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Essential Questions Answers Concerning the


Foundations of Eemaan 2nd Edition Abdur Rahmaan
Ibn Naasir As Sa Dee

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Andò una sera a teatro sperando vagamente ch’ella vi andasse, ed
ecco, dalla seconda fila dov’era seduto, la vide a un tratto! La vide
arrivare per uno dei corridoi laterali, con Arturo e un giovanotto
interamente calvo e munito d’un paio d’occhiali, la cui vista lo fece
sprofondare in angosce di diffidenza e di gelosia. La vide sedere
nelle poltrone di prima fila, e in tutta la serata non distinse altro che
questo: delle delicate spalle bianche e una massa di capelli d’oro
pallido, fatti più pallidi dalla lontananza. Ma anche altra gente era
distratta, ed egli osservò, guardandosi intorno, due ragazze sedute
non lontano da lui, che gli sorridevano con aria sfrontata. Egli era
stato sempre uomo di facili avventure, per natura, giacchè non era
solito mandar via la gente. Un tempo avrebbe ricambiato il
sorrisetto, e, con l’atteggiamento, incoraggiato il loro sorriso; ma ora
le condizioni erano diverse. Egli rispose al sorriso; poi si volse e non
guardò più da quella parte. Pure, parecchie volte, senza farlo di
proposito, il suo sguardo incontrò il loro sorriso. Non ci si trasforma
in un giorno, ed egli non poteva modificare la gentilezza naturale del
suo carattere. Così che finì col sorridere alle ragazze, per puro
bisogno di cordialità espansiva. Che gli portavano infatti di nuovo?
Egli sapeva bene ch’esse tendevano verso di lui le loro mani
carezzevoli, ma... ma ora, laggiù, presso l’orchestra, era la donna
unica, così incredibilmente diversa da quelle due ragazze della sua
classe, ch’egli non poteva fare a meno di considerarle con senso di
pena e di pietà. Egli desiderava con tutto il cuore che gli fosse
concesso di possedere, fosse pure per un attimo, un po’ della bontà
di Ruth e del suo splendore morale. Ma per nulla al mondo avrebbe
voluto ferirle per i loro maneggi, che, d’altra parte, non lo
lusingavano; egli risentiva perfino una vaga vergogna della propria
inferiorità, che giustificava il loro contegno. Se egli fosse stato uno
della classe di Ruth, quelle ragazze non si sarebbero permesse
alcuna familiarità; i loro sguardi gli sembravano muniti di artigli
minacciosi che s’aggrappavano a lui per mantenerlo al loro livello.
S’alzò prima che calasse il sipario, per tentare di vedere Ruth. C’era
sempre della gente sotto il peristilio del teatro, così che, calcandosi il
cappello sugli occhi, lei non lo avrebbe riconosciuto. Egli uscì per
primo tra la folla; ma s’era appena avviato all’uscita, quand’ecco
apparire le due ragazze. Esse lo avevano seguito, era evidente; e là
per là egli maledisse il fascino che esercitava sulle donne. Esse
avanzavano lentamente, nel più folto della folla, così che,
sfiorandole, una d’esse s’accorse di lui. Era una flessuosa ragazza
bruna, dagli occhi cupi, pieni di sfida. Tutt’e due gli sorrisero, ed egli
rispose loro.
— Oh! chi si vede! — diss’egli automaticamente, come aveva fatto in
tanti casi simili! D’altra parte, non gli era possibile agire altrimenti,
data la sua grande indulgenza e il bisogno di cordialità inerenti alla
sua natura. La ragazza dagli occhi neri rinforzò il suo sorriso e fece
l’atto di fermarsi, come anche l’amica che l’accompagnava e che
rideva, torcendosi. Egli riflettè rapidamente. Bisognava evitare che
«Lei», uscendo, lo vedesse in compagnia di quelle ragazze. Con
molta disinvoltura, egli manovrò in modo da spingere la bruna verso
l’uscita. Là, era libero di sè, e a suo agio; anzichè manifestare
impaccio o timidezza, egli scherzò allegramente, usando con un
certo brio il gergo e il complimento gentile, preliminari obbligatori in
quel genere di avventure rapide. Al cantone, egli volle lasciar la folla
che seguiva la strada, per prendere una via trasversale, ma la
ragazza dagli occhi neri lo prese pel braccio, ed esclamò trascinando
la compagna:
— Fermatevi! Bill! dove correte con tanta fretta?... Non ci vorrete
piantare così?...
Egli si fermò, rise, fece un voltafaccia. Al disopra delle loro spalle
vedeva la folla che si moveva, passare sotto i riverberi di luce. Il
punto in cui si trovava non era illuminato, così che poteva vederla
passare senz’essere visto. Lei doveva passare di là, giacchè quella
era la via di casa sua.
— Come si chiama? — domandò alla compagna indicando la ragazza
bruna...
— Domandaglielo! — rispose lei.
— Dunque, come vi chiamate? — domandò egli, voltandosi alla
ragazza.
— Voi non mi avete ancora detto il vostro nome, — ribattè quella.
— Non me l’avete chiesto, — fece lui sorridendo. — D’altra parte
l’avete indovinato: mi chiamo proprio Bill.
— Là! Là! — E lei lo guardò negli occhi, mentre i suoi s’intenerivano.
— È proprio vero?...
Lei seguitava a fissarlo; l’eterna femminilità luceva negli occhi
eloquenti. Ed egli la scrutava, negligentemente, sapendo già che se
egli si fosse mostrato aggressivo, lei si sarebbe messa in guardia,
con riserbo e pudore a un tratto, ma pronta a invertire le parti s’egli
avesse indietreggiato. Da uomo qual era, egli però ne sentiva
l’attrattiva e nell’intimo apprezzava quella lusinghiera insistenza. Ah!
come conosceva tutto ciò! sin troppo bene, dall’A alla Z... Lei era
bella come una dea; sì, come una dea può essere in quell’ambiente,
quando si lavora faticosamente, si è mal pagati e si disdegna di
vendersi per vivere meglio, e si è ardentemente assetati d’un sorso
di felicità per allietare la propria triste vita, e non si ha davanti a sè
altra alternativa che una penosa eternità di lavoro o il cupo gorgo
d’una miseria anche più terribile, ma che uccide presto ed è meglio
pagata.
— Bill, — rispose egli scotendo il capo. — Ve l’assicuro: Bill o Pietro.
— Seriamente?
— Non si chiama affatto Bill, — interruppe l’altra.
— Che ne sapete voi? — disse lui. — Voi non mi conoscete.
— Non c’è bisogno di conoscervi per sapere che dite una bugia.
— Seriamente, Bill, qual è il vostro nome? — disse la bruna.
— Bill mi sta benissimo, — rispose Martin.
Essa gli prese il braccio ridendo.
— Io so che voi mentite, ma, pure, siete gentile lo stesso.
Egli prese la mano che s’offriva, ne sentì subito i segni e le
deformazioni famigliari.
— Da quanto tempo avete abbandonato la fabbrica di conserve? —
domandò.
— Come lo sapete?... Be’, è uno stregone! — esclamarono le
ragazze, a coro.
Mentr’egli scambiava con loro tutte le stupidaggini solite, sentiva
passare e ripassare nella mente gl’innumerevoli scaffali della
biblioteca dove si accumulavano le meraviglie dei secoli passati. E
l’incoerenza dei suoi pensieri lo fece sorridere.
Intanto i segni intimi e la celia ch’egli simulava non gl’impedivano di
tener d’occhio l’uscita del teatro. E ad un tratto scorse Ruth, nella
luce, tra il fratello e il giovanotto dagli occhiali; e il cuore parve che
gli si fermasse. Come aveva sperato quel momento! Ebbe appena il
tempo di scorgere il velo leggero che velava la persona di lei
nell’abbigliamento, quando lei rialzò la gonna: poi essa sparve ed
egli si ritrovò di faccia alle due operaie con i loro vani tentativi di
eleganza e di nettezza, accanto ai loro vestiti a buon mercato e ai
loro gioielli da bazar. Sentì che gli tiravano il braccio, sentì
vagamente che gli parlavano:
— Svegliatevi, Bill, che vi succede?
