Storia Delle Eresie Colle Loro Confutazioni - Liguori

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Il tg 63 º
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S o A

DE E E R Es E
col loro confutazioni

10

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Fogli di pagine a
cent per foglio, Ital lir a 84
Coperta e legatura gratis - -

ital lir 2 84

- Spese di porto -
-

Per non associati lir o

- Sotto i torchi -

i alla morte, cioè consi


derazioni sulle massime eterne -
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S T O R I A

D E IL L E E R E SI E.
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S.T O R I A

D E IL L E E R E S I E

COLLE LORO CONFUTAZIONI

O P E R A

DEL

BEATO ALFONSO MARIA DE LIGUORI.


-

T O M O T E R Z O.

M ONZA
PER L U C A C o R B E T TA

1825.
aln.1 tilt ,
REG l A
MONACENSlº
Ss - 2A
-- -
5

co N FUT Az I O N E I.

ERESIA DI SABELLIo ,
CHE NEGAVA NELLA TRINITA'
LA DISTINZIONE DELLE PERSONE,

I L. chiesa cattolica insegna che in Dio


vi è una natura e tre persone distinte. Ario,
della cui eresia parleremo nella confutazione
seguente, ammettea nella Trinità la distin
zione delle persone, ma dicea che le tre
persone aveano tra loro diverse mature, op
pure, come diceano gli Ariani posteriori,
che le tre persone erano di tre nature di
stinte. Sabellio all' incontro corſessava in
Dio una sola esser la natura, ma negava la
distinzione delle persone, dicendo che Iddio
solo in quanto alla denominazione vien di
stinto col nome or di Padre, or di Figliuo
lo, or di Spirito Santo, per significare i di
versi effetti della divinità ; ma in se stesso
siccome è una la matura, una ancora è la
persona. L' eresia di Sabellio prima fu in
segnata da Prassea, il quale fu confutato da
Tertulliano con un libro a parte. Nell'anno
poi 257 la stessa eresia fu abbracciata da
6
Sabellio (1), che maggiormente la promulgò
nella Libia; e Sabellio fu indi seguitato da
Paolo Samosateno. Costoro negavano la di
stinzione delle persone e per conseguenza
anche la divinità di Gesù Cristo: e perciò
i Sabelliani, come scrisse S. Agostino (2),
furono chiamati Patripassiani; mentre, non
confessando in Dio se non la sola persona
del Padre, dovevano conseguentemente dire
ch'esso Padre si era incarnato, ed avea pa
tito per la redenzione umana. L'eresia di
Sabellio dopo essersi da lungo tempo estinta,
fu rinnovata da Socino, alle cui opposizioni
anche risponderemo in questa dissertazione.
S. I.
SI PROVA LA DISTINZIONE REALE

DELLE TRE PERSONE DIVINE -

2e I, primo luogo si prova la pluralità e


la distinzione reale delle tre persone nella
divina natura dal Testamento vecchio, e per
1.º da quelle parole della Genesi: Faciamus
hominem ad imaginem et similitudinem no
stram, Gen. cap. 1. 26. ; e nel capo 5. 22. si
dice: Ecce Adam quasi unus ex nobis factus
est; e nel capo 1 1. 7. : Venite igitur, de
scendamus, et confundamus ibi linguam eorum.
(1) Euseb. Hist. Eccl.
(2) S. August. Tract. 26. in Joan.
7
Ecco come colle parole facianus, descenda
mus, confundamus è spiegata la pluralità delle
persone. Poichè tali parole non possono in
tendersi della pluralità delle nature, giacchè
dalla stessa Scrittura consta non esservi che

un Dio: ma se vi fossero più nature divine,


vi sarebbero più Dei; dunque le dette pa
role debbono intendersi della pluralità delle
persone. Ben riflette Teodoreto (1) con Ter
tulliano che Iddio disse in numero plurale
faciamus, per dinotare la pluralità delle per
sone; disse poi in numero singolare ad
imaginem, non già ad imagines, per signifi
care l'unità della natura divina.
5. Oppongono a questa prova i Sociniani
per 1º che Dio parlava in plurale per ono
re di sua persona, siccome parlano i re,
allorchè danno qualche ordine. Si risponde
che i re parlano in plurale ne' loro editti:
Vogliamo, comandiamo, perchè allora rap
presentano tutta la repubblica; ma non par
lano così quando ſavellano delle loro azioni
personali: v. gr., non dice il re : Noi dor
miamo, noi camminiamo ec. Nè Dio parlò
di qualche comando, quando disse: Ecce
Adam quasi unus ex nobis factus est. Op
pongono per 2 º che Dio non parlò allora
colle altre persone divine, ma cogli angeli.

(1) Theodor. qu. 19 in Gen.


8
Ma deridono Tertulliano, S. Basilio, Teo
doreto e S. Ireneo (1) questa vana oppo
sizione; mentre le stesse parole ad imagi
nem et similitudinem nostram la ributtano ;
poichè l'uomo non è fatto ad immagine de
gli angeli, ma di Dio stesso. Oppongono
per 5.º che Dio parlò seco stesso allora,
quasi come eccitandosi a creare l'uomo , a
guisa d'uno statuario che dicesse: Su via
facciamo la statua. S. Basilio (2) rigettando
questa opposizione contro i giudei, dice :
Quis enim faber inter sua artis instrumenta
desidens, sibi ipsi admurmurat dicens: Facia
mus gladium ? E vuol dire il Santo che, di
cendo Dio Faciamus, non potea dirlo a se
stesso, se non vi era altra persona, con cui
parlasse; poichè niuno parlando a se mede
simo dice Facciamo: dicendo dunque Fa
ciamus, è chiaro che parlava colle altre di
vine persone. - -

4. Si prova per 2.º dalle parole del sal


mo 2 verso 7: Dominus dixit ad me: Fi
lius meus es tu, ego hodie genui te. Qui si
parla del Padre che genera il Figlio e del
Figlio che è generato, al quale nel salmo
stesso fu fatta la promessa: Dabo tibi gentes
(1) Tertull. lib. contra Prax. cap. 12. S. Basil.
tom. 1. Hom. 9. in Hecamer. qu. 19. in Gen. S.
Irenaeus lib, 4. num. 37.
(2) S. Basil. loc. cit. pag. 87.
9
hereditatem tuam et possessionem tuam termi
nos terrae. Ecco qui chiaramente distinta la
persona del Figlio da quella del Padre; men
tre non può dirsi della stessa persona che
generi e sia generata. E che tali parole s'in
tendano di Cristo Figlio di Dio, sta dichia
rato da S. Paolo: Sic et Christus non seme
tipsum clarificavit, ut pontifex fieret; sed qui
locutus est ad eum : Filius meus es tu, ego
hodie genui te. Hebr. 5. 5.
5. Si prova per 5.º dal salmo 1og. 1: Dixit
Dominus Domino meo: Sede a deartris meis.
Di questo stesso appunto si valse il Salva
tore per convincere i giudei, e far loro cre
dere ch' egli era vero Figlio di Dio, inter
rogandoli di chi mai essi stimassero che
Cristo fosse Figlio: Quid vobis videtur de
Christo? cufus filius est ? Matth. 22. 42. Ri
sposero i Farisei: Di Davide – Ma, repli
cò il Signore, come Davide chiamò Cristo
Signore, giacchè Cristo era suo figlio? Si ergo
David vocateum Dominum, quomodo filius
ejus est ? Ibid. v. 45. E con ciò volle dimo
strare che Cristo, benchè figlio di Davide,
era nondimeno suo Signore e Dio parimen
te, com'era Signore il suo eterno Padre.
6. Del resto nell' antica legge non ſu
espressa più chiaramente la distinzione delle
divine persone, acciocchè i giudei, ad esem
pio degli Egizi che adoravano più Dei, non
A 5
Io

giudicassero che nelle tre persone divine vi


fossero tre essenze di Dio. Ma nel nuovo
Testamento, per mezzo del quale furon chia
mati i gentili alla fede, sta troppo chiara
mente espressa la distinzione delle tre per
sone nell'essenza divina. Secondo dunque il
nuovo Testamento questa distinzione si pro
va per 1.º dal testo di S. Giovanni : In
principio erat Verbum, et Verbum erat apud
Deum, et Deus erat Verbum. Joan. 1. 1.
Dicendosi : et Verbum erat apud Deum, di
chiarasi che il Verbo è distinto dal Padre :
poichè di niuno ente può dirsi che sia ap
presso se stesso. Non si può dire all'incon
tro che fosse distinto per natura; mentre
si dice che il Verbo era Dio et Deus erat
Verbum; dunque dee dirsi distinto per la
persona, come ben argomentano Tertulliano
e S. Atanasio (1). Di più nello stesso capo
dicesi appresso: Vidimus gloriam eius, gloriam
quasi unigeniti a Patre. Niuno può dirsi fi
glio unigenito di se stesso; dunque il Figlio
è realmente distinto dal Padre.
7. Si prova per 2.º dal precetto dato agli
Apostoli: Euntes ergo docete omnes gentes,
baptizantes eos in nomine Patris et Filii et
Spiritus Sancti Matth. 28. 19. La parola in

(1) Tertull advers. Prax. cap. 26. S. Athanas.


Orat. contra Sabell. gregal.
-
I

nomine, dimota l'unità della natura, signifi


cando essere il battesimo una sola operazio
ne di tutte le tre nominate persone; e poi
la distinta appellazione di ciascuna esprime
apertamente la loro distinzione. Se poi que
ste tre persone non fossero Dio, ma creatu
re, ne seguirebbe l'assurdo che Cristo avreb
be sotto lo stesso nome eguagliate le crea
ture a Dio.

8. Si prova per 5.º col testo di S. Gio


vanni: Philippe, qui videt me, videt et Pa
trem... Et ego rogabo Patrem, et alium
paraclitum dabit vobis. Joan. 14. 9. et 16.
Colle parole qui videt me, videt Patren,
si dimostra l'unità della natura divina, e
colle altre, et ego rogabo etc. la distinzione
delle persone; poichè la stessa persona non
può essere insieme Padre, Figliuolo e Spi
rito Santo. Ciò maggiormente si spiega colle
parole del capo 15 verso 26: Cum autem
venerit Paraclitus, quem ego mittam vobis
a Patre, Spiritum veritatis, qui a Patre pro
cedit, ille testimonium perhibebit de me.
9. Si prova per 4.º col testo dello stesso
S. Giovanni al verso 7 della sua epist. I
nel capo 5 : Tres sunt qui testimonium dant
in coelo : Pater, Verbum et Spiritus Sanctus,
et hi tres unum sunt. Non vale qui opporre
che il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo
solo nel nome si distinguono, ma non già
12

nella cosa: perchè se la distinzione fosse solo


nel nome, non sarebbero tre testimoni, ma
un solo; il che ripugna al testo. I Sociniani
si affaticano a storcere quanto possono la
verità ed il senso di questo testo, che trop
po chiaramente esprime la distinzione delle
tre divine persone. Oppongono che in mol
ti codici manca il detto settimo verso, o
almeno si trova dimezzato. Ma si risponde
con Estio, nel commentario ch'egli fa al te
sto riferito di S. Giovanni, che Roberto Ste
fano nella sua elegante edizione del nuovo
Testamento rapporta che dei 16 antichi esem
plari greci, raccolti dalla Francia, dalla Spa
gna e dall'Italia, in soli sette mancan so
lamente le parole in coelo, ma vi è tutto il
resto. I dottori di Lovanio di quel gran nu
mero de manoscritti della Scrittura che ri
conobbero nel 158o per l'edizione della Vol
gata attestano che in cinque soli non si
legge, o non si trova intiero il suddetto 7
verso (1). E facilmente ne codici, ove si
vede mancante il testo citato, ciò avvenne
per abbaglio de'copisti, che, errando cogli
occhi, confusero il 7 col verso 8; mentre i
detti due versi dicono così : Tres sunt qui
testimonium dant in coelo : Pater, Verbum

(1) Vedi Tourn. Theol. Comp. tom. 2. qu. 3.


pag. 41. e Gioven, Theol. tom. 3, cap. 2. vers. 5.
15

et Spiritus Sanctus, et hi tres unum sunt.


Vers. 7. Et tres sunt qui testimonium dant
in terra: spiritus et aqua et sanguis : et hi
tres unum sunt Vers 8. È stato facile l'ab
baglio di occhi nell' aver prese le parole
del verso 8 testimonium dant in terra in
vece di quelle del verso 7 testimonium dant
in coelo. Del resto è certo che in molti esem
plari antichi, anche greci, ed in tutti i latini
il verso 7 ben si legge intiero, o almeno
si legge supplito al margine; ed all'incon
tro sappiamo che molti Padri l'hanno citato,
come S. Cipriano, S. Atanasio, S. Epifanio,
S. Fulgenzio, Tertulliano, S. Girolamo, Vit
tore Vitense (1). Ma sopra tutto abbiamo il
concilio di Trento, che nel decreto delle
scritture canoniche alla sessione IV. comanda
di ricevere ciascun libro dell'edizione Volga
ta con tutte le sue parti che soglion leggersi
nella chiesa: Si quis autem libros ipsos inte
gros cum omnibus suis partibus, prout in ec
clesia catholica legi consue erunt, et in veteri
vulgata latina editione habentur, pro sacris et
canonicis non susceperit... anathema sit. E
il citato 7 verso già più volte si legge nella
(1) S. Cypr. lib. 1. de Unit. Eccl. S. Athanas.
lib. 1. ad Theoph S. Epiph. Haer. S. Fulg. lib.
contra Arian. Tertull. lib. ade. Prax. 25. S. Hier.
( aut auctor ) Prol ad epist. canon. Vitens.
lib. 3. de Pers. Afr.
I4
chiesa e specialmente nella domenica in
Albis.
1o. Ma dicono i Sociniani: da questo
testo di S. Giovanni non si può provare che
in Dio vi sono tre persone distinte ed una
sola essenza. E perchè ? Udiamone la ragio
ne. Dicono: perchè le parole del settimo
verso et hi tres unum sunt non significano
altra unità che l'unità di testimonianza,
come la significano le parole del verso ot
tavo: Tres sunt qui testimonium dant in terra:
Spiritus et aqua et sanguis: et hi tres unum
sunt ; cioè conveniunt in unum, convengono,
secondo noi, a provare che Cristo è vero
Figlio di Dio: della qual cosa parlava già
S. Giovanni, e dicea che ciò vien testifica
to dall'acqua del battesimo, dal sangue spar
so da Gesù Cristo e dallo Spirito Santo
che l'insegna colle sue illustrazioni, secon
do spiegano S. Agostino, S. Ambrogio, il
Lirano ec. presso Tirino, il quale ributta la
spiegazione di un autore anonimo, che in
terpreta per l'acqua, l'acqua che uscì dal
lato del Signore, per il sangue, il sangue
che sgorgò dal suo cuore ferito dalla lancia,
e per lo spirito, l'anima di Gesù Cristo. Ma
veniamo al punto. Io non so come possa
trovarsi opposizione più inetta di questa che
fanno i Sociniani, cioè che dalle notate parole
di S. Giovanni Pater, Verbum et Spiritus

Sanctus, non può provarsi la distinzione delle


persone, perchè tali persone unum sunt, cioè
fanno una sola testimonianza, e dinotano
con ciò che sono una sola essenza. Ma noi
rispondiamo che qui non si tratta di prova
re che Dio sia uno, cioè una essenza, e
e non tre essenze; di questa verità gli stes
si contrari non ne dubitano; oltrechè ella si
prova da mille altri testi della Scrittura da
essi medesimi addotti, come vedremo qui
appresso. Onde, dato che le parole unum
sunt non dinotassero altro che l'unita della
testificazione , essi che ricavano da ciò ?
Il punto dunque di cui si tratta non è se
dal testo di S. Giovanni si provi l'unità
dell'essenza divina, ma se si provi la di
stinzione reale delle divine persone: e ciò
non so come possa negarsi; mentre dice San
Giovanni: Tres sunt qui testimonium dant in
coelo : Pater, Verbum, et Spiritus Sanctus.
Se sono tre che fan testimonianza, dunque
non è una persona, ma tre realmente distin
te; e ciò è quel che incombe a noi qui di
provare. Su questo punto ho trovate presso
gli altri autori diverse risposte ; ma a me
pare che questa sia la più propria che deb
ba darsi e la più convincente contro i So
ciniani.
I 1. Di più si prova la distinzione reale
delle divine persone dalla tradizione de santi
16
Padri, che di unanime consenso ci hanno
insegnata questa verità. Ma per evitare gli
equivoci, bisogna qui premettere che nel se
colo IV, verso l'anno 58o vi fu una gran
contesa nella chiesa anche tra i santi Padri
sulla parola Ipostasi, e si fecero due parti
ti: quelli ch'erano uniti con Melezio di
ceano doversi dire che in Dio vi sono tre
ipostasi: ma quelli che seguivano Paolino
diceano doversi dire una sola ; onde poi
quelli di Melezio chiamavano Sabelliani i
seguaci di Paolino, e quelli di Paolino chia
mavano Ariani i seguaci di Melezio. Ma tut
ta la contesa nascea dall'equivoco della pa
rola Ipostasi: perchè alcuni Padri la inten
deano per l'essenza o sia natura divina, cioè
quelli del partito di Paolino e quelli del par
tito di Melezio la prendeano per la persona;
e lo stesso equivoco cadea sulla parola Ousia,
che anche prendeasi per essenza e per per
sona. Perlochè quando nel sinodo di Ales
sandria si spiegarono i termini, presto si
accordarono i due partiti; e d'allora in poi,
secondo l'uso sin oggi continuato, per la
parola Ousia s'intende l'essenza, e per la
parola Hrpostasis s'intende la persona. Del
resto il dogma che in Dio vi sia una es
senza e tre persone realmente distinte, ol
tre di S. Cipriano, S. Atanasio, S. Epifa
mio, S. Basilio, S. Girolamo, S. Fulgenzio
17
citati di sopra al num. 9, l'insegnano S. Ila
rio, S. Gregorio Nazianzeno, S. Gregorio
Nisseno, S. Gio. Grisostomo, S. Ambrogio,
S. Agostino, S. Gio. Damasceno ec. (1). E
parlando anche de'Padri del primi tre secoli,
si adducono S. Clemente, S. Policarpo, Ate
magora, S. Giustino, Tertulliano, S. Ireneo,
S. Dionigi Alessandrino e S. Gregorio Tau
maturgo (2). La stessa verità poi sta dichia
rata e confermata da molti concili generali,
dal Niceno ( in Srmbolo Fidei ), dal Co
stantinopolitano I. ( in Srmb.), dall'Efesino
( Act. 6. ), ove si confermò il simbolo Ni
ceno, dal Calcedonese ( in Srmb. ), dal Co
stantinopolitano II. ( Act. 6. ), dal Costan
tinopolitano Ill. ( Act. 17. ) e Costantino
politano IV. ( Act. 1o. ), dal Lateranese
IV. ( cap. 1. ), dal Lionese II. ( Can. 1. ),
dal Fiorentino, nel decreto dell' unione, e
finalmente dal Tridentino, che approvò il
Costantinopolitano I. colla voce aggiunta di
(1) S. Hilar. in 12. lib. S. Gregor. Nazianz. in
plur. Orat. Nyss. Orat. contra Eunom. S. Chrys.
in 5. Hom. S. Ambr. lib. de Spir. Sanct. S. August.
lib. 15. Joan. Dam. lib. 1. de Fide.
(2) S. Clem. Epist. ad Corinth. Poly earp. Orat.
in suo Martyr apud Euseb. lib. 4. Hist. cap. 14.
Athenag. Legat. pro Christ. S. Justin. Apol. pro
Christ. S. Iren. in eſus Oper. Tertull. contra
Prax. Dionys. Alex. Epist. ad Paul. Samos. S.
Greg. Thaum. in Expos. Fidei.
18
Filioque. Si aggiunge che questo dogma già
confessato da cristiani era noto anche a gen
tili, i quali opponeano a cristiani, che an
che essi adoravano tre Dei; come consta da
quel che scrisse Origene contro Celso e San
Giustino nella sua Apologia. Se i cristiani
non avessero fermamente creduto alla divi
nità di tutte e tre le divine persone, avreb
bero risposto a gentili che fuori del Padre
le altre due persone non le aveano per Dio:
ma no, costantemente e senza timore di
ammettere più Dei, confessavano che il Fi
gliuolo e lo Spirito Santo erano egualmente
Dio, come il Padre ; perchè, quantunque
fossero col Padre tre persone distinte, una
però era la loro essenza e natura. Ciò fa
constar più chiaramente che questa era la
fede del primi secoli.
S II.
SI RISPONDE ALLE OBBIEZIONI,

12, Oroscoso per 1.º i Sabelliani più


testi della Scrittura, ove si dice che Dio è
un solo: Ego sum Dominus, faciens omnia,
extendens caelos solus, stabiliens terram; et
nullus mecum Isa. 44 24. Ecco, dicono, che
il Padre pronunzia di essere stato solo nel
creare il mondo. Si risponde che le parole
Ego Dominus non si riferiscono solamente al
19
Padre, ma a tutte le tre persone, che sono
un Dio ed un solo Signore. In altro luogo si
dice : Ego Deus, et non est alius. Isa. 45.
22. Così parimente si risponde che la paro
la Ego non dinota la sola persona del Pa
dre, ma anche quella del Figlio e dello
Spirito Santo, perchè tutte sono un solo
Dio : dicesi poi non est alius, per escludere
tutte le altre persone che non sono Dio. Ma
ecco, replicano, una Scrittura, ove si dice
che l'uno Dio è solo il Padre: Vobis tamen
unus Deus, Pater, ex quo omnia, et nos
in illum: et unus Dominus Jesus Christus,
per quem omnia, et nos per ipsum. 1. Cor.
8. 6. Si risponde che ivi l'Apostolo ammae
strava i fedeli a credere un solo Dio in tre
persone, contro i gentili, che in più perso
ne adoravano più Dei. Siccome poi crediamo
che Cristo chiamato da S. Paolo unus Do
minus non è il solo Signore ad esclusione
del Padre; così il Padre chiamato unus Deus
non dobbiamo credere che sia un solo Dio
ad esclusione di Cristo e dello Spirito San
to. Dicendo pertanto l'Apostolo unus Deus
Pater, s'intende dell'unità di natura, non
già di persona.
15. Si oppone per 2 º che la stessa ragion
naturale ci dimostra che, siccome tra gli uo
mini tre persone costituiscono tre diver
se umanità individue, così in Dio le tre
2o

persone, se fossero realmente distinte, costi


tuirebbero tre Deità diverse. Si risponde che
i divini misteri non debbono da noi giudi
carsi secondo la nostra corta ragione umana;
eglino sono infinitamente superiori alla no
stra capacità. Si inter nos et Deum nihil est
discriminis, dice S. Cirillo Alessandrino (1),
divina nostris metiamur; sin autem incom
prehensibile est intervallum, cur naturae nostra
defectus normam Deo praefiniunt? Perciò se
noi non giungiamo a comprendere le cose
divine, dobbiamo adorarle e crederle ; ed
acciocchè siam tenuti a crederle, basta che
non le conosciamo evidentemente opposte
alla ragione. Siccome poi non possiamo com
prender la grandezza di Dio, così neppure
comprender possiamo il modo com'egli esi
sta. Ma come, dicono, possiamo credere che
tre persone realmente distinte siano un solo
Dio e non tre Dei? La ragion che ne as
segnano i santi Padri è questa: perchè uno
è il principio della divinità , cioè il Padre
che da niuno procede, mentre le altre due
persone procedono da esso, ma procedono
in modo che non lasciano di esistere in esso,
come disse Gesù Cristo : Pater in me est,
et ego in Patre. Joan. 1o. 58. E questa è la
differenza tra le persone umane e le persone

(1) S. Crrill. Alex. lib. 11. in Joan. pag. 99.


2 I

divine. Tra noi tre persone costituiscono tre


sostanze diverse; perchè, sebbene sono della
stessa specie, nondimeno sono tre sostanze
individue e singolari, anzi tre singolari ma
ture, mentre ciascuna persona ha la sua ma
tura particolare. Ma in Dio la natura, o sia
la sostanza non è divisibile, ma è affatto sin
golare di una sola divinità; e perciò le per
sone, benchè siano tre realmente distinte,
perchè poi hanno la stessa natura e la stessa
sostanza divina, costituiscono una sola divi
nità ed un solo Dio.
14. Si oppone per 5.º la regola ricevuta
da filosofi : Quae sunt eadem uni tertio, sunt
eadem interse. Dunque, dicono, se le per
sone divine sono la stessa cosa colla matura
divina, sono anche la stessa fra di loro, e
non possono realmente distinguersi. Potrem
mo rispondere, come di sovra, che que
sto assioma filosofico vale per le cose create,
non già per le divine. Ma vi è la risposta
diretta e chiara: l'assioma suddetto corre in
quelle cose che convengono coll' uno terzo
e con loro stesse, ma non già dove non
convengono in tutto fra di loro. Le persone
divine convengono bensì in tutto nella divina
essenza, e perciò sono lo stesso fra di loro
in quanto alla sostanza; ma perchè in quanto
alla personalità non totalmente convengono,
per ragion dell'opposizione relativa che vi è
:
22

tra di loro, giacchè il Padre comunica la


sua essenza alle altre due persone, e queste
la ricevono dal Padre, perciò realmente è
distinta la persona del Padre da quella del
Figliuolo e da quella dello Spirito Santo,
che riceve l'essere dal Padre e dal Figliuolo.
15. Si oppone per 4 º che la persona di
vina è infinita, dunque è unica; giacchè
unico è l'infinito in ogni genere di perfezio
ne : e da ciò si prova che non possono es
servi più Dei fuori di uno; perchè altrimenti
l'uno non possederebbe tutta la perfezione
dell'altro, e così non sarebbe nè infinito,
nè Dio. Si risponde che, sebbene per la in
finità di Dio non possono esservi più Dei;
non però dalla infinità della persona divina
nel nostro Dio non ne siegue che non pos
sano esservi più divine persone; perchè in
Dio, benchè sieno le tre persone distinte,
ciascuna nondimeno per l'unità dell'essenza
contiene tutte le perfezioni delle altre. Ma
il Figliuolo, dicono, non contiene la perfe
zione del Padre di generare, e lo Spirito
Santo non ha la perfezione che hanno il
Padre ed il Figliuolo di spirare; dunque
non è infinito il Figliuolo, come è il Pa
dre, nè lo Spirito Santo ha le perfezioni
che hanno il Padre e il Figliuolo. Si ri
sponde che la perfezione di tutte le cose
è quella che compete a ciascuna secondo la
23

sua natura; ond'è che siccome la perfezione


del Padre è di generare, così secondo la
natura divina la perfezione del Figliuolo sta
nell'esser generato, e quella dello Spirito
Santo nell' essere spirato. Essendo poi que
ste perfezioni relative, non possono esser le
stesse in ciascuna persona; altrimenti cesse
rebbe la distinzione delle persone, e cesse
rebbe la perfezione della natura divina, la
quale esige che le persone siano tra esse
realmente distinte, e l'essenza a ciascuna
di loro sia comune. Replicano: ma questi
quattro nomi di essenza, di Padre, di Fi
gliuolo e di Spirito Santo non sono nomi
sinonimi; dunque sono quattro cose distin
te, e perciò in Dio non solo vi è la trinità,
ma anche la quaternità. Ma quanto è ridi
cola la opposizione, tanto è chiara la rispo
sta. Sì, i suddetti quattro nomi non sono
già sinonimi, ma non per ciò l'essenza è di
versa e distinta dalle persone: l'essenza di
vina è una cosa assoluta, ma comune a tut
te le tre divine persone; le tre persone poi
sono distinte fra di loro, ma non sono di
stinte dall'essenza, perchè l'essenza è in
eiascuna delle tre persone, come dichiarò
il concilio Lateranese IV. nel canone 2 : In
Deo trinitas est, non quaternitas; quia quae
libet trium personarum est illa res videlicet
essentia, sire natura divina, qua sola est
24
alme
universorum principium, praeter quod aliud
inventri non potest. la pl
Sl tr
16. Oppongono per 5.º i Sociniani, e di
si ve
cono: il Padre o ha generato il Figlio esi
nelle
stente, o non esistente: se l'ha generato
esistente, invano dicesi generato ; se non in qu
ben
esistente, dunque il Figlio non è sempre
stato. Pertanto concludono che non vi sono degli
della I
in Dio tre persone della stessa essenza. Si
Iltmle
risponde che il Padre sempre ha generato
tºse
il Figliuolo, ed il Figliuolo è stato sempre
nºta
esistente, perchè sempre è stato generato
per 2
sino dall'eternità, e sempre sarà generato
continuamente; che perciò si dice nel salmo tili si
i
2. vers. 7.: Ego hodie genui te, perchè nell'
m0 m
eternità non vi è successione di tempi, e
Sea,
tutto è a Dio presente. Nè vale dire che
invano il Padre ha generato il Figlio, giac già a'
chè il Figlio è stato sempre esistente: per person

chè si risponde che la divina generazione è iil


stata eterna, e come il Padre generante è i
eterno, così il Figliuolo in eterno è stato lati
rasset
sempre generato; ambedue pertanto sono
Celso
stati eterni, ma il Padre è stato sempre il
i ci
principio nella natura divina. -

li
17. Si oppone per ultimo che i primi cri
stiani non credeano il mistero della Trinità ; 0it
slituis
perchè, se l'avessero creduto, i gentili avreb --
bero loro opposte le tante difficoltà che uma () (
namente parlando appariscono in tal mistero;
lic
25
almeno avrebbero impreso da ciò a provare
la pluralità del loro Dei; ma queste cose non
si trovano opposte da gentili a cristiani, nè
si vede che i cristiani vi abbiano risposto
nelle loro apologie. Si risponde per 1.º che
in quei primi tempi i pastori della chiesa
ben insegnavano ai catecumeni il simbolo
degli Apostoli, ove si contiene il mistero
della trinità; ma non lo palesavano aperta
mente a gentili, i quali, per esser queste
cose divine superiori alla loro mente, de
rideano quel che non intendeano. Si risponde
per 2.º che molti libri de gentili sono man
cati sì per l'antichità, come per le proibi
zioni del principi cristiani; e così anche so
no mancate molte apologie. Del resto Pras
sea, che negava la Trinità, ciò rinfacciava
già a cattolici, dicendo che, ammettendo tre
persone in Dio, approvavano la pluralità
degli Dei de gentili. Di più ben si legge
nella prima apologia di S. Giustino, che gli
idolatri rimproveravano a cristiani che ado
rassero Cristo come Figlio di Dio. Di più
Celso Gentile presso Origene (1) oppose già
ai cristiani che dalla loro credenza nella
Trinità ne seguiva la pluralità degli Dei: ed
Origene gli rispose che la Trinità non co
stituisce tre Dei, ma un Dio; mentre il
(1) Orig. lib. contra Celsum.

Lz G. Storia delle Eresie T. III. B


26

Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo, benchè


siano tre persone, sono nondimeno una sola
e stessa essenza. Si aggiunge che dagli atti
de santi martiri in mille luoghi si dimostra
che i cristiani credeano che Gesù Cristo era
vero Figlio di Dio; il che non poteano cre
dere, senza credere insieme che in Dio vi
siano tre persone.

C O N FUT A Z I O N E II.

ERESIA DI ARIO

cHE NEGAvA LA DiviNITA' DEL vEREo.

S I.
si PRovA LA DiviNITA' DEL vERno
COLLE SACRE SCRITTURE

I-. I. dogma della chiesa cattolica è che il


Verbo divino, cioè la persona del Figliuolo
di Dio è per natura Dio, come il Padre, ed
in tutto eguale al Padre, perfetto ed eterno,
com'è il Padre, e consostanziale col Padre.
Ario all'incontro bestemmiava che il Verbo
non era nè Dio, nè eterno, nè consostan
ziale, nè simile al Padre; ma ch' era una
mera creatura fatta in tempo, ma più ec
cellente delle altre, a tal segno che per suo
-a-

mezzo, come per un suo istromento, avea Dio


create tutte le altre cose. Molti seguaci poi
di Ario mitigarono la di lui dottrina: altri
dissero che il Verbo era simile al Padre :
altri dissero ch' era creato ab aeterno; ma
niuno di essi volle mai accordargli l'esse
re consostanziale col Padre. Provata però
che noi avremo la proposizione cattolica
premessa, restano confutati non solo gli
Ariani, insieme cogli Anomei, Eunomiani
ed Aeriani, che seguirono in tutto la dottri
ma di Ario, ma anche i Basiliani, che furo
no Semiariani; i quali così nel concilio An
tiocheno dell' anno 541 , come nel concilio
Ancirano del 558 , chiamarono il Verbo
Omiusion Patri, cioè simile al Padre nella
sostanza, ma non vollero ammetterlo Omou
sion, cioè della stessa sostanza col Padre.
Restano ancora confutati gli Acaciani, che
tra gli Ariani e Semiariani tennero la via di
mezzo, asserendo che il Verbo era Omion
Patri, cioè simile al Padre, ma non già
simile nella sostanza. Tutti costoro pertanto
restano convinti col dimostrarsi che il Verbo
non solo è in tutto simile al Padre, ma an
che consostanziale col Padre, cioè della stes
sa sua sostanza. Restano per conseguenza
anche convinti i Simoniani, i Cerintiani, gli
Ebioniti, i Paulianisti, i Fotiniani, i quali
furono i primi architetti di questa eresia,
28
dicendo che Cristo era puro uomo, generato
come gli altri da Maria santissima e S. Giu
seppe, e che in niun modo esistesse prima
di esser nato. Ma provata la verità cattolica
che il Verbo è vero Dio come il Padre,
tutti questi restan confutati; poichè il Verbo
assunse in Cristo l'umanità in una persona,
secondo parla S. Giovanni, Et Verbum caro
factum est : onde provandosi che il Verbo è
vero Dio, resta anche provato che Cristo
non fu puro uomo, ma fu uomo e Dio.
2. Ciò si prova da più testi della Scrittu
ra, che qui riduciamo a tre classi. La prima
classe contiene quei luoghi ne quali il Verbo
è appellato Dio, non già per grazia o pre
destinazione, come vogliono i Sociniani, ma
vero Dio per natura e per sostanza. Scrive
S. Giovanni nel suo vangelo : In principio
erat Verbum, et Verbum erat apud Deum,
et Deus erat Verbum. Hoc erat in principio
apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt,
et sine ipso factum est nihil quod factum est;
senza apporre il punto dopo la parola nihil,
come avverte il Maldonato doversi legge
re (1). Questo luogo parve sì chiaro a favor
della divinità del Verbo a S. Ilario, che
scrisse (2): Cum audio et Deus erat Verbum,

(1) Maldon. Com. in Joan. cap. 1.


(2) S. Hilar. lib. 7. de Trinit. num. 1o.
29
non dictum solum audio Verbum Deum, sed
demonstratum esse quod Deus est... Hic
res significata substantia est cum dicitur Deus
erat. Esse autem non est accidens nomen,
sed subsistens veritas. Poco prima avea già
il santo Dottore preoccupata l' obbiezione
di coloro i quali diceano che anche Mosè
fu chiamato Dio di Faraone ( Erod. 8. 19 ),
ed i giusti sono appellati Dei nel salmo
81 verso 6, onde il Santo soggiunse: Aliud
est Deum dari, aliud est Deum esse. In Pha
raone enim Deus datus est (Moyses ): ce
terum non ei est et natura et nomen , ut
Deus sit ; vel sicut justi Dii dicuntur: Ego
dixi: Dii estis. Ubi enim refertur ego dixi,
loquentispotius est sermo, quan reinonen ...
et ubi se nuncupationis auctor ostendit, ibi
per sermonem auctoris est nuncupatio, non
naturale nomen in genere. At vero hic Ver
bum Deus est, res existit in Verbo, Verbi
res enunciatur in nomine; Verbi enim appel
latio in Dei Filio de sacramento nativitatis
est. Sicchè dice il Santo che il nome di Dio
rispetto a Mosè ed ai giusti descritti da
Davide nel citato salmo 81 era un appella
zione data loro dal Signore per riguardo
della loro autorità, ma non era già nome
di essi loro; all'incontro parlandosi del Ver
bo, dice S. Giovanni che non solo il Verbo
era appellato Dio, ma veramente era Dio ,
et Deus erat Verbum.
5o

5. Ma oppongono per 2.º i Sociniani che


il testo di S. Giovanni non dee leggersi,
come leggiamo noi, ma coll'interpunzione,
o sia virgola dopo la parola erat, e metten
do il punto prima delle parole Hoc erat;
sicchè non dee leggersi: et Deus erat Ver
bum. Hoc erat in principio apud Deum. Ma
così : et Deus erat, Verbum hoc erat in
principio apud Deum. Ma questo sconvolgi
mento del vero senso non ha alcuno ap
poggio, ed è contrario non solo a tutte
le nostre Scritture approvate dai concilj,
ma a tutta l'antichità, la quale sempre ha
letto et Deus erat Verbum, senza divisio
ne. Oltrechè, se si ammettesse la lezione
de' Sociniani, il senso del testo si rende
rebbe insulso; quasi che S. Giovanni ci vo
lesse accertare che vi era Dio, dopo ave
re già detto che il Verbo era presso Dio. Si
aggiunge che vi sono tanti altri testi, in cui
il Verbo è appellato Dio; onde a più dotti
fra i Sociniani questa interpretazione è sem
brata troppo inetta a favor della loro cau
sa, e perciò han cercate altre vie per abbat
tere il testo presente : ma queste altre vie
faremo vedere che anche sono insussistenti.
4. Oppongono per 5.º gli Ariani, i quali
fa maraviglia il vedere quanti cavilli inven
tarono per difendere i loro errori; oppon
gono, dico, che qui il Verbo è chiamato Dio,
3I

ma non quel Dio sommo per natura, che


suol essere preceduto dall' articolo enfati
co o , che qui manca. Ma noi osserviamo
che in questo medesimo capo primo nel
verso 6, parlando S. Giovanni del sommo
Dio, dice: Fuit homo missus a Deo, cui
nomen erat Joannes; qui certamente parlò
l'Apostolo del sommo Dio, e pure l' o
vi manca, e lo stesso si osserva ne' ver
si 12. 15. e 18. E così parimente in mol
ti altri luoghi della Scrittura si vede, par
landosi di Dio, tralasciato l'articolo o , co
me in S. Matteo 14. 55. e 27. 45, in San
Paolo I. Cor. 8. 4 e 6, a Romani 1. 7,
agli Efesi 4. 6. All' incontro vediamo che
negli Atti degli Apostoli 7. 45, nell'Epist. 2.
a Corinti 4. 4, ed a Galati 4 8, appellan
dosi ivi l'idolo col nome di Dio, vi sta
l'o ; ed è certo che S. Luca e S. Paolo
non hanno mai pensato di canonizzare un
idolo per sommo Dio. Del resto, come ri
flette S. Giovanni Grisostomo (1), di cui
è quasi tutta la risposta poco fa addotta,
anche il Verbo è nominato Dio in qualche
luogo con un articolo enfatico, siccome leg
gesi in S. Paolo: Ex quibus est Christus se
cundum carnem, qui est super omnia Deus
benedictus in saecula. Rom. 9. 5. Riflette di

(1) S. Joan. Chris. in Joan.


