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Test Bank for Community Policing A Contemporary


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6. A ____________ supervised shires.
a. night watch
b. constable
*c. shire-reeve
d. slave patrol

7. Edward II established a new office; ____________, filled by noblemen appointed by the


king.
a. constable
*b. justice of the peace
c. shire-reeve
d. bobbies

8. During the eighteenth and nineteenth centuries, lands that were used by entire
communities, called the “commons,” were consolidated and privatized with a series of acts
of Parliament. What was this act called?
a. Civil Service Act
b. Combination Act
c. Commons Abolishment Act
*d. Enclosure Act

9. The ____________ prohibited workers from meeting, organizing, and striking against
their “masters” to improve working conditions.
*a. Combination Laws
b. Enclosure Act
c. Strike Laws
d. Anti-Union Act

10. Many modern American police organizations were birthed from ____________.
*a. slave patrols
b. constables
c. British control of the new world
d. England policing strategies

11. The police are social control agents, an institution of government that imposes the force of
law on the public.
*a. True
b. False

12. A main challenge in the United States has been to fashion a structure for the police that
insulates departments from the corrupting influence of politics, without risking a department so
autonomous that it is isolated from accountability to the people.
*a. True
b. False
13. Policing became formalized with the adoption of regular night watches.
*a. True
b. False

14. The history of law enforcement in England can be divided into four distinct, successive
periods.
a. True
*b. False

15. Sir Robert Peel introduced the Metropolitan Police Act of 1829.
*a. True
b. False

16. British police officers were considered skilled laborers.


a. True
*b. False

17. The American system of policing evolved from an amalgamation of systems from England,
France, and Spain.
*a. True
b. False

18. Slave patrols and night watches had different primary objectives depending on the part of the
country in which they were located.
*a. True
b. False

19. In the American colonies, justices of the peace were among the first law enforcement
officers.
a. True
*b. False

20. Political elites, rather than the community, became the controllers of the police.
*a. True
b. False
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The Project Gutenberg eBook of Racconti
umoristici, vol. 2/2
This ebook is for the use of anyone anywhere in the United
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Title: Racconti umoristici, vol. 2/2

Author: Achille Giovanni Cagna

Release date: August 4, 2024 [eBook #74186]

Language: Italian

Original publication: Milano: Barbini, 1873

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading


Team at https://www.pgdp.net (This file was produced
from images generously made available by Biblioteca
Nazionale Braidense - Milano)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI


UMORISTICI, VOL. 2/2 ***
RACCONTI UMORISTICI
Vol. II
A. G. CAGNA

RACCONTI UMORISTICI
UN SOLDO
UN’AVVENTURA GALANTE
UNA CROCE MERITATA
LEI VOI E TU
(Saggio di Dialogo)

Vol. II.

MILANO 1873
PRESSO Carlo Barbini EDITORE
Via Chiaravalle N. 9
Sotto la protezione della legge 25 giugno 1865 N.
2337, essendosi adempito a quanto essa prescrive.
Tip. Ditta Wilmant.
INDICE
UNA CROCE MERITATA
STORIA DI TUTTI I GIORNI.
SPROLOQUIO

Fu detto l’istinto essere la legge dei bruti. — Per quanto riserbata sia
questa sentenza, e favorevole agli uomini, non cessa però di essere
più un complimento che una definizione.
L’istinto, checchè se ne dica è una legge universale. È un torto
marcio che si fa alle bestie chiamando istinto le loro naturali
tendenze, mentre per l’uomo si distinguono col nome di passioni e
manìe.
Tutto è istinto nell’animale in genere; tutte le azioni, tutti i
perturbamenti entrano nel dominio di questo autocrate che guida le
nostre aspirazioni.
L’istinto spinge l’uomo alla meta, con tanto ardore quanto ne è più
difficile l’impresa, e la storia di Pomponio che prendo a narrare, è un
esempio che parla molto in favore di quanto sopra.
Manifestazioni d’un genio!