— Che?... dicevate?...
— Oh! niente! — rispose la bruna, con un cenno vivace del capo. —
Dicevo soltanto fra me...
— Che cosa?...
— Be’, dicevo fra me e me che sarebbe una buona idea se
conduceste con noi un amico... per lei, (e indicò la compagna) e
allora andremmo in qualche luogo a prendere un «ice-cream soda» o
qualche altra cosa.
Una nausea morale lo scosse. Accanto agli occhi arditi di quella
ragazza, egli vedeva i chiari occhi luminosi di Ruth, il suo sguardo
angelico che veniva a lui dalla più profonda purezza. Egli si sentì a
un tratto superiore a quell’avventura. La vita aveva per lui un altro
significato: non si limitava a degli «ice-cream sodas» in quattro. Egli
ricordò che aveva sempre coltivato, come in un giardino segreto,
pensieri rari e preziosi. Quando aveva tentato di farne partecipe
qualcuno, non aveva trovato nè donna nè uomo capaci di
comprenderlo. E poichè quei pensieri superavano la comprensione di
quella gente, egli ne concludeva, ora, che doveva essere superiore
ad essa. Egli strinse i pugni. Giacchè la vita significava per lui molto
di più, toccava a lui domandare molto di più alla vita; ma non ci
voleva quella compagnia; gli arditi occhi neri non gli potevamo offrire
nulla di nuovo. Egli sapeva ciò che riserbavano: ice-cream o altro del
genere. Ma gli occhi angelici, laggiù, gli offrivano molto di meglio e
più che non potesse immaginare; libri e pittura, riposo e bellezza,
tutte le eleganze fisiche e morali d’una vita raffinata. Egli conosceva
a mente ciò che dissimulavano così malamente quegli occhi neri;
vedeva, come in un interno d’orologio, tutte le rotelle della povera
meccanica cerebrale; il basso piacere n’era lo scopo, il cupo piacere
che portava alla morte definitiva d’ogni speranza. Ma negli occhi
angelici, si offrivano il mistero, l’incanto, l’al di là; in essi era il
riflesso d’un’anima e anche un po’ dell’anima sua.
— Il programma va bene, ma c’è un ma: sono impegnato.
Gli occhi neri della bruna lo fulminarono.
— Dovete assistere un amico malato, certamente? — fece lei
beffardamente.
— No, ho un «appuntamento» con — ed egli esitò — con una
ragazza.
— Mi prendete in giro? — disse lei con gravità.
Egli la guardò negli occhi e rispose:
— Niente affatto, ve lo assicuro. Ma non potremmo vederci un altro
giorno? Non m’avete detto ancora il nome vostro nè dove abitate.
— Lizzie, — rispose lei, raddolcita, e appoggiandosi a lui gli premeva
il braccio. — Lizzie Connolly. E abito a Fifth and Market.
Egli chiacchierò qualche altro minuto e augurò loro la buona notte.
Ma anzichè tornare direttamente a casa, andò sino all’albero,
all’ombra del quale aveva sognato tante volte, alzò la testa verso la
finestra e mormorò:
— L’appuntamento era con voi, Ruth. Son venuto.
CAPITOLO VII.

Dalla serata in casa di Ruth Morse, era trascorsa una settimana


impiegata soltanto nella lettura; ed egli non aveva ancora osato
ritornare da lei. Di tanto in tanto si faceva coraggio, ma davanti ai
dubbi che l’assalivano finiva coll’indietreggiare. A quale ora
bisognava andare? Nessuno poteva dirglielo, ed egli temeva di
compiere un’irreparabile sciocchezza. Liberatosi dall’ambiente e dalle
abitudini passate, e non avendo stretto nuove relazioni, non aveva
altra occupazione che quella di leggere, e ne abusava in modo che
un altro, dagli occhi meno resistenti, si sarebbe guastato la vista.
Inoltre il suo cervello, vergine in tutto ciò che si riferisse al pensiero
astratto, era maturo per una semina benefica, giacchè non era
affaticato da studi, e s’accaniva nel lavoro intellettuale, con
sorprendente tenacia.
Alla fine della settimana, gli parve, — tanto lontani egli vedeva la sua
vita passata e l’antico modo di vivere, — d’aver vissuto cent’anni. Ma
la mancanza di studi preparatorî lo impacciava molto. Egli tentava di
leggere cose che richiedevano anni di applicazione, e poichè
s’immergeva un giorno nella lettura d’un libro di filosofia antica, il
giorno dopo in un altro di filosofia ultra moderna, nella testa gli
turbinavano le idee più contradditorie. Con gli economisti, era lo
stesso. Nella stessa fila, nella biblioteca, trovò Carlo Marx, Riccardo,
Adamo Smith e Mill, e le idee astratte dell’uno non portavano punto
alla conclusione che le idee dell’altro fossero superate. Egli era
disorientato, ma assetato dal desiderio di istruirsi. In un giorno solo,
l’economia sociale, l’industria, la politica, lo appassionarono. Nel
Parco di City-Hall, aveva osservato un gruppo d’uomini in mezzo ai
quali declamavano una mezza dozzina di persone, col volto
infiammato, la voce eccitata, discutendo con calore. Egli si unì al
pubblico ed ascoltò il linguaggio, per lui nuovo, dei filosofi popolari.
Il primo era un vagabondo, il secondo un operaio, il terzo uno
studente di legge e gli altri operai ciarloni. Per la prima volta egli udì
parlare di socialismo, di anarchia, di tassa ridotta, e seppe che
esistevano filosofi sociali contraddittorî. Udì centinaia di parole
tecniche ignote, giacchè facevano parte di materie di studio ch’egli
non aveva ancora iniziate. Gli fu impossibile perciò seguire bene i
loro argomenti, e potè soltanto indovinare le idee espresse da frasi
così nuove. C’era anche un garzone di caffè, teosofo, un fornaio
agnostico, un vecchio che li confuse tutti con una teoria strana,
affermando che «ciò che è, ha ragione d’essere», e un altro vecchio
che perorò interminabilmente sul cosmo, sull’atomo-maschio, e
sull’atomo-femmina.
Dopo parecchie ore, Martin Eden se ne andò completamente
abbrutito, e corse alla biblioteca per studiare la definizione di una
dozzina di parole inusitate. E ne uscì portando sotto braccio quattro
volumi della signora Blavatsky: La dottrina occulta, Povertà e
Progresso, La Quintessenza del Socialismo. Disgraziatamente egli
incominciò con La Dottrina Occulta, ogni rigo della quale era irto di
parole polisillabe ch’egli non comprendeva. Seduto sul letto, con un
dizionario aperto accanto al libro, egli cercava tante parole di cui
aveva già dimenticato il significato, quando gli si ripresentavano, così
che doveva cercarle nuovamente. Finalmente stanco, egli si decise a
scrivere quelle parole su un taccuino, e in breve ne riempì pagine
intere. Ma non capiva più di prima. Lesse sino alle tre del mattino; il
cervello pareva che gli dovesse scoppiare, senza essere riuscito ad
afferrare una sola idea essenziale del testo. E allora si fermò: la
camera parve beccheggiare, rullare, immergersi come nave in mare;
così che, furibondo, egli lanciò la Dottrina Occulta per la camera,
bestemmiando sino a vuotare il sacco, spense il gas... e
s’addormentò.