32

più S. Tommaso che nel luogo prima citato


intanto si ommette innanzi al nome di Dio
l'o , perchè ivi il nome di Dio tiene luogo,
non di soggetto, ma di predicato: Ratio au
tem, son le parole di S. Tommaso, quare
evangelista non apposuit articulum huic no
mini Deus... est quod Deus ponitur hic in
praedicato, et tenetur formaliter: consuetum
erat autem quod nominibus in praedicato po
sitis non ponitur articulus, cum discretionem
importet (1).
5. Oppongono per 4 º che nel testo di
S. Giovanni il Verbo è appellato Dio, non
già perchè fosse tale per natura e per so
stanza, ma solo per dignità ed autorità, se
condo la quale ragione dicono che il nome
di Dio si accomoda nelle Scritture anche agli
angeli ed a giudici. A ciò ha risposto già di
sovra al num. 2 S. Ilario, che altro è dare
ad un oggetto il nome di Dio, altro è dire
che è Dio. Ma si aggiunge a questa un'altra
risposta: è falso che il nome di Dio sia un
nome appellativo, in modo che possa con
venire assolutamente a chi non è Dio per
natura; poichè sebbene alcune creature son
nominate Dei, nondimeno a niuna di loro è
dato il nome di Dio assolutamente, niuna è
nominata vero Dio, o Dio altissimo, o in

(1) S. Thom. in cap. 1. Joan. lect. 1.


- 55

singolare, come si dice di Gesù Cristo in


S. Giovanni: Et scimus, quoniam Filius Dei
venit, et dedit nobis sensum, ut cognosca
mus verum Deum, et simus in vero Filio
ejus; Joan. 5. 2o.: in S. Paolo: Erpec
tantes beatam spem et adventum gloriae ma
gni Dei et Salvatoris nostri Jesu Christi;
Ad Titum 2. 15. , ed a Romani: Ex quibus
est Christus secundum carnem qui est super
omnia Deus benedictus in saecula : Rom. 1.
25. Ed in S. Luca S. Zaccaria, profetando,
disse al suo figliuolo Giovanni: Et tu puer
propheta Altissimi vocaberis; praeibis enim
ante faciem Domini parare vias ejus... per
viscera misericordiae Dei nostri, in quibus vi
sitavit nos oriens ex alto. Luc. 1. 76.
6. Dalle parole poi già prima riferite nel
capo 1 di S. Giovanni ricavasi un altro
chiaro argomento della divinità del Verbo.
Dicesi ivi nelle parole seguenti: Omnia per
ipsum facta sunt, et sine ipso factum est ni
hil quod factum est. Chi nega la divinità del
Verbo, da queste parole bisogna che dica
o che il Verbo non è stato fatto, ma è sta
to eterno, o che il Verbo si è fatto da se
stesso. Ma il dire che il Verbo abbia fatto
se stesso, ripugna evidentemente alla ragione,
perchè nemo dat quod non habet: dunque
bisogna confessare che il Verbo non è sta
to fatto; altrimenti sarebbe falso quel che
B 5
54
asserisce S. Giovanni, cioè che sine ipso fac
tum est nihil quod factum est. Così argomen
ta S. Agostino (1); e dalle predette parole il
Santo deduce con evidenza che il Verbo
è della stessa sostanza del Padre: Neque
enim dicit omnia, nisi quae facta sunt, idest
omnem creaturam; unde liquido apparet ip
sum factum non esse, per quem facta sunt
omnia. Et si factum non est, creatura non
est; si autem creatura non est, eiusdem cum
Patre substantiae est. Omnis enim substantia
quae Deus non est, creatura est; et quae crea
tura non est, Deus est. Et si non est Filius
ejusdem substantiae, cujus Pater; ergo facta
substantia est: si facta substantia est; non
omnia per ipsum facta sunt. At omnia per
ipsum facta sunt ; ut unius igitur ejusdemgue
cum Patre substantiae est, et ideo non tan
tum Deus, sed et verus Deus. È un poco
prolisso il passo di S. Agostino, ma è trop
po convincente. -

7. Veniamo alla seconda classe, che con


tiene quei luoghi dove si attribuisce al
Verbo la stessa natura divina e la stessa so
stanza del Padre. Ciò per 1.º lo spiegò lo
stesso Verbo Incarnato, allorchè disse: Ego
et Pater unum sumus. Joan. Io. 5o. Dicono
gli Ariani che qui non si parla dell'unità di

(1) S. August. lib. de Trin. cap. 6.


- 5,
natura, ma dell' unità di consenso; e ciò lo
disse anche Calvino, benchè egli si prote
stava di non essere Ariano : Abusi sunt hoc
loco veteres, ut probarent Christum esse Pa
tri Omousion; negue enim Christus de unita
te substantiae disputat, sed de consensu quem
cum Patre habet. Ma i santi Padri, che me
ritano più credito di Calvino e degli Aria
mi, l'intendono dell'unità di sostanza. Ecco
come parla S. Atanasio (1): Quod si diro
unum sunt, necesse est illos duos quidem es
se unum vere secundun divinitatem, et qua
tenus Filius Patri est consubstantialis ... ita
ut duo quidem sint, quia Pater est et Filius;
unum autem , quia Deus unus est. Così l'in
tese anche S. Cipriano (2): Dicit Dominus:
Ego et Pater unum sumus. Et iterum de Pa
tre et Filio et Spiritu Sancto scriptum est.
Et hi tres unum sunt. Cosi l' intese anche
S. Ambrogio (5), e l'intesero S. Agosti
mo e S. Giovanni Grisostomo, come ve
dremo da qui a poco; e così l'intesero
anche i giudei, i quali al sentire queste
parole da Gesù Cristo, presero le pietre per
lapidarlo, come si ha nel vangelo di S. Gio
vanni c. 1 o. 52. Ed allora disse il Signore:

(1) S. Athan. Orat. 4 contra Arian. num. 9.


(2) S. Crpr. de Unit. Eccl.
(3) S. Ambros. lib. 3, de Spir, Sanct.
56 - -

Multa bona opera ostendi vobis ex Patre


meo; propter quod bonum opus me lapidatis?
Ed i giudei risposero: De bono opere non
lapidamus te, sed de blasphemia, et quia tu,
homo cum sis, facis te ipsum Deum. Scri
ve S. Agostino (1): Ecce Judaei intellere
runt quod non intelligunt Ariani. Ideo enim
irati sunt, quoniam senserunt non posse dici:
Ego et Pater unum sumus nisi ubi aequalitas
est Patris et Filii. Soggiunge qui S. Giovanni
Grisostomo che, se i giudei avessero errato
nel credere che il Salvatore con quelle pa
role avesse voluto farsi eguale al Padre nel
la potenza, tosto per quietarli avrebbele spie
gate ; ma non fece così: Non tamen , son
le parole del Santo, hanc Jesus abstulit sus
picionem, qua si falsa fuisset, corrigenda
fuisset, et dicendum : Cur hoc facitis? Non
parem meam dico et Patris potestatem (2).
Anzi per contrario confermò loro il sospetto
riprendendoli, come siegue a dire il Griso
stomo : Sed nunc totum contrarium , ean
confirmat, et maxime cum erasperarentur;
neque se accusat ac si male dixisset, sed illos
reprehendit. Ed ecco qual fu la riprensione
colla quale bastantemente spiegò ch'egli era
eguale al Padre: Si non facio opera Patris
l

(1) S. August. Tract. 48. in Joan.


(2) S. Chrysost. Hom. 6o. in Joan.
- 57
mei, nolite credere mili; si autem facio, et
si mihi non vultis credere, operibus credite,
ut cognoscatis, et credatis, quia Pater in me
est, et ego in Patre. Joan. 1o 57. et 58. Del
resto nel concilio di Caifas, come di sovra
si è accennato, dichiarò espressamente Cristo
ch' egli era vero Figlio di Dio, secondo
scrive S. Marco ( 14. 61. et 62. ) : Rursum
summus sacerdos interrogabat eum, et dirit
ci: Tu es Christus Filius Dei benedicti ? Je
sus autem diacit illi: Ego sum. Posto ciò,
chi mai ardirà di dire che Gesù Cristo nou
sia Figlio di Dio, quando egli stesso l'ha
espressamente affermato.
8. Ma dicono gli Ariani che quando il Sal
vatore pregò il Padre per tutti i suoi disce
poli, disse: Et ego claritatem quam dedisti
mihi, dedi eis, ut sint unum, sicut et nos
unum sumus. Joan. 17. 22. Ecco, dicono,
che qui si parla, certamente di unità di vo
lontà, e non già di sostanza. Ma si rispon
de che altro è dire: Ego et Pater unum su
mus, altro è dire: Ut sint unum, sicut et
nos unum sumus. Siccome altro è dire: Pater
vester coelestis perfectus est, altro è dire :
Estote ergo vos perfecti, sicut et Pater vester
coelestis perfectus est. Matth. 5. 48. La par
ticola sicut dinota somiglianza, o sia imita
zione, come spiega S. Atanasio le citate pa
role : Ut sint unum, sicut nos unum sumus ;
58

particulam sicut imitationem declarare, non


eundem modum conjunctionis (1). Onde sic
come ci esorta il Signore ad imitare la per
ſezione divina, per quanto possiamo, così
pregava che i discepoli giungessero ad unir
si con Dio per quanto n'erano capaci, il
che certamente non può intendersi che dell'
unione di volontà. Ma quando disse Gesù
Cristo: Ego et Pater unum sumus, non par
lava d'imitazione, ma di unità di sostanza,
affermando con proposizione assoluta di es
sere una stessa cosa col Padre: unum sumus.
9. Ciò si conferma poi da due altri testi
molto chiari. Disse il medesimo Signore :
Omnia qualcunque habet Pater mea sunt,
Joan. 16. 15; e nel capo seguente 17 vers.
Io disse: Et mea omnia tua sunt, et tua
mea sunt. Le quali parole dette senz'alcuna
limitazione dimostrano ad evidenza la conso
stanzialità che Cristo ha col Padre; poichè
asserendo ch' egli ha ogni cosa che ha il
Padre, chi oserà di dire che il Padre ha
qualche cosa di più che il Figlio non ha 2
E sarebbe negare al Figlio ogni cosa, se a
lui si negasse la stessa sostanza del Padre;
perchè in tal caso sarebbe egli infinitamente
minore del Padre: ma Gesù disse che ha
tutto ciò che ha il Padre senza eccezione, e

(1) S. Athan. Orat. 4. adv. Arian.


59
per conseguenza egli in tutto è eguale al
Padre. Nihil, scrive S. Agostino, Patre mi
nus habet ille qui dicit: Omnia quae habet
Pater mea sunt; aequalis est igitur (1).
1o. Lo stesso confermò S. Paolo quando
scrisse di Cristo: Qui cum in forma Dei esset,
non rapinam arbitratus est esse se a qualem
Deo, sed semetipsum exinanivit formam servi
accipiens. Phil. 2. 6. Dice dunque l'Apostolo
che Gesù Cristo si abbassò a prendere car
ne umana; semetipsum exinanivit formam
servi accipiens: ciò non può intendersi altri
menti che delle due nature in cui fu Cristo;
poichè si esinanì ad assumer la natura di
servo, essendo già nella natura divina, come
è chiaro dalle parole antecedenti, cum in
forma Dei esset, non rapinam arbitratus est
esse se a qualem Deo. Se Cristo ha stimato
non esser usurpazione l'aversi dichiarato
eguale a Dio, non può negarsi essere egli
della stessa sostanza di Dio ; altrimenti sa
rebbe stata rapina il dire ch'egli era eguale
a Dio. E così dice S. Agostino intendersi
quel che disse Gesù Cristo in altro luogo
( Joan. 14. 28. ): Pater major me est, cioè
ch' egli era minore del Padre secondo la
forma presa di servo col farsi uomo, ma
che secondo la forma presa di Dio che avea

(1) S. August. lib. 1. contra Maximum cap. 24.


4o
per natura, e non avea perduta col farsi uo
mo, non era già minore del Padre, ma
eguale. Ecco le parole del Santo : In forma
Dei aequalem esse Deo, non ei rapina fuerat,
sed natura.... Propterea vero Patrem dicit
esse majorem, quia seipsum exinanivit for
mam servi accipiens, non amittens Dei (1).
1 1. Lo stesso confermasi da quel che
disse il medesimo nostro Salvatore : Quaecun
que enim ille fecerit, hac et Filius similiter
facit Joan. 5. 19. Da ciò S. Ilario conclude
essere il Figlio di Dio vero Dio come il Pa
dre: Filius est, quia ab se nihil potest: Deus
est, quia quaecunque Pater facit , et ipse -
eadem facit: unum sunt, quia eadem facit,
non alia (2). Non può aver la stessa opera
zione indivisa col Padre chi non è conso
stanziale col Padre, mentre in Dio non vi
è distinzione fra operazione e sostanza.
12. Nella terza classe si pongono quei
luoghi della Scrittura in cui si attribuisco
no al Verbo gli attributi che non possono
competere se non a chi è Dio per natura,
ed ha la stessa sostanza col Padre. Per 1.º
si attribuisce al Verbo l'eternità dalle pri
me parole di S. Giovanni : In principio erat

(1) S. August. Epist. 66.


(2) S. Hilar. lib. 7. de Trin. num. 21.
41
Verbum. Cap. 1. v. 1. Il termine erat dinota
che il Verbo sempre è stato; e perciò, co
me riflette S. Ambrogio (1), S. Giovanni lo
replica ivi quattro volte: Ecce quater erat;
ubi impius invenit quod non eratº Oltre poi
la parola erat, la stessa voce In principio
conferma questa verità, che il Verbo era
eterno. In principio erat Verbum viene a
dire: prima di tutte le cose esisteva il Ver
bo. Ed in vigor di questo testo appunto il
concilio di Nicea I. condannò la proposizio
ne degli Ariani, che diceano: Fuit aliquando
tempus quando Filius Dei non erat.
15. Dicono per 1.º gli Ariani che S. Ago
stino (2) interpretò questa voce: In principio
per lo stesso Padre; secondo la quale inter
pretazione dicono che il Verbo poteva esi
stere in Dio prima di tutte le cose, ma
senza esser eterno. Ma a ciò rispondiamo
che, quantunque in principio si volesse in
tendere in Patre, sempre che si ammette
che il Verbo era prima di tutte le cose, ne
siegue che il Verbo è stato eterno, e non
è stato mai fatto; poichè essendo state fatte
da esso tutte le cose, Omnia per ipsum facta
sunt, se il Verbo non fosse stato eterno,
ma creato nel tempo, avrebbe dovuto il

(1) S. Ambros. lib. 1. de Fide ad Gratiam. c. 5.


(2) S. August. lib. 6. de Trin. cap. 5.
42
Verbo egli creare se stesso; il che è im
possibile secondo la massima comune e cer
ta già detta di sovra che Nemo dat quod
non habet.
14 Dicono per 2.º che la voce in princi
pio s'intende secondo sta nel capo 1 della
Genesi: In principio creavit Deus coelum et
terrann; sicchè s'intende parimente della crea
zione del Verbo. Ma rispondiamo che Mosè
disse: In principio creavit Deus, ma S. Gio
vanni non disse che il Verbo in principio
fu creato, ma che erat, e che per esso so
no state fatte tutte le cose.

15. Dicono per 5.º che col nome di Ver


bo non s'intende una persona distinta dal
Padre, ma la sapienza del Padre interna,
da lui non distinta, per cui tutte le cose
furon fatte. Ma neppure ciò può dirsi, per
chè S. Giovanni di questo Verbo, del quale
dice : Omnia per ipsum facta sunt, soggiunge
in fine dello stesso capo : Et Verbum caro
factum est, et habitavit in nobis; le quali
parole non possono intendersi della sapien
za interna del Padre, ma certamente s'in
tendono di quel Verbo, per cui dicesi esser
re state fatte tutte le cose, e che poi si è
fatto carne, essendo Figlio di Dio, come
ivi stesso dichiarasi: Et vidimus gloriam eius,
gloriam quasi unigeniti a Patre. E ciò vien
confermato dall'Apostolo dove scrisse che per
45
mezzo del Figlio (il quale da S. Giovanni
è chiamato Verbo ) è stato fatto il mondo:
Diebus istis locutus est nobis in Filio... per
quem fecit et saecula. Hebr. 1. 2. Oltrechè si
prova l'eternità del Verbo colle parole dell'
Apocalisse ( 1.8. ) : Ego sum alpha et ome
ga, principium et finis... qui est et qui erat
et qui venturus est. Di più col testo di San
Paolo agli Ebrei ( 15. 8. ) : Jesus Christus
heri et hodie: ipse et in saecula.
16. Ario sempre negò che il Verbo era
stato eterno; ma alcuni suoi ultimi discepoli
convinti dalle Scritture vennero a concedere
che il Verbo era stato eterno, ma era stata
una creatura eterna, non già persona divina.
A questo nuovo errore inventato dagli Ariani
ho ritrovato che più teologi rispondono es
sere impossibile che una creatura sia stata
eterna. Dicono che una creatura, per potersi
dire creata, bisogna che sia stata prodotta ex
nihilo, sicchè dal non essere sia passata all'
essere; onde bisogna supporre che vi sia
stato un tempo in cui quella creatura non
era. Ma questa risposta non convince, nè
abbatte l'errore, perchè S. Tommaso pro
babilissimamente insegna (1) che per dirsi
una cosa creata non è necessario che si dia

(1) S. Thom. Quaest. disp. qu. 3. de Potentia


art. 14. ad 7.
44
un tempo in cui ella non è stata, sicchè sia
preceduto all'essere il non essere; ma dice
esser sufficiente che quella creatura era nien
te per sua natura, o sia per se stessa, e
che da Dio abbia avuto l'essere. Scrive il
santo Dottore che per dirsi una cosa fatta
dal niente requiritur, sono le sue parole,
ut non esse praecedatesse rei, non duratione,
sed natura: quia videlicet, si ipsa sibi relin
queretur, nihil esset, esse vero solum ab alio
habet. Posto dunque che per dirsi una cosa
creata non si ricerca che sia preceduto un
tempo in cui ella non era, ben poteva Id
dio, il quale è eterno, darle ab aeterno
quell'essere che la creatura per sua natura
non avea. La risposta pertanto congruente e
convincente parmi che sia questa, cioè che
il Verbo, essendo eterno, come si è pro
vato, non può mai dirsi essere stata crea
tura; mentre è di fede, come insegnano
tutti i santi Padri con S. Tommaso (1), che
di fatto non vi è stata mai alcuna creatura
eterna, poichè tutte le creature sono state
fatte in tempo, ed in quel principio descrit
to da Mosè, in cui fu creato il mondo: In
principio creavit Deus coelum et terram. La
creazione del cielo e della terra, secon
do la dottrina di tutti i Padri e teologi,

(1) S. Thom. 1. part, qu. 46. art. 2. e 3.


45
comprende la creazione di tutte le cose, così
materiali, come spirituali. Il Verbo all'in
contro è stato esistente prima di esservi al
cuna creatura, come sta scritto nel Proverbi,
dove parla la Sapienza, cioè il Verbo, e
dice: Dominus possedit me in initio viarum
suarum, antequam quidquam faceret a prin
cipio. Prov. 8. 22. Sicchè il Verbo non è
cosa creata, mentr egli è stato prima che
Dio facesse alcuna cosa.
17. Nè da ciò potranno mai i moderni
materialisti inferire che la materia abbia po
tuto essere eterna da sè; perchè intanto
noi diciamo che una creatura ha potuto es
sere ab aeterno, in quanto Dio ab aeterno
ha potuto darle quell'essere che non avea,
il che per altro non è mai stato: ma la ma
teria, come abbiam dimostrato nel libro della
Verità della Fede, non poteva esistere da se
stessa, senza che Dio le avesse dato l' esse
re; poichè non poteva ella dare a sè quell'
essere che non avea, per l'assioma più vol
te replicato che nemo dat quod non habet.
Dalle parole poi di S. Giovanni, che par
lando del Verbo dice: Omnia per ipsum facta
sunt, non solo s'inferisce la sua eternità,
ma ancora la potenza di creare, la quale
non può competere che a Dio; mentre per
creare vi bisogna una virtù ed una potenza
infinita, che, come dicono tutti i teologi,
-
46
Iddio non può comunicare ad una creatura.
Ma ritornando al punto dell'eternità del Ver
bo, diciamo che se il Padre ha dovuto per
necessità di natura ab aeterno generare il Fi
gliuolo, essendo stato eterno il Padre, eter
no ancora è stato sempre il Figliuolo, ser
bata sempre la ragion di origine al Padre e
la ragion di originato al Figliuolo. E così si
confuta la falsa opinione del materialisti mo
derni, che secondo il loro sistema costitui
scono la materia eterna da sè. -

18. Posto poi che dal Verbo sono state


fatte tutte le cose, ne risulta per conseguen
za necessaria che il Verbo non è stato fatto;
altrimenti vi sarebbe una cosa fatta, ma non
fatta dal Verbo; il che è opposto al detto
di S. Giovanni: Omnia per ipsum facta sunt.
E questo fu il grande argomento di S. Ago
stino (1) contro gli Ariani, i quali diceano
che il Verbo è stato fatto: Quomodo, gli
stringe il Santo, potest fieri ut Verbum Dei
factum sit: quando Deus per Verbum fecit
omnia ? Si et Verbum Dei ipsum factum est,
per quod aliud Verbum factum est ? Si hoc
dicis, quia hoc est Verbum Verbi per quod
factum est; illud ipsum dico ego unicum Fi
lium Dei. Si autem non dicis Verbum Verbi,
concede non factum, per quod facta sunt

(a) S. August. Tract. in Joan.


47
omnia; non enim per seipsum fieri potuit,
per quem facta sunt omnia.
19. Dicono gli Ariani, non avendo altro
che rispondere a questo argomento che
troppo li convince, dicono che S. Giovan
ni non dice : Omnia ab ipso, ma onnia per
ipsum facta sunt; e da ciò inferiscono che
il Verbo non è stata causa principale della
creazione del mondo, ma solamente un istro
mento di cui nel crear tutte le cose il Pa
dre si è servito, e quindi concludono che il
Verbo non è Dio. Ma si risponde che la
creazione del mondo descritta da Davide:
Initio tu, Domine, terram fundasti: et opera
manuum tuarum sunt coeli, ( Psalin. 1 o 1.
26. ) da S. Paolo nella lettera agli Ebrei al
capo 1 nel verso io, viene attribuita al Fi
gliuolo di Dio, secondo apparisce in tutto
il riferito capo 1, e specialmente nel verso
“8: Ad Filium autem ( dicit ): Thronus tuus
Deus etc. E nel verso 15 dicesi: Ad quem
autem angelorum dirit aliquando: Sede a
deactris meis ? Sicchè S. Paolo dichiara che
quel Figlio di Dio, il quale da S. Giovanni
è chiamato Verbo, e che ha creato il cielo
e la terra, è vero Dio, e come Dio è stato
non già un semplice istromento, ma princi
pal creatore del mondo. Nè osta la mise
rabile difficoltà fatta dagli Ariani, che San
Giovanni dice: Omnia per ipsum ( e non ab
48
ipso ) facta sunt; perchè in più luoghi della
Scrittura trovasi la particola per congiunta
colla causa principale: Possedi hominem per
Deum. Gen. 4.: Per me reges regnant. Prov.
8.: Paulus vocatus Apostolus Jesu Christi per
voluntatem Dei. 1. Cor. 1. -

2o. Di più si dimostra la divinità del Ver


bo col testo di S. Giovanni nel suo vangelo
(5.22. ), dove si dice che il Padre vuol che
si renda al Figlio da tutti l'onore che si dà
ad esso stesso: Pater omne judicium dedit
Filio, ut omnes honorificent Filium, sicut
honorificant Patrem. Di più si prova la di
vinità del Verbo e dello Spirito Santo dal
precetto dato agli Apostoli: Euntes ergo do
cete omnes gentes, baptizantes eos in nomi
ne Patris et Filii et Spiritus Sancti Matth.
28. 19. Di quest'autorità ben si valsero i
santi Padri, S. Atanasio, S. Ilario, S. Ful
genzio ec per convincere gli Ariani, poichè
ordinandosi il battesimo in nome di tutte e
tre le divine persone, si fa chiaro che le
medesime hanno eguale autorità e virtù, e
che sono Dio; altrimenti, se il Figlio e lo
Spirito Santo fossero creature, i cristiani
riceverebbero il battesimo in nome del Pa
dre ch'è Dio, e di due creature, il che se
veramente si vietò di credere da S. Paolo
a Corinti: Ne quis dicat quod in nomine
meo baptizati estis. 1. Cor. 1. 15.
49
21. Soggiungo finalmente due altri argo
menti molto validi a provare la divinità del
Verbo. Il primo si prende dalla potestà del
Verbo, per quel fatto che narra S. Luca al
capo 5 vers. 2o, quando Gesù Cristo nel sa
mare il paralitico gli perdonò ancora i pec
cati, dicendogli: Homo, remittuntur tibi pec
cata tua. Il perdonare i peccati non può es
ser facoltà se non di Dio, come compresero
gli stessi Farisei, che in udir quelle parole,
le stimarono una bestemmia, e sclamarono:
Quis est hic, qui loquitur blasphemias? Quis
potest dimittere peccata, misi solus Deus ?
Luc. 5. 21.
22. Il secondo argomento è la dichiara
zione che fece di se stesso il medesimo no
stro Salvatore di esser Figliuolo di Dio. Ciò
lo dichiarò più volte, ma specialmente quan
do, avendo interrogati i discepoli chi mai
stimassero chi egli fosse, ed avendo rispo
sto S. Pietro: Tu es Christus Filius Dei vi
vi, il Signore gli rispose che questa era
una rivelazione fattagli da Dio: Beatus es
Simon Barjona, quia caro et sanguis non
revelavit tibi, sed Pater meus, qui in coelis
est. Matth. 16. 15. ad 17. Di più lo dichia
rò, come si disse di sopra, quando Caifas
lo interrogò: Tu es Christus Filius Dei be
nedicti? Ed egli rispose, come scrive San
Marco ( 14 61. et 62. ) : Jesus autem diarit
LIG. Storia delle Eresie T III. C
5o
illi: Ego sum. Ora ecco l'argomento: gli
Ariani dicono che Cristo non è vero Figliuo
lo di Dio; ma non dicono ch'egli è stato
un empio, anzi lo predicano per un uomo
più eccellente degli altri, per essere stato
più ricco di virtù e di doni divini. Or se
quest'uomo si fosse appellato Figlio di Dio,
quando era una semplice creatura, oppure
avesse permesso che altri lo stimasse per
Figlio di Dio, e che altri tanto si scandaliz
zasse nel sentire che si chiamava Figlio
di Dio, se egli non era tale, almeno dovea
dichiarar la verità, altrimenti sarebbe stato
un empio. Ma no; egli niente aggiunse,
non ostante che i giudei restassero nell'idea
della sua bestemmia, e permise di esser
condannato e crocifisso per tal causa; men
tre questa fu l'accusa più grande che espo
sero contro di lui a Pilato, dicendo : Securz
dum legem debet mori, quia Filium Dei se
fecit Joan. 19. 7. Ma finalmente replichia
mo: dopo che Gesù Cristo espressamente
dichiarò di esser Figlio di Dio, Ego sum,
come notammo di sovra in S. Marco 14. 62,
con tutto che tal dichiarazione gli dovesse
costar la vita, chi ardirà di dire che Cristo
non è Figlio di Dio?
S. II.
si PRovA LA DiviNITA' DEL VERBo
coLLE AUTORITA' DE SANTI PADRI E DE coNCILI.
9
25. L opposizione continua che faceano
gli Ariani contro il concilio Niceno, era
per la parola consostanziale attribuita al Ver
bo, dicendo che questo termine non era
stato usato dagli antichi Padri della chiesa.
Ma S. Atanasio, S. Gregorio Nisseno, Sant'
Ilario e S. Agostino attestano che i Padri di
Nicea aveano presa questa voce dalla tradi
zione costante del primi dottori della chiesa.
Del resto avvertono gli eruditi che molte ope
re di essi Padri citate già da S. Atanasio,
da S. Basilio ed anche da Eusebio per l'an
tichità del tempo si son perdute. Dee avver
tirsi inoltre che i Padri antichi, prima che
sorgessero le eresie, non hanno scritto con
quella cautela, con cui hanno parlato poi i
Padri posteriori, nel tempo in cui si sono
rassodate le verità della fede. I dubbi mos
si da nemici dice S. Agostino che hanno
data occasione di meglio indagare e sta
bilire i dogmi che si han da credere: Ab
adversario mota quaestio discendi extitit oc
casio (1). I Sociniani non dubitano che i

(1) S. August. lib. 16. de Civ. cap. 2.


52
Padri posteriori al concilio Niceno siamo sta
ti tutti della stessa sentenza del concilio, in
accordare al Verbo la consostanzialità col
Padre; ma dicono che gli altri antecedenti
al concilio ne sono stati alieni. Onde per
ismentire i Sociniani addurremo qui le sole
autorità del Padri precedenti al concilio, i
quali, se non hanno espressa la voce di con
sostanziale o di sostanza del Verbo col Pa
dre, almeno con altri termini equivalenti
l'han dichiarata abbastanza.
24 S. Ignazio martire, successore di San
Pietro nella sede di Antiochia, morto nell'
anno 1o8, in più luoghi attesta la divinità
di Gesù Cristo. Nella lettera ai Tralliani scris
se: Qui vere natus ex Deo et Virgine, sed
non eodem modo. E più sotto: Verus natus
Deus Verbum e Virgine; vere in utero geni
tus est is qui omnes homines in utero portat.
Nella lettera agli Efesi: Unus est medicus
carnalis et spiritualis, factus et non factus,
in homine Deus, in morte vera vita et ex
Maria et ex Deo. E nella lettera a Magne
siani: Jesus Christus, qui ante saecula apud
Patrem erat, in fine apparuit. Ed appresso:
Unus est Deus, qui seipsum manifestum red
didit per Jesum Christum Filium suum, qui
est ipsius Verbum sempiternum.
25. Di S. Policarpo vescovo di Smirne e
discepolo di S. Giovanni, che fu nell'anno
55
167 , nella lettera celebre che la chiesa
di Smirne scrisse del martirio del suo ve
scovo alle chiese del Ponto, rapportata da
Eusebio (1), si leggono le parole che pro
ferì S. Policarpo, stando prossimo alla sua
morte: Quamobrem de omnibus te laudo,
te benedico, te glorifico per sempiternum
pontificem Jesum Christum dilectum Filitan
tuum, per quem tibi una cum ipso in Spiri
tu Sancto gloria nunc et in saecula saeculorum,
amen. Per 1.º San Policarpo chiama Cristo
pontefice eterno; ma niuno oggetto, fuori di
Dio, è eterno. Per 2.º glorifica il Figlio in
sieme col Padre, dandogli gloria eguale; il
che non avrebbe potuto dire, se non aves
se tenuto che il Figlio era Dio eguale al Pa
dre. Di più nella lettera a Filippesi S. Poli
carpo ascrive egualmente al Figlio che al
Padre il donare la grazia e la salute: Deus
autem Pater... et Jesus Christus sanctificet
vos in fide et veritate... et det vobis sortem
et partem inter sanctos suos.
26. S. Giustino filosofo e martire, morto
verso l'anno 161, nelle sue apologie parla
chiaramente della divinità di Gesù Cristo.
Nella prima apologia dice : Christus Filius
Dei Patris, qui solus proprie Filius dicitur,
ejusque Verbum, quod simul cum illo ante

(1). Euseb. Histor. lib. 4. cap. 13.


54
creaturas et existit et gignitur. Si noti che
il Santo chiama Cristo propriamente Figlio
e Verbo esistente col Padre prima delle crea
ture, e da lui generato; il Verbo dunque
è proprio Figlio di Dio, che esiste col Pa
dre prima delle creature: dunque non è crea
tura. Nell'apologia seconda dice : Cum Ver
bum primogenitus Dei sit, Deus etiam est.
Nel dialogo con Trifone dimostra che Cristo
nell'antico Testamento è chiamato Dominus
virtutum, Deus Israel, e poi conchiude con
tro i giudei: Si dicta prophetarun intellecis
setis, non inficiati essetis ipsum esse Deum,
singularis et ingeniti Dei Filium. Lascio altri
luoghi conformi che dicono lo stesso, e
passo a rispondere ad alcune obbiezioni del
Sociniani. Dicono che S. Giustino nel dialo
go con Trifone e nell'apologia asserisce che
il Padre è causa del Verbo, ed è anteriore
al Verbo. Si risponde: il Padre si dice causa
del Figlio, non già come creatore, ma co
me generante; e si dice il Padre esser pri
ma del Figlio, non già di tempo, ma di
origine; e perciò alcuni Padri han chiamato
il Padre causa del Figlio, come principio
del Figlio. Oppongono di più che S. Giusti
mo chiama il Figlio ministro di Dio: Adini
nistrum esse Deo. Si risponde: è ministro
come uomo, cioè secondo la natura uma
na. Oppongono altri cavilli, che possono
55
leggersi colle risposte presso Giovenino (1);
ma bastano per rispondere a tutti quelle po
che parole del Santo riferite di sopra: Cum
Verbum primogenitus etc.
27. Sant'Ireneo discepolo di S. Policarpo
e vescovo di Lione, morto nel principio del
secolo II., scrive (2) che il Figlio è vero
Dio come il Padre, dicendo : Neque igitur
Dominus (Pater ), neque Spiritus Sanctus
eum absolute Deurn nominassent, nisi esset
vere Deus. In altro luogo (5) dice: Mensura
est Pater infinitus; et hunc tamen capit,
et metitur Filius: et hunc quoque infinitum
esse necesse est. Ed in altro luogo (4) : Ipse
igitur Christus cum Patre vivorum est Deus.
Oppongono che S. Ireneo ha detto che il
solo Padre sa il giorno del giudizio, e che
il Padre è maggiore del Figlio; ma a queste
obbiezioni già si è risposto di sopra: vedi
al numero 1 o.

28. Atenagora ateniese filosofo cristiano


nella sua apologia pei cristiani scrisse agli
imperatori Antonino e Commodo che la ra
gione per cui si dice che per il Figlio omnia
facta sunt, è questa: Cum sit unum Pater

(1) Juvenin. Theol. tom. 3. cap. 1. 5. 1.


(2) S. Iren. lib. 3. adv. Hares. cap. 6.
(3) Idem lib. 4. cap. 8.
(4) Idem lib. 3. cap. 11.
56
et Filius, et sit in Patre Filius, et Pater iu
Filio, unitate et virtute spiritus, mens et /er
bum Dei Filius est. In queste parole : Cum
sit unum Pater et Filius, spiega l' unità di
matura del Figlio col Padre ; e nelle altre :
Et sit in Patre Filius, et Pater in Filio, di
chiara la proprietà della Trinità , che i teo
logi chiamano Circuminsessionem , per la
quale una persona sta nell' altra. Appresso
dice : Deum asserimus et Filium ipsius }'er
bum et Spiritum Sanctum virtute unitos.
29. Teofilo vescovo di Antiochia sotto
Marco Aurelio imperatore (1) scrive : Scien
dum est quod Christus Dominus noster ita
yerus homo et verus Deus est , de Patre
Deo Deus , de matre homine homo. Clemen
te Alessandrino (2) scrive : Nunc autem ap
paruit hominibus hic ipse /erbum , qui solus
est ambo, Deus et homo ... /erbum divinum,
qui revera est Deus manifestissimus. Ed in altro
luogo (5) dice : Nihil ergo odio habet Deus,
sed neque /erbum; utrumque enim unum est,
nempe Deus ; dixit enim : In principio erat
Verbum , et Verbum erat in Deo , et Deus
erat Verbum. Origene scrisse (4) contro

(1) Theophilus lib. 5. Allegor. in Evang.


(2) Clem. Alex. in Admon. ad Graecos.
(3) Idem lib. 1. Paedagog. cap. 8.
(4) Orig. lib. 3. contra Cels.
5
Celso, il quale gli opponea che i cristiani te
meano Gesù Cristo per Dio, quantunque fos
se morto : Sciantisti criminatores, hunc Je
sum, quem jam olim Deum, Deique Filium
esse credimus. Ed in altro luogo (1) dice
che, avendo patito Cristo come uomo, non
ha patito il Verbo ch era Dio: Responderi
potest distinguendo divini Verbi naturam,
quae Deus est, et Jesu animam. Lascio di
riferire le parole ivi seguenti, sopra cui i
teologi mettono in questione la fede di Ori
gene, come si può vedere presso Natale
Alessandro (2); ma dalle parole riferite è
certo che Origene confessava che Gesù era
Dio e Figlio di Dio.
5o. Dionisio Alessandrino fu dopo la me
tà del III secolo (5) accusato di aver nega
to essere il Verbo consostanziale al Padre ;
ma egli scrisse: Ostendi crimen, quod defe
runt contra me, falsum esse, quasi qui non
diarerim Christum esse Deo consubstantialem.
S. Gregorio Taumaturgo, vescovo di Ponto,
che fu uditore di Origene, e che interven
me al sinodo di Antiochia contro Paolo Sa

mosatese, scrisse nella sua Confessione di

(1) Orig. lib. 4. contra Cels.


(2) Nat. Alex. sec. 3. Diss. 16. art. 2.
(3) Dionys. Alexand apud S. Athanas. tom. 1.
pag. 561.
C 5
58
Fede così (1) : Unus Deus, Pater Verbi vi
ventis.... perfectus perfecti genitor, Pater
Filii unigeniti, unus Dominus, solus ex solo,
Deus ex Deo.... Unusque Spiritus Sanctus
ex Deo existentiam habens. S. Metodio ve
scovo di Tiro e martire sotto Diocleziano,
come attesta S. Girolamo (2), nel libro De
Martrribus presso Teodoreto (5) scrisse,
parlando del Verbo : Dominum et Filium
Dei, qui non rapinam arbitratus est esse se
aequalem Deo.
51. Veniamo ai Padri occidentali latini. San
Cipriano vescovo di Cartagine (4) prova la
divinità del Verbo cogli stessi testi da noi
rapportati, scrivendo : Dicit Dominus: Ego
et Pater unum sumus. Et iterunn de Patre
et Filio et Spiritu Sancto scriptum est : Et
hi tres unum sunt. In altro luogo (5) scrisse:
Deus cum homine miscetur; hic Deus noster,
lie Christus est. Lascio le autorità di S. Dio
nisio Romano, di S. Atanasio, di Arnobio,
di Lattanzio, di Minuzio Felice, di Zeno
ne e di altri antichi scrittori, che difendono
con ſortezza la divinità del Verbo. Solamente

(1) S. Gregor. Thaumat. part. 1. Oper. apud


Gregor. Nyssen. in Vita Gregor. Thaumat.
(2) S. Hier. de Script. Eccl. cap. 34.
(3) Theodoret. Dial. 1. pag. 37.
(4) S. Cypr. de lib. Unit. Eccl.
(5) Idem lib. de Idol. vanit.
- 59
voglio aggiungere qualche passo di Ter
tulliano, della cui autorità si abusano i So
ciniani. In un luogo (1), parlando del Ver
bo, dice: Hunc ex Deo prolatum didici
mus et prolatione generatum, et idcirco Fi
lium Dei et Deum dictum ex unitate sub
stantiae... Ila de Spiritu Spiritus et de Deo
Deus et lumen de lumine. Ed in altro luo
go (2): Ego et Pater unum sumus ad sub
stantiae unitatem, non ad numeri singularita
tem. In questi luoghi è chiaro che Tertullia
no tenea che il Verbo era Dio come il Pa
dre e consostanziale col Padre. Gli avver
sarj poi rapportano certi passi oscuri del
medesimo, il quale nelle opere sue è oscu
rissimo ; ma a tutti i loro cavilli vi sono le
risposte presso gli autori (5), ove possono
osservarsi.
52. Del resto è certo che per l'autorità
de' Padri del primi tre secoli è stata sempre
ferma nella chiesa la fede della divinità e
consostanzialità del Verbo col Padre, come
confessa lo stesso Socino (4). E da questa tra
dizione ammaestrati i 518 Padri del concilio

(1) Tertull. Apol. cap. 21.