Pomponio sin dalla prima giovinezza tradiva le sue ambiziose


tendenze. I suoi genitori erano abbastanza agiati da poter soddisfare
a tutti i capricci del ragazzo, il quale prendeva gran gusto
nell’appendersi medaglie sul petto, e decorarsi come un generale.
A quindici anni questa sua smania si fece tanto potente da creargli
un bisogno, quello d’avere una medaglia d’oro per fregiarsene
arbitrariamente.
I genitori invece d’allarmarsi per questa tendenza troppo spiccata, se
ne compiacquero invece, parendo ad essi che un giorno o l’altro per
la smania di distinguersi, il figlio si azzardasse ad imprese non
comuni.
L’idea era buona, ma non si rimarcò che a Pomponio bastava avere
una medaglia senza crucciarsi tanto sui mezzi di procurarsela.
A venti anni l’istinto ambizioso di Pomponio prese un notevole
sviluppo, e tale da non bastargli più il facile acquisto di una
medaglia. Ormai egli aspirava a qualche cosa di più, e si diede con
tutta lena alla caccia di un titolo.
Entrò all’università per addottorarsi in leggi, ma dopo sciupato
qualche anno, si accorse di non avere gran vocazione per la
magistratura.
E sì, che, per bacco, a giudicare dal numero stragrande dei laureati
in leggi, non mi sembra tanto straordinario il riuscirvi. La è tanto
comoda cotesta strada che financo i ricchi la battono, tanto per poter
col titolo di avvocato far velo ai loro placidi ozii. Eppure Pomponio
non trovò il fatto suo, e rinunziò alle baraonde universitarie.
Passò un anno meditando sulla carriera che dovesse sciegliere, ma
una sera dopo di aver assistito in teatro al trionfo di una commedia
nuova, si accorse di avere una pronunciata tendenza per la
drammatica.
Ruminò per qualche giorno su cotesta manifestazione spontanea del
suo genio, e fattosi convinto della realtà, si ritirò nelle sue camere
per meditare nel silenzio la scelta del soggetto di una produzione.
Ma sia che il suo talento mal potesse informarsi alle angustie della
scena, o che il suo orgoglio di scrittore lo rendesse incontentabile,
dopo quindici giorni non aveva ancor trovato il filo d’un soggetto
qualunque.
Si lanciò nel mondo per studiare qualche argomento della vita
sociale; frequentò le conversazioni, i balli, i teatri, percorse alberghi,
taverne e bettole, ma con poco frutto, e dopo qualche mese non
aveva ancora trovato il fatto suo.
— Una sera, passando per una via un po’ remota, in cerca
d’inspirazioni, gli ferì l’orecchio un rumore confuso di voci e suoni
indistinti, si fermò di botto, e comprese che poco lungi all’ultimo
piano di una casa si ballava.
La necessità dà coraggio. Entrò nel portone, vide lumi sulla scala, e
salì animoso guidato dal fracasso che ingrossava man mano. —
Trovò gente su l’uscio, e chiese di che si trattasse.
— Prometto mia figlia, rispose un vecchiotto dalla faccia allegra.
— Ah! una festa di nozze, credeva... cioè... tante grazie; e
s’incamminava via.
— Venga avanti signore, si accomodi, venga a ballare, siam gente
alla buona ma...
— Non conosco alcuno, mormorò Pomponio.
— E che importa? fra galantuomini non si fa complimenti, venga con
me.
Sì dicendo il vecchio prese Pomponio a braccetto, e lo introdusse in
una stanza attigua a quella in cui si ballava.
C’era calca di gente, tutti parenti ed amici degli sposi.
L’allegria non mancava fra quella gente alla buona, si sentiva un
chiaccherio assordante. Il vino correva per le tavole, e buona parte
