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Andò una sera a teatro sperando vagamente ch’ella vi andasse, ed
ecco, dalla seconda fila dov’era seduto, la vide a un tratto! La vide
arrivare per uno dei corridoi laterali, con Arturo e un giovanotto
interamente calvo e munito d’un paio d’occhiali, la cui vista lo fece
sprofondare in angosce di diffidenza e di gelosia. La vide sedere
nelle poltrone di prima fila, e in tutta la serata non distinse altro che
questo: delle delicate spalle bianche e una massa di capelli d’oro
pallido, fatti più pallidi dalla lontananza. Ma anche altra gente era
distratta, ed egli osservò, guardandosi intorno, due ragazze sedute
non lontano da lui, che gli sorridevano con aria sfrontata. Egli era
stato sempre uomo di facili avventure, per natura, giacchè non era
solito mandar via la gente. Un tempo avrebbe ricambiato il
sorrisetto, e, con l’atteggiamento, incoraggiato il loro sorriso; ma ora
le condizioni erano diverse. Egli rispose al sorriso; poi si volse e non
guardò più da quella parte. Pure, parecchie volte, senza farlo di
proposito, il suo sguardo incontrò il loro sorriso. Non ci si trasforma
in un giorno, ed egli non poteva modificare la gentilezza naturale del
suo carattere. Così che finì col sorridere alle ragazze, per puro
bisogno di cordialità espansiva. Che gli portavano infatti di nuovo?
Egli sapeva bene ch’esse tendevano verso di lui le loro mani
carezzevoli, ma... ma ora, laggiù, presso l’orchestra, era la donna
unica, così incredibilmente diversa da quelle due ragazze della sua
classe, ch’egli non poteva fare a meno di considerarle con senso di
pena e di pietà. Egli desiderava con tutto il cuore che gli fosse
concesso di possedere, fosse pure per un attimo, un po’ della bontà
di Ruth e del suo splendore morale. Ma per nulla al mondo avrebbe
voluto ferirle per i loro maneggi, che, d’altra parte, non lo
lusingavano; egli risentiva perfino una vaga vergogna della propria
inferiorità, che giustificava il loro contegno. Se egli fosse stato uno
della classe di Ruth, quelle ragazze non si sarebbero permesse
alcuna familiarità; i loro sguardi gli sembravano muniti di artigli
minacciosi che s’aggrappavano a lui per mantenerlo al loro livello.
S’alzò prima che calasse il sipario, per tentare di vedere Ruth. C’era
sempre della gente sotto il peristilio del teatro, così che, calcandosi il
cappello sugli occhi, lei non lo avrebbe riconosciuto. Egli uscì per
primo tra la folla; ma s’era appena avviato all’uscita, quand’ecco
apparire le due ragazze. Esse lo avevano seguito, era evidente; e là
per là egli maledisse il fascino che esercitava sulle donne. Esse
avanzavano lentamente, nel più folto della folla, così che,
sfiorandole, una d’esse s’accorse di lui. Era una flessuosa ragazza
bruna, dagli occhi cupi, pieni di sfida. Tutt’e due gli sorrisero, ed egli
rispose loro.
— Oh! chi si vede! — diss’egli automaticamente, come aveva fatto in
tanti casi simili! D’altra parte, non gli era possibile agire altrimenti,
data la sua grande indulgenza e il bisogno di cordialità inerenti alla
sua natura. La ragazza dagli occhi neri rinforzò il suo sorriso e fece
l’atto di fermarsi, come anche l’amica che l’accompagnava e che
rideva, torcendosi. Egli riflettè rapidamente. Bisognava evitare che
«Lei», uscendo, lo vedesse in compagnia di quelle ragazze. Con
molta disinvoltura, egli manovrò in modo da spingere la bruna verso
l’uscita. Là, era libero di sè, e a suo agio; anzichè manifestare
impaccio o timidezza, egli scherzò allegramente, usando con un
certo brio il gergo e il complimento gentile, preliminari obbligatori in
quel genere di avventure rapide. Al cantone, egli volle lasciar la folla
che seguiva la strada, per prendere una via trasversale, ma la
ragazza dagli occhi neri lo prese pel braccio, ed esclamò trascinando
la compagna:
— Fermatevi! Bill! dove correte con tanta fretta?... Non ci vorrete
piantare così?...