(2) Idem lib. contra Praxeam cap. 25.
(3) Vide Juvenin. tom. 3. qu. 2. cap. 1. art. 2.
S. 2. Tournely tom. 2. qu. 4. art. 3. sect. 2. An
toin. Theol. tract. de Trin. cap. 1. art. 3.
(4) Socin. Ep. ad Radoc. in tom. 1. suor. Oper.
6o
generale Niceno, celebrato nell'anno 525,
fecero la seguente definizione di fede : Cre
dimus in unum Dominum Jesum Christum Fi
lium Dei er Patre natum unigenitum, idest
ex substantia Patris, Deum ex Deo, lumen
er lumine, Deum verum ex Deo vero, con
substantialem Patri, per quem omnia facta
sunt. La stessa professione di fede è stata
poi sempre conservata nei seguenti concilj
generali ed in tutta la chiesa.
S III.
SI RISPONDE ALLE OBBIEZIONI,

35. P., di tutto giova qui avvertire quel


detto di S. Ambrogio (1) circa l'intelligenza
de luoghi della Scrittura che si adducono
per impugnare la divinità del Verbo; poichè
gli eretici confondono le cose, storcendo
quelle che appartengono a Gesù come uomo,
a Gesù come Dio : Pia mens quae leguntur
secundum carnem, divinitatemque distinguit ;
sacrilega confundit, et ad divinitatis detor
quet injuriam quidquid secundum humilitatem
carnis est dictum. Così appunto fanno gli Aria
mi nell'impugnare la divinità del Verbo :
per lo più si vagliono di quei luoghi, ove
Gesù Cristo si dice minore ed inferiore al
-

(1) S. Ambros. lib. 5. de Fide cap. 8. num. 115.


- 61
Padre. Per iscioglier dunque la maggior par
te del loro argomenti, bisogna sempre aver
per le mani la risposta che Gesù come uo
mo è minore del Padre, ma come Dio, per
il Verbo a cui sta unita la sua umanità, è
uguale al Padre. Onde parlandosi di Gesù
Cristo come uomo, ben si dice ch' è stato
creato, è stato fatto, che ubbidisce al Padre,
è soggetto al Padre e cose simili.
54. Cominciamo dunque a sentire le molte
importune opposizioni del contrari. Oppon
gono per 1.º quel passo trito di S. Giovan
ni ( 14. 28. ) : Pater major me est. Ma pri
ma di opporre questo testo dovean riflettere
che Gesù Cristo innanzi delle riferite parole
avea detto : Si diligeretis ne, gauderetis uti
que, quia vado ad Patrem ; quia Pater
major me est. Dunque Gesù Cristo intanto
chiamò il Padre maggiore di sè, in quanto
egli come uomo andava al Padre nel cie
lo. Del resto il medesimo Salvatore, par
lando poi di sè secondo la natura divina,
disse : Ego et Pater unum sumus. Al qua
le testo fanno compagnia poi tutti gli al
tri testi rapportati al S. I., dove si esprime
la divinità del Verbo e di Cristo. Oppongo
no per 2 º le parole di Cristo: Descendi de
coelo, non ut faciam voluntatem meam, sed
voluntatem eius qui misit me, Joan. 6. 58. :
con quelle altre di S. Paolo: Cum auten
62

subjecta fuerintilli omnia, tunc et ipse Fi


lius subjectus erit ei, qui subjecit sibi omnia.
1. Cor 15. 28. Il Figlio dunque ubbidisce
ed è soggetto al Padre; sicchè non è Dio.
In quanto al primo testo si risponde che
ivi Gesù Cristo spiegò le due volontà secon
do le due nature che avea, cioè la volontà
umana con cui doveva ubbidire al Padre, e
la divina che avea comune con quella del
Padre. In quanto al secondo testo, dice San
Paolo che il Figlio come uomo sarà sempre
soggetto al Padre, e ciò non può negarsi;
ma ciò che osta? Oppongono per 5.º quelle
parole degli Atti ( 5. 15. ): Deus Abraham
et Deus Isaac et Deus Jacob, Deus Patrum
nostrorum glorificavit Filium suum Jesum,
quem vos tradidistis etc. Ecco, dicono, come
si oppone il Figlio al Padre chiamato Dio.
Si risponde che si oppone come uomo, ma
non come Dio. Le parole poi glorificavit Fi
lium suum, s'intendono di Cristo secondo
la natura umana; oltre della risposta che dà
S. Ambrogio, dicendo : Quod si unius Dei
nomine Pater intelligatur, quia ab ipso est
omnis auctoritas.
55. Simili alle predette sono le obbiezioni
seguenti. Si oppone per 4 º il testo de Pro
verbj ( 8. 22. ): Dominus possedit me in ini
tio viarum suarum, antequam quidquam fa
ceret a principio. Così si legge nella Volgata,
65
e questa lezione concorda col testo ebraico;
ma i Settanta lo traslatano: Dominus crea
vit me initium viarum suarum. Dunque la
divina sapienza, di cui qui si parla, di
cono gli Ariani, è stata creata. Lo stesso
dicono per l'Ecclesiastico ( 24. 14 ) : Ab
initio et ante sacula creata sum. Si rispon
de circa il 1.º che la vera lezione è quella
della Volgata, ed a questa sola, secondo il
concilio di Trento, dobbiamo ubbidire. Ma
ancorchè si volesse attendere la greca, niente
ella osta, perchè la parola creavit ( usurpa
ta qui ne' Proverbi e nell'Ecclesiastico), co
me scrivono S. Girolamo e S. Agostino (1),
non è determinata a significar creazione:
mentr ella presso i greci prendesi promi
scuamente per la parola gignor; sicchè talvolta
dinota creazione, talvolta generazione, come
consta dal passo del Deuteronomio (52. 18.):
Deum, qui te genuit, dereliquisti, et oblitus
es Domini creatoris tui; dove la generazione
si prende per creazione. E nel luogo de'Pro
verbj non può significare che la generazio
ne eterna della divina sapienza, se si con
sidera il contesto, in cui dicesi della mede
sima: Ab aeterno ordinata sum et ex anti
quis..., ante colles ego parturiebar etc. Si

(1) S. Hieron. in cap. 4. Epist. ad Eph. S. Au


gust. lib. de Fid. et Simb.
-
64
noti: ab aeterno ordinata sum, ciò spiega
come debba intendersi la parola creavit, Po
trebbe rispondersi ancora probabilmente con
S. Ilario (1), che la parola creavit si riferi
sce alla natura umana assunta, e la parola
parturiebar alla generazione eterna del Ver
bo: Sapientia itaque, quae se dixit creatam,
eadem in consequenti se dixit et genitam,
creationen referens ad parentis immutabi
lem naturam, qua extra humani partus spe
ciem et consuetudinem, sine imminutione ali
qua ac diminutione sui, creavit ex seipsa
quod genuit. Nel testo poi citato dall'Eccle
siastico è chiaro che ivi si parla della sa
pienza incarnata, per le parole che ivi sie
guono: Et qui creavit me, requievit in taber
naculo meo; poichè per mezzo dell'incarna
zione si è verificato che Iddio che ha crea
to Gesù Cristo ( qui creavit me secondo
l'umanità ) requievit in tabernaculo meo,
cioè riposò in quell'umanità creata. Siegue il
testo : In Jacob inhabita, et in Israel ha-re
ditare, et in electis meis mitte radices, cose
che tutte competono alla sapienza incarnata,
la quale assunse il seme di Giacobbe e di
Israele, e così fu la radice di tutti gli elet
ti. Si osservino a questo proposito Santo

(1) S. Hilar. lib. de Srnod. cap. 5.


65
Agostino, S. Fulgenzio e specialmente Sant'
Atanasio (1).
-56. Oppongono per 5.º quel che dice San
Paolo, parlando di Gesù Cristo: Qui estima
go Dei invisibilis, primogenitus omnis creatu
rae, Coloss. 1. 15.; dal che ricavano essere
il Figlio una eccellentissima creatura, ma
solamente creatura. Qui si può rispondere
che si parla di Cristo secondo la natura uma
na, come l'intende S. Cirillo (2). Ma più
comunemente s'intende secondo la natura
divina, e si dice primogenito di ogni crea
tura, perchè è causa di ogni creatura, co
me spiega S. Basilio (5): Quoniam in ipso
condita sunt universa in coelis et in terra ;
siccome si dice ancora: Primogenitus mor
tuorum, Apocal. 1. 5., Quod causa sit re
surrectionis ex mortuis, come spiega lo stes
so S. Basilio. Oppure si chiama primogeni
to, perchè è generato innanzi a tutte le co
se, come lo spiega Tertulliano (4): Primo
genitus ut ante omnia genitus, et unigenitus
ut solus ex Deo genitus. E lo stesso scrisse

(1) S. August. lib. 5. de Trin. cap. 12. S. Ful


gent. lib. contra serm. fastid. Arian. S. Athanas.
Orat. 2. contra Arian.
(2) S. Crrill. lib. 25. Thesaur.
(3) S. Basil. lib. 4. contra Eunom.
(4) Tertull. contra Prax. cap. 7.
66
S. Ambrogio (1): Legimus primogenitum Fi
lium, legimus unigenitum: Primogenitum, quia
nemo ante ipsum: Unigenitum, quia nemo
post ipsum.
57. Oppongono per 6.º quel che disse il
Battista: Qui post me venturus est , ante me
factus est, Joan. 1. 15. Dunque, dicono, il
Verbo è stato creato. Risponde S. Ambro
gio (2) che altro non vuol dire S. Giovanni
con quelle parole ante me factus est, se
non che mihi praelatus est, et praepositus
est; e ne assegna poco appresso la ragione:
quia priorme erat, cioè perchè l'avea pre
ceduto per tutta una eternità, e perciò egli
non era degno neppure di sciogliergli le
scarpe: cujus non sum dignus ut solvam
ejus corrigiam calceamenti. La stessa rispo
sta vale per quel che dice S. Paolo : Tanto
melior angelis effectus; Hebr. 1. 4 , cioè
tanto maggiormente onorato di tutti gli an
geli
58. Oppongono per 7.º il testo di S. Gio
vanni: Haec est vita aeterna: Ut cognoscant
te solum Deum verum ( Patrem ) et quem
misisti Jesum Christum. Joan. 17. 5. Ecco,
dicono, qui si dice che solo il Padre è ve.
ro Dio. Ma si risponde che la parola solum

(1) S. Ambros. lib. 1. de Fide cap. 6.


(2) Idem lib. 3. de Fide.
6
non esclude dalla divinità che le sole crea
ture, come si dice in S. Matteo: Nenno novit
Filium nisi Pater: negue Patrem quis novit
nisi Filius. Matth. 11. 27. Da queste parole
malamente si dedurrebbe che il Padre non
conosce se stesso; sicchè la particola soluon
nel testo prima citato si prende, come quel
lo del Deuteronomio (52. 12. ): Dominus so
lus dur ejus fuit, et non erat cum eo Deus
alienus; e come si prende l'altro testo in
S. Giovanni, ove parlando Gesù Cristo ai
suoi discepoli: El me solum relinquatis. Joan.
16. 52. Si dice solum, ma non già per
esclusione del Padre, come subito ivi si
aggiunge: Et non sum solus, quia Pater
mecum est. Così ancora s'intende quel luogo
di S. Paolo: Scimus quia nihil est idolun
in mundo, et quod nullus est Deus, nisi unus.
Nam etsi sunt qui dicantur di sive in ca
lo, sive in terra..., nobis tamen unus Deus
Pater, ex quo omnia, et nos in illum; et
unus Dominus Jesus Christus, per quem om
nia, et nos per ipsum. 1. Cor. 8. 4. 5. et 6.
Quell'unus Deus Pater s'intende per esclu
dere i falsi Dei, ma non già la divinità del
Figlio; siccome dicendosi et unus Dominus
Jesus Christus, non si esclude il Padre
dall'esser nostro Signore.
59. Così parimente all'altro testo: Unus
Deus et Pater omnium, qui est super omnes
68
et per omnia et in omnibus nobis, Eph. 4.6.:
si risponde che le parole unus Deus et Pa
ter omnium non escludono la divinità delle
altre due persone; oltrechè la parola Pater
non si piglia in senso stretto nozionale, in
quanto che dinoti la sola persona del Padre,
ma in senso essenziale, in quanto la parola
Padre si attribuisce a tutta la Trinità, che
tutta noi invochiamo, dicendo: Pater noster
qui es in coelis. Così ancora si risponde all'
altro testo: Unus enim Deus; unus et media
tor Dei et hominum homo Christus Jesus. 1.
Tim. 2. 5. Colle parole unus Deus non
viene esclusa la divinità di Gesù Cristo,
anzi dice S. Agostino che colle parole sus
seguenti unus mediator Dei et hominum Chri
stus Jesus vien dimostrato che Gesù Cristo
è uomo e Dio, dicendo il Santo : Morten
enim nec solus Deus sentire, nec solus homo
superare potuisset.
4o. Oppongono per 8 º il testo : De die
autem illo, vel hora nemo scit, neque angeli
in coelo, neque Filius, nisi Pater. Marc. 15.
52. Ecco, dicono, che il Figlio non è onni
scio. Alcuno ha risposto che Cristo non sa
peva il giorno del giudizio come uomo, ma
solo come Dio. Ma ciò non si può dire;
poichè dalle Scritture abbiamo che a Cristo
anche come uomo fu data la pienezza della
scienza: Vidimus glorian eius, gloriam quasi
69
unigeniti a Patre, plenum gratiae et veri
tatis, Joan. 1. 14. ; ed in altro luogo dicesi
anche di Cristo: In quo sunt omnes thesauri
sapientiae et scientiae absconditi. Coloss. 2. 5.
E S. Ambrogio (1), parlando del presente
punto, dice: Quomodo nescivit judicii diem,
qui horam judicii et locum et signa ea pres
sit et causas ? Onde la Chiesa Africana co
strinse a ritrattarsi Leporio, il quale avea
detto che Cristo come uomo avea ignorato
l' ultimo giorno; e quegli volentieri si ritrat
tò. Si risponde dunque che si dice avere il
Figlio ignorato il giorno del giudizio, per
chè era inutile e non conveniente di co
municarlo agli uomini, così S. Agostino :
Quod dictum est nescire Filium, sic dictum
est, quia facit nescire homines, idest non
prodit eis quod inutiliter scirent. Sicchè dalle
addotte parole si deduce che il Padre non
ha voluto che il Figlio manifestasse tal gior
mo, e il Figlio come legato del Padre in tal
senso disse che non lo sapea, perchè avea
commissione di non manifestarlo.
41. Oppongono per 9º che il solo Padre
si dice buono ad esclusione del Figlio: Quid
me dicis bonum ? Nemo bonus, nisi unus Deus.
Marc. 1o. 18. Dunque confessò Cristo di

() s ambros. lib. 3 de Fide cop 16, n. aos.


O

ri esser Dio. Risponde S. Ambrogio (1),


che ciò fu un rimprovero a quel giovine,
come gli dicesse: tu non mi tieni per Dio,
e mi chiami buono, quando che solo Dio
è buono per essenza e da se stesso? Ergo
vel bonum non appella, vel Deum me esse
crede: parole del Santo.
42. Oppongono per 1 oº che Cristo non ha
piena potestà nelle cose create; mentre alla
madre di S. Giacomo e S. Giovanni, che
chiedeagli di far sedere i figli alla sua destra
nel cielo, rispose: Sedere ad decteram meam,
vel sinistram non est meum dare. Matth. 2o.
25. Si risponde che non può negarsi se
condo le Scritture aver Cristo ricevuto dal
Padre una piena potestà: Sciens quia omnia
dedit ei Pater in manus. Joan. 15. 5. : Om
nia mihi tradita sunt a Patre meo. Matth.
11.27.: Data est mihi omnis potestas in coelo
et in terra. Matth. 28. 18. Come dunque
s'intende che non appartenesse a lui dare
quei luoghi ai figli di Zebedeo ? Ciò s' in
tende dalla stessa risposta del Signore, di
cendo : Non est meum dare vobis, sed qui
bus paratum est a Patre meo. Ecco la rispo
sta : non est meum dare vobis, non già che
Cristo non potea darli, ma non posso, di
ceva egli, darli vobis, che volete il cielo
-

(1) S. Ambros. lib. 2. de Fide cap. 1.


I

per ragion della parentela che avete i


poichè il cielo si dà a coloro a quali è pre
parato dal Padre; a quali parimente può
darlo Cristo, ch'è uguale al Padre. Si om
nia, scrive S. Agostino (1), qua habet Pa
ter, mea sunt; et hoc utique meum est, et
cum Patre illa paravi.
45. Oppongono per 11.º il testo : Non
potest Filius a se facere quidquam, nisi quod
videret Patrem facientem. Joan. 5. 19. La
risposta la dà S. Tommaso (2): Quod dicitur
Filius non potest a se facere quidquam, non
subtralitur Filio aliqua potestas, quam ha
beat Pater; cum statim subdatur, quod quae
cinque Pater facit , Filius similiter facit :
sed ostenditur quod Filius habeat potestatem
a Patre, a quo habet naturam. Unde dicit
PIilarius (5): Naturae divinae ha c unitas est,
ut ita per se agat Filius quod non agat a
se. E la stessa risposta vale per altri simili
testi che oppongono, cioè : Mea doctrina non
est mea, Joan. 7. 16.: Pater diligit Filium,
et omnia demonstrat ei, Joan. 5. 2o.: Omnia
mihi tradita sunt a Patre meo. Matth. I 1.
27. Dicono che in tutti questi luoghi si di
mostra che il Verbo non può essere per na
tura e per sostanza Dio. Ma si risponde che
(1) S. August. lib. 1. de Trin. cap. 12.
(2) S. Thom. 1. part. qu. 42. art. 6. ad 1.
(3) Hilar. lib. 9. de Trin. -
72
il Figlio, essendo generato dal Padre, ogni
cosa da lui riceve per comunicazione, e il
Padre generandolo gli comunica quanto egli
ha, eccettuata la paternità, con cui relativa
mente si oppone al Figlio; poichè la poten
za, la sapienza e la volontà è in tutto la
stessa quella del Padre, che quella del Fi
glio e dello Spirito Santo. Vi sono certi
altri testi che oppongono gli Ariani, e che
non contengono difficoltà speciali; onde da
quanto si è detto resta facile ad ognuno il
rispondervi.

C O N FUT A Z I O N E III.

DELL' ERESIA DI MACEDoNIo,


CHE NEGAvA LA DIvINITA' DELLo sPIRITo SANTo.

I• Ano apertamente non negò la divinità


dello Spirito Santo, ma da suoi principi ne
derivava per conseguenza che, non essendo
Dio il Figlio, neppure poteva esser Dio lo
Spirito Santo che dal Padre e dal Figlio
procede. Tuttavia Aerio ed Eunomio, Eu
dossio e tutti gli altri che furono già disce
poli di Ario, e che poi bestemmiavano es
sere il Figlio dissimile al Padre, impugnaro
no la divinità dello Spirito Santo, e tra essi
7o
Macedonio fu quegli che più degli altri di
fese e propalò quest'eresia. Nella confuta
zione dell'eresia di Sabellio dimostrammo
contro i Sociniani che lo Spirito Santo è
la terza persona della SS. Trinità, sussisten
te e realmente distinta dal Padre e dal Figlio;
qui dimostreremo che lo Spirito Santo è ve
ro Dio, eguale e consostanziale al Padre ed
al Figlio.

S I.
si PRovA LA DIvrNITA' DELLo sPIRITo saNto
DALLE scRITTURE, DALLA TRADIzIoNE DE' PADRI
E DA coNCILI GENERALI.

2- TE per 1.º si prova dalle Scritture. A ren

dere evidente questa verità di fede a me pa


re che certamente basti il solo testo che ab
biamo in S. Matteo, in cui Gesù Cristo im
pose agli Apostoli la promulgazion della fe
de con quelle parole: Euntes ergo docete
omnes gentes, baptizantes eos in nomine Pa
tris et Filii et Spiritus Sancti Matth. 28. 19.
Con questa credenza si professa la cristiana
religione, la quale sta fondata sovra il mi
stero della Trinità, ch' è il principale della
nostra fede: con queste parole s'imprime il
carattere di cristiano in ognuno che entra
nella chiesa per mezzo del battesimo, la
La G. Storia delle Eresie T. III. D
4
ai formola approvata da tutti i santi Padri
ed usata sin da primi secoli è quella: Ego
te baptizo in nomine Patris et Filii et Spi
ritus Sancti Col nominare le tre persone se
guitamente senza alcuna diversità, ben si
dichiara l'uguaglianza che vi è tra di loro
di autorità e di virtù. Col dirsi in nomine,
e non in nominibus, si dichiara l' unità dell'
essenza delle medesime. Col frapporre la
particola et fra di loro, in nomine Patris et
Filii et Spiritus Sancti, si dichiara la distin
zione reale che vi è fra di esse; altrimenti
dicendosi in nomine Patris Filii et Spiritus
Sancti, potrebbe prendersi la parola Spiritus
Sancti non per nome proprio e sostanti
vo, ma per epiteto ed aggettivo del Padre
e del Figlio. E perciò ancora dice Tertul
liano che il Signore ha comandato nell'am
ministrarsi il battesimo, farsi una particolare
abluzione per ciascuna persona che si no
mina, acciocchè fermamente crediamo es
sere tre le persone distinte nella Trinità:
Mandavit ut tingerent in Patrem et Filium
et Spiritum Sanctum; non in unum : nam
nec semel, sed ter ad singula nomina in per
sonas singulas tingimur (1).
5. Scrisse S. Atanasio nella celebre episto
la a Serapione che nel battesimo talmente

(1) Tertull. contr. Praxeam cap. 26.


7o
si aggiunge al nome del Padre e del Fi
gliuolo quello dello Spirito Santo, che se di
questo non si facesse menzione, il sacra
mento sarebbe nullo: Qui de Trinitate ali
quid eximit, et in solo Patris nomine bapti
zatur, aut solo nomine Filii, aut, sine Spiritu,
in Patre et Filio, nihil accipit; nam in Tri
nitate initiatio perfecta consistit. Dice il Santo
che mancandovi il nome dello Spirito Santo,
manca il battesimo : perchè il battesimo è
sacramento in cui si professa la fede, e
questa fede importa la credenza di tutte
tre le divine persone unite in una essenza;
onde chi nega una delle persone, nega tut
to Dio. Così anche, siegue a dire S. Ata
nasio, sarebbe nullo il battesimo per colui
che tenesse per creatura il Figlio o lo Spi
rito Santo: Qui Filium a Patre dividit, aut
Spiritum ad creaturarum conditionem detra
hit, neque Filium habet, neque Patrem Et
quidem merito: ut enim unus est baptismus
qui in Patre et Filio et Spiritu Sancto con
sfertur, et una fides est in ipsum, ut ait Apo
stolus; sic S. Trinitas in seipsa consistens
et in se unita nihil habet in se factarum re
rum. Siccome l'unità della Trinità è indivi
dua, così è una ed individua la fede delle
tre persone in essa unite. E con ciò dob
biam credere che il nome dello Spirito San
to, cioè il nome della terza divina persona,
6
rie con queste due speciali parole tante
volte nelle divine Scritture, non è un no
me immaginario o inventato a placito, ma è
nome della terza persona, che è Dio come
il Padre e come è il Figlio. Ed a qual fine
mai, soggiunge S. Atanasio, Gesù Cristo
avrebbe unito col Padre e col Figlio lo Spirito
Santo, se quegli fosse creatura? Forse per
rendere dissimili le tre persone tra di loro?
E che mai mancava a Dio, che dovesse
assumere una diversa sostanza, per renderla
gloriosa come se stesso? Quod si Spiritus
creatura esset, non cum Patre copulasset,
ut Trinitas sibi ipsi dissimilis esset, si extra
neum quidpiam et alienum adjungeretur. Quid
enim Deo deerat, ut quidquam diversa sub
stantiae assumeret etc., ut cum illo glorifi
caretur ?
4. Al testo di S. Matteo riferito, con cui
ordinò il Signore a discepoli non solo di
battezzare in nome delle tre persone, ma
anche d'istruire i fedeli nella credenza delle
medesime: Docete omnes gentes, baptizantes
eos in nomine Patris etc., corrisponde il testo
di S. Giovanni: Tres sunt qui testimonium
dant in coelo : Pater, Verbum et Spiritus
Sanctus; et hi tres unum sunt, Joan. 1. Epist.
5. 7.; colle quali parole, come si disse nella
confutazione I. contro Sabellio al num. 9, si
spiega con evidenza così l'unità della natura
77
come la distinzione delle tre divine perso
ne (1). Dice il testo: et hi tres unum sunt ;
se i tre testimonj sono una stessa cosa, dun
que ciascuno di loro ha la stessa divinità e
la stessa sostanza; altrimenti, dice S. Isido
ro (2), non potrebbe verificarsi il testo di
S. Giovanni: Nam cum tria sint, unum sunt.
E lo stesso significò S. Paolo, mandando la
sua benedizione a discepoli di Corinto: Gra
tia Domini Vostri Jesu Christi et charitas
Dei et communicatio Sancti Spiritus sit cum
omnibus vobis. 2. Cor. 15. 15.
5. Il medesimo sta espresso in quei luo
ghi, ove si parla della missione dello Spirito
Santo sovra la chiesa. Nel vangelo di San
Giovanni in un luogo ( 14- 16. ) si dice :
Ego rogabo Patrem, et alium Paraclitum da
bit vobis, ut maneat vobiscum in aeternum.
Disse dunque Gesù Cristo, parlando dello
Spirito Santo, alium Paraclitum, per dinota
re l'eguaglianza che vi era tra esso e lo Spi
rito Santo. In un altro luogo dello stesso
vangelo ( 15. 26. ) disse il medesimo Salva
tore: Cum autem venerit Paraclitus, quem ego
mittam vobis a Patre, Spiritum veritatis, qui
a Patre procedit, ille testimonium perhibebit de
me. Dice dunque Gesù Cristo ch'egli avrebbe

(1) S. Athan. Ep. ad Serapion. num. 6.


(2) S. Isid. lib. 7. Etymol. cap. 4.
78
mandato lo Spirito della verità: Ego mit
tam vobis etc. Per lo Spirito non può inten
dersi qui lo Spirito suo proprio, perchè lo
Spirito proprio si comunica, si dona, ma
non si manda; il mandare significa trasmet
tere una cosa distinta dalla persona che man
da. Aggiunge: qui a Patre procedit; la pro
cessione a rispetto delle persone divine im
porta eguaglianza. Di questo argomento ap
punto si valsero i Padri contro gli Ariani a
provare la divinità del Verbo, come può
vedersi in S. Ambrogio (1). La ragione è
perchè il procedere da un altro è ricevere
lo stesso essere del principio da cui si fa
la processione. Se dunque lo Spirito Santo
procede dal Padre, dal Padre riceve la di
vinità egualmente come l'ha il Padre.
6. È una gran prova inoltre il vedere che
dalle Scritture lo Spirito Santo è chiamato
Dio come il Padre senza alcuna aggiunta,
restrizione o disuguaglianza. Isaia nel capo 6
dal verso 1 della sua profezia parla del
sommo Dio in questo modo: Vidi Dominum
sedentem super solium excelsum... Seraphim
stabant super illud ... et clamabant alter ad
alterum, et dicebant: Sanctus, Sanctus, San
ctus Dominus Deus exercituum; plena est
omnis terra gloria eſus... Et audivi vocem

(1) S. Ambros. lib. 1. de Spir. Sanct. cap. 4.


79
Domini dicentis... Vade et dices populo huic:
Audite audientes, et nolite intelligere... Er
caeca cor populi hujus, et aures ejus aggrava.
Ora S. Paolo ci assicura che questo som
mo Dio di cui qui parla Isaia è lo Spirito
Santo. Ecco le parole dell'Apostolo : Quia
bene Spiritus Sanctus locutus est per Isaiam
prophetam ad patres nostros, dicens: Vade
ad populum istum, et dic ad eds: Aure au
dietis, et non intelligetis etc. Act. 28. 25. et
26. Ecco dunque che lo Spirito Santo è
quello stesso Dio ch'è chiamato da Isaia
Dominus Deus exercituum. È bella la rifles
sione di S. Basilio (1) intorno a questo testo
d' Asaia: dice che le stesse parole Dominus
Deus exercituum riferite da Isaia nel luo
go citato si applicano al Padre; all'incontro
da S. Giovanni, al capo 12, si applicano
al Figlio, come apparisce dal verso 57 e
dal verso seguente, ove si parla dello stes
so testo d'Isaia; da S. Paolo poi nel luogo
già sovra citato si applicano allo Spirito San
to. Per tanto S. Basilio dice così: Propheta
inducit Patris, in quem Judaei credebant,
personam: Evangelista, Filii: Paulus, Spiri
tus; illum ipsum qui visus fuerat unum Do
minum Sabaoth communiter nominantes. Ser
monem quem de lirpostasi instituerunt ,

(1) S. Basil. lib. 5. contra Eunom.


8o
distinacere, indistincta manente in eis de uno
Deo sententia. La riflessione è troppo bella
er dimostrare che il Padre, il Figlio e lo
Spirito Santo sono tre persone distinte ;
ma tutte lo stesso Dio che parlò per bocca
de profeti. Parimente parlando l'Apostolo
di quel che dicesi nel salmo 94 verso 9 :
Tentaverunt me Patres vestri, dice che que
sto Dio tentato dagli ebrei è lo Spirito San
to: Quapropter sicut dicit Spiritus Sanctus..
Tentaverunt me Patres vestri. Hebr. 5. 7. et 9.
7. Lo stesso vien confermato da S. Pietro
( Actor. 1. 16. ), il quale attesta che questo
Dio, che ha parlato per bocca del profeti,
è lo stesso Spirito Santo : Oportet impleri
Scripturam, quam praedixit Spiritus Sanctus
per os David. E nell'epistola 2 capo I ver
so 21 scrisse: Non enim voluntate humana
allata est aliquando prophetia, sed Spiritu
Sancto inspirati locuti sunt sancti Dei homi
nes. Dallo stesso S. Pietro lo Spirito Santo
fu chiamato Dio per opposizione alle creatu
re, allorchè rimproverando ad Anania di
aver mentito, gli disse : Anania, cur tenta
vit Satanas cor tuum mentiri te Spiritui San
cto, et fraudare de pretio agri?... Non es
mentitus hominibus, sed Deo. Actor. 5. 4.
Che qui S. Pietro abbia voluto intendere per
Dio la terza persona della Trinità è chiaro
dalle stesse parole; e così han giudicato
81
anche S. Basilio, S. Ambrogio, S. Gregorio
Nazianzeno (1) ed altri con S. Agostino (2),
il quale dice così : Atque ostendens Deum
esse Spiritum Sanctum, non es, inquit, men
titus hominibus, sed Deo. -
8. Inoltre è un grande argomento della
divinità dello Spirito Santo il vedergli nella
Scrittura attribuite quelle proprietà che non
possono competere se non solo a chi è per
natura Dio. E per 1.º non può competere
che solo a Dio l'immensità che riempie il
mondo : Coelum et terram ego impleo, dice
Dio. Jer. 25. 24. Ora la Scrittura dice che
lo Spirito Santo riempie il mondo: Spiritus
Domini replevit orbem terrarum. Sap. 1. 7.
Dunque lo Spirito Santo è Dio. Scrive Sant'
Ambrogio (5). De qua creatura dici potest,
quia repleverit universa? quod scriptum est
de Spiritu Sancto: Efundam de Spiritu meo
super omnem carnem etc. Domini enim est
omnia complere, qui dicit: Ego coelum et
terram impleo. Di più si dice negli Atti
( 2. 4 ): Repleti sunt omnes Spiritu Sancto.
Chi mai, scrive Didimo, si dice nella Scrit
tura ripieno di una creatura? Nemo autem
(1) S. Basil. lib. 1. contra Eunom. et lib. de
Spir. Sanct. cap. 16. S. Ambros. lib. 1. de Spir.
Sanct. cap. 4. S. Greg. Nazianz. orat. 37.
(2) S. Aug. lib. 2. contra Maximin. cap. 21.
(3) S. Ambros. lib. 1. de Spir. Sanct. cap. 7.
D 5
82
in Scripturis, sive in consuetudine sermonis
plenus creatura dicitur. Dunque furon pieni
di Dio, e questo Dio fu lo Spirito Santo.
9 Per 2.º non può competere che a Dio
il conoscere i divini segreti, come dice
S. Ambrogio: Nemo enim inferior superioris
scrutatur arcana. Or S. Paolo ci fa sapere:
Spiritus..... omnia scrutatur, etiam profun
da Dei. Quis enim hominum scit quae sunt
hominis, nisi spiritus hominis qui in ipso est?
Ita et quae Dei sunt nemo cognovit nisi Spi
ritus Dei 1. Cor. 2. Io et 11. Dunque lo
Spirito Santo è Dio; mentre, come argomen
ta Pascasio, se il conoscere il cuore degli
uomini è proprio di Dio ( scrutans corda et
renes Deus ), quanto più è lo scrutinare i se
greti di Dio ! Si enim hominis occulta co
gnoscere divinitatis est propriumi, quanto magis
scrutari profunda Dei summi in persona Spi
ritus Sancti majestatis insigne est! Da questo
medesimo luogo prova S. Atanasio la conso
stanzialità dello Spirito Santo col Padre e
col Figlio, dicendo che siccome lo spirito
dell'uomo che conosce i segreti dell'uomo,
non è da esso estraneo, ma è della stessa
sostanza dell'uomo; così lo Spirito Santo
che conosce i segreti di Dio, non può esser
estraneo, ma deve esser della stessa sostan
za con Dio: An non summae impietatis fue
rit dicere rem creatam esse Spiritum, qui
85
in Deo est, et qui profunda Dei scrutatur?
Nam qui ea mente est, fateri utique cogetur
spiritum hominis extra hominem esse (1).
1o. Per 5.º a Dio solo compete l'onnipo
tenza; e questa è attribuita allo Spirito San
to: Verbo Domini coeli firmati sunt, et Spi
ritu oris ejus omnis virtus eorum. Psal. 52.
6. Più chiaramente l'esprime S. Luca, lad
dove narra che l'arcangelo rispondendo alla
S. Vergine, che domandava come potea es
ser madre avendo donato a Dio la sua ver
ginità, le disse: Spiritus Sanctus superveniet
in te, et virtus Altissimi obumbrabit tibi... quia
non erit impossibile apud Deum omne verbum.
Luc. 1. 55. Ecco dunque che allo Spirito
Santo niente è impossibile. Allo Spirito Santo
parimente è attribuita la creazione dell'uni
verso : Emitte Spiritum tuum, et creabuntur.
Psalm. Io 5. 5o. Ed in Giobbe si disse: Spi
ritus Domini ornavit caelos. Job. 26. 15. Il
creare è sola virtù della divina onnipotenza.
Quindi S. Atanasio conchiude (2): Cum hoc
igitur scriptum sit, manifestum est Spiritum
non esse creaturam, sed in creando adesse:
Pater enim per Verbum in Spiritu creat om
nia, quandoquidem ubi Verbum, illic et Spi
i ritus; et quae per Verbum creantur, habent

(1) S. Athan. Epist. 1. ad Serapion. num. 22.


(2) S. Athan. Epist. 3. ad Serapion. num. 5.
84
ex Spiritu per Filium vim existendi Ita enin
scriptum est ( 52 Psalmo ) : Verbo Domini
coeli firmati sunt, et Spiritu oris ejus omnis
virtus eorum. Nimirum ita Spiritus indivisus
est a Filio, ut ex supradictis nullus sit du
bitandi locus.
11. Per 4º è certo che la grazia di Dio
non si dona che da Dio stesso : Gratiam et
gloriam dabit Dominus. Psal 85. 12. Così
anche la giustificazione solo da Dio si con
cede: Deus est, qui justificat impium. Prov.
17. 15. Or l'uno e l'altro dalle Scritture
viene attribuito allo Spirito Santo : Charitas
Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiri
tum Sanctum, qui datus est nobis. Rom. 5.5.
Qui riflette Didimo (1): Ipsum effusionis no
men increatam Spiritus Sancti substantiam
probat; neque enim Deus, cum angelum mit
tit, effundam, dicit, de angelo meo. E circa
la giustificazione Gesù stesso disse a suoi
discepoli : Accipite Spiritum Sanctum : quo
rum remiseritis peccata, remittuntur eis. Joan.
2o. 22. et 25. Se la potestà di rimettere i
peccati si ha dallo Spirito Santo, dunque lo
Spirito Santo è Dio. Di più dice l'Apostolo
che Dio è quello che opera in noi tutto il
bene che facciamo: Deus qui operatur omnia
in omnibus. 1. Cor. 12. 6. E nello stesso

(1) Drdim. lib. de Spir. Sanct.


- 85
luogo ( vers. 11. ) dice che lo Spirito Santo
è questo Dio: Haec autem omnia operatur
unus atque idem Spiritus, dividens singulis
prout vult. Onde dice S. Atanasio che qui
ci fa sapere la Scrittura che l'operazione di
Dio è dello Spirito Santo.
12. Per 5.º ci fa sapere S. Paolo che noi
siamo tempi di Dio ( 1. Cor. 5. 16. ): Ne
scitis quia templum Dei estis. In altro luogo
poi della stessa lettera ( 6. 19 ) dice che
il nostro corpo è tempio dello Spirito Santo:
An nescitis quoniam membra vestra templum
sunt Spiritus Sancti, qui in vobis est ? Se
dunque siamo tempi di Dio e dello Spirito
Santo, bisogna confessare che lo Spirito San
to è Dio; altrimenti se lo Spirito Santo fosse
creatura, avrebbe da dirsi, come scrive Sant'
Agostino, che lo stesso tempio di Dio è
tempio della creatura. Ecco le parole di Sant'
Agostino (1): Si Deus Spiritus Sanctus non
esset, templum utique nos ipsos non haberet...
Nonne si templum alicui Sancto, vel Angelo
faceremus, anathemaremur a veritate Christi
et ab ecclesia Dei, quoniam creatura echi
beremus eam servitutem, quae uni tantum de
betur Deo? Si ergo sacrilegi essenus, facien
do templum cuicunque creatura, quomodo

(1) August. in 1. Cor. cap. 6. Collat. cum Ma


acimin. in Arian.
-
86
non est Deus verus, cui non templum facimus,
sed nos ipsi templum sumus ? Quindi S. Ful
- genzio (1), epilogando quanto di sopra si è
detto, fa molti giusti rimproveri a chi nega
esser Dio lo Spirito Santo : Dicatur igitur si
coelorum virtutem potuit firmare qui non est
Deus ; si potest in baptismatis regeneratione
sanctificare qui non est Deus ; si potest ca
ritatem tribuere qui non est Deus : si potest
gratiam dare qui non est Deus ; si potest
templum membra Christi habere qui non est
Deus ; et digne Spiritus Sanctus negabitur
Deus. Rursus dicatur si ea quæ de Spiritu
Sancto commemorata sunt potest aliqua crea
tura facere; et digne Spiritus Sanctus dicatur
creatura. Si autem haec creaturæ possibilia
nunquam fuerunt, et inveniuntur in Spiritu
Sancto, quæ tamen soli competunt Deo, non
debemus naturaliter diversum a Patre, Filio
que dicere , quem in operum `potentia diver
sum non possumus invenire. Dall' unità dun
que della virtù, concludiamo con S. Fulgen
zio , dee riconoscersi l' unità della matura e
della divinità dello Spirito Santo.
15. A tutte queste prove delle sacre Scrit
ture si unisce la tradizione della chiesa, in
cui sim dal principio si è conservata sem
pre salda la fede della divinità dello Spirito

(1) S. Fulgent. lib. 3. ad Transimund. cap. 35.