dei convitati erano già brilli. L’orchestra era composta di un
trombone, un flauto e due violini. Anche i suonatori parevano
ubriachi, strepitavano coi loro strumenti in un modo orribile.
Frattanto la folla si accalcava urtandosi, e nel bel mezzo della stanza,
fra un crocchio di danzatori furibondi che ballavano come dannati,
c’era la sposa, una ragazzona solida con spalle erculee.
Si ballava quella ridda in cui tutti si prendono per mano formando un
cerchio, entro cui si alternano a vicenda coppie danzanti con lazzi più
o meno leciti. Pomponio passando presso quel cerchio turbinoso, vi
fu travolto dentro, ed abbenchè di mala voglia si pose esso pure a
dimenar le gambe, tanto per secondare gli sbalzi dei due che lo
tenevano per mano.
Il giochetto durava già da una mezz’ora, senza che alcuno pensasse
a riposarsi.
I suonatori tiravano dritto che l’era un piacere, e la ridda teneva
saldo, animata da urli e sghignazzate. Pomponio era mezzo morto, le
chiome scomposte gli cadevano sul viso madido di sudore, pur
tuttavia, timido com’era non osava svincolarsi dalle strette dei
danzatori. Tratto tratto spiccava sbalzi che erano più tentativi che
successi, giacchè le sue gambe si ribellavano a quella fatica
inusitata. Oh! quanto costa studiare il mondo, pensava fra sè
sospirando, e frattanto volgeva gli occhi supplichevoli a
quell’inesorabile trombone che continuava intrepido, con l’aria di mai
più finire.
Ad un tratto si udì un grido assordante: evviva la sposa! Questa
difatti compariva allora sul limitare della stanza ed in men che dicesi
fu anch’essa travolta nel cerchio dei danzatori. Tutti se la
baloccavano a vicenda, chi le dava un urtone chi se la premeva al
seno in modo da farla schiattare; ma per fortuna la sposa era una
tarchiatella di tempra ferrea che resisteva a tutto. Anzi pareva che la
vertigine del ballo le svilupasse la forza musculare. Urlava anch’essa
e saltellava come un capretto, e se non si trattasse di una donna,
direi che la pareva brilla.
Pomponio intanto ballava sempre ed era acconciato in un modo
orribile, quando per soprasello gli capitò di esser tratto in lizza dalla
sposa che gli aveva buttato le braccia al collo.
Si rassegnò al destino, lanciò uno sguardo disperato al trombone, e
si abbandonò nelle braccia di quella nerboruta ragazza, la quale
abbenchè assai di lui più piccola, lo baloccava come un ninnolo. La
sposina lo faceva saltare in un modo orribile, ora gli balzava al collo
e glielo scrollava da scavezzarlo, ora si aggrappava alle falde della
sua marsina, cagionandogli lacerazioni. Pomponio trafelante,
spossato, metteva fuori un metro di lingua, e schizzava gli occhi
dall’orbite.
Inconscio di quel che si facesse, e squilibrato dai mulinelli che
gl’imponeva la ballerina, si lasciò cadere quasi morto nelle braccia di
lei. Ma ad un tratto si rivenne dal suo svenimento, mercè un
potentissimo calcio amministratogli per didietro da un fratello della
sposa.
Per un equivoco, si era creduto che Pomponio avesse baciato la
ragazza. Egli si volse come per andarsene via da quel vortice. Inutile
tentativo, tutti gli furono addosso gridando dalli a questo
aristocratico.
Fu per un miracolo che il padre della sposa riuscì a trarlo di là e
rimessogli in testa il cappello tutto sdruscito e pesto, lo accompagnò
sulla porta augurandogli la felice notte.
Poverino, era tutto a sbrendoli.
Eureka!