Con gli altri tre volumi non ebbe maggior fortuna. Eppure non aveva
un cervello debole o pigro; avrebbe potuto comprendere quelle idee,
senza quella mancanza di abitudine alla riflessione, e senza
l’ignoranza dei mezzi tecnici per riuscirvi. Egli intuì questo, e si fermò
un po’ nel proposito di non leggere altro che il dizionario, sino al
giorno in cui avesse potuto capire tutte le parole. La poesia, pure,
era una grande consolatrice per lui; egli ne leggeva molta,
preferendo i poeti semplici, che capiva meglio. Come la musica, la
poesia lo commuoveva profondamente; cosicchè, sebbene
inconsciamente, egli preparava la mente alla fatica più ardua che
avrebbe dovuto affrontare. Le pagine bianche della sua mente si
riempivano di cose ch’egli amava, dimodochè egli potè in breve, con
sua grande gioia, recitare poemi interi che gli piacevano. Poi scoprì i
Miti Classici di Gayely, e l’Epoca Mitologica di Bullfinch, che empirono
di una grande luce la sua totale ignoranza dell’argomento; e, più che
mai, egli si mise a divorar poesia.
In biblioteca, l’uomo dal pulpito aveva visto così spesso Martin,
ch’era diventato molto cortese, accogliendolo ogni giorno,
all’ingresso, con un sorriso e un cenno del capo. Incoraggiato da
questo atteggiamento, Martin, un bel giorno, s’arrischiò, e mentre
l’uomo appuntava le sue carte, egli lanciò con un certo sforzo:
— Dica un po’, io vorrei domandarle una cosa...
L’uomo sorrise e attese.
— Quando lei incontra una signora che la prega di andarle a far
visita, quando può andarci?
Martin sentiva che la camicia madida di sudore gli s’attaccava alle
costole, tanto era imbarazzato.
— Be’, quando vuole! — rispose l’uomo.
— Sì, ma il caso è diverso, — spiegò Martin — Lei... io... Senta, la
cosa è così. Può darsi che lei non sia in casa, giacchè frequenta
l’università.
— Ritorni, allora!
— Senta, non è proprio così, — confessò Martin, balbettando, deciso
a confidarsi interamente. — Ecco, io non sono altro che un povero
diavolo e non conosco gli usi della buona società. La signorina è
tutto quanto non sono io, e io non sono niente di tutto quanto è lei...
Spero che non creda che io voglia prenderla in giro, no? — interrogò
egli bruscamente.
— No, no, nient’affatto, gliel’assicuro. — protestò l’altro. — La sua
richiesta non è compresa precisamente tra i miei compiti, ma io sarò
molto lieto se potrò giovarle.
Martin lo guardò con ammirazione.
— Se io potessi essere così, la cosa andrebbe da sè! — fece.
— Come ha detto, scusi?
— Dico: se sapessi parlare come lei, facilmente, cortesemente, e via
dicendo.
— Ah! sì, — fece l’altro, con simpatia.
— A quale ora bisogna andarci? Il pomeriggio, non tanto presto,
dopo colazione?... O la sera? o una domenica?...
— Senta! — fece il bibliotecario. — Perchè non la chiama per
telefono?
— È una buona idea! — disse Martin, prendendo i libri. E, fatti due
passi, si voltò:
— Quando lei rivolge la parola a una signorina, supponiamo, alla
signorina Lizzie Smith, deve dire: signorina Lizzie, o signorina Smith?
— Dica signorina Smith! — dichiarò il bibliotecario, con autorità. —
Dica sempre signorina Smith, sinchè non la conosce meglio.
E così Martin risolse la quistione.
— Venga quando vuole, ci sarò tutto il pomeriggio, — fu la risposta
di Ruth al telefono, quand’egli ebbe domandato, balbettando, il
giorno in cui poteva riportarle i libri prestatigli.
Lo ricevette lei in persona sulla soglia del salotto, osservando con
occhi femminili, immediatamente, la piega dei calzoni e un
mutamento indefinibile ma certo, in tutta la persona di lui. La colpì
anche il viso; una forza violenta, sana, emanava da lui e sembrava
scorrere verso di lei con onde possenti. Nuovamente, ella sentì il
desiderio di chinarsi verso quella forza, per riscaldarvisi, e si stupì
ancora dell’effetto che produceva su di lei la sua presenza. Ed egli, a
sua volta, risentì la divina sensazione di beatitudine infinita solo al
contatto della mano di lei. C’era però diversità fra loro due: lei era
fredda e calma, e lui rosso sino alla radice dei capelli. Egli la seguì
vacillando, impacciato come la prima volta, ondeggiando e oscillando
con le spalle in modo inquietante. Ma quando fu seduto nel salotto,
si sentì più libero, più che non s’aspettasse. Lei lo aiutò come meglio
potè, con una buona volontà graziosa che gliela rese più follemente
cara che mai. Parlarono dapprima dei libri prestati, di Swinburne,
ch’egli adorava, e di Browning che non aveva capito, e lei condusse
la conversazione da un argomento all’altro, domandando come
potesse essergli utile. Spesso, dopo il loro primo colloquio, ella aveva
pensato a lui. Egli aveva destato in lei una pietà, una tenerezza che
nessuno le aveva mai fatto provare prima, più che per la
compassione ch’egli poteva ispirare, per un incosciente sentimento
materno. La sua pietà non poteva essere banale, giacchè l’uomo che
gliela ispirava era troppo virile, per non turbare il suo pudore e
l’animo, stranamente. Come la prima volta, la nuca di lui
l’affascinava, e lei frenava il desiderio di posarvi le mani su. Era un
istinto impudico, sia pure; ma ormai lei si era assuefatta a quell’idea.
Non immaginava neppure un momento che un sentimento simile
potesse essere il principio dell’amore, e neppure che potesse trattarsi
d’amore. Credeva d’interessarsi a lui come a un raro campione che
possedeva certi poteri occulti, e si compiaceva persino nel credere
che si trattasse di filantropia. Ignorava il desiderio. Egli, invece,
sapeva di amarla, e la desiderava come mai aveva desiderato
nessuna al mondo. Amava la poesia perchè gli piaceva la bellezza;
ma dacchè l’aveva incontrata, le porte d’oro che davano accesso ai
campi divini dell’amore, s’erano aperte. Più che Bullfinch e Gayley, lei
sapeva fargli capire le cose dell’amore. Una settimana prima, egli
non avrebbe neppure rilevato questa frase: «L’amante folle d’amore,
che muore d’un bacio». Ora, ne era assillato; si meravigliava di
trovarla così vera, e contemplando Ruth, sentiva che sarebbe morto
volentieri d’un bacio di lei. Il fatto solo di sapersi un amante folle
d’amore lo inorgogliva come il possesso d’un titolo nobiliare.
Finalmente conosceva il senso della vita e perchè era sulla terra! A
mano a mano che la guardava e l’ascoltava, i suoi pensieri
diventavano più audaci. Egli ricordò la gioia viva che gli aveva dato la
stretta di mano di lei, quand’era entrato, e la desiderò ancora
appassionatamente. Ma non c’era nulla di materiale e di grossolano
in quel desiderio: egli risentiva un piacere squisito nello studiare ogni
movimento, la minima piega delle sue labbra, che gli parevano
diverse da tutte le altre, fatte d’altra sostanza. Erano le labbra d’un
puro spirito; e il desiderio ch’egli ne risentiva, non rassomigliava al
desiderio che aveva potuto avere per altre labbra di donna... Se egli
avesse dovuto mai baciare quella bocca, l’avrebbe fatto col fervore e
colla pietà con cui si bacia la veste di Dio. Egli non si rendeva conto
di quella trasposizione di valori in lui e non immaginava che la
lucentezza del suo sguardo era simile a quella che avviva lo sguardo
del maschio preso da desiderio d’amore. Non conosceva l’ardore del
suo sguardo la cui fiamma ardente dissolveva a poco a poco l’ordine
sapiente e ben composto di quel cervello di vergine savia. Il profumo
di castità ch’essa spandeva, esaltava i suoi sentimenti, ne camuffava
l’essenza materiale, così che egli fu molto sorpreso nell’accorgersi
che la lucentezza del suo sguardo avviluppava come in onde calde la
giovane, comunicandole una fiamma sottile che la conturbava...