8
Santo, e sua consostanzialità col Padre o

col Figlio, tanto nella forma del battesimo,


quanto nelle preghiere, in cui lo Spirito San
to è stato invocato col Padre e col Figliuo
lo, come si fa da quella specialmente usa
ta nella chiesa, così frequentemente in fine
di tutti i salmi e di tutti gl'inni : Gloria
Patri et Filio et Spiritui Sancto: oppure
Gloria Patri cum Filio et Spiritu Sancto :
oppure: Gloria Patri per Filium in Spiritu
Sancto: tutte e tre le quali dalla chiesa sono
state praticate. E di quest'argomento si so
no anche molto valuti contro i Macedoniani
S. Atanasio, S. Basilio, S. Ambrogio, S. Ila
-

rio, Didimo, Teodoreto, S. Agostino ed al


tri. Qui poi ben avverte S. Basilio (1) che la
formola Gloria Patri et Filio et Spiritui
Sancto rare volte si è usata nella chiesa,
ma ordinariamente si è usata quell'altra:
Gloria Patri et Filio cum Spiritu Sancto,
come prova lo stesso S. Basilio nel luogo
citato. Del resto tutte riduconsi allo stesso :
mentre è regola generale che, parlandosi della
Trinità, le particole che usa la Scrittura
ex quo, per quem, in quo ( come per esem
pio dicesi del Padre ex quo omnia, del Fi
glio per quem omnia, dello Spirito Santo
in quo omnia ), queste particole significano

(1) S. Basil. lib. 1. de Spir. Sanct. cap. 25.


-

88
lo stesso, nè punto dinotano disuguaglianza;
mentre dice S. Paolo, parlando dello stesso
Dio : Quoniam ex ipso, et per ipsum, et in
ipso sunt omnia, ipsi gloria in saecula. Rom.
1 1. 56.
14. Questa costante fede della chiesa è
stata conservata da santi Padri nel loro scritti
sin da primi secoli. S. Basilio, che fu uno
de più forti difensori della divinità dello
Spirito Santo (1), cita un testo di S. Cle
mente Romano Papa, dicendo: Sedet Cle
mens antiquior: Vivit, inquit, Pater et Do
minus Jesus Christus et Spiritus Sanctus.
Sicchè S. Clemente alle tre divine persone
attribuisce egualmente la stessa vita; dunque
le avea tutte tre veramente e sostanzialmen
te per Dio. Tanto più che S. Clemente op
pone le tre divine persone agli Dei del gen
tili, che non han vita; ma Dio nelle Scrit
ture si appella Deus vivens. Nè osta il dire
che le riferite parole non si trovano nelle
due epistole di S. Clemente: poichè della
seconda lettera del Santo ora non abbiamo
se non certi frammenti; onde dobbiam cre
dere che S. Basilio le abbia lette nella lettera
intiera che noi non abbiamo.
15. S. Giustino nella sua Apologia secon
da: Verum hunc ipsum, parla del Padre, et

(1) S. Basil. lib. de Spir. Sanct. cap. 29.


89
qui ab eo venit... Filium et Spiritum San
ctum colimus et adoramus, cum ratione et
veritate venerantes. Sicchè S. Giustino dava
al Figlio ed allo Spirito Santo lo stesso cul
to che dava al Padre. Atenagora nella sua
Apologia scrisse: Deum asserimus et Filium
ejus Verbum et Spiritum Sanctum virtute
unitos... Filius enim Patris mens, verbum
et sapientia est, et effluentia, ut lumen ab
igne, Spiritus. S. Ireneo (1) insegna che Dio
Padre ha create, ed ora governa tutte le
cose così per il Verbo, come per lo Spirito
Santo: Nihil enim indiget omnium Deus, sed
per Verbum et Spiritum suum omnia faciens
et disponens et gubernans. Sicchè S. Ireneo
dice che Dio di niuno ha bisogno, e poi di
ce che fa ogni cosa per il Verbo e per lo
Spirito Santo; dunque lo Spirito Santo è lo
stesso Dio col Padre. Ed in altro luogo (2)
insegna che lo Spirito Santo è creatore ed
eterno, a differenza dello spirito creato :
Aliud autem est quod factum est, ab eo
qui fecit; afflatus igitur temporalis, Spiritus
autem sempiternus. S. Luciano che fu circa
l'anno 16o nel dialogo intitolato Philopatris,
che a lui si attribuisce, ad un gentile che
domanda : Quodnam igitur tibi jurabo ? fa

(1) S. Iren. lib. 1. adv. Haeres. cap. 19.


(2) Idem lib. 5. cap. 12.
9o
rispondere dal suo Trifone in difesa della
fede: Deum alte regnantem... Filium Patris,
Spiritum ex Patre procedentem, unum ex
tribus et ex uno tria. Il passo è chiaro, non
ha bisogno di spiegazione. Clemente Ales
sandrino (1) scrive: Unus quidem est univer
sorum Pater; unus est etiam Verbum univer
sorum; et Spiritus Sanctus unus, qui et ipse
est ubique. Ed in altro luogo (2) spiega chia
ramente la divinità e consostanzialità dello
Spirito Santo col Padre e col Figlio: Gra
tias agamus soli Patri et Filio... una cum
Sancto Spiritu, per omnia uni, in quo om
nia, per quem omnia, unum, per quem est
quod semper est. Ecco come spiega che le
tre persone sono affatto eguali, ed una è in
esse l'essenza. Tertulliano (5) professa di
credere: Trinitatem unius divinitatis, Patrem,
Filium et Spiritum Sanctum. Ed in altro
luogo (4) dice : Duos quidem definimus Pa
trem et Filium, etiam tres cum Spiritu San
cto... Duos tamen Deos nunquam ex ore
nostro proferimus, non quasi non et Pater
Deus et Filius Deus et Spiritus Sanctus

(1) Clem. Alex. Paedagog. lib. 1. e 6.


(2) Idem lib. 3. cap. 7.
(3) Tertull. de Pudicit. cap. 21.
(4) Idem contra Praxeam cap. 3.
I

Deus, et Deus unusquisque etc. S. ci


no (1), parlando della Trinità, scrive: Cum
tres unum sint, quomodo Spiritus Sanctus
placatus ei esse potest, qui aut Patris, aut
Filii inimicus est ? E nella stessa lettera pro
va esser nullo il battesimo dato nel solo no
me di Cristo, dicendo che: Ipse Christus
gentes baptizari jubet in plena et adunata
Trinitate. S. Dionisio Romano nella lettera
contro Sabellio dice: Non igitur dividenda
in tres Deitatis admirabilis et divina Uni
tas. .. sed credendum est in Deum Patrem
omnipotentem et in Christum Jesum Filium
ipsius et in Spiritum Sanctum. Tralascio qui
di aggiungere altre testimonianze del Padri
dei secoli posteriori, le quali sono innume
rabili; solo accenno qui alcuni Padri che
di proposito hanno oppugnata l'eresia di
Macedonio, e questi sono S. Atanasio, San
Basilio, S. Gregorio Nazianzeno, S. Grego
rio Nisseno, S. Epifanio, Didimo, S. Cirillo
Gerosolimitano, S. Cirillo Alessandrino e
S. Ilario (2). Questi Padri, appena uscita

(1) S. Cypr. Epist. ad Jubajan.


(2) S. Atan. Epist. ad Serap. S. Basil. lib. 3. e
5. contra Eunom. et lib. de Spir. Sanct. S. Greg.
Nazianz. lib. 5. de Theol. S. Greg. Nrss. lib. ad
Eustat. S. Epiph. Haer. 74. Drdimus. lib. de Spir..
Sanct. S. Crrill. Hierosol. Catech. 16 e 17. S.
Cyrill. Alex. lib. 7. de Trin. et lib. de Spir. Sun.
S. Hilar. lib. de Trinit.
92
l'eresia di Macedonio, si unirono a condan
narla; segno ch'ella era contraria alla fede
di tutta la chiesa.
16. Fu di poi condannata questa eresia da
più concilj generali e particolari. Prima fu
condannata, due anni dopo che Macedonio
la propalò, dal concilio di Alessandria cele
brato da S. Atanasio nell'anno 572, dove
si disse che lo Spirito Santo è consostanziale
nella Trinità. Nell'anno 577 fu condannata
dalla santa Sede nel sinodo dell' Illirico. E
verso lo stesso tempo fu condannata in due
altri sinodi Romani sotto S. Damaso Papa,
come scrive Teodoreto (1). Finalmente nell'
anno 581 fu condannata nel concilio Co
stantinopolitano I. sotto lo stesso S. Dama
so, ed ivi fu aggiunto nel simbolo della fe
de questo articolo : Credimus in Spiritum
Sanctum, Dominum et vivificantem, ex Patre
procedentem, et cum Patre et Filio ado
randum et glorificandum, qui locutus est per
Prophetas. Quegli, a cui si dà lo stesso
culto che dassi al Padre ed al Figlio, cer
tamente è Dio. Questo concilio poi si è avu
to sempre per ecumenico da tutta la chiesa:
perchè, sebbene fosse composto di soli 15o
vescovi orientali, nondimeno perchè i ve
scovi occidentali uniti verso lo stesso tempo

(1) Theodoret. lib. 2. Hist. cap. 22.


95
col Papa S. Damaso definirono lo stesso ar
ticolo circa la divinità dello Spirito Santo,
giustamente si è sempre riconosciuta la det
ta definizione come definizione della chiesa
universale; ed i seguenti concili ecumenici,
cioè il concilio di Calcedonia, il Costantino
politano II e III. e il Niceno II. conferma
rono lo stesso simbolo. Il Costantinopolitano
IV. di più pronunciò l'anatema contro Ma
cedonio, e definì esser lo Spirito Santo con
sostanziale al Padre ed al Figlio. Finalmente
il Lateranese IV, come abbiamo nel capo 1.
de Summa Trinit., così conchiude : Defini
mus quod unus solus est verus Deus, Pater
et Filius et Spiritus Sanctus, tres quidem
personae, sed una essentia, substantia, seu
natura simplex omnino: e che tutte le tre
persone sono consubstantiales, coomnipoten
tes et coaterna, unum universorum princi
pium.

S II.
SI RISPONDE ALLE OBBIEZIONI,

17. IP, 1.º i Sociniani che han rinnovate


le antiche eresie portano un argomento ne
gativo, e dicono che lo Spirito Santo non
è mai chiamato Dio nella Scrittura, nè mai
v

è proposto ad essere adorato ed invocato.


94 - --

A ciò risponde S. Agostino (1) contro Mas


simino Macedoniano, e dice: Ubi legisti Pa
trem Deum ingenitum, vel innatum ? et ta
men verum est etc. E vuol dire il Santo che
alcune cose nella Scrittura non si leggono
in termini espressi, ma si leggono in termi
mi equivalenti, che hanno la stessa forza per
la verità della cosa; ed a provar ciò vale
tutto quel che si è detto al num. 2. 4 e 6,
dove ben equivalentemente sta lo Spirito
Santo dichiarato per Dio.
18. Oppongono per 2.º che S. Paolo nella
prima a Corinti, parlando de'benefici fatti
da Dio agli uomini, fa menzione del Padre
e del Figlio e non dello Spirito Santo. Si
risponde non esser necessario che, facendosi
menzione di Dio, sieno sempre espressa
mente nominate tutte le tre divine persone;
poichè, nominata una, s'intendono nominate
tutte, massime nelle opere ad extra, che
sono indivise di tutta la Trinità, perchè tutte
vi concorrono nello stesso modo: Qui bene
dicitur in Christo, scrive S. Ambrogio (2),
benedicitur in nomine Patris, Filii et Spiri
tus Sancti ; quia unum nomen, potestas una:

(1) S. August. lib. a. alias 3 contra Maximin,


cap. 3. -

(2) S. Ambros. lib. 1. de Spir. Sanct. cap. 3.


95
ita etiam ubi operatio Spiritus Sancti desi
gnatur, non solum ad Spiritum Sanctum,
sed etiam ad Patrem refertur et Filium.
19 Oppongono per 5.º che lo Spirito
Santo fu ignoto a primi cristiani, come si
ha dagli Atti Apostolici ( 19 2. ), dove in
terrogati da S. Paolo alcuni battezzati se
avessero ricevuto lo Spirito Santo, rispose
ro: Sed neque si Spiritus Sanctus est audi
vimus. Si risponde che nello stesso luogo
degli Atti vi è la risposta: poichè S. Paolo,
udendo che ignoravano lo Spirito Santo, re
plicò : In quo ergo baptizati estis? E quei
risposero: In Joannis baptismate. E così qual
meraviglia che quelli ignorassero lo Spirito
Santo, se non ancora erano stati battezzati
col battesimo ordinato da Cristo ?
2o. Oppongono per 4.º che il concilio di
Costantinopoli, parlando dello Spirito Santo,
non lo chiamò Dio. Si risponde che il con
cilio ben lo dichiarò Dio, chiamandolo Signo
re e vivificante, che procede dal Padre, e
dicendo che si deve adorare e glorificare
insieme col Padre e col Figlio. E lo stesso si
risponde per S. Basilio o altro santo Padre,
che non ha nominato Dio lo Spirito Santo;
ma questi han difesa la sua divinità, ed han
condannato chi lo chiamava creatura. Del re
sto che S. Basilio nelle prediche siasi aste
nuto di chiamarlo Dio, questa era prudenza
6
in i tempi funesti, in cui gli eretici cer
cavamo l'occasione di sbalzare i vescovi cat
tolici dalle loro sedi per sostituirvi i lupi.
S. Basilio all'incontro in mille luoghi difen
de la divinità dello Spirito Santo. Basta per
tutti quel che dice nel libro quinto contro Eu
nomio, dove al titolo 1.º scrive così: Quae
communia sunt Patri et Filio, sunt et Spiri
tui; nam quibus designatur in Scriptura Pa
ter et Filius esse Deus, eisdem designatur
et Spiritus Sanctus Deus. -

21. Oppongono per 5 º alcuni luoghi della


Scrittura; ma questi o sono equivoci, o più
presto confermano la divinità dello Spirito
Santo. Oppongono specialmente quel che si
dice in S. Giovanni: Cum venerit Paraclitus,
quem ego mittam vobis a Patre Spiritum ve
ritatis, qui a Patre procedit etc. Joan. 15. 26.
Dicono che l'esser mandato importa sogge
zione e dipendenza, dunque lo Spirito San
to non è Dio. Si risponde che ciò corre
nell'esser mandato per imperio: ma lo Spi
rito Santo è mandato solo per processione
dal Padre e dal Figlio, in quanto da essi
procede. La missione in divinis non è altro
che il farsi presente una persona divina per
qualche effetto sensibile, che specialmente si
ascrive alla persona messa. E questa appunto
fu la missione dello Spirito Santo quando
egli discese nel cenacolo ad effetto di render
97
gli Apostoli degni a fondare la chiesa; sicco
me già prima fu anche mandato dal Padre il
Verbo eterno ad effetto d'incarnarsi e redi
mere gli uomini. Così similmente si risponde
al passo dello stesso S. Giovanni: Non loque
tur a semetipso, sed quaecunque audiet, loque
tur... ille me clarificabit, quia de meo accipiet.
Joan. 16. 14. et 15. Lo Spirito Santo prende
dal Padre e dal Figlio la scienza di tutte le
cose, non imparando, ma procedendo da
essi senza dipendenza, ma per necessaria
esigenza della sua natura divina. E questo
medesimo significano le parole de meo ac
cipiet, mentre per mezzo del Figlio il Padre
comunica allo Spirito Santo insieme coll' es
senza divina la sapienza e tutti gli attributi
del Figlio: Ab illo audiet, scrive S. Agosti
no (1), a quo procedit. Audire illi, scire est:
scire vero, esse. Quia ergo non est a semetipso,
sed ab illo a quo procedit; a quo illi est
essentia, ab illo scientia. Ab illo igitur au
dientia, quod nihil est aliud quam scientia.
La stessa risposta fa S. Ambrogio (2).
22. Oppongono per 6.º le parole di San
Paolo: Ipse Spiritus postulat pro nobis gemi
tibus inenarrabilibus. Rom. 8. 26. Dunque lo
Spirito Santo è capace di gemiti, e prega

(1) S. August. Tract. 99. in Joan.


(2) S. Ambros. lib. 2. de Spirit. Sanct. cap. 12.
LIG. Storia delle Eresie T. III. E
98
come inferiore. Spiega S. Agostino come
s'intendano le parole del testo : Gemitibus
interpellat, ut intelligeremus gemitibus inter
pellare nos facit (1). Sicchè lo Spirito Santo,
vuol dire S. Paolo, colla sua grazia che ci
somministra, ci rende supplicanti e gementi,
facendoci pregare con grandi gemiti: sicco
me anche Dio ci fa trionfare, quando si
dice che trionfa noi in Gesù Cristo: Deo au
tem gratias, qui semper triumphat nos in Chri
sto Jesu. 2. Cor. 2. 14.
25. Oppongono per 7 º quell'altro passo
di S. Paolo: Spiritus enim omnia scrutatur,
etiam profunda Dei. 1. Cor. 2. 1o. E dicono
che la parola scrutatur significa l'ignoranza
dello Spirito Santo del segreti divini. Ma si
risponde che la detta parola non significa
inquisizione, ma la semplice comprensione
che ha lo Spirito Santo di tutta la divina
essenza e di tutte le cose; siccome si dice
di Dio : Scrutans corda et renes Deus. Psal.
7. 1o. : il che significa che Dio comprende
tutti gli affetti e pensieri degli uomini. Quin
di conchiude S. Ambrogio (2): Similiter ergo
scrutator est Spiritus Sanctus, ut Pater; simi
liter scrutator, ut Filius, cujus proprietate ser.
monis id ex primitur, ut videatur nihil esse
quod nesciat.
(1) S. August. Collat. cum Maxim.
(2) S. Ambros. lib. 2. de Spir. Sanct. cap. 11.
99
24. Oppongono per 8 º le parole di San
Giovanni ( cap. 1. ) : Omnia per ipsum facta
sunt, et sime ipso factum est nihil quod fac
tum est. Dicono : dunque anche lo Spirito
Santo è stato fatto, ed è creatura. Si rispon
de: non può dirsi che tutte le cose siano
state fatte per il Verbo, altrimenti anche il
Padre sarebbe stato fatto. Lo Spirito Santo
non è stato fatto, ma procede dal Padre e
dal Figlio, come da un principio per asso
luta necessità della natura divina e senza
alcuna dipendenza.

C O N F U TAZ I O N E I V.

ERESIA DE GRECI,
I QUALI DICoNo CHE Lo spirito SANTo
PROCEDE DAL SOLO PADRE , NON DAL FIGLIO.

I• Gov, qui aggiungere, per non dividere


la materia, la confutazione contro i greci
scismatici, l'eresia de' quali consiste in ne
gare la processione dello Spirito Santo dal
Figlio, contendendo essi che procede dal
solo Padre : errore che separa la chiesa
latina dalla greca. Non si è appurato sinora
dagli eruditi chi sia stato l'autore di que
sta eresia. Alcuni vogliono che fosse Teo
doreto nella confutazione dell'anatematisma
I OO

nono di S. Cirillo contro Nestorio : ma altri


giustamente difendono Teodoreto, o altri che
gli scismatici oppongono; chè in quel luogo
non ha voluto dir altro se non che lo Spirito
Santo non era creatura del Figlio, come vo
levano gli Ariani e i Macedoniani. Del resto
non può negarsi che così Teodoreto, come
alcuni altri Padri colle loro autorità, proferi
te nel confutare gli Ariani e Macedoniani,
malamente intese da' greci scismatici, han
data occasione ad essi di attaccarsi a que
sto errore; il quale sino a tempo di Fo
zio non fu eresia, se non di alcuni partico
lari; ma da che Fozio s'intruse nel patriar
cato di Costantinopoli verso l'anno 858, e
maggiormente dall'anno 865, in cui fu con
dannato dal Papa Nicola I., egli si fece capo
non solo di quello scisma che per tanti an
mi avea separata la chiesa greca dalla latina,
ma fu causa che tutta la chiesa greca ab
bracciasse l'eresia, in dire che lo Spirito
Santo procede dal solo Padre e non dal Fi
glio. Per 14 volte, scrive Osio (1), sino al
concilio Fiorentino celebrato nell'anno 1459
i greci rinunziarono a questo errore, e si
unirono coi latini, e poi ritornarono ad ab
bracciarlo. Onde nel concilio di Fiorenza
comunemente con essi fecesi la definizione

(1) Osius lib. de Sacerd. Conjug.


I o I

che lo Spirito Santo procedea dal Padre e


dal Figlio, e si sperava che questa ultima
riunione fosse durata. Ma non fu così ; poi
chè i greci, partiti che furono dal concilio,
per opera di Marco Efesino (come scrivem
mo nella storia delle eresie capo IX. nume
ro 51 ) di nuovo ritornarono al vomito. Par
liamo qui di quei greci che ubbidivano ai
patriarchi orientali; poichè gli altri, che non
erano loro sudditi, rimasero uniti alla chie
sa Romana nella stessa fede.

S. I.
SI PROVA CHE LO SPIRITO SANTo
PROCEDE DAL PADRE E DAL FIGLIO,

2e Ciò si prova per 1.º colle parole di


S. Giovanni: Cum autem venerit Paraclitus,
quem ego mittam vobis a Patre, Spiritum
veritatis, qui a Patre procedit Joan. 15. 26.
Con questo testo non solo restò dichiarato
contro gli Ariani e Macedoniani il dogma
definito poi dal concilio Costantinopolitano,
che lo Spirito Santo procede dal Padre, con
quelle parole: Et in Spiritum Sanctum Do
minum et vivificantem et ex Patre proce
dentem etc., ma insieme che lo Spirito San
to procede dal Figlio colle parole già riferi
te quem ego mittam vobis, le quali sono
replicate in altri luoghi dello stesso vangelo
I O2

di S. Giovanni: Si enim non abiero, Pa


raclitus non veniet ad vos; si autem abiero,
mittam eum ad vos. Joan. 16. 7. Paraclitus
autem Spiritus Sanctus, quem mittet Pater
in nomine meo. Joan. 14. 26. Nella divinità
non può dirsi mandata una persona, se non
da un'altra persona, da cui procede. Il Pa
dre, perchè è l' origine della divinità, non
mai si dice nella Scrittura mandato: il Fi
glio, perchè procede dal solo Padre, dal
solo Padre si dice mandato, ma non mai
dallo Spirito Santo: Sicut misit me vivens Pa
ter etc. Misit Deus Filium suum factum ex
muliero etc. Dunque se lo Spirito Santo di
cesi mandato dal Padre e dal Figlio, non
meno dal Padre che dal Figlio procede. Tan
to più che questa missione di una persona
divina da un'altra, non può intendersi nè
per via di comando, nè per via d'istruzio
ne, nè in altro modo; poichè nelle divine
persone è eguale l'autorità e la sapienza.
Onde solamente s'intende una persona man
data da un'altra secondo l'origine e secon
do la processione che una persona ha dall'
altra; processione che non importa nè disu
guaglianza, nè dipendenza. Se dunque lo
Spirito Santo dicesi mandato dal Figlio, egli
dal Figlio procede: Ab illo itaque mittitur,
a quo emanat, scrive S. Agostino (1); e

(1) S. August. lib. 4. de Trin. cap. 2o.


1 o5
poi soggiunge: Sed Pater non dicitur missus;
non enim habet de quo sit, aut ex quo pro
cedat.
5. I greci dicono che il Figlio non man
da già la persona dello Spirito Santo, ma i
di lui doni di grazia che allo Spirito Santo
si attribuiscono. Ma si risponde che tale in
terpretazione non può sussistere; mentre nel
luogo citato di S. Giovanni si dice che que
sto Spirito di verità, mandato dal Figlio,
procede dal Padre : quem ego mittam vobis
a Patre, Spiritus veritatis, qui a Patre
procedit. Dunque il Figlio een manda i do
mi dello Spirito Santo, ma manda quello
stesso Spirito di verità che procede dal Padre.
4. Si prova per 2.º il dogma da tutti quei
testi, ne' quali lo Spirito Santo è chiamato
Spirito del Figlio : Misit Deus Spiritum Filii
sui in corda vestra. Gal. 4- 6. Siccome al
trove lo Spirito Santo è chiamato Spirito
del Padre: Non enim vos estis qui loquimini,
sed Spiritus Patris vestri, qui loquitur in vo
bis: Matth. 1o. 2o., se dunque lo Spirito
Santo chiamasi Spirito del Padre, solo per
chè dal Padre procede; non per altra ragio
ne ancora ivi è chiamato Spirito del Figlio,
se non perchè procede dal Figlio. Così par
la S. Agostino (1): Cur non credamus quod

(1) S. August. Tract. 99. in Joan.


1 o4 - -

etiam de Filio procedat Spiritus Sanctus, cum


Filii quoque ipse sit Spiritus? E la ragione
è chiara; mentre non può dirsi lo Spirito
Santo Spirito del Figlio, perchè la persona
dello Spirito Santo è al Figlio consostanzia
le, come diceano i greci: altrimenti ancora
il Figlio potrebbe dirsi Spirito dello Spirito
Santo, essendo parimente egli consostanzia
le allo Spirito Santo. Nè si può dire Spiri
to del Figlio, perchè è istrumento del Figlio,
o perchè è la santità estrinseca del Figlio;
poichè tali cose non possono dirsi delle per
-
sone divine: dunque si dice Spirito del Fi
glio, perchè dal Figlio procede. Ciò volle
significare Gesù Cristo medesimo allorchè
dopo la sua risurrezione si fece vedere ai
suoi discepoli, ed allora: Insufflavit et di
acit eis: Accipite Spiritum Sanctum etc. Joan.
2o. 22. Si dice insufflavit et dixit, per
dinotare che siccome l'alito procede dalla
bocca, così da esso procedea lo Spirito San
to. Udiamo S. Agostino che mirabilmente
spiega questo argomento (1): Nec possumus
dicere quod Spiritus Sanctus et a Filio non
procedat; neque enim frustra idem Spiritus
et Patris et Filii Spiritus dicitur. Nec video,
quid aliud significare voluerit cum sufflans

(1) S. August. lib. 4 de Trinit. cap. 2o.


1 o5
in faciem discipulorum ait: Accipite Spiritum
Sanctum. Neque enim status ille corporeus...
substantia Spiritus Sancti fuit, sed demonstra
tio per congruam significationem non tantum
a Patre, sed a Filio procedere Spiritum San
cillII2.
5. Si prova per 5.º in tutti quei luoghi
della sacra Scrittura, in cui si dice che il
Figlio ha tutto ciò che ha il Padre, e che
lo Spirito Santo riceve dal Figlio. Notiamo
quanto dice S. Giovanni C 16. 15. et seq. D:
Cum autem venerit ille Spiritus veritatis, do
cebit vos omnem veritatem ; non enim loque
tur a semetipso, sed qualcunqe audiet, loque
tur, et quae ventura sunt annuntiabit vobis.
Ille me clarificabit, quia de meo accipiet,
et annuntiabit vobis. Omnia quaecunque habet
Pater, mea sunt; propterea diaci, quia de meo
accipiet, et annuntiabit vobis. Abbiamo in que
sto luogo espresso che lo Spirito Santo riceve
dal Figlio, de meo accipiet. Parlando delle
divine persone, non può dirsi che una riceva
dall' altra in altro senso, se non perchè una
persona procede dall'altra, da cui riceve.
Lo stesso è ricevere che procedere; poichè
ripugna il dire che lo Spirito Santo, il qua
le è Dio eguale al Figlio, ed ha la stessa
natura col Figlio, da esso poi riceva o la
scienza o la dottrina. Si dice pertanto che
riceve dal Figlio, perchè da lui procede, e
E 5
1 o6
da lui riceve per comunicazione la matura e
tutti gli attributi del Figlio.
6. Nè vale qui la risposta de' greci, che
nel luogo citato non dice Cristo che lo Spi
to Santo riceve a me, ma dice de meo, cioè
de meo Patre. Non vale; perchè Gesù stesso
spiega questo testo colle parole che sieguo
no: Quaecunque habet Pater, mea sunt; prop
terea diri quia de meo accipiet. Con queste
parole ci fa sapere l'uno e l'altro, cioè
che lo Spirito Santo riceve dal Padre e dal
Figlio, perchè procede dal Padre e dal Fi
glio. La ragione è manifesta: se il Figlio ha
tutto ciò che ha il Padre ( eccettuata la so
la paternità, che importa opposizion rela
tiva alla filiazione ), ed il Padre ha l'esser
principio dello Spirito Santo; dunque anco
ra questo esser principio ha il Figlio : altri
menti non avrebbe tutto ciò che ha il Padre.
Ciò appunto espresse Eugenio IV. nell'epi
stola dell'Unione: Quoniam omnia quae Patris
sunt ipse Pater unigenito Filio suo, gignendo,
dedit, praeter esse Patrem ; hoc ipsum quod
Spiritus Sanctus procedit ex Filio, ipse Filius
aeternaliter habet, a quo etiam aeternaliter
genitus est. E prima di Eugenio avealo già
scritto S. Agostino (1), dicendo: Ideo ille

(1) S. August. lib. 2. ( alias 3. ) contra Maxim.


cap. 14.
1o7
Filius est Patris, de quo est genitus, iste
autem Spiritus utriusque, quoniam de utroque
procedit. Sed ideo cum de illo Filius loque
retur, ait de Patre procedit, quoniam Pater
processionis ejus est auctor, qui talem Filium
genuit, et gignendo ei dedit ut etiam de ipso
procederet Spiritus. Ed in questo luogo pre
venne il santo Dottore l'obbiezione di Mar
co Efesino, cioè che nella Scrittura si dice
solo che lo Spirito Santo procede dal Padre,
non già dal Figlio; ma già avea detto Sant'
Agostino che intanto nella Scrittura si espri
me solamente che lo Spirito Santo procede
dal Padre, in quanto che il Padre generanº
do il Figlio gli comunica ancora l'esser prin
cipio dello Spirito Santo: gignendo ei dedit
ut etiam de ipso procederet Spiritus Sanctus.
7. Conferma ciò S. Anselmo (1) con quel
principio abbracciato da tutti i teologi, cioè
che in divinis omnia sunt unum, et omnia
unum et idem, ubi non obviat relationis op
positio. Sicchè in Dio quelle sole cose distin
guonsi realmente, fra le quali vi è opposi
zione relativa di producente e prodotto. Il
primo producente non può produrre se stes
so, altrimenti nello stesso tempo sarebbe esi
stente e non esistente: esistente, perchè pro
duce se stesso; e non esistente, perchè non

(1) S. Anselm. lib. de Proc. Spir. Sanct. cap. 7.


Io8
esiste se non dopo che è stato prodotto; il
che ripugna apertamente. E ripugna ancora
a quell'altro certo assioma che nemo dat
quod non habet; se il producente desse l'es
sere a se stesso prima di essere prodotto,
darebbe a sè quell'essere che non ha. Ma Dio
non ha l'essere da se stesso? Sì, ha l'essere
da sè, ma non è che Dio dà l' essere a se
stesso: Dio è un essere necessario che per
necessità sempre è stato e sempre sarà, ed
egli dà l'essere a tutte le cose, altrimenti se
Dio cessasse di esistere, tutte le cose insie
me cesserebbero di essere. Ma tornando al
punto, il Padre è il principio della divinità,
e si distingue dal Figlio per l'opposizione che
vi è tra loro di producente e prodotto. All'
incontro in Dio quelle cose che non hanno
tra di esse opposizione relativa, non si di
stinguono punto, ma sono una e la stessa
cosa. Onde il Padre è lo stesso col Figlio
in tutto ciò, in cui non si oppone relativa
mente al Figlio, nè il Figlio al Padre nell'es
sere l'uno e l'altro principio nello spirare
lo Spirito Santo; perciò quantunque lo Spi
rito Santo sia spirato e proceda dal Padre
e dal Figlio, è articolo di fede definito così
dal concilio generale di Lione II., come dal
Fiorentino, che lo Spirito Santo procede da
un principio e da una spirazione, non già
da due principi e due spirazioni : Nos
I o

damnamus, dissero i Padri Lugdunesi,


probamus omnes qui temerario ausu asserunt
quod Spiritus Sanctus , ex Patre et Filio,
tanquam ex duobus principiis, non tanquam
ab uno procedat. Ed i Padri Fiorentini: De
finimus quod Spiritus Sanctus a Patre et
Filio aeternaliter tanquam ab uno principio
et unica spiratione procedat (1). La ragione
è perchè una è la virtù di spirare lo Spi
rito Santo così nel Padre, come nel Figlio,
senza che s'incontri fra di essi alcuna op
posizione relativa. Ond'è che siccome, quan
tunque il mondo sia stato creato così dal
Padre, come dal Figlio e dallo Spirito San
to, nondimeno perchè una è la virtù di
creare che spetta egualmente a tutte le tre
persone, si dice uno essere il creatore; co
sì perchè una è la virtù di spirare lo Spiri
to Santo, la quale egualmente è nel Padre
e nel Figlio, perciò si dice che unico è il
principio ed unica è la spirazione dello Spi
rito Santo. Ma passiamo alle altre prove del
punto principale, che lo Spirito Santo pro
cede dal Padre e dal Figlio.
8. Si prova per 4 º la processione dello
Spirito Santo dal Padre e dal Figlio con
questo altro argomento, che fu già addotto
dai latini contro i greci nel concilio di

(1) S. Greg Nrss. lib. ad Ablavium.


I Io

Firenze, ed è questo: se lo Spirito Santo


non procedesse anche dal Figlio, dal Figlio
non si distinguerebbe; la ragione è perchè,
siccome abbiam detto, in Dio non vi è di
stinzione reale fra quelle cose, fra le quali
non passa opposizion relativa di producente
e prodotto. Se lo Spirito Santo non proce
desse ancora dal Figlio, fra esso ed il Fi
glio non vi sarebbe alcuna opposizione re
lativa, e per conseguenza l'una persona non
sarebbe dall'altra realmente distinta. A que
sta ragione così convincente diceano i greci
che in tal caso anche vi sarebbe la distin
zione, perchè il Figlio procederebbe per l'in
telletto del Padre, e lo Spirito Santo per la
volontà. Ma ben si rispose dai latini che
ciò non basta a formare la distinzione reale
tra il Figlio e lo Spirito Santo: poichè al
più sarebbe questa una distinzione virtuale,
qual'è quella che passa in Dio tra l'intelle
zione e la volizione; ma la fede cattolica
insegna che le tre persone divine, benchè
siano della stessa natura e sostanza, son
nondimeno tra di loro realmente distinte. È
vero che alcuni Padri, come S. Agostino e
S. Anselmo, han detto che il Figlio e lo
Spirito Santo si distinguono ancora, perchè
diversamente procedono l'uno dall'intelletto
e l'altro dalla volontà; ma essi dicendo
ciò hanno parlato solo della causa rimota
I l I

di questa distinzione; ma essi medesimi


hanno troppo chiaramente espresso all'incon
tro che la causa prossima e formale della
distinzione reale del Figlio e dello Spirito
Santo è l'opposizione relativa nella proces
sione dello Spirito Santo dal Figlio. Ecco
come parla S. Gregorio Nisseno (1): Distin
guitur Spiritus a Filio, quod per ipsum est.
E così S. Agostino medesimo addotto dai
contrari (2) : Hoc solo numerum insinuant
quod ad invicem sunt. E S. Giovanni Dama
sceno (5): In solis autem proprietatibus, ni
mirum paternitatis, filiationis et processionis,
secundum causam et causatum, discrimen ad
vertimus. E il concilio Toletano XI. al capo
1.º disse: In relatione personarum numerus
cernitur; hoc solo numerum insinuant quod
ad invicem sunt.
9. Per ultimo si prova colla tradizione di
tutti i secoli, la quale apparisce dalle senten
ze di quei Padri greci, de'quali essi greci ben
riconoscono l'autorità; e di alcuni altri Padri
latini che hanno scritto prima dello scisma
de greci. S. Epifanio nell'Ancorato dice così:
Christus eac Patre creditur, Deus de Deo, et
Spiritus ex Christo, aut ea ambobus. E nella

(1) S. Greg. Nrss. lib. ad Ablavium.


(2) S. Aug. Tract. 39. in Joan.
(3) Joan. Damasc. lib. 1. de Fide cap. 11.
I I2 - -

eresia 76 scrive : Sanctus autem Spiritus ex


ambobus: Spiritus ex Spiritu. S. Cirillo (1)
scrive : Et ex Deo quidem secundum naturam
Filius ( genitus est enim ex Deo et ex Pa
tre ) proprius autem ipsius et in ipso et
ex ipso Spiritus est. Ed altrove (2): Quoniam
ex essentia Patris, Filiique Spiritus, qui pro
cedit ex Patre et ea Filio. S. Atanasio (5)
spiega la processione dello Spirito Santo dal
Figlio con termini equivalenti: Nec Spiritus
Verbum cum Patre confungit, sed potius Spi
ritus hoc a Verbo accipit... quaecunque Spi
ritus habet, hoc a Verbo habet. S. Basilio (4)
al quesito d'un eretico : perchè lo Spirito
Santo non si nomini Figlio del Figlio ? ri
sponde: Non quod ex Deo non sit per Fi
lium, sed ne Trinitas putetur esse infinita
multitudo, si quis eam suspicaretur, ut fit
in hominibus, filiis ex filiis habere. De Pa
dri latini Tertulliano (5) scrisse : Filium non
aliunde deduco, sed de substantia Patris ...
Spiritum non aliunde puto, quan a Patre
per Filium S. Ilario (6) dice: Loqui de eo
( Spiritu Sancto ) non necesse est, qui Patri

(1) S. Cyrill. in Joelem cap. 2.