Egli si fermò, rise, fece un voltafaccia. Al disopra delle loro spalle
vedeva la folla che si moveva, passare sotto i riverberi di luce. Il
punto in cui si trovava non era illuminato, così che poteva vederla
passare senz’essere visto. Lei doveva passare di là, giacchè quella
era la via di casa sua.
— Come si chiama? — domandò alla compagna indicando la ragazza
bruna...
— Domandaglielo! — rispose lei.
— Dunque, come vi chiamate? — domandò egli, voltandosi alla
ragazza.
— Voi non mi avete ancora detto il vostro nome, — ribattè quella.
— Non me l’avete chiesto, — fece lui sorridendo. — D’altra parte
l’avete indovinato: mi chiamo proprio Bill.
— Là! Là! — E lei lo guardò negli occhi, mentre i suoi s’intenerivano.
— È proprio vero?...
Lei seguitava a fissarlo; l’eterna femminilità luceva negli occhi
eloquenti. Ed egli la scrutava, negligentemente, sapendo già che se
egli si fosse mostrato aggressivo, lei si sarebbe messa in guardia,
con riserbo e pudore a un tratto, ma pronta a invertire le parti s’egli
avesse indietreggiato. Da uomo qual era, egli però ne sentiva
l’attrattiva e nell’intimo apprezzava quella lusinghiera insistenza. Ah!
come conosceva tutto ciò! sin troppo bene, dall’A alla Z... Lei era
bella come una dea; sì, come una dea può essere in quell’ambiente,
quando si lavora faticosamente, si è mal pagati e si disdegna di
vendersi per vivere meglio, e si è ardentemente assetati d’un sorso
di felicità per allietare la propria triste vita, e non si ha davanti a sè
altra alternativa che una penosa eternità di lavoro o il cupo gorgo
d’una miseria anche più terribile, ma che uccide presto ed è meglio
pagata.
— Bill, — rispose egli scotendo il capo. — Ve l’assicuro: Bill o Pietro.
— Seriamente?
— Non si chiama affatto Bill, — interruppe l’altra.
— Che ne sapete voi? — disse lui. — Voi non mi conoscete.
— Non c’è bisogno di conoscervi per sapere che dite una bugia.
— Seriamente, Bill, qual è il vostro nome? — disse la bruna.
— Bill mi sta benissimo, — rispose Martin.
Essa gli prese il braccio ridendo.
— Io so che voi mentite, ma, pure, siete gentile lo stesso.
Egli prese la mano che s’offriva, ne sentì subito i segni e le
deformazioni famigliari.
— Da quanto tempo avete abbandonato la fabbrica di conserve? —
domandò.
— Come lo sapete?... Be’, è uno stregone! — esclamarono le
ragazze, a coro.
Mentr’egli scambiava con loro tutte le stupidaggini solite, sentiva
passare e ripassare nella mente gl’innumerevoli scaffali della
biblioteca dove si accumulavano le meraviglie dei secoli passati. E
l’incoerenza dei suoi pensieri lo fece sorridere.
Intanto i segni intimi e la celia ch’egli simulava non gl’impedivano di
tener d’occhio l’uscita del teatro. E ad un tratto scorse Ruth, nella
luce, tra il fratello e il giovanotto dagli occhiali; e il cuore parve che
gli si fermasse. Come aveva sperato quel momento! Ebbe appena il
tempo di scorgere il velo leggero che velava la persona di lei
nell’abbigliamento, quando lei rialzò la gonna: poi essa sparve ed
egli si ritrovò di faccia alle due operaie con i loro vani tentativi di
eleganza e di nettezza, accanto ai loro vestiti a buon mercato e ai
loro gioielli da bazar. Sentì che gli tiravano il braccio, sentì
vagamente che gli parlavano:
— Svegliatevi, Bill, che vi succede?
— Che?... dicevate?...
— Oh! niente! — rispose la bruna, con un cenno vivace del capo. —
Dicevo soltanto fra me...
— Che cosa?...
