiarazioni di gente che all’epoca lavorava a Baywatch e che racconta di come Tommy Lee fosse onnipresente sul set per controllare che Pamela Anderson non girasse scene che lo potessero poi fare ingelosire, e di come una volta, a causa di un bacio a suo dire troppo appassionato, abbia sfasciato il camerino della moglie. Non arrivo a dire che oggi questa cosa non succederebbe, che oggi non ignoreremmo questi evidenti segnali di pericolo lasciando degenerare la situazione. Non è vero, succederebbe lo stesso, ma almeno il giorno dopo i quotidiani sarebbero pieni di articoli che ci spiegano come non avremmo dovuto ignorare questi evidenti segnali; negli anni Novanta mancava anche il senno di poi.

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Tutto questo per dire che, per come è stata trattata e maltrattata, usata e abbandonata, dalla gente e dallo showbiz, Pamela Anderson si merita un’operazione come Pamela, a Love Story, nella quale può raccontarsi senza paura di interruzioni o distrazioni, e nella quale, forse per la prima volta nella sua carriera (beneficenza inclusa), ci si siede ad ascoltarla invece di giudicarla per il suo aspetto, per le sue scelte, per la sua fama di divorziatrice seriale. E anche per dire che probabilmente la sua più grande sfiga è stata quella di nascere un po’ troppo presto: per quanto pessima sia la situazione di *gesticola indicando un po’ tutto quanto*, mi piace pensare che per esempio la vicenda del sex tape oggi andrebbe in maniera molto diversa. Per una generazione o due Pamela Anderson è stata un mito nell’accezione più deleteria e spersonalizzante del mondo, un corpo senza anima. Qui finalmente la ascoltiamo, e il fatto che scopriamo una persona magnifica è solo un bonus.

Headshot of Stanlio Kubrick

Scrivo di cinema, in particolare quello con i mostri, le esplosioni e i calci volanti, da prima della crisi dei mutui subprime del 2008. Ho scritto anche dei libri sull'argomento insieme al resto della redazione dei 400calci. Traduco libri, organizzo eventi e parlo anche, quando me lo chiedono. Ho persino lavorato alla scrittura di un gioco di ruolo fantasy-satirico, giusto per non farmi mancare nulla.