(2) Idem. lib. 14. Thesaur.
(3) S. Athan. Orat. 3. contra Arian. num. 24.
(4) S. Basil. lib. 5. contra Eunom.
(5) Tertul. lib. cont. Praxeam cap. 4.
(6) S. Hilar. lib. 2. de Trin.
I 15
et Filio auctoribus confitendus est. S. Ambro
gio (1) dice: Spiritus quoque Sanctus, cum
procedit a Patre et Filio etc. Ed altrove (2):
Spiritus Sanctus vere Spiritus, procedens qui
dem a Patre et Filio, sed non est ipse Filius.
1o. Lascio le autorità di altri Padri così
greci come latini, le quali furono raccolte da
Giovanni teologo contro Marco Efesino nel
concilio di Firenze, le cui cavillazioni furono
dallo stesso Giovanni allora ben confutate.
Ma quel che più importa è il vedere l'au
torità di più concili generali che hanno fer
mamente stabilito questo dogma, come so
no il concilio Efesino, il concilio di Calce
donia, il concilio Costantinopolitano II. e III,
con approvare la lettera sinodica di S. Cirillo
Alessandrino, nella quale era espresso il
dogma della processione dello Spirito Santo
dal Padre e dal Figlio in questi termini :
spiritus appellatus est veritatis, et veritas Chri
stus est; unde et ab isto similiter, sicut ex
Patre procedit. Nel concilio Lateranese IV.
celebrato nell'anno 12 15 sotto Innocenzo III.,
unitamente i latini coi greci definirono ( nel
capo 155 ): Pater a nullo, Filius autem a
solo Patre, ac Spiritus Sanctus ab utroque

(1) S. Ambros. lib. 1. de Spir. Sanct. cap. 11.


al. 1o.
(2) Idem de Symb. Ap. cap. 3o.
I 14
pariter, absque initio semper, ac sine fine.
Nel concilio II. di Lione celebrato nell'anno
1274 sotto Gregorio X., quando i greci di
nuovo riunironsi coi latini, fu definita con
cordemente, come si è detto, la processione
dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio:
Fideli ac devota confessione fatemur, quod
Spiritus Sanctus ex Patre et Filio, non tan
quam ex duobus principiis, sed tanquam ab
uno principio, non duabus spirationibus, sed
unica spiratione procedit.
I 1. Finalmente nel concilio Fiorentino ce
lebrato sotto Eugenio IV. nell'anno 1456, in
cui di nuovo si fece la riunione de greci
co' latini, fu definito di comun consenso :
Ut haec fidei veritas ab omnibus christianis
credatur et suscipiatur, sicque omnes profi
teantur quod Spiritus Sanctus ex Patre et
ex Filio aeternaliter, tanquam ab uno princi
pio et una spiratione, procedit... Definimus in
super explicationem verborum illorum Filio
que, veritatis declaranda gratia, et immi
nente tunc necessitate, licite ac rationabiliter
srmbolo fuisse appositam. Or tutti questi con
cilj, ne quali i greci riunitisi coi latini de
finirono la processione dello Spirito Santo
dal Padre e dal Figlio, ci porgono un ar
gomento invincibile contro gli scismatici per
convincerli di eresia; altrimenti dovrebbe
si dire che tutta la chiesa latina e greca
I 15
unitamente in tre concilj generali ha definito
un errore,

12. Circa poi le ragioni teologiche, già di


sopra ne abbiamo addotte due principalissime.
La prima è che il Figlio ha tutto ciò che ha
il Padre, eccettuata la sola paternità, la qua
le è incompossibile colla filiazione : Omnia
quaecunque habet Pater, mea sunt Joan. 16.
15. Dunque se il Padre ha la virtù di spi
rare lo Spirito Santo, questa medesima vir
tù compete anche al Figlio, mentre fra la
spirazione attiva e la filiazione non vi è op
posizione relativa. La seconda ragione è che
se lo Spirito Santo non procedesse dal Fi
glio, egli non si distinguerebbe realmente
dal Figlio, perchè non vi sarebbe tra loro
veruna opposizione relativa, nè distinzione
reale, e per conseguenza si distruggerebbe
il mistero della Trinità. Le altre ragioni ap
portate da teologi o si riducono alle già det
te, o sono di congruenza; onde le tralasciamo.
S II.
SI RISPONDE ALLE OBBIEZIONI,

15. Ossesso per 1º che la Scrittura


parla solo della processione dello Spirito
Santo dal Padre e non dal Figlio. A questa
già si è risposto di sopra al num. 6. Ag
giungiamo qui che sebbene la Scrittura non
I 16
esprime ciò con termini formali, nondimeno
lo dichiara con termini equivalenti, come
di sopra si è dimostrato. Del resto, se altro
non fosse, i greci ben riconoscono coi lati
mi l'autorità della tradizione; e dalla tradi
zione siamo istruiti che lo Spirito Santo
procede dal Padre e dal Figlio.
14. Oppongono per 2.º che nel concilio
Costantinopolitano I., in cui fu definita la
divinità dello Spirito Santo, non fu definito
ch'egli procede dal Padre e dal Figlio, ma
solo dal Padre. Ma si risponde che ciò non
fu dichiarato dal concilio, perchè allora non
era questo il punto controverso co Macedo
niani. Definì pertanto il concilio solamente
la processione dello Spirito Santo dal Padre,
perchè i Macedoniani e gli Eunomiani nega
vano la processione dal Padre, e con ciò
negavano la divinità dello Spirito Santo. La
chiesa non forma definizioni di fede, se
non in caso di errori nascenti; e perciò ve
diamo che in più concilj generali è stata poi
dalla chiesa definita la processione dello Spi
rito Santo anche dal Figlio.
15. Oppongono per 5.º che nel concilio
Efesino, avendo Carisio prete letto ivi pub
blicamente un simbolo composto da Nesto
rio, in cui si asseriva lo Spirito Santo
non essere dal Figlio, nè per il Figlio ave
re la sua sostanza, i Padri non riprovarono
-
II

questo articolo. Si risponde per 1.º che i


potea spiegarsi che Nestorio giustamente in
senso cattolico avesse negato che lo Spirito
Santo era dal Figlio, contro i Macedoniani,
i quali asserivano che lo Spirito Santo era
creatura del Figlio, avendo dal Figlio rice
vuto l' essere, come tutte le altre creature.
Si risponde per 2.º che nel concilio di Efe
so non era questo della processione dello
Spirito Santo il dogma che si trattava, e
perciò il concilio lasciollo indeciso; essendo
costume del concilj, come si è detto, di non
distrarsi a decidere questioni incidenti, affin
di attendere totalmente a condannare i soli
errori che in quel tempo serpeggiano.
16. Oppongono per 4 º alcuni detti de'
santi Padri, i quali sembrano negare la pro
cessione dal Figlio. S. Dionisio (1) scrive:
Solum Patrem esse divinitatis fontem con
substantialem. S. Atanasio (2) dice: Solum
Patrem causam esse duorum. S. Massimo (5)
dice: Patres non concedere Filium esse cau
sam, idest principium Spiritus Sancti S. Gio
van Damasceno dice (4): Spiritum Sanctum
et ex Patre esse statuinus, et Patris Spiri
tum appellamus. Aggiungono certi altri detti

(1) S. Dionys. lib. 1. de Divin. Hom. cap. 2.


(2) S. Athan. quaest. de Nat. Dei.
(3) S. Maxim. Ep. ad Marin.
(4) S. Damasc. lib. 1. de Fide Orth. cap. 11.
I 18
di Teodoreto, e finalmente adducono quel
fatto di Leone III. Papa, il quale comandò
che dal simbolo Costantinopolitano si toglies
se la particola Filioque aggiunta da latini, e
che il simbolo senza quella fosse descritto in
tavole di argento a perpetua memoria. Ma
si risponde che le predette autorità del Padri
niente giovano ai greci in favor del loro
errore. S. Dionisio chiama il solo Padre fon
te della divinità, perchè il solo Padre è il
primo fonte, o sia primo principio senza
principio, e senza derivare da altra persona
della Trinità. A S. Dionisio si può aggiunge
re S. Gregorio Nazianzeno (1), che disse:
Quidquid habet Pater, idem Filii est, ex
cepta causa. Ma il Santo non altro volle di
re, se non che il Padre è primo principio,
e per questa ragione speciale si dice causa
del Figlio e dello Spirito Santo: la quale
ragione di primo principio non compete per
altro al Figlio, che ha l' origine dal Padre;
ma ciò non esclude che il Figlio insieme
col Padre non siano principio dello Spirito
Santo, come attestano S. Basilio, S. Giovan
Grisostomo ed altri con S. Atanasio, citati
al num. 9. Nello stesso modo si risponde al
detto di S. Massimo, tanto più, come av
verte il dottissimo Petavio (2), che presso
(1) S. Greg Nazianz. Orat. 24 ad Episcop.
(2) Petav. lib. 7. de Trin. cap. 17. num. 12.
1 19
i greci la parola principio ha forza di prima
ſonte e prima origine, che compete al solo
Padre. -

17. Al detto di S. Giovan Damasceno può


rispondersi che il Santo parla ivi con cautela,
per opporsi a Macedoniani, che diccano es
ser lo Spirito Santo creatura del Figlio; sic
come usa il Santo la stessa cautela in non
ammettere che la santa Vergine si dica ma
dre di Cristo: Christiparam Virginem san
ctam non dicimus, per evitare l'error di Ne
storio, che la chiama madre di Cristo per
indurre due persone in Cristo. Del resto al
passo del Damasceno ben rispose il Bessa
rione nel concilio Fiorentino (1), che il San
to prese la proposizione ex per dinotare il
principio senza principio, qual è il solo Pa
dre. Ma lo stesso Damasceno insegna la
processione dello Spirito Santo dal Figlio,
così nel luogo citato, ove lo chiama Spirito
del Figlio, come nelle parole che seguono
allo stesso capo: Quemadmodum, videlicet, ex
sole est radius et splendor: ipse enim, cioè
il Padre, et radii et splendoris fons est; per
radium autem splendor nobis communicatur,
atque ipse est, qui nos collustrat, et a nobis
percipitur. Sicchè il Santo paragona il Padre
al sole, il Figlio al raggio e lo Spirito
(1) Bessarion. Orat. pro Unit.
I 20

Santo allo splendore; col che chiaramente


dimostra che, siccome lo splendore procede
dal sole e dal raggio, così lo Spirito Santo
procede dal Padre e dal Figlio.
18. A quel che opponeano di Teodoreto
si risponde che su questo punto l'autorità
di Teodoreto non vale, perchè in tal parte
egli si oppone a S. Cirillo; o pure s'inten
de detto contro i Macedoniani, che diceano
lo Spirito Santo esser creatura del Figlio.
A quel che ricavano finalmente da Leone III.
Papa si risponde che il santo Padre allora
non già disapprovò il dogma cattolico della
processione dello Spirito Santo dal Figlio,
nella quale ben convenne coi legati della
chiesa gallicana e di Carlo Magno, come
consta dagli atti della legazione descritti nel
tomo 2 de concili della Francia; ma disap
provò la giunta della parola Filioque fatta
al simbolo senza precisa necessità e senza
l'autorità di tutta la chiesa; siccome poi
questa giunta fu fatta nei concili generali.
susseguenti, concorrendovi la necessità per
riguardo de greci, che più volte eran tor
nati al vomito, e l'autorità della chiesa
universale radunata in concilio.
19. L'ultima opposizione de greci appog
giavasi a questa loro ragione. Diceano: se
lo Spirito Santo procedesse dal Padre e dal
Figlio, due sarebbero e non uno il principio
I2. I

dello Spirito Santo; poichè due sarebbero le


persone che lo producono. A questa oppo
sizione già si è risposto di sopra nelle prove
del dogma al num. 6. Ma replichiamo la ri
sposta con maggior chiarezza: sebbene il Pa
dre e il Figlio siano due persone realmente
distinte, nulladimeno non sono, nè possono
dirsi due principi dello Spirito Santo, ma
è un solo principio; perchè la virtù per cui
essi producono lo Spirito Santo è una sola,
ed è la stessa nel Padre che nel Figlio. Nè
il Padre è principio dello Spirito Santo per
la paternità, nè il Figlio per la filiazione,
onde potessero dirsi due principi; ma il Pa
dre e il Figlio sono principio dello Spirito
Santo per la spirazione attiva, la quale es
sendo una sola e la stessa comune ed in
divisa nel Padre e nel Figlio, perciò il Pa
dre ed il Figlio non possono dirsi due prin
cipj, nè due spiratori, poichè sono un solo
spiratore dello Spirito Santo; e benchè siano
due le persone che lo spirano, unica però
è la spirazione. E tutto ciò ben fu espresso
nella definizione del concilio Fiorentino. -

Lrc. Storia delle Eresie T. III. F


I 22

C O N FUT A Z I O N E V.

ERESIA DI PELAGIO,

Ie IN, intendo qui di confutare tutti gli


errori di Pelagio circa il peccato originale e
circa il libero arbitrio, ma solamente circa
la grazia. Nella storia al capo V. art. II.
num. 5. ho scritto che l'eresia principale di
Pelagio fu nel negare la necessità della gra
zia per fuggire il male, ed operare il bene;
ed ivi ho notati i vari sutterfugi ch'egli tro
vò per evitar la nota di eretico, ora dicen
do che la grazia è lo stesso libero arbitrio
donatoci da Dio, ora ch'è la legge insegna
teci come abbiamo da vivere, ora il buon
esempio di Gesù Cristo, ora il perdono de'
peccati, ora l' interna illustrazione, ma solo
per parte dell'intelletto, in conoscere il be

ne ed il male: benchè Giuliano discepolo di


Pelagio ammise anche la grazia della volon
tà. Ma non mai nè Pelagio, nè i Pelagiani
hanno ammessa la necessità della grazia: ap
pena han detto che la grazia era necessaria
a fare il bene con più facilità; ed han megato
esser questa grazia gratuita, volendo ch'ella
si desse secondo i nostri meriti naturali. Sic
chè due sono i punti da stabilirsi: l'uno cir
ca la necessità, l'altro circa la gratuità della
grazia. -
S. I.
DELLA NECEssITA' DELLA GRAZIA.

2- S. prova per 1.º dalla sentenza di Gesù


Cristo: Nemo potest venire ad me, nisi Pa
ter qui misit me, tracerit eum Joan. 6. 44
. Da queste sole parole si fa chiaro che niuno
può fare alcun atto buono in ordine alla vi
ta eterna senza la grazia interna. Ciò si con
ferma da quell'altra sentenza: Ego sum vitis,
vos palmites; qui manet in me, et ego in eo,
hic fert fructum multum, quia sine me nihil
potestis facere. Joan. 15. 5. Sicchè, come
Cristo c'insegna, circa gli atti in ordine alla
salute niente possiamo fare da noi stessi:
dunque la grazia ci è assolutamente neces
saria ad ogni atto buono; altrimenti, dice
S. Agostino, non possiamo acquistare alcun
merito per la vita eterna : Ne quisquam pu
taret parvum aliquem fructum posse a seme
tipso palmitem ferre, cum dixisset hic fert
fructum multum, non ait, quia sine me pa
rum potestis facere; sed nihil potestis face
re. Sive ergo parum, sive multum, sine il
lo fieri non potest, sine quo nihil fieri potest.
Si prova per 2.º da quel che dice S. Paolo,
che si chiama dai Padri il predicator della
grazia, scrivendo a Filippesi: Cum metu et
tremore vestram salutem operamini. Deus est
124
enim qui operatur in vobis et velle, et perfi
cere. Philip. 2. 12. 15. Prima gli esorta nella
stessa lettera ad essere umili : in humilitate
superiores sibi invicem arbitrantes, ad esem
pio di Cristo, come soggiunge, che humilia
vit semetipsum... usque ad mortem; e quindi
poi fa lor sapere che Dio è quello che opera
in essi tutto il bene: insinuando loro con
ciò quel che disse S. Pietro: Deus superbis
resistit, humilibus autem dat gratiam. 1. Petr.
5. 5. In somma S. Paolo vuol persuaderci
la necessità della grazia per volere e mette
re in effetto ogni atto buono; e che perciò
dobbiamo essere umili, altrimenti ci rende
remo indegni di quella. Ed affinchè non po
tessero i Pelagiani rispondere che qui si par
la non già della necessità assoluta della gra
zia, ma della necessità della grazia a fare
più facilmente il bene, secondo ammettono
essi la necessità, lo stesso S. Paolo rispon
de in altro luogo ( 1. Cor. 12. 5. D: Nemo
potest dicere, Dominus Jesus, nisi in Spiritu
Sancto. Se dunque non possiamo nè pure
nominar Gesù con profitto dell'anima senza
la grazia dello Spirito Santo, tanto meno
senza la sua grazia potremo operar la nostra
salute. ” -- -

5. Inoltre ci fa sapere S. Paolo che non


basta la sola grazia della legge data, come
dicea Pelagio; perchè vi bisogna la grazia
l 29

attuale per potere in effetto osservar la leg


ge: Si per legem justitia, ergo gratis Chri
stus mortuus est. Gal. 2. 21. Per giustizia
s'intende l'osservanza del precetti, secondo
quest'altro testo: Qui facit justitiam justus
est. 1. Joan. 5. 7. Onde vuol dire l'Aposto
lo: se l'uomo coll'aiuto della sola legge può
osservare la legge, dunque Cristo invano è
morto. Ma no; vi bisogna la grazia, che
Gesù Cristo ci ha procurata colla sua morte.
Tanto è lontano che la sola legge basti per
osservare i precetti, che anzi la legge è
occasione a noi, come dice lo stesso Apo
stolo, di trasgredire la legge; poichè per il
peccato è in noi entrata la concupiscenza:
Occasione autem accepta, peccatum per man
datum operatum est in me omnem concupi
scentiam. Sine lege enim peccatum mortuum
erat... Sed cum venisset mandatum, peccatum
reviarit. Rom. 7. 8. et 9. Spiega S. Agostino
in qual modo la cognizion della legge più
presto ci rende rei che innocenti: ciò av
viene, dice il Santo (1), perchè tale è la
condizione della nostra volontà corrotta, che,
amando la libertà, è portata con più veemen
za alle cose proibite, che alle permesse. La
grazia poi è quella che ci fa amare ed ope-.
rare quel che conosciamo di dover fare,

(1) S. August. lib. de spirit. et litt.


126
come si disse nel concilio Cartaginese II.: Ut
quod faciendum cognovimus, per gratiam prae
statur, etiam facere diligamus, atque valea
mus. Senza la grazia chi potrebbe adempire
il primo e più importante precetto di amare
Dio? Charitas ex Deo est. 1. Joan. 4. 7. Cha
ritas Dei diffusa est in cordibus nostris per
Spiritum Sanctum, qui datus est nobis. Rom.
5. 5. La santa carità è mero dono di Dio,
che non si può ottenere colle nostre forze.
Amor Dei, quo pervenitur ad Deum, non
est nisi a Deo, scrive S. Agostino (1). Sen
za la grazia chi mai può vincere le tenta
zioni, almeno le gravi ? Ecco come parlava
Davide: Impulsus, eversus sum ut caderem,
et Dominus suscepit me. Psal. I 17. 15. E Sa
lomone dice: Et ut scivi, quoniam aliter non
possem esse continens, nisi Deus det (cioè su
perare i moti d'incontinenza). Sap. 8.21. Quin
di l'Apostolo, avendo fatto menzione delle
tentazioni che ci assaltano, dice: Sed in his
omnibus superamus propter eum. Rom. 8.57. Ed
altrove scrive: Deo gratias, qui semper trium
phat nos in Christo Jesu. 1. Cor 2. 14. Intanto
dunque S. Paolo ringraziava Dio per la vit
toria delle tentazioni, perchè riconosceva
averle superate in vigor della grazia. Dice
S. Agostino (2): Sarebbe stato vano questo
(1) S. August. lib. 4. contra Julian. cap. 3.
(2) S. August. in loco cit. ad Corint.
127
ringraziamento, se la vittoria non fosse stata
dono di Dio : Irrisoria est etiam illa actio
gratiarum, si ob hoc gratiae aguntur Deo
quod non donavit ipse, nec fecit. Tutto ciò
dimostra la necessità che abbiamo della gra
zia così per fare il bene, come per evitare
il male.

4. Ma vediamo la ragione teologica di


questa necessità della grazia. I mezzi debbo
no esser proporzionati al fine. All'incontro
la nostra salute eterna consiste nel godere
Dio alla svelata, fine certamente di ordine
sovrannaturale. Per tanto anche i mezzi che
ci conducono a questo fine, debbono es
sere di ordine sovrannaturale. Or tutto ciò
che ci conduce alla salute, è mezzo per la
salute medesima, e per conseguenza le sole
nostre forze naturali non possono bastare
per farci operare alcuna cosa in ordine alla
salute eterna, senza essere elevati dalla gra
zia; poichè la natura non può far da per
sè ciò ch'è superiore a se stessa, qual è
un atto di ordine soprannaturale. Alle nostre
deboli forze naturali, che non son capaci di
atti soprannaturali, si aggiunge poi la cor
ruzione della nostra natura per cagion del
peccato; il che ci fa maggiormente conosce
re la necessità della grazia.
128

S II.
DELLA GRATUITA DELLA GRAZIA.
7
5. L Apostolo in più luoghi ci manifesta
che la divina grazia è in tutto gratuita, ed
è opera della sola misericordia di Dio, in
dipendente da nostri meriti naturali. In un
luogo dice: Vobis donatum est pro Christo
non solum ut in eun credatis, sed ut etiam
pro illo patiamini. Philip. 1. 29. Dunque,
come riflette S. Agostino (1), è dono di Dio,
meritatoci da Gesù Cristo, non solo il patire
per suo amore, ma ancora il credere in es
so; e se è dono di Dio, non può essere
dato per merito nostro: Utrumque ostendit
Dei donum, quia utrumque dixit esse do
natum ; nec ait, ut plenius et perfectius cre
datis, sed ut credatis in eum. Simile a ciò è
quel che scrisse l'Apostolo a Corinti ( 1. Cor.
7. 25. ) : Misericordiam consecutus a Domi
no, ut sim fidelis. Se l'esser fedele è mise
ricordia di Dio, dunque non è merito no
stro. Non ait, dice S. Agostino nel luogo
citato, quia fidelis eram; fideli ergo datur
quidem, sed datum est etiam ut esset fidelis.
6. Troppo chiaramente poi dimostra che
quanto riceviamo da Dio di lume o di forza

(1) S. August. lib. de praed. SS. cap. a.


ro
in operare non è merito nostro, ma è do
mo tutto gratuito di Dio, quell'altro luogo
di S. Paolo, dove dice: Quiste discernit?
Quid autem habes, quod non accepisti? Si
autem accepisti, quid gloriaris, quasi non
acceperis ? 1. Cor. 4. 7. Se si desse la gra
zia secondo i nostri meriti naturali derivati
dalle sole forze del nostro libero arbitrio,
ecco che già vi sarebbe quel che discerne
un uomo che opera la sua salute, da un
altro che non l'opera. Anzi ben riflette Sant'
Agostino che, se Dio ci donasse solamente
il libero arbitrio, cioè una volontà libera e
indifferente ad esser buona e mala, secondo
che noi di quella ci serviamo, nel caso che
la buona volontà venisse da noi, e non da
Dio, sarebbe migliore quel che viene da
noi, che quel che viene da Dio: Nam si
nobis libera quaedam voluntas ex Deo, quae
adhuc potest esse vel bona, vel inala, bona
vero voluntas ex nobis est; melius est id
quod a nobis, quam quod ab illo est (1).
Ma no: insegna l'Apostolo che quanto ab
biamo da Dio, tutto gratuitamente ci è dato;
e perciò di nulla possiamo noi gloriarci.
7. Finalmente viene ben confermata la gra
tuità della grazia dallo stesso S. Paolo nella
lettera a Romani ( 1 1. 5. et 6 ) : Sic ergo

(1) S. August. lib. 2. de Pece, merie. cap. 18.


F 5
I DO

et in hoc tempore reliquia secundum electio


nem gratiae salvae factae sunt. ( Intende qui
l'Apostolo per reliquia quei pochi giudei
fedeli, a rispetto di molti rimasti increduli ).
Si autem gratia, jam non ex operibus; alio
quin gratia jam non est gratia. Non potea
l'Apostolo esprimere con maggior chiarezza
questa verità cattolica, che la grazia è un
dono gratuito di Dio, e non dipende dai
meriti del nostro libero arbitrio, ma dalla
mera liberalità del Signore.

S III.
sI PRovA LA NECEssITA'
E LA GRATUITA DELLA GRAZIA
coLLA TRADIzioNE coNFERMATA DA'coNCILI
E DA' soMMI PoNTEFICI.

8. S. Cipriano (1) stabilisce come massima


fondamentale in questa materia la sentenza :
In nullo gloriandum, quando nostrum nihil
est. S. Ambrogio (2) scrive : Ubique Domini
virtus studiis cooperatur humanis, ut nemo
possit aedificare sine Domino, nemo custodire
sine Domino, nemo quicquam incipere sine
Domino. San Giovanni Grisostomo in un

(1) S. Cypr. lib. 3. ad Quirin. cap. 4.


“(2) S. Ambros. lib. 7. in Luc. cap. 3.
e. i3 1
luogo (1) dice : Gratia Dei semper in be
neficiis priores sibi partes vindicat. In al
tro luogo (2) : Quia in nostra voluntate to
tum post gratiam Dei relictum est, ideo et
peccantibus supplicia proposita sunt et be
ne operantibus retributiones. E più chiaro in
altro luogo (5): Igitur quod accepisti ha
bes : neque hoc tantum , aut illud, sed quid
quid habes. Non enim merita tua hæc sunt,
sed Dei gratia : quamvis fidem adducas ,
quamvis dona, quamvis doctrinæ sermonem ,
quamvis virtutem , omnia tibi inde provene
runt. Quid igitur habes, quæso, quod accep
tum non habeas ? Num ipse per te recte ope
ratus es ? Non sane , sed accepisti... Prop
terea cohibearis oportet ; non enim tuum id
munus est, sed largientis. S. Girolamo (4):
Dominum gratia sua nos in singulis operibus
juyare, atque substentare. Ed in altro luo
go (5) dice : Kelle, et nolle nostrum est ;
ipsumque quod nostrum est, sine Dei misera
tione nostrum non est. In altro luogo (6):
Kelle, et currere meum est; sed ipsum meum,
sine Dei semper auxilio , non erit meum.

(1) S. Chrysost. Hom. 13. in Joan.


(2) Idem Hom. aa. in Gen.
(3) Idem Hom. in cap. 4. 1. ad Cor.
(4) S. Hieron. lib. 3. contra Pelag.
(5) Idem Epist. ad Demetriad.
(6) Idem Epist. ad Ctesiphont.
I 32 -

Lascio innumerabili altre autorità de' Padri ,


che potrei qui addurre, e passo a' sinodi.
9. Nè intendo qui rapportare tutte le de
finizioni de' sinodi particolari contra Pelagio :
addurrò le sole definizioni di alcuni sinodi
approvati dalla Sede Apostolica , e ricevuti
da tutta la chiesa. Fra questi vi è il sinodo
Cartaginese di tutta l' Africa riportato da
S. Prospero (1), ove si disse : Cum 2 14 sa
cerdotibus, quorum constitutionem contra ini
micos gratiæ Dei totus mundus amplearus
est, veraci professione, quemadmodum ipso
rum habet sermo, dicamus gratiam Dei per
Jesum Christum» Dominum, non solum ad
cognoscendam , verum ad faciendam justi
tiam , nos per actus singulos adjuvari ; ita
sine illa nihil veræ sanctæque pietatis habere,
cogitare , dicere , agere valeamus. '
1 o. Nel sinodo II. di Oranges can. 7. si
disse: Si quis per naturæ vigorem bonum
aliquod, quod ad salutem pertinet vitae aeternæ,
cogitare, aut eligere posse confirmet, absque
illuminatione et inspiratione Spiritus Sancti
hæretico fallitur spiritu. E più chiaramente
avea definito : Si quis sicut augmentum, ita
etiam initium fidei ipsumque credi,'itatis af
fèctum, quo in eum credimus qui justificat
impium, et ad generationem sacri baptismatis

(1) S. Prosp. Respons. ad cap. 8. Gallor.


1 55
pervenimus, non per gratiae donum, idest
per inspirationem Spiritus Sancti corrigentem
voluntatem nostram ab infidelitate ad fidem,
ab impietate ad pietatem, sed naturaliter no
bis inesse dicit, Apostolicis documentis ad
versarius approbatur.
1 1. Ai concili si uniscono le autorità del
sommi pontefici che hanno approvati e con
fermati più sinodi particolari celebrati contro
i Pelagiani. Innocenzo I. nella lettera al con
cilio Milevitano, approvando la loro fe
de contro Pelagio e Celestio, scrisse così:
Cum in omnibus divinis paginis voluntati li
berae nonnisi adjutorium Dei legimus esse
nectendum, eamque nihil posse coelestibus prae
sidiis destitutam; quonam modo huic soli pos
sibilitatem hanc pertinaciter defendentes, si
bimet, imo plurimis Pelagius Coelestiusque
persuadent ? Di più Zosimo Papa nella sua
lettera enciclica a tutti i vescovi del mondo,
rapportata da Celestino I. nell'epistola ai ve
scovi delle Gallie, dice così : In omnibus
causis, cogitationibus, motibus adjutor et pro
tector orandus est. Superbum est enim, ut
quicquam sibi humana natura praesumat. Nel
fine poi della citata lettera di Celestino I.
vi sono più capitoli presi dalle definizioni
di altri pontefici e del concilj Africani in
materia della grazia, e nel V. capitolo si
legge così: Quod omnia studia et omnia
154
opera ac merita sanctorum ad Dei gloriam
laudemque referenda sunt; quia non aliunde
ei placet, nisi ex eo quod ipse donaverit.
E nel capitolo VI.: Quod ita Deus in cor
dibus hominum atque in ipso libero operatur
arbitrio, ut sancta cogitatio, pium consilium
omnisque motus bonae voluntatis eac Deo sit,
quia per illum aliquid boni possumus, sine
quo nihil possumus.
12. Nel concilio Efesino ecumenico furono
formalmente condannati i Pelagiani, come
scrive il cardinal Orsi (1). Nestorio avea
ben accolti i vescovi Pelagiani in Costanti
nopoli, poichè egli aderiva a Pelagio nel
punto che la grazia si concede a noi da Dio,
non gratuitamente, ma secondo i propri
meriti. Questa falsa dottrina piaceva a Ne
storio, mentr ella si adattava al suo sistema,
che il Verbo aveva eletta la persona di Cri
sto per tempio di sua abitazione per le di
lui proprie virtù. E così i Padri del concilio
di Efeso, conoscendo l'ostinazione di quei
vescovi Pelagiami, li condannarono come ere
tici. E finalmente il concilio Tridentino nella
sess. 6. de Justif così definisce tutta questa
materia in due canoni. Nel canone 2.º dice:
Si quis dixerit divinam gratiam ad hoc solum

(1) Card. Orsi Ist. Eccl. tom. 13. lib. 29. num.
52. con S. Prospero lib. contr. Collat. cap. 21.
155
dari ut facilius homo juste vivere, ac ad
vitam aeternam promoveri possit, quasi per
liberum arbitrium, sine gratia, utrumque, sed
aegre tamen et difficulter possit; anathemasit.
Nel canone poi 5.º dice : Si quis direrit
sine praeveniente Spiritus Sancti inspiratione,
atque ejus adjutorio hominem credere, spera
re, diligere, aut poenitere posse sicut oportet,
ut ei justificationis gratia conferatur; anathe
ma sit.

S IV.
SI RISPONDE ALLE OBBIEZIONI.

15. Oassesso per 1º i Pelagiani, e dico


no: se si ammette che la grazia è assoluta
mente necessaria a fare qualunque atto in
ordine alla salute, si ha da dire che l'uomo
non ha libertà, ed il libero arbitrio è di
strutto. Risponde S. Agostino che l'uom ca
duto certamente non è più libero senza la
grazia, nè a cominciare, nè a perfezionare
alcun atto in ordine alla vita eterna, ma
dalla grazia di Dio ricupera questa libertà;
poichè quelle forze che gli mancano per po
tere operare il bene, gli son somministrate
dalla grazia meritatagli da Gesù Cristo, la
quale gli fa ricuperare la libertà e la forza
di operare la sua eterna salute, senza però
necessitarlo : Peccato Ada arbitrium liberum
156
de hominum natura periisse non dicimus, sed
ad peccandum valere in homine subdito dia
bolo. Ad bene autem , pieque vivendum non
valere, nisi ipsa voluntas hominis Dei gratia
fuerit liberata, et ad omne bonum actionis,
sermonis, cogitationis adjuta (1).
14. Si oppone per 2 º quel che disse Dio
a Ciro : Qui dico Crro: Pastor meus es, et
omnem voluntatem meam complebis. Isa. 44.
28. E nel cap. 46. vers. I 1. lo chiamò uo
mo secondo la sua volontà: Virum voluntatis
meae. Onde dicono i Pelagiani: Ciro era uo
mo idolatra, sicchè era privo della grazia
che si dona da Dio per Gesù Cristo; e pure
osservò secondo il testo citato tutti i precetti
naturali: dunque senza la grazia ben può
l'uomo osservare tutta la legge di natura.
Si risponde che per intender ciò bisogna di
stinguere co teologi la volontà di beneplacito,
dalla volontà di segno. La volontà di bene
placito è quella ch è stabilita da Dio con
decreto assoluto, la quale vuole Iddio che
da noi infallibilmente sia eseguita; e questa
sempre viene adempita dagli empi. La volon
tà poi di segno è quella che riguarda i di
vini precetti a noi significati; ma all'adem
pimento di questa divina volontà vi bisogna

(1) S. August. lib. 2, contra duas Epist. Pela


gian. cap. 5.
157
la nostra cooperazione, la quale non si può
mettere da noi senza l'ajuto della grazia :
e questa volontà non è sempre adempita da
gli empi. Ora il Signore in Isaia a rispetto di
Ciro non parla della volontà di segno, ma
di quella di beneplacito, cioè che Ciro do
vesse liberare i giudei dalla cattività, e de
vesse permettere che si riedificasse il tempio
e la città : il che dovette senza meno ese
guirsi da Ciro, il quale all'incontro fu ido
latra, sanguinario, invasore del regni altrui;
sicchè Ciro non adempì i precetti naturali.
15. Si oppone per 5.º quel che abbiamo
in S. Marco al capo 1 o di un cert'uomo,
che, essendo stato dal Signore esortato ad
osservare i precetti, rispose: Magister, hac
omnia observavi a juventute mea. Vers. 2o.
E che veramente li avesse osservati, si de
duce da quel che soggiunge ivi S. Marco:
Jesus autem intuitus eum, dilexit eum. Vers.
21. Ecco, dicono i Pelagiani, che quest'uo
mo, senza la grazia, e senza nè pure cre
dere prima in Cristo, osservò tutti i precetti
Maturali. Si risponde per 1.º che quell'uomo
era giudeo, e come tale credeva in Dio,
ed implicitamente anche in Cristo; e perciò
potè aver la grazia, per cui abbia osservati
i precetti del decalogo. Si risponde per 2.º
che quando disse quell'uomo: ha c omnia
observavi, non s'intende di tutti i precetti,
I 58
ma solo di quelli che gli nominò il Signore:
ne adulteres, ne occidas, ne fureris etc. Vers.
19. Del resto dallo stesso vangelo apparisce
che poco osservava il precetto di amare Dio
sovra ogni cosa: poichè invitato da Cristo
a lasciar le sue ricchezze, non ubbidì ; onde
il Signore tacitamente l'incolpò, proferendo
quella sentenza: Quam difficile qui pecunias
habent in regnum Dei introibunt ! Vers. 25.
16. Oppongono per 4 º che S. Paolo stan
do ancora sotto la legge e non ancora co
stituito in grazia, osservò tutta la legge,
com'egli stesso attesta: Secundum justitiam,
quae in lege est, conversatus sine querela.
Philip. 5. 6. Si risponde che S. Paolo osser
vò prima la legge in quanto all' esterno, ma
non in quanto all' interno, amando Dio so
pra ogni cosa, secondo lo stesso Apostolo
scrisse : Eramus aliquando et nos insipientes,
increduli, errantes, servientes desideriis et vo
luptatibus variis, in malitia... odientes invi
cem. Ad Tit. 5. 5.
17. Oppongono per 5 º : o tutti i precetti
del decalogo sono possibili o sono impossi
bili. Se son possibili, dunque ben possiamo
osservarli colle sole forze del libero arbitrio.
Se poi sono impossibili, non sarà peccato il
trasgredirli; giacchè miuno è tenuto all'im
possibile. Si risponde che tutti i precetti so
no impossibili ad osservarsi da noi senza la
159
grazia; son possibili all'incontro coll'ajuto
della grazia. Così risponde S. Tommaso (1):
Illud quod possumus cum aurilio divino, non
est nobis omnino impossibile... Unde Hiero
nºrmus confitetur sic nostrum esse liberum
arbitrium, ut dicamus nos semper indigere
Dei aurilio. Sicchè, non essendo a noi im
possibile coll'ajuto divino l'osservanza del
precetti, ben siamo tenuti ad osservarli. Ad
altre opposizioni che faceano i Pelagiani si
risponderà nella seguente confutazione de'
Semipelagiani.

C O N FU TAZ I O N E VI.
ERESIA DE' sEMIPELAGIANI.

I • I Semipelagiani riconoscono le forze del

la volontà umana debilitate col peccato ori


ginale: onde confessano la necessità della
grazia ad operare il bene, ma negano esser
ella necessaria al principio della fede e al
desiderare la salute eterna, dicendo che, sic
come negl'infermi il credere che la medicina
loro giovi e il desiderio di ottener la salute
non sono opere per cui bisogni la medicina,
così il principio di credere, o sia l'affezione

(1) S. Thom. 1. 2. qu. 1o9. art. 4. ad 2.


14o
alla fede ed il desiderio della salute eterna
non sono opere, per cui è necessaria la gra
zia. Ma colla chiesa cattolica si dee tenere
che ogni principio di credere ed ogni buon
desiderio in noi è opera della grazia.
S. I.
IL PRINCIPIO DELLA FEDE
E D oGNI BUoNA voLoNTA'
NoN È DA Noi , MA DA Dio.

2. S, prova ciò per 1.º evidentemente con

quel che dice S. Paolo: Non quod sufficien


tes simus cogitare aliquid a nobis, quasi ex
nobis, sed sufficentia nostra ex Deo est. 2.
Cor. 5. 5. Sicchè il principio di credere,
cioè non quel principio di fede appartenente
all'intelletto, che naturalmente vede la verità
della nostra fede, ma quella pia volontà di
credere, la quale non è ancora fede forma
ta, poichè non è altro che un pensiero di
voler credere, il quale precede al credere,
come dice S. Agostino, questo buon pensie
ro, secondo l'Apostolo, non si ha che da
Dio. Ecco le parole di S. Agostino, il quale
ponderando il testo citato, dice così: Atten
dant hic, et verba ista perpendant qui pu
tant ex nobis esse fidei coeptum, et ex Deo
esse fidei supplementum. Quis enim non
I 41
videt prius esse cogitare, quan credere? Nul
lus quippe credit aliquid, nisi prius credi
derit esse credendum. Quamvis enim rapte,
quamvis celerrime credendi voluntatem quae
dam cogitationes antevolent, morque illa ita
sequatur, ut quasi conjunctissima comitetur;
necesse est tamen ut omnia qua creduntur,
praeveniente cogitatione credantur... Quod er
go pertinet ad religionem et pietatem, de qua
loquebatur Apostolus, si non sumus idonei
cogitare aliquid quasi ex nobismetipsis, sed
sufficientia nostra ex Deo est, profecto non
sumus idonei credere aliquid quasi ex nobis
metipsis, quod sine cogitatione non possumus,
sed sufficientia nostra, qua credere incipiamus,
ex Deo est (1).
5. Si prova per 2.º con l'altro testo dello
stesso Apostolo, dove si accenna insieme la
ragione della nostra proposizione. Dice San.
Paolo: Quis enim te discernit ? Quid autem
habes, quod non accepisti? 1. Cor 4. 7. Se
il principio della buona volontà, che ci di
spone a ricever da Dio la fede, o altro do
no della sua grazia venisse da noi, ecco
che questo ci farebbe discernere da un altro
che non avesse questo principio di buona
volontà in ordine alla vita eterna. Ma San
Paolo dice che quanto abbiamo, il che

(1) S. August. lib. de Praedest. SS. cap. 2.