— Be’, dicevo fra me e me che sarebbe una buona idea se
conduceste con noi un amico... per lei, (e indicò la compagna) e
allora andremmo in qualche luogo a prendere un «ice-cream soda» o
qualche altra cosa.
Una nausea morale lo scosse. Accanto agli occhi arditi di quella
ragazza, egli vedeva i chiari occhi luminosi di Ruth, il suo sguardo
angelico che veniva a lui dalla più profonda purezza. Egli si sentì a
un tratto superiore a quell’avventura. La vita aveva per lui un altro
significato: non si limitava a degli «ice-cream sodas» in quattro. Egli
ricordò che aveva sempre coltivato, come in un giardino segreto,
pensieri rari e preziosi. Quando aveva tentato di farne partecipe
qualcuno, non aveva trovato nè donna nè uomo capaci di
comprenderlo. E poichè quei pensieri superavano la comprensione di
quella gente, egli ne concludeva, ora, che doveva essere superiore
ad essa. Egli strinse i pugni. Giacchè la vita significava per lui molto
di più, toccava a lui domandare molto di più alla vita; ma non ci
voleva quella compagnia; gli arditi occhi neri non gli potevamo offrire
nulla di nuovo. Egli sapeva ciò che riserbavano: ice-cream o altro del
genere. Ma gli occhi angelici, laggiù, gli offrivano molto di meglio e
più che non potesse immaginare; libri e pittura, riposo e bellezza,
tutte le eleganze fisiche e morali d’una vita raffinata. Egli conosceva
a mente ciò che dissimulavano così malamente quegli occhi neri;
vedeva, come in un interno d’orologio, tutte le rotelle della povera
meccanica cerebrale; il basso piacere n’era lo scopo, il cupo piacere
che portava alla morte definitiva d’ogni speranza. Ma negli occhi
angelici, si offrivano il mistero, l’incanto, l’al di là; in essi era il
riflesso d’un’anima e anche un po’ dell’anima sua.
— Il programma va bene, ma c’è un ma: sono impegnato.
Gli occhi neri della bruna lo fulminarono.
— Dovete assistere un amico malato, certamente? — fece lei
beffardamente.
— No, ho un «appuntamento» con — ed egli esitò — con una
ragazza.
— Mi prendete in giro? — disse lei con gravità.
Egli la guardò negli occhi e rispose:
— Niente affatto, ve lo assicuro. Ma non potremmo vederci un altro
giorno? Non m’avete detto ancora il nome vostro nè dove abitate.
— Lizzie, — rispose lei, raddolcita, e appoggiandosi a lui gli premeva
il braccio. — Lizzie Connolly. E abito a Fifth and Market.
Egli chiacchierò qualche altro minuto e augurò loro la buona notte.
Ma anzichè tornare direttamente a casa, andò sino all’albero,
all’ombra del quale aveva sognato tante volte, alzò la testa verso la
finestra e mormorò:
— L’appuntamento era con voi, Ruth. Son venuto.
CAPITOLO VII.
Ancora una volta, Martin Eden ritornò in California, questa volta con
un’impazienza d’amante. Esaurite le sue risorse, s’era imbarcato
come marinaio di bordo sullo schooner che andava in cerca di
tesoro. Alle Isole Salomone, dopo otto mesi di vane ricerche, la
spedizione s’era sciolta. L’equipaggio era stato congedato in
Australia, e Martin aveva immediatamente ripreso la via del ritorno,
su un piccolo bastimento diretto a S. Francisco. In quegli otto mesi
aveva guadagnato non solo quanto gli bastava per rimanere
parecchio tempo a terra, ma anche del denaro in più per leggere e
studiare molto. Egli aveva una smania di studiare, una grande
facilità, una volontà indomabile, e soprattutto, l’amore di Ruth come
mèta. Egli s’era applicato alla grammatica portata con sè, sinchè il
suo cervello vergine non l’aveva posseduta interamente. Il linguaggio
scorretto che usavano i suoi compagni lo urtava, ora, ed egli si
divertiva mentalmente a correggere i loro barbarismi. Con sua
grande gioia, scoprì che l’orecchio gli si educava e che avrebbe
acquistato il senso della grammatica.