Parecchie volte, senza saper perchè, quelle ondate di delizia ruppero
il filo delle sue idee, la costrinsero a parlare a casaccio, come veniva!
Essa parlava di solito con grande facilità: e quel turbamento
anormale l’avrebbe impacciata molto, se, di proposito, non ne avesse
attribuito la causa all’individualità notevole di Martin. Essendo
sensibilissima, non doveva parere strano il fatto che l’irradiamento
psichico di quel pellegrino d’un altro ambiente l’aveva impressionata.
Però risorgeva sempre il problema di sapere come potergli essere
utile; così che lei avviò la conversazione in tal senso. Martin stesso,
del resto, le porse l’occasione.
— Io mi domando se lei potrebbe darmi un consiglio, — diss’egli, e il
segno di assenso ricevuto gli fece balzare il cuore dalla gioia. —
Ricorda che l’altra sera le ho detto che non potevo parlare di libri e
d’altre cose del genere, perchè non so come regolarmi? Ebbene, da
allora ho riflettuto molto. Ho passato il tempo in biblioteca; ma la
maggior parte dei libri che ho letto, sono troppo difficili.
Bisognerebbe forse cominciare dal principio. Me n’è mancata sempre
l’occasione. Da bambino ho incominciato a lavorar duramente, e
dacchè vado in quella biblioteca e leggo con nuovi occhi, nuovi libri,
ho capito che non ho mai letto ciò che bisognava leggere. Così i libri
che si trovano nei quadrati e nella dispensa di bordo, non
rassomigliano ai vostri, capite? Ebbene, io ero avvezzo a questo
genere di letture. Eppure, non per vantarmi, sono stato sempre
diverso dai miei compagni. Non già perchè io sia migliore dei marinai
o dei bovari con i quali lavoravo... Sì, per un po’ di tempo sono stato
bovaro, ma perchè m’è piaciuto sempre leggere, leggere tutto ciò
che mi capitava sottomano, e... Dio mio! credo di pensare
diversamente dalla maggior parte di quella gente! Ora, ecco la
conclusione alla quale volevo giungere: non ero mai entrato in una
casa come questa. Quando sono venuto la settimana scorsa e ho
visto tutto questo, vostra madre, voi, i vostri fratelli e tutto il resto,
tutto ciò mi è piaciuto! Mi avevano detto che questo esisteva e
c’erano libri che lo raccontavano; vedendo la vostra casa, ho capito
che i libri dicevano la verità. Ma, veramente volevo dire questo: tutto
ciò m’è piaciuto. E me n’è venuto subito un gran desiderio. Io voglio
respirare un’atmosfera simile, un’atmosfera di lettura, di quadri e di
belle cose, dove la gente ha la voce dolce, vestiti puliti e pensieri
decenti. L’atmosfera che ho sempre respirato puzzava di bettola, di
alloggio d’infimo ordine, di rifiuti, d’alcool, e là non ho mai sentito
parlare d’altro che di questo. Dio! quando lei ha attraversato la
camera per baciare la mamma, è stata la cosa più bella che abbia
mai visto. E ne ho viste di cose in vita mia! molte di più di quante ne
avessero viste i miei compagni. Mi piace vedere, e voglio vedere di
più e voglio imparare a vedere in modo diverso. Ma questa non è
ancora la questione! Ecco! io voglio percorrere la mia strada verso
una direzione come la sua. Nella vita non c’è altro che sbornie, un
lavoro che rompe le reni, e vagabondaggio. Solo, qual è il modo di
arrivarvi? Come cominciare? Io non domando di meglio che di
pagare di persona, sa! e quando si tratta di lavorare faticosamente,
io vinco gli altri. Una volta amato, lavorerò giorno e notte... Forse
deve sembrarle un po’ buffo che le domandi tutto ciò? Lei è l’ultima
persona alla quale dovrei rivolgermi, ma non conosco altri... tranne
Arturo; forse avrei dovuto domandarlo a lui. Se fossi... — La voce gli
si spense; i suoi propositi venivano meno davanti all’orribile
impressione d’aver forse commesso una goffaggine non rivolgendosi
ad Arturo, e d’essersi reso ridicolo. Assorta, Ruth non rispose
immediatamente; essa si sforzava d’armonizzare quel discorso
maldestro, incerto, barocco ed ingenuo, con ciò che gli vedeva sul
viso. Non aveva mai visto degli occhi esprimere tanta energia: con la
potenza espressa da quel viso, quell’uomo poteva riuscire in tutto.
Ma come stonava col modo com’egli esprimeva il suo pensiero!
Pareva un gigante legato che si dibattesse per rompere i suoi vincoli.
Quando lei parlò lo fece con gran simpatia.
— Di ciò che le occorre, lei stesso si rende conto. Lei dovrebbe
ritornare a scuola, studiar la grammatica, poi seguire i corsi superiori
e quelli dell’università.
— Ma occorre del danaro per questo! — interruppe lui.
— Ah! non avevo pensato a questo! — esclamò lei. — Ma lei avrà i
genitori, qualcuno che possa aiutarla.
Egli scosse la testa.
— Mio padre e mia madre sono morti. Ho due sorelle, l’una maritata,
e l’altra che lo sarà in breve, credo. E poi ho una sequela di fratelli —
io sono il minore, — che però non hanno aiutato mai nessuno.
Vanno in giro pel mondo, in cerca di buoni affari. Il maggiore è
morto in India; due sono nell’Africa del Sud, un altro pesca le balene,
un altro lavora in un circo, fa gli esercizi al trapezio. Quando è morta
mia madre avevo undici anni, e sono rimasto abbandonato a me
stesso. Bisogna dunque che mi metta a lavorar da solo, e bisogna
che sappia di dove incominciare.
— Mi sembra che lei debba, per prima cosa, procurarsi una
grammatica. Il suo modo di parlare è... — lei aveva intenzione di dire
«orribile», ma attenuò dicendo: — molto scorretto.
Egli arrossì, e la fronte gli s’imperlò di sudore.
— Lo so, io parlo in gergo, dico un cumulo di parole che lei non
comprende. Ma ecco... Sono le sole parole che sappia pronunziare,
in realtà. Nel mio cervello ho altre parole diverse, parole spigolate
nei libri, ma siccome non le so pronunziare, non me ne servo.
— Non è tanto ciò che lei dice, ma il modo di dirlo. Non le dispiace la
mia franchezza? Non vorrei ferirla.
— No, no, — esclamò lui, benedicendola nel suo animo. — Diamine!
bisogna che io sappia, e preferisco mille volte saperlo da lei!
— Ebbene! lei dice «un atmosfero» invece di «un’atmosfera» che è
femminile, e «che io so» per «ch’io sappia». Lei fa delle «doppie
negazioni»...
— Che significa una doppia negazione? — domandò egli,
aggiungendo umilmente: — Vede, non capisco neppure le sue
spiegazioni.
— La verità è che non gliel’ho spiegato, — fece lei sorridendo. — Si
avrebbe una doppia negazione quando, per esempio, ecco, lei
dicesse: «Non saprei non spiegartelo». La prima parte della frase è
negativa, la seconda parte è anch’essa negativa; secondo la regola
che due negazioni formano un’affermazione, il significato della sua
frase sarebbe questo: che lei saprebbe spiegarlo.
— È chiarissimo! non ci avevo mai pensato, — fece lui dopo aver
ascoltato attentamente, — e certo non commetterò mai più un
errore come questo.
La rapidità con la quale egli comprendeva sorprese lei e le fece
piacere.
— Lei troverà tutto ciò nella grammatica, — continuò lei. — E poi,
un’altra cosa, ho osservato nel suo modo di parlare. Lei dice: «Che i
ho detto», invece di «che gli ho detto». Non le urta l’orecchio: che i
ho detto?
Egli riflettè un momento, poi confessò con semplicità: — N’ posso
dire che mi urta.