142
comprende ogni primo desiderio di credere o
di salvarci, tutto lo riceviamo da Dio: Quid
autem habes, quod non accepisti? S. Agostino
anche un tempo tenea che la fede in Dio
non era da Dio, ma da noi, e che per
quella otteniamo poi da Dio il viver bene;
ma questo passo dell'Apostolo principalmen
te lo fece ritrattare, com' egli stesso con
fessa (1): Quo praecipue testimonio etiam ipse
convictus sum : cum similiter errarem, putans
fidem qua in Deum credimus non esse donum
Dei, sed a nobis esse in nobis, et per illama
nos impetrare Dei dona, quibus temperanter
et juste et pie vivamus in hoc socculo.
4. Ciò si conferma con quel che dice lo
stesso Apostolo in altro luogo ( Ephes. 2. 8.
et 9 ) : Gratia enim estis salvati per fidem:
et hoc non ex vobis : Dei enim donum est,
non ex operibus, ut ne quis glorietur. Scri
ve S. Agostino (2) che Pelagio stesso, per
non esser condannato dal concilio della Pa
lestina, condannò, benchè fintamente, la pro
posizione : Gratia secundum merita nostra
datur. Quindi scrisse il Santo : Quis autem
dicat eum qui jam coepit credere ab illo
in quem credidit nihil mereri? Unde fit ut
jam merenti cetera dicantur addi retributione

(1) S. August. lib. de Pradest. SS. cap. 3. -

(2) Idem loc. cit. cap. 1.


1 45
divina, ac per hoc gratiam Dei secundum
merita nostra dari: quod objectum sibi Pe
lagius, ne damnaretur, ipse damnavit.
5. Si prova per 5.º la nostra proposizione
da quel che disse la stessa Sapienza incarna
ta : Nemo potest venire ad me, nisi Pater,
qui misit me, tracerit eum. Joan. 6. 44. Ed
in altro luogo disse: Sine me nihil potestis
facere. Joan. 15. 5. Da questi luoghi si ri
cava che noi colle sole forze naturali non
possiamo neppure disporci a ricever da Dio
le grazie attuali che ci conducono alla vita
eterna; poichè la grazia attuale è di ordine
soprannaturale, e perciò non può aver pro
porzione una disposizione moralmente naturale
a ricevere una grazia soprannaturale. Si gratia,
dice l'Apostolo, jam non ex operibus, alio
quin gratia non est gratia. Rom. I 1. 6. All'
incontro è certo che la grazia non si dona
da Dio secondo i nostri meriti naturali, ma
secondo la sua divina liberalità. Iddio che
perfeziona in noi le opere buone, egli stesso
le comincia: Qui coepit in vobis opus bonum,
perficiet usque in diem Christi Jesu. Philipp.
1. 6. Ed in altro luogo dice l'Apostolo: che
ogni buona volontà ha da principiare da Dio,
e da Dio ha da esser condotta a fine: Deus
est enim qui operatur in vobis et velle et per
ficere pro bona voluntate. Philipp. 2. 15.
E qui bisogna notare l'altro errore dei
144
Semipelagiani, i quali diceano che a fare il
bene è necessaria la grazia, ma non già a
perseverare nel bene. Ma questo errore è
stato già ben confutato espressamente dal
sacro concilio di Trento (Sess. VI. cap. 15. ),
insegnando che il dono della perseveranza
non si può ottenere se non da Dio, il quale
dà la perseveranza: Similiter de perseverantiae
munere... quod quidem aliunde haberi non
potest nisi ab eo, qui potens est eum qui stat
statuere, ut perseveranter stet.

S II.
SI RISPONDE ALLE oBBIEzioNI.

6. Ossesso per 1º i Semipelagiami al


cuni passi della Scrittura, in cui par che la
buona volontà e il principio dell'opera buona
si attribuisca a noi, ed a Dio solamente la
perfezione dell'opera. Nel primo libro de Re
al cap. 7. vers. 5. si legge: Praeparate corda
vestra Domino. Simile a questo luogo è quel
lo di S. Luca ( 5. 4. ) : Parate viam Domini:
rectas facite semitas ejus. Di più in Zaccaria
( 1. 5. ) si dice: Convertimini ad me... et
convertar ad vos. E S. Paolo a Romani (7. 18.)
par che lo spieghi più chiaro: Velle, adiacet
mihi: perficere autem bonum, non invenio. E
negli Atti degli Apostoli (cap. 1o. ) sembra
la grazia della fede, che ricevette Cornelio,
145
attribuirsi alle sue orazioni. Si risponde a
questi ed a simili testi che ivi non si esclu
de la grazia preveniente ed interna dello
Spirito Santo, ma vi si presuppone, e si
esorta di corrispondere a questa grazia per
togliere gl'impedimenti alle grazie maggiori
che tiene Dio preparate a chi ben corrispon
de. Sicchè col dire apparecchiate i vostri
cuori, convertitevi al Signore ec. la Scrittu
ra non già attribuisce al nostro libero arbitrio
il principio della fede, o della conversione
senza la grazia preveniente, ma solo ci am
i monisce a corrispondere, con farci sapere
che la grazia preveniente ci lascia liberi ad
releggere, o a rifiutare il bene. Siccome all'
incontro quando la Scrittura dice: Praepara
tur voluntas a Domino; e quando noi dicia
mo: Converte nos Deus salutaris noster, Psal.
84 5., allora siamo ammoniti che la grazia
ci previene a fare il bene, ma senza toglier
ci la libertà, se non vogliamo accettarla. Co
sì appunto parlò il concilio di Trento: Cum
dicitur: Convertimini ad me, et ego com
vertar ad vos; libertatis nostra admonemur.
Cum respondemus: Converte nos Domine,
et convertemur, Dei nos gratia praeveniri
sconfitemur. Sess. 6. cap. 5. Lo stesso si
risponde a quel che diceva S. Paolo: Velle
adjacet mihi, perficere autem bonum non in
venio; voleva dire l'Apostolo come, stando
LIG. Storia delle Eresie T III. Gr
146
già egli giustificato, avea già la grazia di vo
lere il bene, e che il perfezionarlo non era
opera sua, ma di Dio; ma non dice ch'egli
avea da sè la buona volontà di operare il
bene. Al fatto di Cornelio corre la stessa ri
sposta; poichè, sebbene egli ottenne la con
versione alla fede per le sue orazioni, que
ste sue medesime orazioni non erano state
scompagnate dalla grazia preveniente.
7. Oppongono per 2 º quel che disse Cri
sto in S. Marco ( cap. 16. vers. 16. ) : Qui
crediderit, et baptizatus fuerit, salvus erit.
Dicono: qui una cosa si esige, ch'è la fede;
un'altra si promette, ch'è la salute. Dunque
ciò che si esige è nella potestà dell'uomo;
ciò che si promette è nella potestà di Dio.
Si risponde con S. Agostino (1) per istanza:
S. Paolo, dice il santo Dottore, scrive: Si
autem Spiritu facta carnis mortificaveritis, vi
vetis. Rom. 8. 15. Qui uno si esige, ch'è
la mortificazione delle passioni; l'altro si
promette, ch'è il premio della vita eterna.
Dunque se valesse l'argomento de Semipe
lagiani che quel che si esige è in nostra po
testà senza bisogno della grazia, dovremmo
dire che senza la grazia noi possiamo vince
re le passioni: ma questo, dice il Santo, è

(1) S. Augustinus de Praedestinat. Sanctorum


cap. 11.
147
l'errore inescusabile de Pelagiani: Pelagia
norum est error iste damnabilis. Indi dà ai
Semipelagiani la risposta diretta, e dice che
quel che si esige da noi non è in nostro po
tere di darlo senza la grazia, ma coll'aiuto
della grazia; e poi così conclude: Sicut er
go, quamvis donum Dei sit facta carnis mor
tificare, ex igitur tamen a nobis proposito
praemio vitae; ita donum Dei est fides, quam
vis et ipsa, dum dicitur si credideris, salvus
eris, proposito pragmio salutis, exigatura no
bis. Ideo enim ha c et nobis praecipiuntur, et
dona Dei esse monstrantur, ut intelligatur
quod et nos ea facimus, et Deus facit ut
illa faciamus.
8. Oppongono per 5 º quello a cui il Si
gnore mille volte ci esorta e che ripete nelle
Scritture: che preghiamo e cerchiamo, se
vogliamo riceverle grazie. Dunque, dicono,
il pregare è in nostra potestà, e per conse
guenza se non è in mano nostra il far la
nostra salute ed il credere, almeno è in
nostro potere il desiderio di credere e di
salvarci. Risponde a ciò lo stesso S. Agosti
mo (1), e dice non esser vero che il prega
re come si dee pregare è delle nostre forze
naturali, ma venirci dato dalla grazia, se
condo quel che scrive l'Apostolo: Spiritus

(1) S. August. lib. de Dono persev. cap. 23.


148
adjuvat infirmitatem nostran: nam quid ore
mus, sicut oportet, nescimus: sed ipse Spi
ritus postulat pro nobis. Rom. 8. 26. Quindi
ripiglia S. Agostino: Quid est, ipse Spiritus
interpellat, nisi interpellare facit ? E poco
appresso soggiunge : Attendant quomodo fal
luntur qui putant esse a nobis, non dari
nobis, ut petamus, quaeramus, pulsemus, et
hoc esse dicunt quod gratia pra ceditur me
rito nostro... Nec volunt intelligere etiam hoc
divini muneris esse ut oremus, hoc est peta
mus, quaeramus, atque pulsemus; accepimus
enim spiritum adoptionis, in quo clamamus
Abba Pater. E lo stesso santo Dottore ci fa
sapere che Dio dona a tutti la grazia di po
ter pregare e colla preghiera il mezzo di
ottenere la grazia di adempire i precetti;
altrimenti se alcuno non avesse la grazia
efficace di adempire i precetti, e non avesse
nè pure la grazia di poter ottenere la grazia
efficace per mezzo della preghiera, i precet
ti a costui si renderebbero impossibili. Ma
no, dice S. Agostino : il Signore ci ammo
nisce a pregare colla grazia della preghiera,
che dona a tutti, affinchè pregando ottenghia
mo poi la grazia efficace di adempire i pre
cetti. Ecco le parole del Santo: Eo ipso quo
firmissime creditur Deum impossibilia non prae
cipere, hinc admonemur et in facilibus, cioè
nel pregare, quid agamus, et in difficilibus,
14
cioè nell'adempire i precetti, quid ri
E ciò corrisponde a quella gran sentenza del
medesimo Santo (1), la quale fu poi adottata
dal concilio di Trento ( Sess. 6. cap. XI. ) :
Deus impossibilia non jubet, sed jubendo mo
net et facere quod possis, et petere quod non
possis, et adjuvat, ut possis. Sicchè pregando
noi otteniamo la forza di fare quel che non
possiamo fare da noi; ma senza poterci poi
vantare di aver pregato, perchè la stessa
nostra preghiera è dono di Dio.
9 Che poi Dio doni a tutti comunemente
la grazia di pregare, S. Agostino, oltre de'
luoghi citati, lo replica in mille altri luoghi.
In altro luogo (2) dice : Nulli enim homini
ablatum est scire utiliter quarere. In altro
luogo (5) dice: Quid ergo aliud ostenditur
nobis, nisi quia et petere et quaerere ille con
cedit, qui ut haec faciamus jubet ? In altro
luogo (4) parlando di colui che non sa che
fare per ottener la salute, dice che dee ben
servirsi di ciò che ha ricevuto, cioè della
grazia di pregare, e così riceverà la salute:
Sed hoc quoque accipiet, si hoc quod accipit,
bene usus fuerit; accepit autem, ut pie et

(1) S. August. de Nat, et Grat. cap. 44. num. 5o.


(2) Idem lib. 3. de Lib. arb. cap. 19. num. 53.
(3) Idem lib. 1. ad Simplic. qu. 2.
(4) Idem Tract. 26, in Joan. cap. 22. num. 65.
15o
diligenter quarat, si volet. Di più in altro
luogo (1) spiega tutto ciò più distesamente,
dicendo che perciò il Signore ci comanda
di pregare, affinchè pregando noi possiamo
ottenere i suoi doni ; e che invano ci am
monirebbe a pregare, se non ci donasse
prima la grazia di poter pregare, e colla
preghiera ottener la grazia di adempire ciò
che ci viene imposto: Praecepto admonitum
est liberum arbitrium ut quaereret Dei do
num; at quidem sine suo fructu admonere
tur, nisi prius acciperet aliquid dilectionis,
ut addi sibi quoreret, unde quod jubeba
tur impleret. Si noti aliquid dilectionis; ec
co la grazia, per cui l'uomo prega, se
vuole, e pregando impetra poi la grazia at
tuale di osservare i precetti, ut addi sibi
quaereret, unde quod jubebatur impleret. E
così niuno potrà lamentarsi nel giorno del
giudizio di essersi perduto per essergli man
cata la grazia di cooperare alla sua salute;
perchè, se non avea la grazia attuale di far
la sua salute, aveva almeno la grazia di
pregare, che a niuno si nega, colla quale
se pregava avrebbe ottenuta la salute, pro
messa già dal Signore a chi prega: Peti
te, et dabitur vobis; quaerite, et invenietis.
Matth. 7. 7.

(1) Idem de grat. et lib. arb. cap. 18.


15t
1o. Oppongono per 4º e dicono : se an
che al principio della fede si ricerca la gra
zia preveniente, dunque sono scusabili quegli
infedeli che non credono, perchè loro non
è stato mai predicato il vangelo, nè mai
han ricusato di udirlo. Giansenio (1) risponde
che questi non sono scusati, ma vengono
condannati, quantunque non abbiano alcuna
grazia sufficiente nè prossima, nè rimota per
convertirsi alla fede: e ciò in pena del pec
cato originale, che gli ha privati di ogni
ajuto. E dice che que teologi che volgar
mente vogliono darsi a tali infedeli la gra
zia sufficiente in qualche modo a salvarsi
hanno appresa questa dottrina alla scuola
dei Semipelagiani. Ma questo che dice Gian
senio non si accorda colle Scritture, che di
cono: Qui omnes homines vult salvos fieri,
et ad agnitionem veritatis venire. 1. Tim. 2.
4. Erat lux vera, qua illuminat omnem ho
minem venientem in hunc mundum. Joan 1.
9. Qui est Salvator omnium hominum, ma
acime fidelium 1. Tim. 4- 1o. Ipse est propi
tiatio pro peccatis nostris; non pro nostris au
tem tantum, sed etiam pro totius mundi. 1.
Joan. 2. 2. Qui dedit redemptionem semet
ipsum pro omnibus. 1. Tim 2. 6. Dai quali

(1) Jansen. lib. 3. de Grat. Christi cap. 11.


152 . -

testi osserva Bellarmino (1) che S. Gio. Gri


sostomo, S. Agostino, S. Prospero ne dedu
cono che Dio non manca di dare a tutti gli
uomini l'ajuto bastante per potersi salvare,
se vogliono; e specialmente ciò lo dice Sant'
Agostino in più luoghi (2) e S. Prospero (5).
Inoltre quel che dice Giansenio non si ac
corda colla condanna che fece Alessandro
VIII. nel 169o della proposizione : Pagani,
Judaei, Haeretici, aliique hujus generis nullum
dmnino accipiunt a Jesu Christo influxum :
adeoque hinc recte inferes in illis esse volun
tatem nudam et inermem sine omni gratia
sufficiente. Nè pure si accorda con quell' al
tra condanna fatta da Clemente XI. di queste
due proposizioni di Quesnellio ( 26. 29 ):
Nulla dantur gratiae, nisi per fidem : Extra
ecclesiam nulla conceditur gratia.
11. Si risponde pertanto ai Semipelagiani
che gl'infedeli i quali giunti all' uso di ra
gione non si convertono alla fede non sono
degni di scusa; perchè, quantunque non rice
vano la grazia sufficiente prossima, almeno
non sono destituiti della grazia rimota e me
diata per convertirsi alla fede. E qual è que
sta grazia rimota? E quella che insegna il
(1) Bellarm. lib. 2. de grat. et lib. arb. cap. 5.
(2) S. August. lib. de spir. et litt. cap. 33. et
in Ps. 18. num. 7.
(3) S. Prosp. de Voc. Gent. lib. 2. cap. 5,
155
dottore Angelico (1), il quale scrive : Si quis
nutritus in srlyis, vel inter bruta animalia
ductum rationis naturalis sequeretur in appetitu
boni et fuga mali, certissime est credendum
quod ei Deus vel per internam inspirationem
revelaret ea, quae sunt ad credendum necessa
ria; vel aliquem fidei praedicatorem ad eum
dirigeret, sicut misit Petrum ad Cornelium.
Sicchè secondo S. Tommaso agl'infedeli che
son giunti all'uso di ragione almeno vien
data da Dio la grazia rimotamente sufficiente
per salvarsi; la quale grazia consiste in una
certa istruzione della mente ed in una mo
zion della volontà ad osservar la legge ma
turale: alla quale mozione se coopera l'in
fedele, osservando i precetti della natura, con
astenersi da peccati gravi, riceverà appresso
certamente per i meriti di Gesù Cristo la
grazia prossimamente sufficiente ad abbrac
ciar la fede ed a salvarsi.

(1) S. Thom. quaest. 14. de Verit. art. 1 1. ad 1.


G 5
154
C O N FUT A Z I O N E VII.

ERESIA DI NESTORIO

CHE CosTITUIVA IN CRISTO DUE PERSONE.

I• Nasa non è accusato di alcuno er


rore circa il mistero della SS. Trinità. Fra le
altre eresie ch'egli impugnò ne' suoi ser
moni, e contro cui implorò il braccio dell'
imperator Teodosio, una fu quella degli
Ariani, i quali negavano essere il Verbo
consostanziale al Padre. Non si può adunque
dubitare che Nestorio confessava la divinità
del Verbo e la sua consostanzialità col Padre.
La sua eresia è stata propriamente contro il
mistero dell'incarnazione dello stesso Verbo
divino; mentre negò la sua unione ipostati
ca, o sia personale colla natura umana. Ne
storio sostenne che il Verbo divino non si è
unito coll' umanità di Gesù Cristo in altro
modo di quello con cui si unisce cogli altri
Santi, sebbene in una maniera più eccellen
te e fin dal suo primo concepimento. Egli
si spiega ne suoi scritti con varie formole
circa questo punto, ma che tutte dimostrano

una semplice unione morale ed accidentale


fra la persona del Verbo e l'umanità di Ge
sù Cristo; ma niuna di loro dinota l'unione
ipostatica e sostanziale. Ora dice che questa
I do

unione è di abitazione, asserendo che il Ver


bo abita nell'umanità di Cristo come in suo
tempio. Ora dice che questa unione è di af:
fetto, qual'è quella che passa fra due amici.
Ora dice che questa unione è di operazione,
in quanto il Verbo si vale dell'umanità di
Cristo come d'istrumento per operar mira
coli ed altre opere soprannaturali. Ora dice
che quest'unione è di grazia, poichè il Ver
bo per mezzo della grazia santificante e di
altri doni divini si unisce con Cristo. Final
mente dice che questa unione consiste in
una comunicazione morale, per cui il Verbo
comunica la sua dignità ed eccellenza a que
sta umanità ; e per questa ragione dice do
versi ella adorare ed onorare, come si ono
ra la porpora che porta il re e il trono dove
siede. Ha negato egli poi sempre ostinata
mente che il Figliuolo di Dio siasi fatto uo
mo, sia nato, abbia patito e sia morto per
la redenzione degli uomini. Nega in somma
la comunicazione degl'idiomi, che siegue
dall'incarnazione del Verbo. Nega per con
seguenza ancora che la santissima Vergine
Maria sia vera e propria madre di Dio,
bestemmiando ch'ella non ha conceputo se
non un puro e semplice uomo.
2. Questa eresia, che distrugge il fonda
mento della religion cristiana, con distrug
gere il mistero dell'incarnazione, sarà da
-

156
noi impugnata nel suoi due principali punti:
il primo de quali consiste in negare l'unio
me ipostatica, cioè della persona del Verbo
colla natura umana, e per conseguenza in
ammetter in Cristo due persone, una del
Verbo, che abita nell'umanità come in un
tempio, un'altra persona dell'uomo e pura
mente umana, che termina questa umanità.
Il secondo punto consiste in negare che Ma
ria santissima sia vera e propria madre di
Dio. Questi due punti confuteremo ne'se
guenti due paragrafi.

- S. I.

IN GESU' CRIsTo NoN vi È CHE LA soLA PER


soNA DEL VERBo, LA QUALE TERMINA LE DUE
NATURE DIVINA ED UMANA , LE QUALI NELLA
sTessA PERSONA DEL VERBO sussistono; E
PERciò QUESTA UNICA PERsoNA È INSIEME vE
Ro DIO E VERO UOMO.

3. S. prova ciò per 1.º con tutte quelle


Scritture, in cui si dice che Dio si è fatto
carne, che Dio è nato da una Vergine, che
Dio si è esinanito con assumer la natura di
servo, che Dio ci ha redenti col suo sangue,
che Dio è morto per noi su d'una croce.
Ognuno sa che Dio non può esser concepu
to, non può nascere, non può patire, nè
15
può morire nella sua natura divina, la i
le è eterna, impassibile ed immortale; dun
que se la Scrittura c'insegna che Dio è nato,
ha patito ed è morto, si deve intendere
secondo la natura umana, la quale ha prin
cipio, è passibile ed è mortale. E pertanto
se la persona in cui sussiste la natura uma
ma non fosse lo stesso Verbo divino, falsa
mente si direbbe che un Dio è stato conce
puto e partorito da una Vergine, secondo
dice S. Matteo ( 1. 22. et 25. ): Hoc autem
totum factum est, ut adimpleretur quod dic
tum est a Domino per Prophetam dicentem
( Isa. 7. 14. ) : Ecce virgo in utero habe
bit, ( in Isaia si legge concipiet ), et pariet
filium, et vocabunt ( in Isaia vocabitur )
nomen eius Emmanuel, quod est interpreta
tum nobiscum Deus. Questo stesso vien espres
so da S. Giovanni ( 1. 14. ) : Et Verbum
caro factum est, et habitavit in nobis: et vidi
mus gloriam eius, gloriam quasi unigeniti a
Patre, plenum gratiae et veritatis. Così anco
ra falsamente si direbbe che Dio si è esina
mito in assumer la natura di servo, come
dice S. Paolo C Philipp. 2. 5. et sequ. ) :
Hoc enim sentite in vobis, quod et in Chri
sto Jesu; qui cum in forma Dei esset, non
rapinam arbitratus est esse se a qualem Deo,
sed semetipsum exinanivit formam servi acci
piens, in similitudinem hominum factus et
158
habitu inventus ut homo. Così ancora falsa
mente si direbbe che Dio ha data la vita
per noi, ed ha sparso il sangue, come dice
S. Giovanni ( 1. Epist. 1. 16. D: In hoc co
gnovimus charitatem Dei, quoniam ille animam
suam pro nobis posuit E S. Paolo ( Actor.
2o. 28. ): Spiritus Sanctus posuit episcopos
regere ecclesiam Dei, quam acquisivit sangui
ne suo. E parlando della morte del Salvato
re C 1. Cor 2. 8. ) dice: Si enim cognovis
sent, nunquam Dominum gloriae crucifixissent.
4. Falsamente si direbbe tutto ciò di Dio,
se egli abitasse solamente nell'umanità di
Gesù Cristo accidentalmente, come in un
tempio, o moralmente per affetto, e non
già in unità di supposto, o sia di persona:
siccome falsamente si direbbe che Dio nacque
da S. Elisabetta, quando ella partorì il Bat
tista, in cui prima di nascere abitava Dio
per mezzo della grazia santificante: sicco
me anche falsamente si direbbe che Dio
morì lapidato, allorchè fu lapidato S. Stefa
no; o che morì decollato, allorchè fu de
collato S. Paolo; ai quali Santi stava unito
Dio per mezzo dell'amore e di tanti doni
celesti che avea lor fatti, sicchè fra essi e
Dio vi era una vera unione morale. Dunque
non per altra ragione si dice che Dio è na
to e morto ec., se non perchè la perso
ma che sostentava e terminava l' umanità
159
assunta è veramente Dio, qual'è il Verbo
eterno. Sicchè una è la persona di Cristo in
cui sussistono le due nature: e nell'unità
della persona del Verbo, che termina le due
nature, consiste l'unione ipostatica.
5. Si prova per 2.º questa verità con quel
le Scritture, in cui Cristo uomo è chiamato
Dio, Figlio di Dio, Figlio unigenito, Figlio
proprio; poichè un uomo non può chiamar
si Dio, o Figlio di Dio, se la persona che
termina la natura umana non è veramente
Dio. Ora Cristo uomo è chiamato Dio som
mo da S. Paolo C Rom. 9. 5. ) : Ex quibus
est Christus secundum carnem, qui est super
omnia Deus, benedictus in saecula. Gesù stes
so in S. Matteo prima si chiamò Figlio dell'
uomo, e poi interrogò i suoi discepoli, quale
essi lo stimassero. S. Pietro rispose e disse
ch'egli era Figlio di Dio vivo: Dicit illis Je
sus: Vos autem quem me esse dicitis ? Re
spondens Simon Petrus dixit: Tu es Christus
Filius Dei vivi. E Gesù che disse a questa
risposta di S. Pietro? Rispose: Respondens
autem Jesus dixit ei: Beatus es Simen Bar
Jona, quia caro et sanguis non revelavit tibi,
sed Pater meus qui in coelis est. Matth. 16.
15. et seq. Sicchè Gesù stesso nel medesimo
tempo che si chiama uomo, approva la ri
sposta di S. Pietro che lo chiama Figlio di
Dio, e dice che ciò gli era stato rivelato
16o
dall'eterno Padre. Di più si legge in S. Mat
teo ( 5. 17. ), in S. Luca ( 9 15. ) ed in
S. Marco ( 1. 11. ) che Cristo nell'atto stes
so che come uomo ricevette il battesimo da
S. Giovanni, fu chiamato da Dio suo Figlio
diletto: Hic est Filius meus dilectus, in quo
mihi complacui. Le quali parole gli furono
replicate dal Padre sul monte Taborre, co
me attesta S. Pietro ( 2. Ep. 1. 17. ) : Ac
cipiens enim a Deo Patre honorem et gloriam,
voce delapsa ad eum hujuscemodi a magnifi
ca gloria : Hic est Filius meus dilectus, in
quo mihi complacui, ipsum audite. Di più
Cristo uomo è chiamato Figlio unigenito dell'
eterno Padre in S. Giovanni ( 1. 18. ): Uni
genitus Filius, qui est in sinu Patris, ipse
enarravit. Di più Cristo uomo è chiamato
Figlio proprio di Dio: Qui etiam proprio
Filio suo non pepercit, sed pro nobis omni
bus tradidit illum. Rom. 8. 52. Dopo tante
Scritture divine chi mai ardirà di dire che
Cristo uomo non sia veramente Dio?
6. Per 5.º si prova la divinità di Gesù
Cristo con tutti quei passi ne quali è attri
buito alla persona di Cristo uomo ciò che non
può esser attribuito che solamente a Dio;
dal che si conchiude che la di lui persona,
in cui sussistono le due nature, sia vero Dio.
Gesù parlando di se stesso disse : Ego et
Pater unum sunnus. Joan. 1o. 5o. E nello
161
stesso luogo disse: Pater in me est, et ego
in Patre, vers. 58. In altro luogo si legge
che S. Filippo un giorno parlando con Gesù
Cristo gli domandò : Domine, ostende nobis
Patrem. E il Signore gli rispose : Tanto tem
pore vobiscum sum, et non cognovistis me?
Philippe, qui videt me, videt et Patrem ...
Non creditis quia ego in Patre, et Pater in
me est ? Joan. 14. 8. et seq. Con queste pa
role dimostrò Cristo essere lo stesso Dio
col Padre. Gesù stesso disse a giudei che
egli era eterno: Amen, amen dico vobis,
antequam Abraham fieret, ego sum. Joan. 8.
58. Egli stesso disse che operava le stesse
cose del Padre: Pater meus usque modo ope
ratur, et ego operor... quaecunque enim ille
sfecerit, hac et Filius similiter facit Joan. 5.
17. Egli stesso disse di avere tutto ciò che ha
il Padre: Quaecunque habet Pater mea sunt.
Joan. 16. 15. Se Cristo non fosse stato vero
Dio, queste sarebbero state tutte bestemmie at
tribuendosi tante cose che spettano solo a Dio
7. Per 4 º si prova la divinità di Cristo
uomo con quelle altre Scritture, ove si dice
che il solo Verbo, o Figlio di Dio si è in
carnato: Et Verbum caro factum est, et ha
bitavit in nobis. Joan. 1. 14. Sic Deus dilexit
mundum, ut filium suum unigenitumi daret.
Joan. 5. 16. Proprio filio suo non pepercit,
sed pro nobis omnibus tradidit illum. Rom. 8.
162
52. Or se la persona del Verbo non si fos
se unita ipostaticamente, cioè in una perso
ma coll' umanità di Cristo, non si potrebbe
dire che il Verbo si è incarnato, ed è stato
mandato dal Padre a redimere il mondo.
Perchè se non vi fosse stata quest'unione
personale tra il Verbo e l'umanità di Cristo,
non vi sarebbe stata altra unione che morale
di abitazione, o di affetto, o di grazia, o
di doni, o di operazione: ed in questo caso
si dovrebbe dire che anche il Padre e lo
Spirito Santo si fossero incarnati; poichè
tutte queste sorte di unioni non sono pro
prie della sola persona del Verbo, ma com
petono egualmente al Padre ed allo Spirito
Santo, mentre Iddio queste unioni le ha
avute cogli angeli e co santi. Spesso Iddio
ha mandati gli angeli per suoi legati ; ma
dice S. Paolo che non mai il Signore ha
assunta la natura degli angeli: Nusquam enim
angelos apprehendit, sed semen Abraha ap
prehendit. Hebr. 2. 16. Sicchè se vuole Ne
storio che queste sorte di unioni bastino per
dirsi il Verbo incarnato, dee dire che anche
il Padre siasi incarnato, mentre anche il
Padre colla sua grazia e coi doni celesti si
è unito, ed ha moralmente abitato in Ge
sù Cristo, secondo quel che disse Gesù me
desimo: Pater in me est... Pater in me
manens etc. Joan. 14. 1o. Così parimente
165
dovrebbe dirsi che si è incarnato lo Spirito
Santo, mentre Isaia parlando del Messia dis
se : Et requiescet super eum spiritus Domini,
spiritus sapientiae et intellectus. Isa. 11. 2.
Ed in S. Luca ( 4. 1. ) si dice: Jesus autem
plenus Spiritu Sancto. In somma in questo
modo ogni giusto che ama Dio, potrebbe
dirsi Verbo incarnato, mentre disse il no
stro Salvatore: Si quis diligit me... Pater
meus diliget eum, et ad eum veniemus, et
mansionem apud eum faciemus. Joan. 14.25.
Sicchè Nestorio o deve ammettere che il
Verbo non si è incarnato, o che si è in
carnato ancora il Padre e lo Spirito Santo.
Con questo argomento lo strinse S. Cirillo (1)
dicendo : Quod unus sit Christus, eiusmodi
in habitatione Verbum non fieret caro, sed
potius hominis incola; et conveniens fuerit
illum non hominem , sed humanum vocare,
quemadmodum et qui Nazareth inhabitavit
Nazarenus dictus est, non Nazareth. Quin
imo nihil prorsus obstiterit... hominem vocari
una cum Filio etiam Patrem et Spiritum
Sanctum ; habitavit enim in nobis.
8. Potrei qui aggiungere tutti quei testi di
Scrittura in cui si parla di un solo Cristo
sussistente in due nature, com'è quello di
S. Paolo: Unus Dominus Jesus Christus, per

(1) S. Crrill. Dialog. 9


164
quem omnia etc. 1. Cor. 8. 6. ; ed altri simili:
poichè Nestorio, ammettendo due persone
in Cristo, già lo divide in due Signori, co
me ben riflette S. Cirillo, l'uno del quali è
la persona del Verbo che in Cristo abita,
l'altra è la persona umana. Ma io non voglio
più trattenermi nel citar luoghi della Scrit
tura, che tante volte abbatte l' eresia di Ne
storio, quante volte stabilisce il mistero dell'
incarnazione.
9. Passo alla tradizione, in cui si è sem
pre conservata stabile la fede dell'unità del
la persona di Gesù Cristo nell'incarnazione
del Verbo. Nel simbolo degli Apostoli, che
è stata la professione di fede insegnata dagli
Apostoli stessi, dicesi espressamente: Cre
do... in Jesum Christum Filium eſus, unicum
Dominum nostrum, qui conceptus est de Spi
ritu Sancto, natus ex Maria Virgine etc.
Dove quello stesso Cristo ch' è stato con
ceputo, ch'è nato ed è morto, è l'unico
figlio di Dio nostro Signore. Ma ciò non
potrebbe dirsi, se in Cristo, secondo Nesto
rio, vi fosse stata oltre la persona divina,
anche l'umana; perchè quegli ch è nato
ed è morto, non sarebbe stato l'unico figlio
di Dio, ma un puro uomo. -

1o. Questa professione di fede si trova


stesa più ampiamente nel simbolo Niceno,
in cui stabilirono quei Padri la divinità di
165
Gesù Cristo e la sua consostanzialità col Pa
dre, e nel tempo stesso condannarono chia
ramente l'eresia di Nestorio prima di nasce
re, dicendo : Credimus in unum Dominum Je
sum Christum, Filium Dei, ex Patre naturn
unigenitum, idest ea substantia Patris, Deum
ex Deo, lumen ea lumine, Deum verum ex
Deo vero, natum non factum, consubstantia
lem Patri, per quem omnia facta sunt et
quae in coelo et quae in terra; qui propter
nos homines, et propter nostram salutem de
scendit, et incarnatus est, et homo factus;
passus est, et resurrexit tertia die etc. Ecco
dunque che quel solo Gesù Cristo, che si
dice Dio, unigenito del Padre e consostan
ziale al Padre, si dice uomo, nato, morto
e risorto. Ciò chiaramente stabilisce l'unità
della persona di Cristo in due nature distin
te: cioè divina, per cui questo unico Cristo
è Dio, ed umana, per cui lo stesso Cristo
è nato, è morto ed è risorto. Questo me
desimo simbolo fu approvato dal concilio
generale II. che fu il Costantinopolitano I.
celebrato anche prima che Nestorio profe
risse le sue bestemmie; e secondo lo stesso
simbolo Niceno fu Nestorio condannato nel
concilio Efesino generale III. contro lui ce
lebrato. Il simbolo (attribuito a S. Atanasio )
ecco come stabilisce il dogma contro Nesto
rio : Dominus noster Jesus Christus Deus et
166
homo est... æqualis Patri secundum divinita
tem, minor Patre secundum humanitatem; qui
licet Deus sit et homo , non duo tamen , sed
unus est Christus... unus omnino non con
fusione substantiæ, sed unitate personæ.
1 1. Ai detti simboli si uniscono le autori
tà de' santi Padri , che hanno scritto prima
che uscisse 1' eresia di Nestorio. S. Ignazio
martire (1) dice così : Singuli communiter
omnes eae gratia nominatim convenitis in una
fide et uno Jesu Christo, secundum carnem
ex genere Davidis, filio hominis et filio Dei.
Ecco un Gesù figlio dell' uomo e figlio di
Dio. S. Ireneo (2) dice : Unum et eundem
esse Verbum Dei, et hunc esse unigenitum,
et hunc incarnatum pro salute nostra Jesum
Christum. S. Dionisio Alessandrino im una
lettera sinodica confuta Paolo Samosateno
che diceva : Duas esse personas unius et so
lius Christi ; et duos filios , unum natura fi
lium Dei, qui fuit ante sæcula, et unum ho
monrma Christum filium David. S. Auama
sio (5) dice : Homo una persona et unum
animal est eae spiritu et carne compositum ;
ad cujus similitudinem intelligendum est Chri
stum unam esse personam et non duas. San

(1) S. Ign. Epist. ad Eph. num. ao.