Egli s’era applicato allo studio del vocabolario, e aveva aggiunto
venti parole al giorno al suo dizionario. Fu un compito difficile: al
timone o in vedetta, egli si sforzava di ripassare indefinitamente
accenti e definizioni, e le ripeteva addormentandosi, per avvezzarsi a
parlare la lingua di Ruth. Un giorno, con sua grande sorpresa,
osservò che cominciava a parlare un inglese più corretto di quello
che usavano gli stessi ufficiali e quella specie di «gentiluomini
avventurieri» che avevano organizzato la spedizione.
Il capitano, un norvegese dagli occhi di pesce, possedeva, Dio sa per
quale caso, uno Shakespeare che non leggeva mai, e Martin, per
ottenere il permesso di leggere il prezioso volume, lavò la biancheria
al capitano. Quella lettura gli educava l’orecchio e gli faceva
apprezzare un inglese più raffinato; in cambio, accumulò molte
parole arcaiche e antiquate.
Insomma, quegli otto mesi erano stati bene impiegati; oltre ciò che
aveva studiato, egli aveva imparato parecchie cose che riguardavano
lui. Col senso della propria ignoranza, s’ingrandiva in lui il senso della
propria potenza. Egli sentiva una gran differenza fra i suoi compagni
di bordo e lui, ma era abbastanza assennato per riconoscere che tale
diversità consisteva più in possibilità che in fatti. Essi avrebbero
potuto fare ciò che egli faceva; ma in fondo a sè egli sentiva un
oscuro lievito che fermentava e che gli faceva presentire di avere in
sè qualche cosa di meglio e di più. L’adorabile splendore del mondo
lo affascinava, ed egli si augurava ardentemente di potere goderne
con Ruth. Decise di descriverle tutto quanto avrebbe potuto delle
bellezze dei mari del Sud. A questo pensiero, lo spirito creatore
ch’era in lui si svegliò, e gli suggerì di ricreare quelle bellezze per un
pubblico più numeroso. Allora, in un’aureola di splendore e di gloria,
nacque la grande idea: avrebbe scritto! Sarebbe stato uno di quegli
esseri privilegiati mediante i quali il mondo intero vede, capisce e
sente. Avrebbe scritto — che cosa? di tutto — versi e prosa, romanzi
e drammi come quelli di Shakespeare. Ecco la sua vera carriera e il
cammino verso la conquista di Ruth. I letterati erano i conquistatori
del mondo; e gli sembravano ben altrimenti ammirevoli che non tutti
i Butler che guadagnavano 150.000 lire l’anno; persone che
avrebbero potuto essere giudici nella Corte Suprema, se avessero
voluto.
Ficcatasi questa idea nella testa, egli la possedette interamente, e
fece quel viaggio di ritorno a San Francisco come in un sogno. Era
ebbro di forze inconscie e incatenate. Ed ecco, un giorno, sul vasto
mare deserto, nascere in lui il senso della prospettiva. Per la prima
volta, nettamente, vide Ruth e il suo ambiente, come una cosa che si
può prendere con le mani, girare e rigirare a piacere. C’erano,
veramente, dei punti vaghi, nebulosi, nella sua visione di quel
mondo, ma ne intravedeva l’assieme, non i particolari, e vedeva
anche il modo di possederlo. Scrivere!... Arso da questo pensiero,
cominciò appena ritornato. Prima di tutto avrebbe descritto il viaggio
dei cercatori di tesori; e avrebbe portato lo scritto a un giornale
qualunque, a San Francisco, senza dir nulla a Ruth, che sarebbe
rimasta sorpresa e contenta nel vedere stampato il nome di lui. Pure
scrivendo, avrebbe continuato a studiare. I giorni non erano fatti di
ventiquattro ore? Egli era invincibile. Sapeva come si lavora, e le
cittadelle più imprendibili sarebbero cadute davanti a lui. Egli non
avrebbe corso più il mare — almeno in qualità di marinaio — e per
un momento ebbe persino la visione d’un steam-yacht. S’intende,
diceva fra sè, prudentemente, che non sarebbe riuscito subito, e per
qualche tempo si sarebbe dovuto contentare di guadagnare con la
letteratura quanto gli sarebbe bastato per proseguire gli studî. Poi,
dopo un tempo indeterminato — molto indeterminato, — fatta la
necessaria preparazione, avrebbe scritto una grande opera, e il suo
nome sarebbe diventato celebre.