La scrivo di cuore questa parola che riassume la gioia di uno


scienziato al dileguarsi della nebbia che gli nascondeva un secreto.
— Pomponio, come Galileo, come Archimede, e tanti altri, ebbe
finalmente il suo buon momento.
Dopo la salva di percosse ricevute al ballo della sposa, il povero
giovane fu per alcuni giorni obbligato al letto per calmare le doglie, e
guarir le lividure.
Eppure, malgrado tutto, il povero Pomponio dal suo letto di dolore
non pensava che al soggetto della commedia, e cercava nella sua
mente qualche episodio della vita per trarne argomento.
Frattanto dopo pochi giorni di riposo fu in grado d’alzarsi e
passeggiare per la camera; consultò parecchi libri di novelle,
riepilogò tutti i romanzi che aveva letto, ma nulla valse allo scopo.
Un mattino stanco di starsene in casa si decise di uscirne per far una
passeggiatina. Discese le scale, e mentre stava per fare il primo
passo nella strada, il cane del portinaio gli fu addosso saltellando
giocondamente per esprimergli la sua allegrezza.
Pomponio a quella vista mandò un grido di gioia, abbracciò il cane,
baciollo teneramente poi risalì di volo le scale, entrò nella sua
camera, aperse un cassetto, e trattone un grosso scartafaccio di
carta bianca, vi scrisse in cima a caratteri grossi:
L’AMOR DELLE BESTIE
DRAMMA
Il soggetto era trovato!
La gestazione d’un dramma è sempre penosa, nondimeno Pomponio
si adoprò con tanto ardore che in un mese il lavoro era terminato.
— Parrà straordinario a taluni, ma la è così: un mese fu più che a
sufficienza pel neo-drammaturgo.
Lopez-Vega scriveva una commedia in ventiquattr’ore, e Pomponio
che aveva finalmente trovato il filo, potè in breve scrivere sul suo
lavoro la parola: Fine.
Osanna, il teatro italiano aveva un lavoro di più da aggiungere alla
già splendida corona. Veramente il titolo pare che presti poco
soggetto al dramma di Pomponio; e difatti si trattava di un solo
episodio tirato e trascinato per cinque atti, ma signori miei, la
semplicità è una gran cosa.
Dio fece il mondo con niente, dunque per poco che s’abbia si può
fare un dramma.
Il lavoro era bello e pronto, vi mancava solamente una compagnia
per recitarlo e Pomponio nella sua ingenuità credette cosa facile il
trovare un capocomico disposto in suo favore.
In paese c’erano due compagnie di commedianti, ed un bel mattino
il nostro giovane autore si prese sotto il braccio il suo dramma, ed
andò difilato a suonare il campanello in casa di uno dei direttori.
Una donna scarmigliata e brodolosa venne all’uscio chiedendo
ruvidamente!
— Chi cercate?
— Scusi, signora, mormorò Pomponio, abita il signor Capocomico
Rinaldo?
— Sì.
— Ho bisogno di parlargli.
— Ripassi più tardi, non è ancora alzato, rispose la donna
disponendosi a chiudere.
— Perdono... madamigella, soggiunse tosto Pomponio, se anche
fosse in letto non fa nulla, due sole parole giacchè ho molta
premura.
— Allora si degni di aspettare un momento.
La porta fu rinchiusa, e Pomponio se ne rimase sul pianerottolo, non
troppo edificato dell’accoglienza ricevuta.
Dopo dieci minuti d’aspetto, la porta venne riaperta, e la stessa
donna, collo stesso tono gli disse:
— Venga avanti.
La franchezza di Pomponio era già di molto scemata, e sentivasi in
cuore un certo turbamento che lo sconcertava.
Attraversò una stanzuccia tutta in disordine, entrò in quella da letto,
e fermandosi sulla soglia col cappello in mano, si rivolse al
commediante che stava ancora sotto le coltri, compose la faccia ad
un risolino molto imbarazzato e sclamò:
— Scusi signor Capocomico se...
— Niente, niente, rispose l’altro accennandogli di avanzarsi.
Pomponio arrischiò due passi, indi riprese con voce tremante:
— Mi perdoni la libertà, so che ella è tanto buono.
— Al fatto, favorisca di sbrigarsi chè non ho tempo da perdere.
— Eh capisco... studia sempre.
— Già, ma si faccia più vicino; ho un maledetto raffreddore che mi fa
sordo.
Pomponio fece altri due passi, ma era tutto convulsione, quando fu
proprio presso al letto riprese il filo.
— Dunque, signor Arcibaldo.
— Mi chiamo Rinaldo.
— Ah! è vero... ecco dunque; io ho scritto un dramma.
— Me ne rallegro.
— Grazie... vorrei vederlo rappresentato, epperciò lo portai a lei.
— Ih! Ih! sclamò Rinaldo tirandosi sugli occhi il berretto da notte:
bisogna vederlo questo lavoro, si fa tanto presto a scrivere un
dramma!
Pomponio restò di stucco; il poverino aveva creduto che l’offerta di
un dramma facesse impressione sull’animo di un Capocomico, invece
toccava l’opposto. La poesia dell’arte che era già profondamente
scossa per la vista di quel primo attore scamiciato e sporco, entrò
allora nella fase del più atroce disinganno, il povero Pomponio se ne
restò là impalato, confuso, facendo girare fra le mani il suo
scartafaccio senza trovar parola di risposta. Infine, con un eroico
sforzo disse:
— Volesse avere almeno la compiacenza di leggere questo lavoro.