(2) S. Iren. lib. 3. cap. 26. al. 18. num. a.
(3) S. Athanas. lib. de Incarnat. Verbi num. a.
167
Gregorio Nazianzeno (1) scrive: Id quod
non erat assumpsit, non duo factus, sed unum
ex duobus fieri substinens; Deus enim ambo
sunt id quod assumpsit, et quod est assumptum,
naturae duae in unum concurrentes, non duo
filii S. Giovan Grisostomo (2) scrive: Elsi
enim ( in Christo ) duplex natura, verumta
men indivisibilis unio in una filiationis perso
na et substantia. S. Ambrogio (5) dice: Non
alter ex Patre, alter ex Virgine; sed item
aliter ex Patre, aliter ex Virgine. E S. Gi
rolamo contro Elvidio: Natum Deum ex Vir
gine credimus. Ed in altro luogo (4) dice :
Anima et caro Christi cum Verbo Dei una
persona est, unus Christus. -

12. Lascio per brevità le altre autorità


de santi Padri, e vengo alle definizioni de'
concilj. Il concilio Efesino (5) dopo aver
maturamente esaminato colle Scritture e colla
tradizione il dogma cattolico, condannò Ne
storio, e lo depose dalla sede di Costantino
poli nella seguente forma: Dominus noster
Jesus Christus, quem suis ille blasphemis vo
cibus impetivit per SS. hanc sinodum eundem
Nestorium episcopali dignitate privatum, et
(1) S. Greg. Nazianz. Orat. 31.
(2) S. Joan. Chrysost. Ep. ad Caesar.
(3) S. Ambros. de Incar. cap. 5.
(4) S. Hieron. tract. 49. in Joan.
(5) Conc. Eph. tom. 3. Conc. pag. 115. etc.
168
ab universo sacerdotum consortio et coetu alie
num esse definit. Lo stesso definì poi il com
cilio di Calcedonia, che fu il generale IV.,
Act. 5, ove si disse: Sequentes igitur SS. Pa
tres, unum, eundenque confiteri Filium et
Dominum nostrum Jesunn Christum, consonan
ter omnes docemus, eundem perfectum in
Deitate, et eundem perfectum in humanita
te, Deum verum et hominem verum . . . .
non in duas personas partitum, aut divisum,
sed unum eundemque Filium et unigenitumn
Deum Verbum Dominum Jesum Christum. Lo
stesso definì il concilio Costantinopolitano III.,
che fu il generale VI, nell'azione ultima. E
lo stesso definì ancora il concilio Niceno II,
che fu il generale VII., nell'azione 7.
SI RISPONDE ALLE OBBIEZIONI,

13. S, oppongono per 1.º alcuni luoghi


della Scrittura, in cui si dice che l'umanità
di Cristo è tempio ed abitazione di Dio:
Solvite templum hoc, et tribus diebus ex
citabo illud . . . Ille autem dicebat de templo
corporis sui Joan. 2. 19 et 21. In altro luo
go si dice: In ipso inhabitat omnis plenitudo
divinitatis corporaliter Coloss. cap. 2. 9. Si
risponde. In questi testi non si nega l'unio
ne personale del Verbo colla natura umana,
anzi ivi maggiormente si conferma. Qual
- 169
meraviglia dee farsi che il corpo di Cristo
unito ipostaticamente coll'anima al Verbo
divino si chiami tempio ? Anche il nostro
corpo unito all'anima si chiama casa e ta
bernacolo: Si terrestris domus nostra hujus
habitationis dissolvatur. 2 Cor. 5. 1. Nam et
qui sumus in hoc tabernaculo, ingemiscimus
gravati. Ibid. v. 4. Siccome dunque il chia
mare il corpo casa e tabernacolo non esclu
de l'unione personale coll'anima, così il
nome di tempio non escludeva l'unione ipo
statica del Verbo coll'umanità di Cristo; an
zi questa unione ben l' espresse lo stesso
Salvatore con quelle parole che soggiunse,
ed in tribus diebus eaccitabo illud, in ciò
dimostrò che non solo era uomo, ma anco
ra Dio. Nell'altro testo poi più chiaramente
si dimostra la divinità di Cristo, dicendo San
Paolo che in esso abitava corporalmente la
pienezza della divinità, dichiarandolo così
vero Dio e vero uomo, secondo le parole
di S. Giovanni: Et Verbum caro factum est.
14. Si oppone per 2 º il testo dello stes
so Apostolo : In similitudinem hominum fac
tus, et habitu inventus ut homo. Phil. 2. 7.
Ecco dunque dicono che Cristo fu uomo si
mile a tutti gli altri uomini. Si risponde che
l'Apostolo aveva poco prima espresso che
Cristo era Dio ed eguale a Dio: Qui cum
in forma Dei esset, non rapinam arbitratus
Lac. Storia delle Eresie T. III. H
17o
est esse se aqualem Deo. Ibid. vers. 6. Onde
le parole seguenti altro non dinotano se non
che il Verbo divino, essendo Dio, si era fatto
uomo simile agli altri uomini; ma non che
era puro uomo come tutti gli altri uomini.
15. Oppongono per 5.º che ogni natura
dee avere il proprio sussistente: il sussi
stente, o sia supposito proprio della natura
umana è l'umana persona: se dunque in
Cristo non vi fu la persona umana, non
fu Cristo vero uomo. Si risponde che non
è necessario alla natura avere il proprio sus
sistente, quando vi è un altro sussistente su
periore e più nobile, il quale fa le veci del
proprio, e che eminentemente sostiene la
natura. Così fu in Cristo; in cui il Verbo
fu il sostenente ambedue le nature, il quale
certamente fu più perfetto del sostenente
umano, ed egli terminò l'umana natura, che
da lui restò più perfezionata. E perciò in
Gesù Cristo, benchè non vi fu la persona
umana, ma solamente la divina del Verbo ;
nondimeno egli fu vero uomo, perchè la
matura umana ebbe la sussistenza nel mede
simo Verbo, che l'assunse e l'unì a se
stesso. -

16. Si oppone per 4° Ma se l'umanità


di Cristo ebbe l'anima ed il corpo, già
fu ella compita e perfetta; dunque in Cristo,
oltre la persona divina, vi fu anche l'umana.
Ir I

Si risponde che l'umanità di Cristo fu º


pita in ragion di natura, perchè niente le
mancava, ma non già in ragion di per
sona, perchè la persona in cui sussisteva
la natura e che la terminava, non era per
sona umana, ma divina; e pertanto non
può dirsi che in Cristo vi furono due per
sone, mentre una sola persona, cioè quella
del Verbo, sostenne e terminò la natura di
vina ed umana.
17. Si oppone per 5.º che S. Gregorio
Nisseno e S. Atanasio han chiamata talvolta
l'umanità di Cristo casa, domicilio e tem
pio del Verbo Dio. Di più lo stesso Sant'
Atanasio, Eusebio di Cesarea e S. Cirillo
l' hanno chiamata istrumento della divini
tà. S. Basilio chiamò Cristo Deifero; Sant'
Epifanio e S. Agostino Hominem Domini
cum : S. Ambrogio e S. Agostino nell'in
no Te Deum dissero che il Verbo assunse
l'uomo. Si risponde che questi medesimi
Padri, come vedemmo di sopra, chiaramen
te hanno espresso che Cristo è vero Dio e
vero uomo; onde se qualche loro detto è
oscuro, ben si spiega cogli altri che son
chiari. S. Basilio chiamò Cristo uomo Deife
ro, non già per ammettere in Cristo la per
sona umana, ma per abbattere l'errore di
Apollinare, il quale negava a Cristo l'ani
ma ragionevole: volendo S. Basilio con ciò
172
dimostrare che il Verbo aveva assunta l'ani
ma ed il corpo. S. Ambrogio e S. Agostino,
dicendo che il Verbo assumpsit hominem,
han presa la parola hominem per l'umanità.
18. E bene qui confutar brevemente anche
l'errore di Felice e di Elipando vescovi, i
quali (come si scrisse nella Storia al capo
V. num. 59 ) dissero che Gesù Cristo come
uomo non fu figliuolo naturale di Dio, ma
solamente adottivo. Questa opinione fu con
dannata da più concilj, ed anche appresso
da Adriano Papa e Leone III. Il dottissimo
Petavio (1) dice ch'ella non è eretica, ma
almeno è temeraria e prossima all'errore;
poichè almeno mediatamente è opposta all'
unità della persona di Cristo, il quale anche
come uomo dee dirsi figlio naturale di Dio,
non già adottivo, per evitare che in Cri
sto possano dirsi due figli di Dio, l'uno
naturale e l'altro adottivo. All'incontro che
Gesù Cristo anche come uomo debba dirsi
figlio naturale di Dio, vi sono più ragioni;
ma la ragione più chiara, espressa nella
Scrittura è questa: Iddio Padre ab aeterno
genera il suo Figlio unigenito, e continua
mente lo genera, come si ha nel salmo 2
verso 7 : Dixit ad me: Filius meus es tu,

(1) Petav. lib. 7. cap. 4. num. 11. et cap. 5.


num. 8.
175
ego hodie genui te. Ond'è che siccome il di
vin Figliuolo prima dell'incarnazione fu ge
merato senza aver la carne a sè personal
mente unita, così poi quando assunse l'uma
nità, fu generato, ed è sempre generato
colla natura umana ipostaticamente unita alla
sua persona divina. Quindi parlando l'Apo
stolo di Cristo come uomo, gli applicò il
testo citato di Davide: Sic et Christus non

semetipsum clarificavit, ut pontifex fieret,


sed qui locutus est ad eum : Filius meus es
tu, ego hodie genui te. Hebr. 5. 5. Sicchè
Gesù Cristo anche secondo l'umanità è vero
figlio naturale di Dio (1).

S II.
MARIA È vERA E PROPRIA MADRE DI Dio.

I9. Quaro dogma è conseguenza di quan


to abbiamo detto : poichè se Cristo uomo è
vero Dio, e se Maria santissima è vera ma
dre di Cristo uomo, è conseguenza neces
saria che sia ancora vera madre di Dio.
Mettiamola più in chiaro colla Scrittura e
colla tradizione. In primo luogo la Scrittura

(1) Vedi Tournely Comp. Theol. tom. 4. part.


2. Incarn. cap. 3. art. 7, pag. 8oo. et signanter
pag. 817.
174
ci assicura che una vergine ( che fu la ver
gine Maria) ha conceputo e partorito un Dio,
come l'abbiamo in Isaia ( 7. 14 ), riferito
poi da S. Matteo ( 1.25. ) : Ecce Virgo con
cipiet, et pariet Filium, et vocabitur nomen
ejus Emmanuel, quod, aggiunge S. Matteo,
est interpretatum: nobiscum Deus. La stessa
verità ci ha manifestata S. Luca, riferendo
le parole di S. Gabriele alla santa Vergine:
Ecce concipies in utero, et paries filium, et
vocabis nomen eius Jesum. Hic erit magnus
et Filius Altissimi vocabitur... Ideoque et
quod nascetur ex te Sanctum, vocabitur Fi
lius Dei. Luc. 1. 51. et 55. Nota: Filius Al
tissimi vocabitur... vocabitur Filius Dei, cioè
sarà celebrato e riconosciuto da tutto il mon
do per Figlio di Dio. –
2o. La stessa verità ci vien dimostrata da
S. Paolo, che dice: Quod ante promiserat
( Deus ) per prophetas suos in Scripturis
sanctis de Filio suo, qui factus est ei ex se
mine David secundum carnem. Rom. 1. 2.
et 5. In altro luogo scrive: At ubi venit ple
nitudo temporis, misit Deus Filium suum fac
tum ex muliere, factum ex lege. Gal. 4. 4.
Questo Figlio promesso da Dio per i pro
feti, e mandato nella pienezza del tempi, è
Dio eguale al Padre, come di sopra si è
dimostrato; e questo medesimo Dio, nato dal
seme di Davide secondo la carne, è stato
175
generato da Maria: dunque Maria è vera
madre di questo Dio.
21. Di più Maria da S. Elisabetta ripiena
di Spirito Santo fu chiamata la madre del
suo Signore: Et unde hoc mihi, ut veniat
mater Domini mei ad me ? Luc. 1. 45. Chi
era questo Signore di S. Elisabetta, se non
il suo Dio ? Inoltre Gesù Cristo tante volte
chiamò Maria sua madre, quante volte egli
si chiamò figliuolo dell'uomo? Giacchè secon
do ci attestano le Scritture, egli fu conce
puto da una vergine senza opera d'uomo.
Dimanda il Salvatore a suoi discepoli: Quem
dicunt homines esse filium hominis? Matt.
16. 25. E risponde S. Pietro: Tu es Chri
stus Filius Dei vivi. Vers. 16. E quindi Cri
sto lo chiama beato, perchè tal verità gli
era stata rivelata da Dio : Beatus es Simon
Bar-Jona, quia caro et sanguis non revelavit
tibi, sed Pater meus, qui est in coelis. Vers,
17. Sicchè questo figlio dell'uomo è vero
figlio di Dio, e Maria è vera madre di Dio.
22. In secondo luogo questa verità si pro
va dalla tradizione. Gli stessi simboli riferi
ti di sopra contro Nestorio, siccome stabi
liscono essere Gesù Cristo vero Dio, così
stabiliscono essere Maria vera madre di Dio,
dicendo: Qui conceptus est de Spiritu Sancto
er Maria Virgine, et homo factus est. Si
aggiunge la definizione del concilio Niceno
176
II. nell'azione 7, ove ciò fu espresso con
più chiarezza così: Confitemur autem et do
minam nostram sanctam Mariam proprie, si
noti, ac veraciter Dei genitricem, quoniam
peperit carne unum ex sancta Trinitate Chri
stum Deum nostrum; secundum quod et Ephe
sinum prius dogmatizavit concilium, quod im
pium Nestorium cum collegis suis, tanquam
personalem dualitatem introducentes, ab ec
clesia pepulit.
25. Tutti poi i santi Padri han chiamata
Maria vera madre di Dio. Io ne rapporto
qui alcuni de primi secoli, che hanno scrit
to prima di Nestorio, tralasciando gli altri
che hanno scritto appresso e l'han confer
mato. S. Ignazio martire (1) scrisse: Deus
noster Jesus Christus ex Maria genitus est.
S. Giustino (2) : Verbum formatum est, et
homo factus est ea Virgine; ed in altro luo
go: Ex virginali utero primogenitum omnium
rerum conditarum carne factum, vere puerun
nasci, id praeoccupans per Spiritum Sanctun.
S. Ireneo (5): Verbum existens ex Maria,
quae adhuc erat Virgo, recte accipiebat gene
rationem Adae recapitulationis. S. Dionisio

(1) S. Ignat. Ep. ad Ephes. num. 14.


(2) S. Justin. in Apolog. et Dialog. cum Triph.
num. 44.
(3) Iren. lib. 3. cap. 21. al. 31. num. 1o.
77
Alessandrino (1): Quomodo ais tu hominem
esse ecimium Christum, et non revera Deum,
et ab omni creatura cum Patre et Spiritu
Sancto adoratum, incarnatum ea Virgine
Deipara Maria ? E poco appresso: Una so
la Virgo filia vitae genuit Verbum vivens, et
per se subsistens, increatum et creatorem. Sant'
Atanasio (2): Hunc scopum et characterem
sanctae Scriptura esse, nempe ut duo de Sal
vatore demonstret: illum scilicet Deum sem
per fuisse, et filium esse... ipsumque postea
propter nos, carne ex Virgine Deipara Ma
ria assumpta, hominem factum esse. S. Gre
gorio Nazianzeno (5): Si quis sanctam Ma
riam Deparam non credit, extra divinitatem
est. S. Giovanni Grisostomo (4): Admodum
stupendum est audire Deum ineffabilem, ine
narrabilen, incomprehensibilem, Patri aequa
lem per virgineam venisse vulvam, et ex
muliere nasci dignatum esse. Fra i Padri lati
mi Tertulliano (5): Ante omnia commendan
da erit ratio quae praefuit, ut Dei Filius
de Virgine nasceretur. S. Ambrogio (6): Fi
lium coaeternum Patri suscepisse carnem ,

(1) S. Dionys. Ep. ad Paul. Samos.


(2) S. Athan. Orat. 3. al. 4. contra Arian.
(3) S. Greg. Nazianz. Orat. 51.
(4) S. Joan. Chrys. Hom. 2. in Matth. num. 2.
(5) Tertull. lib. de carne Chr. cap. 17.
(6) S. Ambros. Ep. 63.
- II 5
178
natum de Spiritu Sancto eae Kirgine Maria.
S. Girolamo (1): Natum Deum esse de vir
gine credimus, quia legimus. S. Agostino (2):
Invenisse apud Deum gratiam dicitur (Maria),
ut Domini sui, imo omnium Domini mater
esset.

24. Tralascio altre autorità , e basti per


tutte quel che scrisse Giovanni vescovo di
Antiochia, a nome di Teodoreto e di altri
vescovi amici di Nestorio allo stesso Nesto
rio, circa il nome di madre di Dio : Vomen,
quod a multis sæpe Patribus usurpatum , ac
pronuntiatum est, adjungere ne graveris ; ne
que vocabulum , quod piam rectamque notio
nem animi exprimit, refutare pergas. Etenim
nomen hoc Theotocos nullus unquam eccle
siasticorum doctorum repudiavit. Qui enim
illo usi sunt, et multi reperiuntur, et appri
me celebres ; qui vero illud non usurparunt
nunquam erroris alicujus eos insimularunt qui
illo usi sunt.... Etenim ( motinsi le paro
le seguenti ) si id quod nominis significatio
ne qffèrtur non recipimus, restat ut in gra
vissimum errorem prolabamur, imo vero ut
inexplicabilem illam unigeniti Filii Dei æco
nomiam abnegemus. Quandoquidem , nomine
hoc sublato, vel hujus potius nominis notione

(1) S. Hieron. lib. contro Elvid.


(2) S. August. in Enchirid. cap. 36.
179
repudiata, sequitur mox illum non esse Deum,
qui admirabilem illam dispensationem no
strae salutis causa suscepit; tum Dei Ver
bum neque sese ecinanivisse etc. Giova qui
sapere quel che scrisse S. Cirillo al Papa
S. Celestino, cioè che questa verità di esser
Maria vera madre di Dio, era così radicata
nella mente del cristiani di Costantinopoli,
che nell'udire Doroteo, il quale per ordine
di Nestorio pronunziò l'anatema contro chi
diceva esser Maria madre di Dio, si com
mosse tutto il popolo, in modo che niuno
volea più comunicare con Nestorio lor pa
store, ed in fatti il popolo fin d'allora si
astenne d'intervenire alla chiesa: chiaro se
gno che questa era la fede da tutta la chie
Sa tenuta. -

25. Più ragioni addussero i Padri per con


vincere Nestorio su questa verità; io voglio
qui addurne almeno due. La prima è que
sta. Non può negarsi esser madre di Dio
colei che ha conceputo e partorito un fi
glio, che sin dal suo concepimento è stato
Dio. Maria è questa donna benedetta che
ha partorito questo figlio ch'era Dio, co
me si è provato da principio colle Scritture
e colla tradizione. Dunque Maria è vera
madre di Dio: Si Deus est, son parole di
S. Cirillo (1), Dominus noster Jesus Christus

(1) S. Cyrill. Epist. 1. ad Success.


18o

quomodo Dei genitrix non est, qua illum


genuit, sancta Virgo ? La seconda ragione:
se Maria santissima non è madre di Dio, nè
pure è Dio il figlio da lei partorito, e per
conseguenza il figlio di Dio non è lo stesso,
che il figlio di Maria. Ora Gesù Cristo, co
me di sopra vedemmo, ha manifestato che
egli è figlio di Dio, ed è figlio di Ma
ria. Dunque o dee dirsi che Gesù Cristo non
è figlio di Maria, o che Maria, essendo
madre di Gesù Cristo, è vera madre di
Dio.

SI RISPONDE ALLE OBBIEZIONI DE' NESTORIANI,

26. O se per 1.º che la voce Dei


para, o sia di madre di Dio, non è usata
nella Scrittura e neppure nei simboli de'con
cilj. Si risponde che neppure in questi luo
ghi è chiamata Christotocos, cioè madre di
Cristo: dunque Maria santissima neppure dee
chiamarsi madre di Cristo, come la chia
mava Nestorio? Ma diamo la risposta diret
ta: lo stesso è dire Maria madre di Dio,
che il dire aver ella conceputo e partorito
un Dio. Nella Scrittura e ne simboli ben
si dice che la Vergine ha conceputo e par
torito un Dio ; dunque in termini equiva
lenti ivi si dice madre di Dio. Del resto sin
dai Padri del primi secoli, come riferimmo
181
di sopra, Maria è chiamata madre di Dio;
e nella stessa Scrittura è chiamata madre
del Signore, come la chiamò S. Elisabetta,
la quale nello stesso vangelo si dice ripiena
di Spirito Santo: Et unde hoc mili, ut ve
miat mater Domini mei ad me ?
27. Oppongono per 2.º che Maria non
avea generata la divinità, e per conseguen
za non può chiamarsi madre di Dio. Si ri
sponde che per dirsi Maria madre di Dio,
basta sapere ch'ella ha generato un uomo,
che insieme era vero uomo e vero Dio ;
siccome per dirsi una donna madre di un
uomo basta che abbia generato un uomo co
stante di corpo e di anima, sebbene non
abbia ella generata l'anima, la quale solo
da Dio è creata. Benchè dunque Maria non
ha generata la divinità, nondimeno perchè
ha generato un uomo secondo la carne, che
insieme è uomo e Dio, ben dee dirsi ma
dre di Dio.
28. Oppongono per 5.º che la madre de
ve essere consostanziale al figlio : ma la
Vergine non è consostanziale a Dio; dun
que non può chiamarsi madre di Dio. Si ri
sponde che Maria è consostanziale a Cri
sto , in quanto all'umanità; e perchè Cri
sto figlio di Maria è insieme uomo e Dio,
perciò ben si dice Maria madre di Dio. A
quel che aggiungesi poi, che, chiamando
182
Maria madre di Dio, si dà a semplici mo
tivo di crederla Dea, si risponde che da
noi ben sono avvertiti i semplici che Ma
ria è mera creatura, ma che ha partorito
Cristo uomo e Dio. Del resto se Nestorio si
facea scrupolo di chiamare Maria madre di
Dio, per non farla credere Dea da semplici,
maggiore scrupolo dovea farsi in proibire
ch'ella si chiami madre di Dio; poichè, vie
tandosi di chiamarla tale, facilmente crede
rebbero i semplici che Cristo non è Dio.

C O N FUT A ZI O N E VI II.

ERESIA DI EUTICHE ,
CHE CosTITUIVA IN CRISTO UNA SOLA NATURA

I L' eresia di Eutiche è tutta opposta a


quella di Nestorio. Nestorio voleva in Cristo
due nature e due persone; Eutiche am
metteva in Cristo una sola persona, ma vo
lea che una fosse la natura, dicendo che la
natura divina aveva assorbita la natura uma
ma. Onde siccome Nestorio toglieva a Gesù
Cristo l'esser Dio, Eutiche gli toglieva l'es
ser uomo; e pertanto l'uno e l'altro distrug
geano il mistero dell'incarnazione e della
redenzione umana. Eutiche per altro non si
sa in qual senso propriamente avesse voluta
185
una sola natura in Gesù Cristo. Egli nel
concilio tenuto da S. Flaviano si spiegò in
questi soli termini, dicendo: Ex duabus na
turis fuisse Dominum nostrum ante adunatio
nem, post adunationem vero unam naturam.
E stretto da Padri a spiegare più chiaro il
suo sentimento, altro non rispose che que
ste parole: Non veni disputare, sed veni sug
gerere sanctitati vestrae, quid sentiam (1). Del
resto in queste poche parole Eutiche vomi
tò due bestemmie: l'una che dopo l'incar
nazione il Figlio di Dio fosse in una sola
natura, cioè nella sola divina, com'egli in
tendeva; l'altra che prima dell'incarnazione
il Verbo fosse di due nature divina ed uma
na. Cum tam impie, scrisse S. Leone a San
Flaviano, duarum naturarum ante incarna
tionem unigenitus Dei Filius fuisse dicatur,
quam nefarie postguam Verbum caro factum
est, natura in eo singularis asseritur.
2. Ma parlando dell'errore principale che,
dopo l'incarnazione, di due nature se ne sia
fatta una sola, ciò potrebbe asserirsi in quat
tro modi: per 1.º che l'una delle nature
siasi cambiata nell'altra: per 2.º che amen
due le nature siansi mescolate e confuse, e
formata se ne sia una sola: per 5.º che sen
za questa mescolanza le due nature con unirsi

(1) Tom. 4. Concil. Labbaci pag. 223. et 226.


184
abbian formata una terza natura: per 4.º
che la natura umana sia stata assorbita dalla
divina, e questo più probabilmente fu il sen
timento degli Eutichiani. Del resto il dogma
cattolico è opposto a questa unità di nature
in Cristo, in qualunque senso con cui l'in
tendano gli Eutichiani; e qui lo proveremo.
S. I.
IN CRISTO VI SONO LE DUE NATURE DIVINA ED

UMANA DISTINTE , IMPERMISTE, INCONFUSE ED


INTIERE, sussistenTI INSEPARABILMENTE NELLA
STESSA IPOSTASI O SIA PERSONA DEL VERBO,

3. Quaro dogma si prova dalle stesse


Scritture, che si sono addotte contro Ario
e contro Nestorio, nelle quali si dice che
Cristo è Dio ed uomo ; poichè siccome non
potrebbe egli dirsi Dio, se non avesse la
perfetta natura divina, così non potrebbe
dirsi uomo, se non avesse la perfetta natu
ra umana. Ma veniamo a porre questa veri
tà in maggior chiarezza. Nel vangelo di San
Giovanni al capo 1.º dopo essersi detto che
il Verbo è Dio : In principio erat Verbum,
et Verbum erat apud Deum, et Deus erat
Verbum, nel verso 14 si asserisce che la
natura umana è stata dal Verbo assunta: Et
Verbum caro factum est, et habitavit in
nobis. Quindi S. Leone nella sua lettera a
185
S. Flaviano scrisse : Unus idem que C quod
saepe dicendum est ) vere Dei filius et vere
hominis filius. Deus per id quod in principio
erat Verbum, et Verbum erat apud Deum :
homo per id quod Verbum caro factum est,
et habitavit in nobis. Deus per id quod omnia
per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est
nihil: homo per id quod factus est ex mu
liere, factus sub lege.
4. Manifestamente si dimostrano ancora le
due mature in Cristo nel celebre testo di San
Paolo C ad Philipp. 2. 6. ) più volte da noi
citato : Hoc enim sentite in vobis, quod et
in Christo Jesu, qui cum in forma Dei esset,
non rapinam arbitratus est esse se a qualem
Deo, sed semetipsum exinanivit formam ser
vi accipiens; in similitudinem hominum fac
tus, et habitu inventus ut homo. Qui dall'Apo
stolo si ammette in Cristo la forma di Dio,
secondo cui è eguale a Dio ; e la forma di
servo, secondo cui si è esinanito, e si è
fatto simile agli uomini. Or la forma di Dio
e la forma di servo non possono essere la
stessa forma, o sia la stessa natura: perchè
se fosse la stessa natura umana, non po
trebbe dirsi Cristo eguale a Dio; all'incon
stro se fosse la stessa natura divina, non
potrebbe Cristo dirsi esinanito e fatto si
mile agli uomini. Dunque bisogna dire che
in Cristo vi sono due nature : la divina,
186
per cui è eguale a Dio, e l'umana, per cui
si è fatto simile all'uomo.
5. Inoltre da questo testo si fa chiaro che
le due nature in Cristo sono impermiste ed
inconfuse, ritenendo ciascuna le sue proprie
tà; perchè se la natura divina in Cristo si
fosse mutata, egli fatt'uomo non sarebbe
più Dio; il che è contrario a ciò che dice
S. Paolo in altro luogo C Rom. 9. 5. ) : Er
quibus est Christus secundum carnem, qui
est super omnia Deus benedictus in saecula.
Sicchè Cristo è Dio insieme ed uomo se
condo la carne. Se la natura umana fosse
stata assorbita dalla divina, oppure mutata
in sostanza divina, come diceano gli Euti
chiani, per quel che si legge presso Teodo
reto nel dialogo Inconfusus, dove l'Era
niste Eutichiamo diceva : Ego dico mansisse
divinitatem, ab hac vero absorptam esse hu
manitatem . . . ut mare mellis guttam si ac
cipiat, statim enim gutta illa evanescit maris
aquae permiacta . . . Non dicimus deletam
esse naturam, qua assumpta est, sed muta
tam esse in substantiam divinitatis. Se fosse
ciò vero, Gesù Cristo non potrebbe dirsi
più uomo, come è chiamato negli evan
gelj ed in tutto il nuovo Testamento, e
com'è chiamato da S. Paolo nel luogo ci
tato, e nella prima lettera a Timoteo ( cap.
2. v. 6. ) : Homo Christus Jesus, qui dedit
187
redemptionem semetipsum pro omnibus. Nè
più potrebbe dirsi esinanito nella natura
umana, se questa si fosse cambiata nella di
vinità. Se poi la natura umana si fosse me
scolata colla divina, Cristo non sarebbe più
nè vero Dio, nè vero uomo, ma sarebbe
una terza specie di cosa ; il che è contra
rio a quanto c'insegna la Scrittura. Onde
bisogna conchiudere che le due nature in
Cristo sono impermiste ed inconfuse, e cia
scuna ritiene le sue proprietà.
6. Ciò si conferma da tutte quelle altre
Scritture, che affermano aver Cristo vero
corpo e vera anima al corpo unita; e da
ciò si fa chiaro che la natura umana in Cri
sto rimase intiera, non mescolata, nè con
fusa colla divina, come rimase intiera la
divina. Che poi Cristo ebbe un vero corpo
l' afferma S. Giovanni, contro Simone Ma
go, Menandro, Saturnino ed altri, che vo
levano in Cristo un corpo fantastico. Ecco
come parla S. Giovanni ( Ep. 1. cap. 4. vers.
2. et 5. ); Omnis spiritus qui confitetur Je
sum Christum in carne venisse, ea Deo est;
et omnis spiritus, qui solvit Jesum ( la le
zione greca dice così: qui non confitetur Je
sum in carne venisse ), ex Deo non est; et
hic est antichristus. S. Pietro C Ep. 1. cap.
2. v. 24 ) scrive così: Peccata nostra ipse
pertulit in corpore suo super lignum. S. Paolo
188
( Epist. ad Col c. 1. v. 22. ) scrive: Re
conciliavit in corpore carnis ejus per mortem.
Ed in altro luogo C Hebr. c. 1o. v. 5. )
mette in bocca di Cristo le parole del salmo
59: Hostiam et oblationem noluisti, corpus
autem aptasti milii. Lascio altri luoghi, ove
si parla del corpo. Parlando poi dell'anima
di Cristo, in S. Giovanni ( c. 1o. v. 15. D
disse il medesimo Signore: Animam meam
pono pro ovibus meis. E nel vers. 17: Ego
pono animam meam, ut iterum sumam eam :
nemo tollit eam a me, sed ego pono eam.
Ed in S. Matteo ( c. 26. v. 58. ) : Tristis
est anima mea usque ad mortem. E l'anima
sua benedetta fu quella che si separò in
morte dal suo sacrosanto corpo: Et inclina
to capite tradidit spiritum. Joan. 19. 5o.
Dunque Cristo ebbe vero corpo e vera ani
ma, uniti fra di loro, e per conseguenza fu
vero uomo; e questo corpo e quest' anima
furono intieri in Cristo dopo l'unione ipo
statica, come apparisce da luoghi citati, ove
si parla di essi dopo l'unione. Dunque non
può mai dirsi che la natura umana restasse
assorbita dalla divina, o cambiata in essa.
7. Il tutto inoltre si conferma da quei te
sti, in cui si attribuisce a Cristo ciò che
solo può competere alla natura umana e non
alla divina, e si attribuisce ancora ciò che
solo può competere alla natura divina e non
189
all' umana. Il che dimostra che in Cristo vi
è unita la natura divina ed umana. Per quel
che appartiene alla prima parte, è certo che
la natura divina non può esser conceputa,
non può nascere, non può crescere, non aver
fame, non sete, non può stancarsi, non può
piangere, non può patire, nè può morire,
perchè è indipendente, impassibile ed immor
tale; ma ciò solo compete alla natura umana.
Ora Gesù Cristo è stato conceputo, è nato
da Maria, come sta in S. Matteo capo 1.º
ed in S. Luca capo 1.º Gesù crebbe in età,
come sta in S. Luca ( 2. 52. ) : Et Jesus
proficiebat sapientia et aetate et gratia apud
Deum et homines. Gesù digiunò ed ebbe fa
me ( Matth. 4. 2. ): Et cum jejunasset qua
draginta diebus et quadraginta noctibus, po
stea esuriit. Gesù dicesi lasso dal cammino
(Joan. 4. 6.): Jesus ergo fatigatus er itinere,
sedebat sic supra fontem. Gesù pianse ( Luc.
19 41. ): Videns civitatem, flevit super eam.
Gesù patì morte ( Philipp. 2. 8. ): Factus
obediens usque ad mortem, mortem autem cru
cis. E ( Luc. 25. 46. ): Et haec dicens expi
ravit. E (Matt. 27.5o.): Jesus autem iterum
clamans voce magna, emisit spiritum. Di più
non può competere alla natura divina il pre
gare, l'ubbidire, il sacrificarsi, l'umiliarsi
ed altri atti simili, che dalla Scrittura sono
attribuiti a Gesù Cristo. Dunque tutti questi
Ioo

mirare a Gesù secondo la natura


umana; e perciò dopo l'incarnazione egli è
vero uomo,

8. Per quello poi che spetta alla seconda


parte, è certo che la natura umana non può
esser consostanziale al Padre, non può ave
re tutto ciò che ha il Padre, non può ope
rare tutto ciò che opera il Padre, non può
essere eterna, non onnipotente, non onni
scia, non immutabile. Ma tutti questi attributi
per proprietà dalla Scrittura si attribuiscono
a Gesù Cristo, come abbiam dimostrato con
tro Ario e contro Nestorio; dunque in Gesù
Cristo non solo vi è la natura umana, ma
anche la divina. Sta molto ben posto questo
argomento da S. Leone nella citata sua let
tera a S. Flaviano ; onde non posso trala
sciarlo. Nativitas carnis manifestatio est hu
manae naturae : partus virginis divinae est
virtutis indicium : infantia parvuli ostenditur
humilitate cunarum: magnitudo Altissimi de
claratur vocibus Angelorum. Similis est redi
mentis homines, quem Herodes impius moli
tur occidere; sed Dominus est omnium, quem
Magi gaudentes veniunt suppliciter adorare.
Cum ad praecursoris sui baptismum venit, ne
lateret quod carnis velamine divinitas ope
ratur, vox Patris de coelo intonans dixit: Hic
est Filius meus dilectus, in quo mihi be
ne complacui. Sicut hominem diabolica tentat
19r
astutia , sic Deo angelica famulantur officia.
Esurire, sitire, lassescere, atque dormire evi
denter humanum est : quinque panibus quin
que millia hominum satiare, largiri Samari
tanæ aquam vivam etc. sine ambiguitate di
cendum est. Non ejusdem naturæ est flere
miserationis afféctu amicum mortuum , et
eundem quatriduanæ aggere sepulturæ ad vo
cis imperium earcitare redivivum: aut in ligno
pendere , et, in noctem luce conversa, omnia
elementa tremefacere : aut clavis transfixumn
esse , et paradisi portas fidei latroni aperire.
Non ejusdem naturæ est dicere : Ego et Pa
ter unum sumus ; et dicere : Pater major
me est.

9. Si aggiunge alla Scrittura la tradizione,


con cui sempre si è conservata la fede delle
due nature in Cristo. Nel simbolo degli Apo
stoli si attribuisce a Cristo la matura divina :
Credo in Jesum Christum Filium ejus unicum
Dominum nostrum ; ecco la natura divina :
Qui conceptus est de Spiritu Sancto, natus
est eae Maria /irgine , passus sub Pontio
Pilato , crucifiacus, mortuus, et sepultus est;
ecco la matura umana. Nel simbolo Niceno
e Costantinopolitano si spiega la matura di
vina così : Et in unum Dominum Jesum Chri
stum Filium Dei... Deum verum de Deo ve
ro, natum non factum, consubstantialem Pa
tri, per quem omnia facta sunt. . E poi la
192
matura umana : Qui propter nos homines et
propter nostram salutem descendit, et incar
natus est de Spiritu Sancto eae Maria /irgi
ne, et homo factus est ; passus, crucifiaeus,
mortuus ; et resurrexit tertia die.
1o. Inoltre I' eresia di Eutiche prima di
nascere era stata già condamnata dal comcilio
Costantinopolitano I., i cui Padri nella lette
ra sinodica, a S. Damaso Papa scrissero : Se
agnoscere /erbum Dei ante sæcula omnino
perféctum et perfèctum hominem in novissi
mis diebus pro nostra salute factum esse. E
S. Damaso mel sinodo Romano (1) avea già
definito contro Apollinare che in Cristo vi
fu corpo ed anima intelligente e ragionevole;
e che mom avea patito mella divinitâ, ma
nella umanità. Nel concilio Efesino fu appro
vata la seconda lettera di S. Cirillo a Ne
storio, dove si esprime il dogma delle due
nature in Cristo impermiste ed inconfuse :
INeque enim dicimus /erbi naturam per sui
mutationem carnem esse factam , sed neque
in totum hominem transformatam eae anima
et corpore constitutam. Asserimus autem /er
bum , unita sibi secundum lyrpostasim carne
animata, rationali anima, inexplicabili, in
comprehensibilique modo hominem factum, et
hominis filium eaetitisse... Et quamvis naturæ

(1) Kide tom. 2. Concil. pag. goo. et 964.


195
sint diversae , veram tamen unionem coeuntes,
unum nobis Christum et Filium effecerunt.
Non quod naturarum diffèrentia propter unio
nem sublata sit, verum quod divinitas et hu
manitas, secreta quadam ineffabilique con
junctione in una persona , unum nobis Je
sum Christum et Filium constituerint.
1 1. A' concilj si aggiungono le autorità
de' santi Padri che hanno scritto anche pri
ma dell'eresia di Eutiche : e queste autori
tà si riferiscomo in fine dell' azione II. del
concilio di Calcedonia; e Petavio (1) ne rap
porta una gram quantità. Io me addurrò solo
alcume. S. Igmazio martire (2) esprime così le
due nature, im Cristo : Medicus unus est et
carnalis et spiritualis , genitus et ingenitus,
seu factus et non factus , in homine existens
Deus, in morte vita vera, et eae Maria et ex
Deo, primum passibilis, et tunc impassibilis,
Jesus Christus Dominus noster. S. Atanasio
scrisse due libri contro Apollinare predeces
sore di Eutiche. S. Ilario (5) dice : Nescit
plane vitam suam, nescit qui Christum Jesum
ut verum Deum , ita et verum hominem igno
rat. S. Gregorio Nazianzeno scrisse (4): Mis
sus est quidem, sed ut homo; duplex enim erat

(1) Petav. lib. 3. de Incarn. cap. 6. e 7.


(a) S. Ignat. Ep. ad Ephes. num. 7.
(3) S. Hilar. lib. 9. de Trin.
(4) S. Greg. Naz. Orat. de Nativ.
LIG. Storia delle Eresie T. III. I
194
in eo natura. S. Anfilochio presso Teodoreto
nel dialogo Inconfusus, scrisse: Discerne na
turas, unam Dei, alteram hominis; neque
enim ex Deo eccidens homo factus est,
neque proficiscens ex homine Deus. S. Am
brogio (1): Servemus distinctionem divinitatis
et carnis: unus in utraque loquitur Dei Filius,
quia in eodem utraque natura est. S. Giovan
Grisostomo (2): Neque enin ( Propheta )
carnem dividit a divinitate, negue divinitatem
a carne; non substantias confundens, absit,
sed unionem ostendens... Quando dico eun
fuisse humiliatum, non dico mutationem, sed
humanae suscepta naturae demissionem. S. Ago
stino (5) scrisse: Neque enim illa susceptione
alterum eorum in alterum conversum, atque
mutatum est; nec divinitas quippe in creatu
ram mutata est, ut desisteret esse divinitas;
mec creatura in divinitatem, ut desisteret esse
creatura.