Ma non basta: oltre tutto questo trionfo, c’era dell’altro; egli si
sarebbe mostrato degno di Ruth. La gloria, va bene, ma Ruth era la
realizzazione di un sogno divino. Non era un arrivista, lui, ma
«l’amante folle d’amore»... semplicemente.
Quando fu a Oakland, con un somma rotondetta in tasca, frutto della
paga, rioccupò la vecchia camera in casa di Bernardo Higgingbotham
e si mise al lavoro, senza far conoscere il suo ritorno neppure a
Ruth. Sarebbe andato a trovarla quando avesse finito l’articolo sui
cercatori di tesori. L’eccitamento violento prodotto dall’estro, gli
avrebbe fatto sentire meno il peso di quell’assenza volontaria. D’altra
parte, la natura stessa dell’argomento che trattava, gliela rendeva
meno lontana. Non sapendo bene quale dovesse essere la lunghezza
dell’articolo, egli si regolò su un articolo di due pagine del
supplemento della Rivista di San Francisco, di cui contò le parole.
Dopo tre giorni di lavoro da forsennato, ecco il lavoro finito; ma
quando l’ebbe accuratamente copiato, con una larga scrittura
infantile, facile a leggersi, vide in un libro di retorica trovato in
biblioteca, che esistevano certe cose chiamate «paragrafi» e «rinvii».
Ricominciò dunque il lavoro con l’aiuto del libro di retorica, e in un
giorno seppe circa il comporre, più di quanto apprende uno scolaro
medio in un anno. Dopo aver ricopiato l’articolo una seconda volta e
averlo preziosamente arrotolato, lesse in un giornale una notizia, in
alcune avvertenze ai dilettanti, che prescriveva che i manoscritti non
dovevano essere arrotolati, nè scritti su tutt’e due le pagine del
foglio. Egli aveva dunque violato doppiamente la norma. Secondo
quell’avvertenza, gli articoli di prim’ordine erano pagati cinquanta lire
la colonna. Si consolò, quindi, ricopiando il manoscritto per la terza
volta, col pensare che gli spettavano cinquanta lire moltiplicate per
dieci, cioè cinquecento lire, e decise in cuor suo che quello era un
affare migliore del navigare. Senza errori, avrebbe finito l’articolo in
tre giorni. Cinquecento lire in tre giorni!... Sul mare avrebbe dovuto
lavorare tre mesi e di più per guadagnare tanto. Com’era idiota fare
il marinaio quando è possibile fare il letterato! — concluse. Però, egli
non teneva al denaro pel denaro, ma perchè dà l’indipendenza, dei
vestiti decenti, e perchè poteva avvicinarlo, infine, il più presto
possibile, alla fragile e pallida giovane che gli aveva rivelato il senso
della vita e l’aveva ispirato.
Egli mise il manoscritto in una busta grande e lo indirizzò all’editore
della Rivista di San Francisco. Pensava che tutto quanto era
accettato da un giornale fosse immediatamente pubblicato; così che,
avendo spedito il manoscritto il venerdì, s’aspettò di vederlo apparire
la domenica seguente. Sarebbe stato magnifico far sapere in quel
modo il suo ritorno a Ruth! La domenica, nel pomeriggio, sarebbe
andato a trovarla. Gli era venuta anche un’altra idea particolarmente
morale, prudente e modesta, che lo lusingava. Avrebbe scritto una
storia d’avventure per bambini, e l’avrebbe mandata al Compagno
della gioventù. Nella sala della biblioteca popolare, egli passò in
rivista la collezione del Compagno della gioventù. Le storie
d’appendice vi erano regolarmente pubblicate in cinque parti, di
tremila parole ciascuna, circa. Qualche storia era in sette parti; ed
egli si decise di scriverne una di uguale lunghezza. Aveva fatto su
una baleniera un viaggio antartico, alcuni anni prima, viaggio che