— Perchè, a proposito, non dice: non posso dire? — aggiunse lei. E il
modo col quale lei si mangia metà delle parole è terribile!
Egli si piegò davanti, tentato dal desiderio d’inginocchiarsi davanti a
una creatura così meravigliosamente istruita.
— Senta, mi è impossibile correggerla in tutto. Le occorre una
grammatica. Gliene cercherò una e le mostrerò come deve
cominciare.
E lei si alzò e lui fece altrettanto, esitando tra il vago ricordo d’una
norma di buon contegno letto in un libro di buone maniere e il
timore che lei credesse che andasse via.
— A proposito, signor Eden, — fece lei nell’uscire dalla camera, —
che cos’è una «cotta»? Lei l’ha ripetuta parecchie volte.
— Oh! una cotta? — esclamò lui ridendo. — È una parola del gergo!
— Senta! non usi in questo caso il pronome «si» ma «io», —
obbiettò la giovane scherzosamente.
Quando lei tornò colla grammatica, accostò la poltrona (egli si
domandò se doveva aiutarla) e sedette accanto a lui. Leggendo
insieme, le loro teste chine si sfioravano; così ch’egli poteva a
malapena seguire le sue spiegazioni, tanto quella vicinanza deliziosa
lo turbava. Ma quando lei incominciò a mostrargli l’importanza delle
coniugazioni, egli dimenticò tutto. Non aveva mai udito parlare di
coniugazioni, e fu meravigliato di quanto intravedeva, circa la
composizione della lingua. Egli si chinò di più sul libro, e i capelli
biondi gli accarezzarono la guancia. Una volta sola era svenuto, nella
vita, e poco mancò che non svenisse la seconda volta; respirava a
stento; tutto il sangue parve che gli affluisse alla gola dal cuore,
come per soffocarlo. Mai lei gli era sembrata così accessibile; pel
momento, era gettato come un ponte sul baratro che li separava.
Eppure il suo rispetto per lei non era punto diminuito; lei non era
discesa dalle altezze; ma era lui a innalzarsi fra le nubi verso di lei,
tanto il sentimento rimaneva fervido e immateriale. Gli sembrò di
avere illecitamente toccato un tabernacolo sacro, e con premura
allontanò la sua testa da quel contatto delizioso che l’aveva
elettrizzato in tutta la persona, senza che lei s’accorgesse
minimamente della cosa.
CAPITOLO VIII.

Passarono parecchie settimane, durante le quali Martin Eden


s’applicò alla grammatica, ripassò il libro delle buone maniere e
divorò i volumi che lo attraevano. Non vide nessuno del suo
ambiente. I frequentatori assidui del Club del Loto si domandavano
che cosa gli fosse accaduto, e opprimevano Jim di domande, e
qualche giovanotto, di quelli che soperchiavano nel «Kiley’s», si
rallegrava dell’assenza di Martin.
Egli aveva fatto in biblioteca la scoperta di un nuovo tesoro. Come la
grammatica gli aveva mostrato la composizione della lingua, quel
tesoro gli mostrò quella della poesia, ed egli potè così imparare delle
nozioni circa la metrica, la rima, la forma, insomma delle cose che gli
piacevano. Un altro volume trattava della poesia come arte
rappresentativa, con tante citazioni tratte dalle opere più belle.
Nessun romanzo lo aveva appassionato come quei libri; e il suo
cervello di vent’anni, maturo per il lavoro intellettuale, riteneva
quelle letture con un potere di assimilazione insolito in cervelli anche
meglio preparati.
Allorchè egli guardava al passato, dall’alto del cammino percorso, il
vecchio mondo da lui conosciuto, il mondo della città e del mare, dei
marinai e delle ragazze facili, gli appariva molto meschino; eppure,
quel vecchio mondo si congiungeva col nuovo, così che egli rimase
stupito nello scoprire i punti di contatto che li univano. L’altezza del
pensiero, tutta la bellezza ch’egli trovava nei libri, lo nobilitavano, ed
egli ne era cosciente, al punto di credere, più fermamente che mai,
che nella classe di Ruth e della sua famiglia tutti pensassero in modo
così elevato e bello e vivessero nello stesso modo. Nella suburra
dov’egli viveva, stava la bruttura, ed egli decise di purificarsi delle
brutture che avevano lordato tutta la sua vita passata e di innalzarsi
sino a quelle elevate regioni nelle quali vivevano le classi superiori.
La sua infanzia e la sua adolescenza erano state continuamente
turbate da una vaga irrequietezza; senza sapere ciò che desiderasse,
egli desiderava qualche cosa che aveva cercato invano, sino al giorno
in cui aveva incontrato Ruth. Ora quell’irrequietezza era diventata
acuta, dolorosa, giacchè sapeva finalmente, chiaramente, che cosa
gli occorresse: la bellezza, la cultura intellettuale e l’amore.
Durante alcune settimane, vide Ruth cinque o sei volte, e ogni volta
fu un nuovo progresso. Lei lo aiutava a parlare correttamente, ne
correggeva l’inglese, e gli fece incominciare lo studio dell’aritmetica.
I loro colloquii non erano, d’altra parte, limitati a quei secchi studi
elementari. Egli aveva visto troppe cose, aveva la mente troppo
matura, per contentarsi di frazioni, di radici cubiche, d’analisi e di
coniugazioni; parlavano, a volte, degli ultimi libri ch’egli aveva letti,
dell’ultimo poema studiato. E quando lei gli leggeva ad alta voce i
suoi brani prediletti, egli era al colmo della gioia. Non aveva sentito
mai voce come quella: la minima intonazione lo inebriava, e ogni
parola che lei pronunziava, lo faceva rabbrividire in tutta la persona.
Ascoltando, egli ricordava le vociferazioni acute delle femmine
selvagge, delle megere avvinazzate, e — meno atroci, ma
ugualmente sgradevoli nel ricordo — voci acute e stridule di
popolane. Poi le rivide nell’immaginazione; le vide sfilare come
gregge miserabile, ognuno dei quali esaltava, al confronto, le qualità
di Ruth. E il sentire che leggendo le opere che aveva letto lei poteva
vibrare delle stesse gioie, gli raddoppiava il godimento. Essa gli lesse
una gran parte de La Principessa, e spesso vide i suoi occhi pieni di
lacrime, tanto la sua natura estetica risentiva della bellezza. In quei
momenti egli si sentiva simile a un Dio! La guardava, l’ascoltava, gli
pareva di vedere il viso stesso della vita e di scoprirne i segreti.
Allora, cosciente del grado di sensibilità acquistato, egli si diceva che
in ciò consisteva veramente l’amore, sola ragione d’essere al mondo.
Egli ripassava nella mente il ricordo di tutti i brividi sentiti, delle
fiamme d’un tempo, e dell’ebbrezza dell’alcool, dei baci delle donne,
degli occhi violenti, della febbre dei colpi dati e ricevuti, e tutto ciò
gli sembrava triviale e basso, accanto a quel sublime ardore che lo
trasportava.
Quanto a Ruth, era una condizione di cose molto buia. Essa non
aveva alcuna esperienza personale delle cose del cuore, essendo
stata avvezza dalle sue letture a vedere i fatti soliti della vita
trasposti, da una letteratura fantastica, nel dominio dell’irreale. E lei
non immaginava che quel rude marinaio le s’insinuasse nel cuore,
dove s’accumulavano a poco a poco energie latenti che, un bel
giorno, l’avrebbero infiammata tutta quanta. Lei non s’era ancora
scottata al fuoco d’amore, ma aveva, dell’amore, una conoscenza
puramente teorica, concependolo come la fiamma leggera, soave,
d’una lampada fedele, come una fredda stella lucente nel cupo
velluto d’una notte d’estate. Le piaceva immaginarselo come un
placido affetto, come il dolce culto d’una creatura in una atmosfera
calma, profumata di fiori, dalle luci attenuate. Non immaginava
neppure vagamente le vulcaniche scosse dell’amore, l’ardenza
divoratrice dei suoi fuochi e i suoi deserti di cenere. Le forze
dell’amore le erano ignote; gli abissi della vita si trasformavano per
lei in oceani d’illusioni. L’affetto coniugale tra i suoi genitori le
sembrava l’ideale delle affinità tra innamorati, e aspettava
tranquillamente il giorno in cui, senza scosse nè complicazioni, lei
sarebbe passata, dalla sua vita di giovanetta, a una vita in due, dello
stesso genere, pacifica e tenera.