— Va bene, mettetelo lì sul tavolo; se avrò tempo lo leggerò. Passate
poi per sentire il mio parere.
— Grazie. Quando verrò, domani?
— Che diavolo dite, credete forse ch’io abbia nulla da fare? Venite
fra una ventina di giorni.
— Sta bene, mormorò Pomponio tirando un sospiro, poscia se ne
andò.
Il povero giovinotto aveva il cuore angosciato, ed era a poco per
piangere.
Egli non conosceva i commedianti che dal palco scenico, ed aveva
quasi creduto che costoro vestissero in casa la porpora e la corona.
La berretta del signor Rinaldo, ed il malarnese di quella donna,
avevano soffocato col loro strano contrasto le ingenue credenze del
giovane autore.
Trascorsero finalmente quindici giorni che parvero secoli, ed al
sedicesimo, Pomponio s’incamminò verso l’abituro del capocomico.
Battevano le 11 quando egli tirava la corda del campanello. La solita
donna colla solita toeletta venne ad aprirgli, e lo introdusse nella
stanza del signor Rinaldo che terminava allora di vestirsi.
— Buon giorno, signore.
— Oh! sei tu! giovinotto, vieni, vieni innanzi; sei passato per quel tuo
lavoro.
— Proprio, rispose Pomponio un po’ mortificato per quel tuono
confidenziale del comico.
— Terminai ieri di leggerlo, abbiamo tanto da fare. Figurati tengo
una cinquantina di commedie nuove sul mio tavolo, devo trovar
tempo di leggerle tutte.
— Ebbene, che le pare?
— Senti amico, io sono schietto. Per un primo lavoro non c’è
malaccio, ci sono delle cosettine discrete; ma tu sei all’oscuro
dell’intrigo scenico, ti manca la conoscenza dell’effetto, eppoi è
lungo, troppo lungo, troppe ripetizioni, e basterebbero due atti
invece di cinque. Tuttavia ti ripeto che hai disposizione, ma bisogna
fare e far molto.
Pomponio che aveva il cuore pieno di speranze, fu a poco per cadere
in deliquio, e se non l’avesse trattenuto l’amor proprio si sarebbe
messo a piangere.
Il signor Rinaldo intanto si annodava la cravatta, inconscio delle
torture che infliggeva alla sua vittima, e non sentendo alcuna
risposta, proseguì a trinciar precetti.
— Bada a me, ragazzo, studia la scena, e ricordati che non basta
scarabocchiare della carta per scrivere un dramma. Studiando di
buona voglia per qualche anno, potrai far bene. Oh Dio! io non
vorrei scoraggiarti, ma ti dico di aver pazienza; scrissi anch’io
qualche lavoro e sebbene dell’arte, ho dovuto rassegnarmi
camminando adagino, finchè son venuto quello che son venuto.
Infine sai, noi abbiamo un po’ di praticaccia, abbiamo mano in pasta,
insomma, oh Dio! io me ne intendo. Ti parlo da padre.
— Dunque, sclamò Pomponio dovrò rifare il mio lavoro?
— No no, il soggetto è puerile, sa del collegiale; bisogna farne tanti
finchè si riesca... ed in così dire, gli consegnò lo scartafaccio, e lo
accommiatò.
Se Pomponio avesse avuto del coraggio, si sarebbe buttato giù dalle
scale per rompersi il collo; ma non era del suo carattere una simile
risoluzione. Prese il suo dramma sotto il braccio, e se ne andò a casa
mortificato, avvilito come un cane vagante. Giunto nella sua camera
gettò il dramma in un cantone, poi si mise a letto, perchè aveva la
febbre!
Poverino! egli credette sul serio alla cicalata del Capocomico, e non
s’accorse che il suo dramma nonchè leggerlo, colui non aveva
neanche slegato.
Un simil genere di critica può parer strano a prima vista, ma per
poco che si sappia delle consuetudini odierne, è facile comprendere
che le son cose di tutti i giorni.
Io ho più volte sentito dei giudizii così stracchi su certi lavori da
individui che passano per gente seria, ed alla fine ho dovuto
persuadermi che giudicavano a mosca cieca. C’è un mio amico, un
bravo ragazzo che non ha altro difetto, tranne quello di essere
avvocato, il quale si crede in obbligo di conoscer tutto, e se gli si
domandasse se ha letto i romanzi di Adamo, egli ti spiffera lì su due
piedi un giudizio con un coraggio da leone.
Passata la crisi, Pomponio ricuperò un po’ di coraggio, e pensando
che forse il signor Rinaldo era stato troppo severo, si gettò nel
campo delle ricerche. Il suo dramma passò per mano di cento
Capocomici sempre coll’istessa sorte, e quello sciagurato manoscritto
viaggiò tutta l’Italia senza trovare un’anima caritatevole che
l’accogliesse.
Disperato allora il povero autore, ricorse alla più vile risorsa, a quella
di pagare.
I comici, sordi sempre alla voce dell’arte, hanno in cuore una corda
sensibilissima che si scuote, agita e freme al suono del danaro.
Pomponio, dunque mediante il pagamento anticipato di cento lire,
trovò la compagnia per far recitare il suo parto.
Passo di volo sulle prove che costarono parecchie cene all’autore, e
mi limito a dire che un bel giorno comparve sulle cantonate della
città nativa di Pomponio un gran manifesto che invitava il pubblico
per la rappresentazione del Dramma di un concittadino, col titolo
L’AMOR DELLE BESTIE.
Nemo propheta in patria.