Martin Eden le apparve come una novità bizzarra, una persona
strana, e considerò anche come una novità e bizzarria l’effetto ch’egli
produceva in lei. Insomma, non era naturale tutto ciò? Lei
s’interessava di lui, come si sarebbe interessata delle belve di un
serraglio o dello spettacolo d’una tempesta che l’avesse fatta
rabbrividire coi suoi lampi. Come le belve, l’uragano, la folgore, egli
era una forza libera della natura; le portava come odor di lontananza
e il respiro dei grandi spazî, il riflesso del sole tropicale sul suo viso
accalorato, e nei muscoli rigonfi, tutto il vigore primordiale della vita.
Egli era tutto improntato di quel misterioso mondo di rudi marinai e
d’avventure anche più aspro, delle quali lei non poteva immaginare
neppure la più mediocre. Era incolto, selvatico, e lei era lusingata
dalla vanità di vederlo accostare così prontamente ai suoi cenni, e si
divertiva nell’addomesticare la belva feroce. In fondo in fondo, quasi
senza accorgersene, ella sentiva il desiderio di rimodellare
quell’argilla informe, a simiglianza di suo padre, che rappresentava ai
suoi occhi l’ideale maschile. E la sua inesperienza assoluta le
impediva di capire che l’attrattiva che la spingeva verso di lui era la
più istintiva delle attrattive, quella la cui potenza fa precipitare
uomini e donne gli uni nelle braccia delle altre, spinge gli animali ad
uccidersi fra loro durante la stagione della foia e costringe gli stessi
elementi a congiungersi.
La rapidità dei suoi progressi era una fonte di sorpresa e d’interesse.
Essa scopriva in lui possibilità inaspettate, fiorenti tutti i giorni come
piante in un suolo fertile. Spesso, leggendogli dei versi di Browning,
essa si meravigliava delle strane interpretazioni ch’egli dava a certi
brani discutibili e non poteva comprendere come, con la sola
conoscenza dell’umanità e della vita, le interpretazioni di lui fossero
spesso più giuste delle sue. La concezione ch’egli aveva delle cose,
le pareva ingenua, sebbene ella fosse tante volte elettrizzata
dall’audacia del suo slancio che seguiva un volo dalla traiettoria così
tesa, che lei non poteva seguirla. Essa si contentava allora di vibrare
all’urto di quella potenza inconscia.
Essa suonò al pianoforte — per lui, non contro di lui, questa volta, —
e lo provò con un genere di musica la cui profondità sorpassava,
d’altra parte, le sue stesse capacità di comprensione. Come un fiore
al sole, l’animo di Martin si aprì all’armonia, e fu rapido il passaggio
dai «rag-times» e dai «two-steeps» del suo ambiente di una volta, ai
capolavori classici ai quali essa lo iniziava oggi. Però egli dedicò a
Wagner — quand’essa gliene ebbe dato la chiave, — al preludio del
Tannhaüser, particolarmente, un’ammirazione essenzialmente
democratica: del repertorio di Ruth, nulla lo attraeva tanto, giacchè
era la personificazione stessa della vita sua sino a quel tempo,
giacchè per lui il motivo del Venusberg significava la sua vita
passata, e Ruth era identificata nel coro dei Pellegrini.
Con le domande che le rivolgeva talvolta, egli giungeva a farla
dubitare delle proprie definizioni e della sua comprensione musicale;
ma egli non ne discuteva il canto; il suo canto era lei tutta quanta. Il
timbro angelico del suo puro soprano l’estasiava sempre; egli non
poteva far di meno di paragonarlo ai pigolii acuti, ai tremolìo gracile
delle operaie malaticce, e al vocìo avvinazzato delle ragazze dei covi
di marinai.
A Ruth piaceva suonare e cantare per lui. In verità, era la prima
volta che lei aveva un’anima fra le sue mani, e l’argilla di quell’anima
era delicata nel modellarla, giacchè lei immaginava di modellarla, e
aveva buone intenzioni. D’altra parte, la sua compagnia le riusciva
piacevole; egli non la spaventava più; quel primo spavento, dovuto
in realtà alla scoperta del suo io ignoto, era svanito. Essa, ora,
sentiva di avere dei diritti sui di lui, ed egli esercitava su di lei un
influsso tonico. Dopo lo studio nell’Università, uscendo fuori di quei
libri polverosi, essa si abbandonava al soffio fresco e forte della
personalità di lui. La forza! Essa aveva bisogno di forza, ed egli
gliene dava generosamente. Essere accanto a lui, parlargli, era come
bere dell’essenza di vita. Dopo la sua partenza, essa ritornava ai suoi
libri con un interesse più vivo e una nuova provvista di energia.
Sebbene conoscesse profondamente Browning, non aveva mai
pensato che potesse essere pericoloso giocare con un’anima. A
mano a mano che aumentava il suo interessamento per Martin, essa
si appassionava sempre più all’idea di rimodellarlo.
— Lei conosce Butler, vero? — gli disse lei un pomeriggio, quando lo
studio della grammatica, dell’aritmetica e della poesia fu finito. —
Ebbene, i suoi inizi furono molto difficili. Suo padre era cassiere in
una banca, ma, ammalatosi di petto, vegetò a lungo, e morì
nell’Arizona; dimodochè, alla sua morte, Butler — Carlo Butler — si
trovò solo al mondo e senza un soldo. Suo padre era australiano;
dunque, egli non aveva alcun parente in California. Egli entrò in una
stamperia — gliene ho sentito parlare parecchie volte — con uno
stipendio di quindici lire al mese. Ora guadagna 150.000 lire all’anno.
Come ha fatto? È stato onesto, devoto, economo e lavoratore; ha
rinunziato a tutti i piaceri dei giovanotti della sua età. Si costringeva
a mettere da parte un tanto per settimana, a costo di qualsiasi
sacrificio. S’intende che in breve ha guadagnato più di quindici lire al
mese, ma a mano a mano che aumentavano i suoi guadagni,
aumentavano in proporzione i suoi risparmi. Egli lavorava di giorno in
ufficio e la sera studiava. Non perdeva mai di vista il suo avvenire. In
seguito, frequentò, la sera, i corsi superiori. A diciassette anni
guadagnava eccellenti paghe come tipografo; ma era ambizioso.
Voleva fare strada, non rimanere un povero diavolo che sbarca il
lunario, e poco gl’importava di sacrificare le comodità dell’oggi per
quelle future. Egli scelse gli studi di diritto, ed entrò nello studio di
mio padre come fattorino — pensi un po’! — con venti lire la
settimana. Ma aveva imparato ad essere economo, e fece economia
anche sulle venti lire.
Essa si fermò per riprender fiato e per vedere come Martin ascoltava.
Egli sembrava vivamente interessato dalla giovinezza difficile del
signor Butler, ma un aggrottamento delle sopracciglia rivelò una
certa agitazione.
— Per un giovanotto, vivere tutti i giorni così non dev’essere stato
molto simpatico, evidentemente, — fece lui. — Venti lire la
settimana! Come poteva vivere con venti lire? Certo, non era in
condizione di comprarsi delle calze di seta! Ebbene, io pago ora
venticinque lire la settimana per la pensione, e le assicuro che non
c’è da godere troppo. Egli doveva vivere come un cane. Il suo vitto...
— Se lo preparava da sè, — interruppe lei, — cucinando su un
fornelletto a petrolio.