Per tutta quella giornata il povero Pomponio ebbe la febbre


dell’impazienza. Il momento decisivo non era lontano, e tutto
lasciava sperare bene.
Chi mi sa dire l’onda di speranza che cullava la fantasia del povero
autore? egli era certo, certissimo dell’esito, e già sognava una
pioggia di fiori sul suo capo, e quel che è più, quella benedetta croce
tanto desiderata.
Un’ora prima di cominciare, il teatro era zeppo di spettatori.
La curiosità aveva attirato molti amici e conoscenti dell’autore, e
l’avidità di sentire era tanta che non si volle aspettare più oltre, ed il
pubblico proruppe in unanime applauso per invocare la sollecitudine.
Si alzò finalmente il sipario fra un’esclamazione generale, e la prima
parte del primo atto passò sotto silenzio. L’autore era convulso,
febbricitante e trottolava dietro le quinte come uno spiritato.
Il primo atto terminò con una grande risata del pubblico, e certo
quell’ilarità non era troppo a proposito, giacchè il dramma accennava
allora ad un assassinio.
Una metà del secondo atto passò pure inosservata, ma poco dopo
alcuni sbuffi d’impazienza che venivano dalla platea indicavano che il
pubblico non s’interessava gran fatto. Però verso la fine dell’atto
parve che risorgesse un fil di vita, giacchè s’udirono per la prima
volta alcuni fischi che scoppiarono in vari punti dell’uditorio.
La pazienza è virtù dei somari; vero è che bene spesso il pubblico
non ischerza in fatto di tolleranza, ma quando per avventura la noia
comincia ad assalirlo è impossibile evitare una burrasca.
Domandatelo a Pomponio che fu costretto di svignarsela a metà del
terzo atto, e buon per lui che se la cavò senza peggio.
Difatti il pubblico dopo di aver sopportato mezza la produzione, non
ebbe il coraggio di portar più a lungo la sua sofferenza, ed il fischio
che proruppe ad un certo punto fu così spontaneo, unanime, ed
arrabbiato, che si credette prudente calar la tela, e troncare la
rappresentazione.
Io non tenterò certo di salvare il povero Pomponio, me ne guardi il
cielo! Il suo dramma non era cosa sopportabile, e ne fa fede lo
stesso titolo, e l’origine della produzione.
Mi prenderò ben guardia di raccontarvi l’argomento per non
addossarmi le ire della gente.
Basti sapere che il povero Pomponio invece di trionfo e croce, si
ebbe un’apoteosi di fischiate da togliergli la malinconia di scrivere
per il teatro.
Non è dunque sì facile diventar cavaliere? A sentir taluni basta un
raglio d’asino per procurarsi una croce. Alla malora dunque i
maldicenti, poichè infine noi vediamo quanto malagevole sia
guadagnarsi questa distinzione. Nossignori non basta esser ciuco per
giungere a tanto, e se anche così fosse, che prova? La parte
dell’asino è difficile a sostenersi; s’interroghi Lucio Apulejo e si vedrà
che farla da somaro, è spesso più arduo che non si pensi.
Nè va pure obliato l’asino di messer Domenico Guerrazzi, che se tutti
i cavalieri avessero un briciolo appena del senno di quell’arguto
somarello, l’umanità potrebbe andarne lieta.
Per me lo confesso, quando leggo l’orazione funebre che il Casti fa
recitare all’asino, penso che se tutti i discorsi di circostanza fossero
come quello, sarebbe meno penosa la situazione degli ascoltatori.
Insomma anche farla da asino non è agevol cosa, e trovo che si
abusa troppo di questo epiteto applicandolo agli imbecilli.
La catastrofe toccata a Pomponio fu tale, da levargli la mania del
teatro, ma non valse a reprimere quella benedetta voglia di diventar
cavaliere.
La sola sua costanza si meritava la croce, ma sfortunatamente la
fermezza di proposito non è più una virtù in questo secolo del
progresso in cui tutto cammina fra le sfumature bizzare d’una varietà
senza fine.
Dopo alcuni giorni, smessa la vergogna, il povero drammaturgo si
azzardò ad uscire, ma correva a testa bassa come se fosse passato
sotto le forche caudine.
La più gran bestialità al giorno d’oggi si è quella di ricredersi di un
errore e confessarlo, oggimai ci vuol disinvoltura, e se tutti quelli che
fecero fiasco curvassero le spalle sotto il peso della vergogna, il
mondo andrebbe tutto a capo chino.
Se lo potessi vorrei tessere tutta intera la storia dell’infaticabile
ardore posto in opera da Pomponio per ottenere l’ambita croce; ma
tralascio, perchè il lettore assiste pur troppo giornalmente alle
fatiche d’Ercole, di tante nullità che si arrampicano in mille guise per
poggiare in alto. Dirò solo che il nostro eroe nulla lasciò d’intentato,
e che si fece perfino nominare capitano della guardia nazionale.
Il fatto è che a ventotto anni Pomponio si chiamava semplicemente
signor Pomponio.
Il desiderio passò quasi allo stato di manìa, il poverino dimagrava a
vista d’occhio ed una profonda malinconia lo assalì sì fortemente,
che suo padre d’accordo col medico lo consigliò a viaggiare l’Italia
per distrazione.
Pomponio si arrese, ed un mattino partì per alla volta di Firenze, ove
contava di fermarsi un mese, e poi recarsi a Napoli per passarvi
l’inverno.
La forza del Destino.