— Il suo nutrimento doveva essere peggiore di quello dei marinai sui
peggiori trabiccoli, e certo non ve n’è di più infetto al mondo.
— Ma pensi che cos’è diventato ora! — esclamò lei con entusiasmo.
— Pensi quanto guadagna! È mille volte ricompensato delle
privazioni passate.
Martin la guardò attentamente.
— Senta, — fece lui, — il signor Butler, diventato ricco, non è più
allegro per questo! S’è stretta la cintola per anni e anni, e sono
sicurissimo che il suo stomaco si vendica, ora.
Essa abbassò gli occhi davanti allo sguardo interrogativo di lui.
— Scommetto che soffre di dipsepsia! — disse Martin.
— Sì, è così, — confessò Ruth, — ma...
— E scommetto — aggiunse Martin — ch’è solenne e triste come un
vecchio gufo, e che non si diverte, sebbene guadagni 150.000 lire
all’anno.. E scommetto che non deve provare alcun piacere nel
vedere che gli altri si divertono. Ho ragione, o no?
Essa fece segno di sì, e s’affrettò a spiegare:
— Ma non è uomo da divertirsi. È naturalmente calmo e serio; ed è
stato sempre così.
— Di questo n’ero sicuro, — proclamò Martin. — Quindici lire la
settimana, poi venti, da ragazzo; cucinare su un fornello a petrolio,
economizzare sempre, lavorare tutto il giorno, studiare tutta la notte,
lavorare, insomma, sempre e non divertirsi mai, non saper neppure
in che consista il divertimento, per poi guadagnare 150.000 lire!
Naturalmente le 150.000 lire sono giunte troppo tardi!
Con la sua immaginazione accesa, egli aveva visto immediatamente i
mille particolari di quella vita giovanile e del suo povero sviluppo
intellettuale, che avevano ottenuto lo scopo di fare un uomo che
valeva 150.000 lire di rendita. In un batter d’occhio, tutta la vita di
Carlo Butler gli apparve come su uno schermo cinematografico, nel
cervello.
— Lei sa che io compiango il signor Butler, — diss’egli. — Era troppo
giovane per sapere, ma egli ha rinunziato alla vita per amore delle
150.000 lire l’anno, di rendita. Ebbene! Tutto questo denaro non gli
servirà neppure per comperare ciò che avrebbe potuto avere — con i
quattro soldi che risparmiava —: caramelle d’orzo, il divertimento al
bigliardo o dei posti al Guignol.
Questo modo di giudicare le cose sorprendeva Ruth, giacchè non
solo le riusciva nuovo e contrario ai suoi sentimenti, ma conteneva
particelle di verità che minacciavano di sgretolare e modificare le sue
convinzioni. A 14 anni, forse le sue idee avrebbero potuto cambiare,
ma a 24 anni, conservatrice per natura ed educazione qual era,
fissata nell’ambiente dov’era nata e che l’aveva formata, i
ragionamenti bizzarri di Martin la turbavano là per là, ma essa li
attribuiva alla stranezza di quella esistenza, e li dimenticava subito.
Tuttavia, pur disapprovandoli, la convinzione con cui li manifestava, il
lampeggiar degli occhi e la gravità del volto, la turbavano ogni volta
e l’attiravano verso di lui. Lei non avrebbe mai immaginato, in quei
momenti, che quell’uomo venuto da luoghi così lontani e così bassi la
sorpassasse, per grandezza e profondità di convinzioni. Come tutti
gli spiriti limitati che non sanno far altro che riconoscere dei limiti
agli altri, essa giudicò che le sue concezioni della vita erano davvero
vastissime, che le diversità del modo di vedere che li separavano
segnavano i limiti dell’orizzonte di Martin, e sognò di aiutarlo a
vedere come vedeva lei, d’ingrandirgli la mente in misura della sua.
— Ma non ho finito il racconto della sua vita, — fece lei. — Mio
padre afferma che non ha mai visto un lavoratore della forza del
signor Butler, quando questi era fattorino. Era sempre pronto al
lavoro; non soltanto non si presentava mai in ritardo, ma veniva di
solito in ufficio alcuni minuti prima dell’ora. E con tutto ciò, trovava il
modo di studiare, a tempo perso. Studiava la contabilità, la
dattilografia e prendeva lezioni di stenografia la notte, facendo fare
dei dettati a un cronista giudiziario, che aveva bisogno di esercitarsi.
Divenne rapidamente commesso e rese inestimabili servigi. Fu papà
a spingerlo a studiare diritto. Divenne notaio, e appena ritornò in
ufficio, papà lo associò. È un uomo notevole. Ha rifiutato parecchie
volte di entrare nel Senato degli Stati Uniti, e papà dice che può
essere nominato giudice della Corte Suprema di Cassazione, alla
prima votazione, se ne ha voglia. Una vita simile è un bell’esempio
per ciascuno di noi; essa prova come, con la volontà, ognuno possa
elevarsi al disopra dell’ambiente nel quale vive.
— È un uomo notevole, — disse Martin, sinceramente.
Ma gli parve che in quella storia ci fosse qualche cosa che urtava il
suo senso di bellezza e della vita. Non riusciva a trovare una ragione
sufficiente alla vita di stenti e di miseria del signor Butler. Se l’avesse
fatto per l’amore d’una donna o d’un ideale di perfezione, l’avrebbe
compreso. «L’amante folle d’amore» fa qualsiasi cosa per un bacio,
ma non per 150.000 lire di rendita. Fatta questa riflessione, la
carriera del signor Butler non lo soddisfaceva. In fondo, aveva
qualche cosa di meschino! 150.000 lire di rendita sono una gran
bella cosa!... ma la dispepsia e l’incapacità d’essere felice, tolgono, di
colpo, molto del loro valore.
Egli spiegò tutto ciò a Ruth, la scontentò e la persuase più che mai
della necessità d’un rimaneggiamento totale della sua persona. Essa
aveva una mentalità come ce n’è tante; di quelle menti persuase che
le loro credenze, i loro sentimenti e le loro opinioni sieno le sole
buone, e che la gente che pensa diversamente è della povera gente
da compiangere. Questa forma mentale produce oggi il missionario
che se ne va in capo al mondo per sostituire il suo Dio agli altri dei di
cui un’infinità di brava gente si contenta molto bene. A Ruth, questa
forma mentale diede il desiderio di formare quell’uomo secondo
un’essenza diversa, a simiglianza delle banalità che la circondavano e
le rassomigliavano.
CAPITOLO IX.

Ancora una volta, Martin Eden ritornò in California, questa volta con
un’impazienza d’amante. Esaurite le sue risorse, s’era imbarcato
come marinaio di bordo sullo schooner che andava in cerca di
tesoro. Alle Isole Salomone, dopo otto mesi di vane ricerche, la
spedizione s’era sciolta. L’equipaggio era stato congedato in
Australia, e Martin aveva immediatamente ripreso la via del ritorno,
su un piccolo bastimento diretto a S. Francisco. In quegli otto mesi
aveva guadagnato non solo quanto gli bastava per rimanere
parecchio tempo a terra, ma anche del denaro in più per leggere e
studiare molto. Egli aveva una smania di studiare, una grande
facilità, una volontà indomabile, e soprattutto, l’amore di Ruth come
mèta. Egli s’era applicato alla grammatica portata con sè, sinchè il
suo cervello vergine non l’aveva posseduta interamente. Il linguaggio
scorretto che usavano i suoi compagni lo urtava, ora, ed egli si
divertiva mentalmente a correggere i loro barbarismi. Con sua
grande gioia, scoprì che l’orecchio gli si educava e che avrebbe
acquistato il senso della grammatica.
Egli s’era applicato allo studio del vocabolario, e aveva aggiunto
venti parole al giorno al suo dizionario. Fu un compito difficile: al
timone o in vedetta, egli si sforzava di ripassare indefinitamente
accenti e definizioni, e le ripeteva addormentandosi, per avvezzarsi a
parlare la lingua di Ruth. Un giorno, con sua grande sorpresa,
osservò che cominciava a parlare un inglese più corretto di quello
che usavano gli stessi ufficiali e quella specie di «gentiluomini
avventurieri» che avevano organizzato la spedizione.
Il capitano, un norvegese dagli occhi di pesce, possedeva, Dio sa per
quale caso, uno Shakespeare che non leggeva mai, e Martin, per
ottenere il permesso di leggere il prezioso volume, lavò la biancheria
al capitano. Quella lettura gli educava l’orecchio e gli faceva
apprezzare un inglese più raffinato; in cambio, accumulò molte
parole arcaiche e antiquate.
Insomma, quegli otto mesi erano stati bene impiegati; oltre ciò che
aveva studiato, egli aveva imparato parecchie cose che riguardavano
lui. Col senso della propria ignoranza, s’ingrandiva in lui il senso della
propria potenza. Egli sentiva una gran differenza fra i suoi compagni
di bordo e lui, ma era abbastanza assennato per riconoscere che tale
diversità consisteva più in possibilità che in fatti. Essi avrebbero
potuto fare ciò che egli faceva; ma in fondo a sè egli sentiva un
oscuro lievito che fermentava e che gli faceva presentire di avere in
sè qualche cosa di meglio e di più. L’adorabile splendore del mondo
lo affascinava, ed egli si augurava ardentemente di potere goderne
con Ruth. Decise di descriverle tutto quanto avrebbe potuto delle
bellezze dei mari del Sud. A questo pensiero, lo spirito creatore
ch’era in lui si svegliò, e gli suggerì di ricreare quelle bellezze per un
pubblico più numeroso. Allora, in un’aureola di splendore e di gloria,
nacque la grande idea: avrebbe scritto! Sarebbe stato uno di quegli
esseri privilegiati mediante i quali il mondo intero vede, capisce e
sente. Avrebbe scritto — che cosa? di tutto — versi e prosa, romanzi
e drammi come quelli di Shakespeare. Ecco la sua vera carriera e il
cammino verso la conquista di Ruth. I letterati erano i conquistatori
del mondo; e gli sembravano ben altrimenti ammirevoli che non tutti
i Butler che guadagnavano 150.000 lire l’anno; persone che
avrebbero potuto essere giudici nella Corte Suprema, se avessero
voluto.
Ficcatasi questa idea nella testa, egli la possedette interamente, e
fece quel viaggio di ritorno a San Francisco come in un sogno. Era
ebbro di forze inconscie e incatenate. Ed ecco, un giorno, sul vasto
mare deserto, nascere in lui il senso della prospettiva. Per la prima
volta, nettamente, vide Ruth e il suo ambiente, come una cosa che si
può prendere con le mani, girare e rigirare a piacere. C’erano,
veramente, dei punti vaghi, nebulosi, nella sua visione di quel
mondo, ma ne intravedeva l’assieme, non i particolari, e vedeva
anche il modo di possederlo. Scrivere!... Arso da questo pensiero,
cominciò appena ritornato. Prima di tutto avrebbe descritto il viaggio
dei cercatori di tesori; e avrebbe portato lo scritto a un giornale
qualunque, a San Francisco, senza dir nulla a Ruth, che sarebbe
rimasta sorpresa e contenta nel vedere stampato il nome di lui. Pure
scrivendo, avrebbe continuato a studiare. I giorni non erano fatti di
ventiquattro ore? Egli era invincibile. Sapeva come si lavora, e le
cittadelle più imprendibili sarebbero cadute davanti a lui. Egli non
avrebbe corso più il mare — almeno in qualità di marinaio — e per
un momento ebbe persino la visione d’un steam-yacht. S’intende,
diceva fra sè, prudentemente, che non sarebbe riuscito subito, e per
qualche tempo si sarebbe dovuto contentare di guadagnare con la
letteratura quanto gli sarebbe bastato per proseguire gli studî. Poi,
dopo un tempo indeterminato — molto indeterminato, — fatta la
necessaria preparazione, avrebbe scritto una grande opera, e il suo
nome sarebbe diventato celebre.
Ma non basta: oltre tutto questo trionfo, c’era dell’altro; egli si
sarebbe mostrato degno di Ruth. La gloria, va bene, ma Ruth era la
realizzazione di un sogno divino. Non era un arrivista, lui, ma
«l’amante folle d’amore»... semplicemente.
Quando fu a Oakland, con un somma rotondetta in tasca, frutto della
paga, rioccupò la vecchia camera in casa di Bernardo Higgingbotham
e si mise al lavoro, senza far conoscere il suo ritorno neppure a
Ruth. Sarebbe andato a trovarla quando avesse finito l’articolo sui
cercatori di tesori. L’eccitamento violento prodotto dall’estro, gli
avrebbe fatto sentire meno il peso di quell’assenza volontaria. D’altra
parte, la natura stessa dell’argomento che trattava, gliela rendeva
meno lontana. Non sapendo bene quale dovesse essere la lunghezza
dell’articolo, egli si regolò su un articolo di due pagine del
supplemento della Rivista di San Francisco, di cui contò le parole.
Dopo tre giorni di lavoro da forsennato, ecco il lavoro finito; ma
quando l’ebbe accuratamente copiato, con una larga scrittura
infantile, facile a leggersi, vide in un libro di retorica trovato in
biblioteca, che esistevano certe cose chiamate «paragrafi» e «rinvii».
Ricominciò dunque il lavoro con l’aiuto del libro di retorica, e in un
giorno seppe circa il comporre, più di quanto apprende uno scolaro
medio in un anno. Dopo aver ricopiato l’articolo una seconda volta e
averlo preziosamente arrotolato, lesse in un giornale una notizia, in
alcune avvertenze ai dilettanti, che prescriveva che i manoscritti non
dovevano essere arrotolati, nè scritti su tutt’e due le pagine del
foglio. Egli aveva dunque violato doppiamente la norma. Secondo
quell’avvertenza, gli articoli di prim’ordine erano pagati cinquanta lire
la colonna. Si consolò, quindi, ricopiando il manoscritto per la terza
volta, col pensare che gli spettavano cinquanta lire moltiplicate per
dieci, cioè cinquecento lire, e decise in cuor suo che quello era un
affare migliore del navigare. Senza errori, avrebbe finito l’articolo in
tre giorni. Cinquecento lire in tre giorni!... Sul mare avrebbe dovuto
lavorare tre mesi e di più per guadagnare tanto. Com’era idiota fare
il marinaio quando è possibile fare il letterato! — concluse. Però, egli
non teneva al denaro pel denaro, ma perchè dà l’indipendenza, dei
vestiti decenti, e perchè poteva avvicinarlo, infine, il più presto
possibile, alla fragile e pallida giovane che gli aveva rivelato il senso
della vita e l’aveva ispirato.
Egli mise il manoscritto in una busta grande e lo indirizzò all’editore
della Rivista di San Francisco. Pensava che tutto quanto era
accettato da un giornale fosse immediatamente pubblicato; così che,
avendo spedito il manoscritto il venerdì, s’aspettò di vederlo apparire
la domenica seguente. Sarebbe stato magnifico far sapere in quel
modo il suo ritorno a Ruth! La domenica, nel pomeriggio, sarebbe
andato a trovarla. Gli era venuta anche un’altra idea particolarmente
morale, prudente e modesta, che lo lusingava. Avrebbe scritto una
storia d’avventure per bambini, e l’avrebbe mandata al Compagno
della gioventù. Nella sala della biblioteca popolare, egli passò in
rivista la collezione del Compagno della gioventù. Le storie
d’appendice vi erano regolarmente pubblicate in cinque parti, di
tremila parole ciascuna, circa. Qualche storia era in sette parti; ed
egli si decise di scriverne una di uguale lunghezza. Aveva fatto su
una baleniera un viaggio antartico, alcuni anni prima, viaggio che

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