Quando io penso ai casi fortuiti della vita, alle strane sconfigurazioni


dell’azzardo, non so più negare l’influenza del destino.
Si ha bel dire, tutto è caso, ma signori miei, chiamate caso la
predestinazione e noi saremo d’accordo.
Si vedono delle cose sorprendenti, accadono nella vita certe
mistificazioni che sembrano il risultato d’una tendenza prestabilita.
Per me il caso è più maraviglioso delle leggi che regolano il mondo
anzi appunto perchè desso è l’antitesi della legge, la negazione
dell’ordine naturale, io lo trovo prodigioso.
Il caso che fece fare ad Apelle la spuma colla spugna, e che rivelò a
Galileo la teoria dell’isocronismo del pendolo, ha qualche cosa di sì
straordinario, che mi stordisce. — Ma torniamo a Pomponio.
Le meraviglie artistiche di Firenze, il delizioso clima, ed il cielo
sorridente valsero ben poco a lenire le sofferenze di quell’infelice che
già da qualche giorno vagolava per quelle vie terribilmente annoiato.
Aveva colà uno zio, ma tanta era la sua apatia che non si curò
neanche di cercarlo.
Verso il tramonto di una bella giornata, Pomponio passeggiava
sbadatamente in Lungarno, quando girando gli occhi sui balconi di
un elegante palazzina incontrò lo sguardo di una bella signora che
stava godendosi lo spettacolo della passeggiata.
— È superfluo estendersi in descrizioni, la signorina in discorso era di
una rara bellezza ed aveva un paio d’occhi da ammaliare mezzo
mondo. Mi affretto a dichiarare che Pomponio era un discreto
giovinotto elegantemente vestito. — Arrogi quel suo pallore che lo
rendeva molto interessante, talchè la signorina del balcone, arrestò
per qualche tempo lo sguardo sopra di lui. Egli se ne accorse e fu
assalito da tanta confusione, che arrossì fin nel bianco degli occhi,
ed il suo cuore palpitò fortemente.
Il nostro giovinotto, rapito, entusiasmato da quello sguardo di fuoco,
stette a guardare la signora finchè la convenienza lo permetteva,
indi, sebbene a malincuore proseguì la sua strada volgendosi di
tratto in tratto all’indietro. Camminando in quella guisa colla testa
quasi sempre rivolta, non s’avvide di un signore dal grosso ventre
che veniva verso di lui con aria molto preoccupata.
Entrambi si urtarono, e con tanta violenza che il cappello di
Pomponio rotolò a molti passi lontano.
— Perdono, mormorò egli correndo dietro al suo cilindro.
— Diamine, badi ove manda le gambe! brontolò il grasso signore,
ma appena il giovane rialzò la testa, il panciuto mandò una grande
esclamazione.
— Pomponio, tu qui?
— Zio, siete voi!
— Oh lascia che t’abbracci, e sì dicendo lo zio senza curarsi di essere
sulla pubblica strada, saltò al collo del nipote, che rimase alquanto
confuso per quella eccessiva tenerezza.
— Come, birbo! tu sei a Firenze, ed io ne sapeva niente? — Oh
Dio.... buono!
— Perdonatemi zio, aveva perduto l’indirizzo.
— E ci sei venuto senza accorgertene.
— Come?
— Io abito in quella palazzina.
— Là dove c’è quella signora?
— Precisamente, siamo vicini e buoni amici.
— Ah zio, conducetemi in casa vostra.
— Andiamo. E zio e nipote prendendosi a braccetto, rifecero la
strada, ed entrarono nel portone non senza che però Pomponio
lanciasse uno sguardo di soddisfazione alla bella signora, che era
stata testimonio della scena.
— Passo di volo su taluni incidenti di nessun rimarco. È facile
d’altronde supporre l’argomento della conversazione fra zio e nipote.
Pomponio dopo fatto l’elogio all’appartamento si avanzò timidamente
sul balcone, e trovossi a pochi metri distante dalla signora che aveva
tanto ammirato.
Arrossì a quella vista, e lo zio che era uomo di mondo, non durò
fatica a comprendere.
— Bella signora, n’è vero?
— Oh molto! rispose Pomponio.
— Se ti fermi farai la sua conoscenza... è tanto amabile; in così dire
lo zio fece un grand’inchino alla signora.
Pomponio per secondarlo, si scopri il capo, ma lasciò cadere il
cappello sulla strada.
— Ohè! sclamò lo zio, mio caro, patisci forse di nervi? poco fa mancò
poco che tu mi facessi stramazzare, ora butti il cappello giù dal
verone.
— Perdonate zio, la distrazione...
La signora intanto erasi ritirata, forse per uno sfogo d’ilarità.
Comunque fosse, è innegabile che Pomponio per un primo incontro
aveva già guadagnato terreno.
Se io volessi dir tutto per filo e per segno non la finirei più, ma non
essendo di quei cotali che scrivono a un tanto per pagina, così evito
amplificazioni inutili.
A che scopo narrare tutte le vicende per le quali il povero Pomponio
restò vittima inconsolabile di un amore ardentissimo? L’anima sua
aveva finalmente trovato la gemella; non più solitudine, sospironi
sparati al vento, non più malinconie, ma strette di mano espressive,
sguardi di fuoco, urti di ginocchio, pestate di piedi... con quel che
segue.
Non occorre dirlo, l’oggetto di Pomponio era la signora del balcone,
la vezzosa vedovella per la quale aveva fiaccato il ventre dello zio e
buttato il cappello sulla strada.
Si chiamava Allegra, aveva ventisette anni, una bella faccia, due
grand’occhi bruni, una taglia provocante, un piedino d’angelo, una
dote di cinquantamila lire, ed una gran voglia di rimaritarsi.
Cospettone! con tanta roba in vetrina non mancano avventori; ed
Allegra ne aveva molti, e fra questi un cugino alquanto attempato,
ma personaggio importante influentissimo nei circoli diplomatici.
A questo punto mi tocca far violenza alla mia verecondia per vincerla
su certi scrupoli che mi inceppano la penna; già si sa che la
coscienza non deve far pressione sull’animo dello scrittore, ma io
poveraccio non ho ancora quel coraggio civile che è necessario in
questi casi.
Mi dà una gran pena questo dover ad ogni tratto sollevare il velo di
qualche mistero, ma mio Dio! quelle buon’anime di lettori sono così
curiosi! Tant’è, prima dello scrittore il mondo ha già menato la
lingua; prima della maldicenza scritta c’è la maldicenza parlata che
vola sommessamente di bocca in bocca, ed alla fine scoppia come il
colpo di cannone di Don Basilio.
Questa volta però non si tratta di calunnia, ma sibbene d’un fatto
che se non si può giurare, si può per altro credere.
La buona gente di Firenze aveva già scagliato la pietra sulla
vedovella che si lasciava troppo proteggere dall’influente cugino. Si
diceva che costui dalla morte del marito aveva spiegato un’assiduità
rimarchevole colla moglie. Furono veduti parecchie volte a spasso
nei dintorni della città, fuori di porta, ed infine una cameriera di
madama avrebbe confidato al suo damo che il cugino aveva libero
accesso nella stanza da letto della signora.
Ci credete voi signori?
Questo scellerato mondo è tanto perfido, che davvero non so come
regolarmi, quando lo sento mormorare.
Notisi inoltre che se la vedova si lasciava consolare, era nel suo
pieno diritto di farlo. Oh che! perchè il marito muore, dovrà la
consorte vestire il lutto eterno? dovrà essa legare la sua gioventù e
sacrificarla alle magre reminiscenze di un passato che è passato? No
certo. Si piange per un anno, qualche visita al cimitero colla serva, e
forti sospiramenti quando si parla del defunto; intanto la vedova
ingrassa, e poco dopo passata la furia del dolore di circostanza, si
riaprono le sale agli amici del defunto marito, i quali si credono tutti
in diritto di dar dei consigli alla vedova.
Oh! l’amicizia. Gli scettici la dicono una parola vana, ed è ancor poco
se non la chiamano addirittura un’ipocrisia.
Consolare gli afflitti è uno dei doveri del buon cristiano, ed in fede
mia, non saprei trovare opera più generosa e piacevole di quella di
asciugare le lagrime ad una giovane vedovella.
Ma andate mo’ a far sfoggio di questi buoni sentimenti, vi rideranno
sul muso. Mi ricordo d’aver visto i funerali di un povero marito
accompagnato da un corteo di pietosi amici tutti in lagrime, e ricordo
ancora che mi sentii profondamente commosso. Uno poi fra gli altri
tanti che accompagnavano il feretro, aveva un’aria così addolorata
che era una pietà il vederlo. Ebbene, mentre me ne stava pensoso
ad osservare, sentii dietro di me il seguente dialogo:
— Veh! il signor B.... che aria afflitta.
— Ah! che ridicolo!
— Che impostore. Figurati che colui fa una corte spietata alla
vedova; è l’ombra del suo corpo, e giurerei che presto farà le veci
del defunto.
È una birbonata, non è vero? — eppure se io non fossi più che
ottimista, ora, dopo passato qualche tempo, sarei tentato di credere
che quel briccone avesse ragione.

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