12. Lascio qui altro gran numero delle


autorità del Padri, che furon considerate da
quasi 6oo Padri del concilio di Calcedonia
fatto contro Eutiche, i quali nell'azione V.
definirono: Sequentes igitur SS. Patres unum

(1) S. Ambros. lib. 2. de Fide cap. 9. alias 4.


num. 77.
(2) S. Joan. Chrysost. in Psalm. 44. num. 4.
(3) S. Aug. lib. 1. de Trin. cap. 7. num. 14.
1 95
eundem confiteri Filium et Dominum nostrum
Jesum Christum consonanter omnes docemur
eundem perfectum in deitate , et eundem per
fèctum in humanitate, Deum verum et homi
mem verum ; eundem eæ anima rationali et
corpore; consubstantialem Patri secundum dei
tatem , consubstantialem nobiscum secundum
humanitatem ; ante sæcula quidem de Patre
genitum secundum deitatem, in novissimis au
tem diebus eundem propter nos et propter no
stram salutem eae Maria Kirgine Dei genitri
ce secundum humanitatem, unum eundem Chri
stum , Filium , Dominum, unigenitum in dua
bus naturis inconfuse, immutabiliter , indivise ,
inseparabiliter agnoscendum : nusquam subla
ta differentia naturarum propter unitionem ,
magisque salva proprietate utriusque naturæ,
et in unam personam, atque substantiam con
currentes. Si aggiunge che gli stessi Padri
dopo aver letta la lettera dogmatica di San
Leone a S. Flaviano gridarono nel concilio
concordemente : Hæc Patrum fides ; hæc
Apostolorum fides ; omnes ita credimus : or
thodoari ita credunt. Anathema est qui ita
non credit. Petrus per Leonem locutus est.
I concilj susseguenti hanmo confermata la
stessa fede ; specialmente il concilio Costan
tinopolitano II. nel can. 8 disse : Si quis eae
duabus naturis deitatis et humanitatis confi
tens unitatem factam esse, vel unam naturam
196
Dei Verbi incarnatam dicens, non sic eam
excipit, sicut Patres docuerunt, quod ex di
vina natura et humana, unione secundum sub
stantiam facta, unus Christus effectus est,
sed ex talibus vocibus unam naturam, sive
substantiam deitatis, et carnis Christi intro
ducere conatur; talis anathema sit. Il concilio
Costantinopolitano III. ripetè le stesse parole
del concilio di Calcedonia; ed il Niceno II.
nella definizione della fede disse: Duas na
turas confitemur ejus, qui incarnatus est prop
ter nos ex intemerata Dei genitrice semper
virgine Maria, perfectum eum Deum et per
fectum hominem cognoscentes.
15. Giova qui aggiungere due ragioni teo
logiche del dogma. La prima : se in Cristo
dopo l'incarnazione fosse stata assorbita la
natura umana dalla divinità, come voleano
gli Eutichiani, anderebbe a terra tutto il
mistero della nostra redenzione; poichè in
tal caso o bisognerebbe negare la passione
e la morte di Gesù Cristo, o bisognerebbe
dire che la divinità ha patito ed è morta,
il che fa orrore allo stesso lume naturale.
14. La seconda ragione è questa: se dopo
l'incarnazione in Cristo è rimasta una sola
natura, ciò ha potuto accadere, o perchè
l' una delle due nature siasi cambiata nell'
altra ; o perchè amendue siansi fra di loro
mescolate e confuse, e ne abbiano formata
197
una sola; o perchè amendue senza confusio
me, unite fra loro, abbiam formata una terza
matura, come dall'unione dell' anima e del
corpo vien formata la natura umana. Ma
nulla di ciò ha potuto avvenire nell'incarna
zione, e per conseguenza le due nature divi
ma ed umana sono rimaste intere colle loro
proprietà in Gesù Cristo.
15. E per 1.º non ha potuto essere che
l'una delle due nature si cambiasse nell'al
tra , perchè in tal caso o la natura divina
sarebbesi mutata nell' umana, e ciò ripugna
alla fede ed anche al lume naturale, che la
divinità sia soggetta a cambiamento quantun
que leggiero. Se poi la natura umana fosse
stata assorbita e cambiata nella divina, avreb
be da dirsi che la divinità in Cristo è nata,
ha patito, è morta ed è risorta; il che pa
rimente ripugna alla fede ed alla ragion na
turale, essendo la divinità eterna, impassibile,
immortale ed immutabile. Di più se la divi
nità ha patito ed è morta, dunque ha pa
tito ed è morto ancora il Padre e lo Spi
rito Santo, perchè la stessa unica divinità è
insieme del Padre, del Figlio e dello Spi
rito Santo. Inoltre se la divinità è stata con
ceputa ed è nata, dunque Maria santissima
non ha conceputo e partorito Cristo secondo
una natura a se stessa consostanziale, e per
conseguenza non può dirsi più madre di Dio.
198
Finalmente se in Cristo l'umanità è stata
assorbita dalla divinità, Cristo non ha potuto
esser nostro redentore, mediatore e ponte
fice del nuovo Testamento, come c'insegna
la fede; perchè questi offici ricercano pre
ghiere, offerte ed umiliazioni, che non pos
sono adempirsi dalla divinità.
16. Pertanto affatto non può dirsi per 1.º
che la natura umana di Cristo siasi cambiata
nella divina, e tanto meno che la divina siasi
mutata nell'umana. Per 2.º non ha potuto
avvenire che le due nature siansi fra loro
mescolate e confuse, ed abbian formata una
sola natura in Cristo ; poichè in tal caso la
divinità sarebbesi mutata, e divenuta una
cosa nuova ; anzi in Cristo non vi sarebbe
più nè divinità, nè umanità, ma una natura
che non sarebbe nè divina, nè umana; on
de Cristo non sarebbe più nè vero Dio, nè
vero uomo. Per 5.º non ha potuto essere
che le due nature, inconfuse e distinte tra
di loro, unite poi insieme abbiam formata
una terza natura comune ad ambedue i per
chè questa natura comune non può nascere
che da due parti, le quali unite scambievol
mente si perfezionano; altrimenti se una
parte non riceve, ma perde delle sue perfe
zioni nell'unione coll' altra, non resterà mai
perfetta, qual era prima. Ora in Cristo
la natura divina non ha ricevuta alcuna
I

perfezione dall'umana, e non ha ra".


derne alcuna, ma è rimasta perfetta qual'era;
e perciò non ha formata coll'umana una ter
za natura comune. Inoltre la natura comune
non nasce che da più parti, le quali natu
ralmente esigono la scambievole unione, co
me accade nell'unione dell'anima col corpo;
ma ciò non può esser in Cristo, in cui nè
la natura umana esige naturalmente l'unione
col Verbo, nè il Verbo esige l'unione colla
natura umana.

S II.
SI RISPONDE ALLE OBBIEZIONI.

17. Paese opporsi in primo luogo alcu


ne Scritture, le quali par che dinotino con
versione di una natura nell'altra, com'è
quella di S. Giovanni ( 1.14 ) : El Verbum
caro factum est; quasi dinotasse che il Ver
bo si fosse convertito in carne. E quell'altra
di S. Paolo, ove dicesi del Verbo : Semet
ipsum eacinanivit, formam servi accipiens.
Philip. 2. 7. Dunque la natura divina si è
mutata. Si risponde al primo testo : che il
Verbo non si è mutato in carne, ma si è
fatto carne, assumendo l'umanità in unità
di persona, senza che in questa unione pa
tisse veruna mutazione. Così anche si dice
di Gesù Cristo: factus pro nobis maledictum
2OO

( Gal. 5. 15. ), in quanto che egli ha voluto


adossarsi la maledizione da noi meritata,
per liberarci da quella. Scrive S. Giovan
Grisostomo che le stesse parole che sieguo
no nel detto testo spiegano questa risposta:
Et Verbum caro factum est, et habitavit in
nobis, et vidimus gloriam eius, gloriam quasi
unigeniti a Patre. Il che dimostra la differen
za delle due nature; poichè dicendosi il
Verbo aver abitato in noi, ben si fa chiaro
ch'egli è diverso da noi, essendo ben di
versa la cosa che abita, da quella che viene
abitata. Ecco come parla il Santo (1) : Quid
enim subjicit ? Et habitavit in nobis. Non
enim mutationem illam incommutabilis illius
naturae significavit, sed habitationem et com
morationem : porro id quod habitat non est
idem cum eo quod habitatur, sed diversum.
E si noti che, qui S. Giovanni non meno
distrugge l' eresia di Eutiche, che quella di
Nestorio; poichè opponendo Nestorio che il
Verbo abita solo nella natura umana per le
dette parole et habitavit in nobis, vien con
futato dalle parole antecedenti Verbum caro
factum est, le quali non dinotano una mera
abitazione, ma una vera unione colla natura
umana in una persona; ed all'incontro op
ponendo Eutiche che il Verbo si dice fatto

(1) S. Joan. Chrysost. Hom. 11. in Joan.


2o 1

carne, ciò vien confutato dalle parole susse


guenti et habitavit in nobis, le quali dimo
strano che il Verbo non si è cangiato in car
ne, anche dopo l'unione colla carne, ma
è rimasto Dio qual era, senza confusione
della natura divina coll' umana.
18. Nè dee far ombra la voce fatto carne;
perchè tal maniera di dire non sempre di
nota conversione di una cosa in un'altra,
ma dinota alle volte una cosa aggiunta, o
sopravvenuta ad un'altra: come per esempio
quel che dicesi nel capo 2 vers. 7 della Ge
nesi di Adamo, factus est homo in animam
viventem, dinota che al corpo già formato fu
unita l'anima, non già che il corpo si con
vertì in anima. E bella la risposta di S. Ci
rillo nel dialogo de Incarnatione Unigeniti:
At si Verbum, inquiunt, factum est caro, jam
non amplius mansit Verbum, sed potius desiit
esse quod erat Atqui hoc merum delirium
et dementia est, nihilque aliud quam mentis
erratae ludibrium. Censent enim, ut videtur,
per hoc factum est necessaria quadam ratio
ne mutationem, alterationemoue significari.
Ergo cum psallunt quidam et factus est nihil
ominus in refugium; et rursus Domine, re
fugium factus es nobis, quid respondebunt?
Anne Deus, qui hic decantatur, desinens esse
Deus, mutatus est in refugium, et translatus
est naturaliter in aliud, quod ab initio non
- I 5
2o2

erat ? Cum itaque Dei mentio fit, si ab alio


dicatur illud factus est , quo pacto non ab
surdum atque adeo vehementer absurdum exci
stimare mutationem aliquam per id signifi
cari, et non potius conari id aliqua ratione
intelligere , pudenterque ad id quod Deo ma
acime convenit accomodari ? S. Agostino con
bel modo spiega come il Verbo si è fatto
carne senz'alcuma mutazione (1): Neque enim,
quia dictum est: Deus erat Verbum, et Ver
bum caro factum, sic /erbum caro factum
est, ut esse desineret Deus ; quando in ipsa
carne : quod /erbum caro factum est, Em
manuel natum est, nobiscum Deus. Sicut ver
bum quod corde gestamus fit voae , cum id
ore proferimus, non tamen illud in hanc com
mutatur, sed, illo integro, ista in qua proce
dat, assumitur; ut et intus maneat quod intel
ligatur , et foris sonet quod audiatur. Hoc
idem tamen prqfertur in sono, quod ante so
nuerat in silentio. Atque ita Kerbum , cum
fit vor, non mutatur in vocem , sed ma
nens in mentis luce, et assumpta carnis voce,
procedit ad audientem, ut non deserat cogi
tantem.

19. Al secondo luogo exinanivit semetipsum,


è chiara la risposta dallo stesso che abbiam
detto ; poichè il Verbo si è esinanito non

(1) S. August. Serm. 187. al. 77. de ZTempore.


203

già con perdere quello ch'era, ma assumen


do quel che non era ; giacchè, essendo egli
Dio nella natura divina eguale al Padre,
prese la forma di servo, formam servi acci
piens, facendosi nella natura assunta minor
di suo Padre, ed umiliandosi in quella sino
a morire in croce : Humiliavit semetipsum,
sfactus obediens usque ad mortem, mortem
autem crucis; ma ciò non ostante ritenne la
sua divinità e l'esser eguale al Padre.
2o. Ma non erano queste propriamente le
obbiezioni degli Eutichiani: poichè essi non
diceano che la natura divina si era conver
tita nell'umana, ma che l'umana erasi cani
biata nella divina; e ricavavano a tal proposito
alcuni passi dai santi Padri da essi malamente
intesi. Diceano per 1.º che S. Giustino nella
sua Apologia seconda scrisse che nell'Euca
ristia il pane si converte nel corpo di Cristo,
come il Verbo si fece carne. Ma rispondeano
i cattolici che S. Giustino con ciò non altro
volle dire se non che nell'Eucaristia vi è il
vero corpo di Cristo, siccome il Verbo vera
mente assunse e ritenne la carne umana, se
condo apparisce dalle parole che sieguono nel
luogo citato. E ciò si fa chiaro dallo stesso
argomento del Santo: poichè S. Giustino
disse che, siccome nell'incarnazione il Verbo
si fece carne, così nell'Eucaristia il pane si
fa corpo di Gesù Cristo; ma se avesse
2o4
tenuto il Santo, come dicono gli Eutichiani,
che nell'incarnazione del Verbo l' umanità
restò assorbita dalla divinità , non avrebbe
potuto asserire, che nell'Eucaristia vi è il
vero corpo del Signore.
21. Per 2.º opponeano quel che disse Sant'
Atanasio nel simbolo a lui attribuito: Sicut
anima rationalis, et caro unus est homo, ita
Deus et homo unus est Christus. Dal che de
duceano delle due nature essersene fatta una.
Ma si risponde che tali parole dinotano l'uni
tà della persona in Cristo, non già l'unità
delle nature: e ciò si fa chiaro dalle stesse
parole unus est Christus; per Cristo si dimota
propriamente la persona, non già la natura.
22. Opponeano per 5º che S. Ireneo,
Tertulliano, S. Cipriano, S. Gregorio Nis
seno, S. Agostino e S. Leone (1) chiamano
l'unione delle due nature col nome di mi
stura, o mescolanza, e si vagliono di com
parazioni prese da liquori, che tra loro si
mischiano. Si risponde con S. Agostino, nel
luogo citato, che questi Padri non diceano
ciò perchè credessero la confusione delle
due nature, ma per ispiegare l'intima loro

(1) S. Iren. lib. 2. advers. Haeres, cap. 22. Ter


tull. Apolog. cap. 21. S. Crpr. de Vanit. Idol.
S. Greg Nrss. Catech. cap. 25. 5. Aug. Ep. 137.
al. 3. ad Volusian. S. Leo Serm, 3. in die Natal.
2o5
unione, e che la divina erasi unita a tutte
le parti dell' umana, siccome il colore si
unisce a tutte le parti dell' acqua posta in
un vaso. Ecco le parole di S. Agostino : Si
cut in unitate personae anima unitur corpori,
ut homo sit; ita in unitate personae Deus
unitur homini, ut Christus sit. In illa ergo
persona mixtura est animae et corporis; in
hac persona mixtura est Dei et hominis : si
tamen recedat auditor a consuetudine corpo
rum, qua solent duo liquores ita commisceri,
ut neuter servet integritatem suam, quamquam
et in ipsis corporibus aeri lux incorrupta mi
sceatur. E lo stesso scrisse prima Tertulliano.
25. Per 4 º opponeano l'autorità di Giulio
Papa nella lettera a Dionisio vescovo di Co
rinto, in cui biasima coloro che ammetteano
due nature in Cristo ; indi l'autorità di San
Gregorio Taumaturgo, del quale nel codice
presso Fozio si citano queste parole : Non
duae personae, neque dua naturae; non enim
quatuor nos adorare dicimur. Ma si risponde
con Leonzio (1) che falsamente sono attri
buite queste autorità a detti Padri; poichè
la lettera di Giulio si crede opera di Apolli
mare, mentre S. Gregorio Nisseno cita vari
frammenti della citata lettera, come di Apol
linare, e li confuta. E lo stesso dice della

(1) Leont. de Sectis Act. 4.


2o6
opera del Taumaturgo, che si crede fatta
dagli Apollinaristi, o dagli Eutichiami.
24. Opponeano per 5 º quel che dice San
Gregorio Nisseno nell'orazione 4 contro Eu
nomio, cioè che la natura umana si era uni
ta col Verbo divino. Ma si risponde che lo
stesso S. Gregorio scrive che, non ostante
tale unione, erano rimaste a ciascuna natura
le loro proprietà; con queste parole : -Ni
hilominus in utraque, quod cuique proprium
est, intuetur. Finalmente opponevano gli Eu
tichiami che, se in Cristo fossero due nature,
sarebbero ancora due persone. Ma a ciò ben
si è risposto, rispondendo a Nestorio, alla
confutazione VII. al num. 16, ove è dimo
strato in qual modo in Cristo, sebbene vi
siano due nature impermiste, con tutto ciò
vi è una sola persona ed un solo Cristo.
2o7

C O N FU TAZ I O N E IX.

ERESIA DE' MoNoTELITI,


CHE DAVANO A CRISTO UNA SOLA NATURA
ED UNA OPERAZIONE,

I« I. nome di Monotelita compete a tutti


quegli eretici che han voluto esservi stata
in Cristo una sola volontà. Questa parola
deriva da due voci greche: Monos che si
gnifica uno, e Thelema che significa volontà:
e perciò posson chiamarsi Monoteliti molti
degli Ariani che asserivano non esservi sta
ta in Cristo l'anima, ma che il Verbo era
in luogo di quella; e così anche molti Apol
linaristi che davano a Cristo l'anima, ma
senza la mente, e per conseguenza senza la
volontà. Del resto i veri Monoteliti formaro
no una setta speciale sotto l'imperio di Era
clio imperatore verso l'anno 626. L'autore
di questa setta principale può dirsi essere
stato Atanasio patriarca de Giacobiti, come
notammo nella Storia al cap. VII. n. 4, ed i
primari seguaci furono altri patriarchi, come s
Sergio, Ciro, Macario Pirro e Paolo. Costo
ro ammetteano in Cristo le due nature divina s
ed umana, ma negavano le due volontà e
le due operazioni di ciascuna natura, volen
do che in Cristo vi fosse una sola volontà
2o8
divina ed una sola divina operazione, chia
mata Teandrica, o sia Deivirile: non già nel
senso cattolico per cui le operazioni di Cri
sto nella natura umana si chiamano Tean
driche, o sia divine, perchè sono di un uo
mo Dio, e tutte si attribuiscono alla persona
del Verbo, il quale sostiene e termina que
sta umanità, ma nel senso eretico, inten
dendo che la sola volontà divina muove le
facoltà della natura umana, e le applica ad
operare come un istrumento inanimato e
passivo. Benchè altri Monoteliti chiamavan
questa operazione Deodecibilem, cioè conve
niente a Dio, termine che meglio spiegava
la loro eresia. Vi è questione poi tra gli an
tichi se i Monoteliti per questo nome di
volontà abbiano intesa la facoltà di volere,
o l'atto, o sia volizione. Petavio (1) stima
assai più probabile che abbiano intesa non
la volizione, ma la sola facoltà di volere,
che negavano all'umanità di Cristo. Del re
sto il dogma cattolico ributta l'uno e l'altro
senso, e c'insegna che in Cristo siccome
vi furono le due nature, così vi fu la vo
lontà e volizione divina, colla divina opera
zione, e la volontà e volizione umana, coll'
umana operazione.

(1) Petav. lib. 8. de Incar. cap. 4. et seqq.


2o9

S I.
si PRovA CHE IN CRIsTo vi sono DUE voLoNTA'
DISTINTE, LA DiviNA E L'UMANA sEcoNdo LE
DUE NATURE, E DUE oPERAZIONI SECONDO LE
DUE voLoNTA'.

2- Ciò si prova in primo luogo, in quanto


alla divina volontà, dalla Scrittura, che at
tribuisce a Cristo la volontà divina in tutti
quei testi in cui gli attribuisce la divinità,
dalla quale non può separarsi la volontà.
Questi testi gli abbiamo già addotti contro
Nestorio ed Eutiche, onde ci dispensiamo
qui di ripeterli ; tanto più che i Monote
liti non negano in Cristo la volontà di
vina, ma la sola umana. Vi sono poi nella
Scrittura infiniti luoghi, ove si attribuisce
a Cristo anche la volontà umana. Per 1.º
S. Paolo nella lettera agli Ebrei ( 1o. 5. )
applica a Gesù Cristo le parole del salmo
59 8. et 9. Ingrediens mundum dicit... Ec
ce venio; in capite libri scriptum est de me,
ut faciam, Deus, voluntatem tuam. Lo stesso
passo sta poi ne salmi ( Psal. 59 9 ) e dice
così : In capite libri scriptum est de me, ut
facerem voluntatem tuam; Deus meus volui,
et legem tuam in medio cordis mei. Ecco co
me qui si parla distintamente della volontà
a
2 io

divina, ut faciam Deus voluntatem tuam ;


ed anche della volontà umana che si sot
tomette alla divina, Deus meus volui. Per
2.° Cristo medesimo ci dichiara in più luo
ghi questi due suoi voleri distinti. In S. Gio
vanni (5. 5o. ): Non quaero voluntatem meam ,
sed voluntatem ejus qui misit me. In altro
luogo dice : Descendi de coelo , non ut fa
ciam voluntatem meam, sed voluntatem ejus,
qui misit me. Joan. 6. 58. Qui soggiumge
S. Leone mella sua epislola a Leone impera
tore : Secundum fòrmam servi non venit /à-
cere voluntatem suam, sed voluntatem ejus
qui misit eum. Nota secundum formam servi,
secondo la matura d' uomo.
5. Di più disse Cristo in S. Matteo ( 26.
59. ): Pater mi, si possibile est , transeat a
me caliae iste : veruntamen non sicut ego volo,
sed sicut tu. Ed in S. Marco ( 1 4. 56. ) :
Abba , Pater... transfèr calicem hunc a me,
sed non quod ego volo, sed quod tu. Ecco
come in questi luoghi chiaramente si parla
della volontà divina che Cristo ha comune
col Padre, e dell'umana che Cristo soggetta
a quella, del Padre. Onde S. Atanasio contro
Apollinare così scrisse : Deus voluntates hic
ostendit, humanam quidem quæ est carnis ,
alteram vero divinam. Humana enim propter
carnis imbecillitatem recusat passionem, divina
autem ejus voluntas est prompta. E Santo
2 I I

Agostino scrisse (1) : In eo quod ait, non


quod ego volo, aliud se ostendit voluisse,
quam Pater, quod nisi humano corde non
potest; nunquam enim posset immutabilis illa
natura quidquam aliud velle, quam Pater.
4. Si prova di più la nostra proposizione
da tutte quelle Scritture, ove si dice Cristo
aver ubbidito al Padre. In S. Giovanni ( 12.
49 ) disse: Sed qui misit me Pater, ipse
mihi mandatum dedit, quid dicam, et quid
loquar? E nel cap. 14. vers. 51 : Sicut man
datum dedit mihi Pater, sic facio. E S. Paolo
C ad Philip. 2. 8. ) scrisse: Factus obediens
usque ad mortem, mortem autem crucis; e
così in altri luoghi. È chiaro che chi non
ha volontà, non può ubbidire, nè esser ca
pace di precetto. All'incontro è certo che
la volontà divina non può esser comandata,
non riconoscendo alcun superiore a se stessa;
ubbidendo dunque Gesù al Padre, dimostra
aver avuta la volontà umana: Quis, dice
Agatone Papa, a lumine veritatis se adeo se
paravit, ut audeat dicere Dominum nostrum
Jesunn Christum voluntate suae divinitatis Pa
tri obedisse, cui est aequalis in omnibus, et
vult ipse quoque in omnibus quod Pater?
5. Lasciamo altri argomenti della Scrittu
ra, e veniamo alla tradizione; e primiera
mente a Padri che furono anteriori a questa
(1) S. August. lib. 2. adv. Maximin. cap. 2o.
2 t2

eresia S. Ambrogio (1) scrive: Quod autem


ait: Non mea voluntas, sed tua fiat ; suam
ad hominem retulit; Patris ad divinitatem :
voluntas enim hominis temporalis; voluntas
divinitatis aeterna. S. Leone nella lettera 24
(al 1o.) a S. Flaviano contro Eutiche al capo
4 dice: Qui verus est Deus, idem verus est ho
mo; et nullum est in hac unitate mendacium,
dum invicem sunt et humilitas hominis et
altitudo deitatis... Agit enim utraque for
ma cum alterius communione quod proprium
est; Verbo scilicet operante quod Verbi est,
et carne exequente quod carnis est. Lascio
qui altre autorità di S. Gio. Grisostomo, di
S. Cirillo Alessandrino, di S. Girolamo e di
altri che son riferiti dal Petavio (2); e So
fronio ne adunò contro Sergio due libri in
tieri, come si ha dalla supplica di Stefano
Durese al concilio Lateranese sotto Martino
I. nell'anno 649. La stessa verità provasi
coi simboli, dove si dice che Cristo è vero
Dio ed uomo perfetto. Se Cristo non avesse
la volontà umana, potenza naturale dell'ani
ma, non sarebbe uomo perfetto, siccome non
sarebbe Dio perfetto, se non avesse la vo
lontà divina. Inoltre i concilj di sopra ad
dotti contro Nestorio ed Eutiche han definito

(1) S. Ambros. lib. 2o. in Luc. num. 59 e 6o.


(2) Petav. lib. 3. de Incarn. cap. 8. e 9.
2 15.
esservi in Cristo due nature distinte e per
fette colle loro proprietà; ma non sarebbero
tali, se ciascuna delle due nature non avesse
la sua propria volontà naturale e naturale -

operazione. Anzi un autore del terzo secolo,


Ippolito Portoghese, nel frammenti contro
Verone, dalla distinzione delle diverse ope
razioni in Cristo arguì la distinzione delle -
nature; poichè se in Cristo vi fosse una
sola volontà ed una operazione, non vi
sarebbe che una sola natura : Quae enin
sunt inter se ejusdem operationis ac cogni
tionis, et omnino idem patiuntur, nullam na
turae differentiam recipiunt.
6. Queste cose considerate poi dal concilio
generale Costantinopolitano III. sotto Aga
tone Papa, fecero che nell'azione 18 re
stassero condannate in una definizione tutte
le eresie già condannate nel cinque prece
denti concilj ecumenici circa l'incarnazione,
Questa fu la definizione: Assecuti quoque
sancta quinque universalia concilia et san
ctos atque probabiles Patres, consonanterque
confiteri definientes, D. N. Jesum Christum
verum Deum nostrum, unum de sancta et
consubstantiali et vitae originem praebente Tri
nitate, perfectum in deitate et perfectum
eundem in humanitate, Deum vere et homi
nem vere, eundem ex anima rationali et
corpore, consubstantialem Patri secundum
2 14 ^

deitatem et consubstantialem nobis secundum


humanitatem, per omnia similem nobis absque
. peccato ; ante sæcula quidem eae Patre geni
tum secundum deitatem, in ultimis diebus au
tem eundem propter nos et propter nostram
salutem de Spiritu Sancto, et Maria J^irgine
proprie et veraciter Dei genitrice secundum
humanitatem, unum eundemque Christum fi
lium Dei unigenitum in duabus naturis in
confuse, inconvertibiliter, inseparabiliter, in
divise cognoscendum , nusquam extincta ha
rum naturarum. diffèrentia prcpter unitatem,
salvataque magis proprietate utriusque natu
ræ, et in unam personam et in unam sub
sistentiam concurrente, non in duas personas
partitam , vel divisam , sed unum eundemque
unigenitum Filium Dei, J^erbum D. N. Jesum
Christum ; et duas naturales voluntates in eo
et duas naturales operationes indivise, incon
vertibiliter, inseparabiliter, inconfuse, secun
dum SS. Patrum doctrinam, adeoque prædi
camus , et duas naturales voluntates , non
contrarias , absit, juaeta quod impii asserue
runt hæretici, sed sequentem ejus humanam
voluntatem et non resistentem , vel reluctan
tem, sed potius et subjectam divinæ ejus,
atque omnipotenti voluntati . . . . His igitur
* cum omni undique cautela atque diligentia a
nobis fòrmatis, definimus aliam fidem nulli
licere profèrre, aut conscribere, componere ,
aut foyere, vel etiam aliter docere.
2 15
7. Le ragioni poi principali contro questa
eresia già di sopra si sono esposte: cioè per
1.º perchè, avendo Cristo la perfetta natura
umana, ha per conseguenza l'umana volon
tà, senza cui l'umanità non sarebbe perfet
ta, ma priva di una potenza naturale: per
2.º perchè, avendo Cristo ubbidito, pregato,
meritato e soddisfatto per noi, ciò non po
teva eseguirlo senza la volontà creata uma
na, e sarebbe assurdo attribuirlo alla volon
tà divina: per 5.º può aggiungersi quel prin
cipio di S. Gregorio Nazianzeno abbracciato
dagli altri Padri, cioè che il Verbo ha sana
to quel che ha assunto; dal che S. Giovan
Damasceno (1) conchiude : Si non assumpsit
humanam voluntatem, remedium ei non attu
lit, quod primum sauciatum erat: quod enim
assumptum non est, nec est curatum, ut ait
Gregorius theologus. Ecquid enim offenderat,
nisi voluntas º

S II.
SI RISPONDE ALLE OBBIEZIONI,

8. S, oppone per 1 º il passo di S. Dioni


sio nella lettera a Cajo: Deo viro facto unam
quamdam theandricam, seu deivirilem opera
tionem expressit in vita. Si risponde con

(1) S. Joan. Damasc. Orat. de duab. Chr. volunt.


2 16
Sofronio che questo luogo fu corrotto dai Mo
noteliti; poichè, in vece di leggere unam quan
dam, dovea leggersi novam quandam thean
dricam operationem. Ciò fu ben avvertito
nel concilio Lateranese III., in cui S. Marti
mo impose a Pascasio notajo di legger l'esem
plare grande, e si trovò novam quandam,
etc.: la qual lezione niente si oppone al
dogma cattolico, e può spiegarsi in due buo
mi sensi. Il primo è questo, come dice San
Giovan Damasceno (1): che ogni operazione
fatta da Cristo, o colla natura divina, o colla
umana, si chiama teandrica, deivirile, per
chè tutte sono operazioni di un uomo Dio,
e tutte si attribuiscono alla persona che ter
mina insieme la natura divina e l'umana. Il
secondo senso, secondo Sofronio e S. Mas
simo, è questo: che la nuova operazione tean
drica, di cui parla S. Dionisio, debba re
stringersi a quelle sole operazioni di Cristo,
in cui concorreva la natura divina e l'uma
na. E perciò distingueano in Cristo tre sorte
di operazioni: 1.º quelle ch'erano puramen
te della natura umana, come il camminare,
mangiare, sedere: 2.º quelle ch'erano pura
mente della natura divina, come il rimette
re i peccati, il far miracoli e simili: 5°
quelle che procedeano da ambe le nature,

(1) S. Joan. Damasc. lib. 3. de Fide Orth. c. 19.


2 17
come il sanare i morbi col tatto, risuscita
re i morti colla voce ec., e di quest'ultima
sorta di operazioni si spiegava il luogo di
S. Dionisio.
9. Si oppone per 2.º S. Atanasio (1) che
ammise voluntatem deitatis tantum. Ma si ri
sponde che ciò non escludea la volontà uma
ma, ma solo la volontà contraria che nasce
dal peccato, come consta da tutto il conte
sto. Si oppone per 5.º S. Gregorio Nazian
zeno (2) che scrisse: Christi velle non fuis
se Deo contrarium, utpote deificatum to
tum. Si rispose da S. Massimo e dal Papa
Agatone che senza dubbio S. Gregorio am
mettea due volontà, e con ciò non altro
volle dire se non che la volontà umana di
Cristo non fu contraria alla divina. Si op
pone per 4 º S. Gregorio Nisseno che con
tra Eunomio scrisse: Operatur vere deitas
per corpus quod circa ipsam est omnium sa
lutem, ut sit carnis quidem passio, Dei autem
operatio. Si rispose nel concilio VI. che il
Santo, attribuendo all'umanità il patire, già
ammise che Cristo operò secondo l'umanità;
soltanto volle S. Gregorio provare contro
Eunomio che i patimenti e le operazioni di
Cristo secondo l'umanità han ricevuto un

(1) S. Athan. in lib. de Adv. Chr.


(2) S. Greg. Naz. Orat. 2. de Filio.
LIG. Storia delle Eresie T III. K.
2 18 -

sommo valore dalla persona del Verbo che


questa umanità sostentava; e perciò al Ver
bo attribuivansi queste operazioni. Si oppo
me per 5º S. Cirillo Alessandrino (1), il qual
dice che Cristo dimostrò unam quandam
cognatam operationem. Si risponde che il
Santo, come consta dal contesto, parla del
miracoli di Cristo, ne quali operava la na
tura divina colla sua onnipotenza, e l'uma
ma per lo contatto imperato dalla sua vo
lontà umana; e così la stessa opera si chia
ma dal Santo una certa opera associata.
Opponeano per 6.º molti Padri, che hanno
chiamata la natura umana di Cristo istro
mento della divinità. Si rispondea non aver
mai tali Padri inteso che l'umanità di Cristo
fosse un istromento inanimato che niente
operava da sè, come diceano i Monoteliti;
ma solo voleano dire che, essendo unita
l'umanità al Verbo, apparteneva al Ver
bo il governarla come sua, ed operava per
mezzo delle di lei facoltà. Opponeano in fi
ne alcuni passi di Giulio Papa, di S. Gre
gorio Taumaturgo ed alcuni scritti di Men
ma a Vigilio e di Vigilio a Menna. Ma si
rispondea che quei luoghi erano merci di
Apollinaristi e di Eutichiami, non già di
tali Santi. E gli scritti di Menna e Vigilio

(1) S. Crrill. Alexand. lib. 4. in Joan.


2 19
nell'azione 14 del concilio VI. si dimostra
rono supposti da Monoteliti. In quanto poi
all'autorità che anche opponeano di Onorio
Papa, già si disse nella Storia delle eresie
al capo VII. num. 8 e 15 che Onorio errò
nel modo, ma non già nel dogma.
1o. Opponeano inoltre varie ragioni i Mo
noteliti per la loro eresia. Diceano per 1.º
che se in Cristo ammetteansi due volontà,
bisognava ammettere contrarietà fra di loro.
Ma si rispondea da cattolici esser falso che
la volontà umana di Cristo fu per sè con
traria alla divina. Avendo egli assunta la no
stra natura, ma non la colpa, si è fatto
bensì simile a noi, ma senza peccato, come
scrisse S. Paolo: Tentatum autem per om
nia pro similitudine, absque peccato. Hebr.
4. 15. E perciò non ebbe mai moti, come
gli abbiamo noi, contro la divina legge, ma
la sua volontà fu sempre uniforme alla di
vina. E qui distinguono i santi Padri la vo
lontà naturale, ch'è la facoltà di volere, e
la volontà arbitraria, ch' è la facoltà di vo
ler bene o male alcuna cosa. Cristo ebbe sì
bene l'umana volontà naturale, ma non l'ar
bitraria di poter volere il male; mentr'egli
volle, nè potea volere che il solo bene, ed
il bene più conforme al volere divino: onde
egli dicea : Ego quae placita sunt ei facio
semper Joan. 8. 29 E per non distinguere
22 o

i Monoteliti queste due volontà, perciò, dice


S. Giovan Damasceno, han negata a Gesù
Cristo la volontà umana: Sicut origo erroris
Nestorianorum et Eutrehianorum fuit, quod
non satis distinguerent personam et naturam;
sic et Monothelitis, eo quod nescirent quid
inter voluntatem naturalem et personalem,
sive arbitrariam discriminis interesset, hoc
in causa fuisse ut unam in Christo dicerent
voluntatem (1).
1 1. Diceano per 2.º che dove una sola è
la persona, non vi può essere che una sola
volontà; perchè uno è il movente, ed una
dev' essere la facoltà per cui muove egli le
potenze inferiori. Ma si risponde che dove
una è la persona ed una la natura, non vi
può essere che una sola volontà ed una ope
razione; ma dove vi è una persona e due
nature perfette, come in Cristo vi era la
divina e l'umana , ivi debbonsi riconoscere
due volontà e due operazioni distinte corri
spondenti alle due nature. E ben aggiungea
no che le volontà e le operazioni non si
moltiplicano, secondo si moltiplicano le per
sone; poichè nel caso che una sola natura
è terminata da più persone, come avviene
nella SS. Trinità, in questa natura non vi

(1) S. Joan. Damasc. vide Orat. de duab. Chri


sti volunt. - -
22 I

è che una sola volontà e sola operazione


comune a tutte le persone che la terminano.
E qui corre la ragione de Monoteliti, per
chè allora uno solo è il movente. Ma l'op
posto accade quando una è la persona e due
le nature; perchè allora il movente, ben
chè sia solo, dee non però muover le due
mature, per le quali opera, e perciò due
sono le volontà e due le operazioni.
12. Diceano per 5.º che le operazioni so
no delle persone, e per conseguenza, dove
vi è una sola persona, non vi può esser che
una sola operazione. Si risponde che non
sempre quando vi è una persona, vi è an
che una sola facoltà operatrice, ma quando
più sono le persone, più sono le facoltà
operatrici. In Dio vi sono tre persone; ma
una è l'operazione comune a tutte, perchè
una ed indivisa è in Dio la natura. Ma in
Gesù Cristo, perchè in esso due sono le
nature distinte, perciò due sono le volontà
per cui opera, e due le operazioni corri
spondenti alle due nature. E sebbene tutte
le operazioni, tanto quelle della natura di
vina, quanto quelle dell' umana, si attribui
scono al Verbo che termina, e sostiene le
due nature, non perciò la volontà e l'ope
razione della divina debbon confondersi con
quelle dell'umana; siccome neppure le due
mature restan confuse dall'esser una sola la
persona che le termina.
222

C O N FUT A Z I O N E X.

ERESIA DI BERENGARIO E DEI PRETESI RIFORMATI

RISPETTO AL SACRAMENTO DELL'EUCARISTIA.

I, I. protestante Mosheim nella sua Storia


Ecclesiastica (1) asserisce che nel secolo IX.
non era comunemente ricevuta nella chiesa
la sentenza della presenza reale del corpo e
sangue di Gesù Cristo nell'Eucaristia; a
cagion che, avendo Pascasio Radberto stabi
liti in un suo libro i due principali punti
circa l'Eucaristia, cioè 1.º che dopo la con
sacrazione nulla vi rimane di sostanza di
pane e di vino; 2.º che nell'ostia consacra
ta vi sta lo stesso corpo di Gesù Cristo,
che nacque da Maria, morì sulla croce, e
risorse nel sepolcro, ed avendo ivi scritto :
Quod totus orbis credit et confitetur: a que
sto libro si oppose Retrammo; e forse con
altri scrittori. E da ciò deduce il Mosheim,
che questo dogma allora non era stabilito.
Ma erra affatto; mentre, come scrive il no
stro Selvaggi nella nota 79 del tomo III.,
la controversia non fu circa il dogma, in
cui Retrammo era uniforme, ma circa sola
mente alcune espressioni di Pascasio. Del

(1) Mosheim Istor. tom. 3. Centur. IX. cap. 3.


pag. 1 175.
225
resto la verità della presenza reale di Cristo
nel sacramento dell'altare è stata sempre ed
universalmente abbracciata nella chiesa, co
me scrisse Vincenzo Lirinese nel secolo V.
all'anno 454, dicendo: Mos iste semper in
ecclesia viguit, ut quo quisque forte religio
sior, eo promptius novellis adinventionibus con
trairet. Sino al secolo IX. non era stato op
pugnato il sacramento dell'Eucaristia; ma
Giovanni Erigena di nazione Scozzese cac
ciò fuori l'eresia che in tal sacramento non
vi fosse realmente il corpo e il sangue di
Gesù Cristo, bestemmiando che l'Eucaristia
non era altro che la figura di Gesù Cristo.
2. Lo stesso disse ed insegnò poi Be
rengario nel secolo XI, e proprio nell'anno
1o5o, prendendolo dal libro del nominato
Erigena. Nel secolo XII, vi furono i Petro
brusiani e gli Erriciani che dissero non esser
l'Eucaristia che un mero segno del corpo
e sangue del Signore. Nello stesso errore
caddero gli Albigesi nel secolo XIII. Nel
secolo XVI. finalmente si sono uniti più
eresiarchi, quali sono i novatori moderni,
a combattere questo divin sacramento. Zuin
glio e Carlostadio han detto esser l'Eucari
stia una significazione del corpo e sangue
di Gesù Cristo; ed a costoro si unirono
poi Ecolampadio ed in parte Bucero. Lute
ro ammise la presenza reale di Gesù Cristo,
224
ma disse restarvi la sostanza di pane. Calvi
no mutò più opinioni: disse per ingannare i
cattolici non esser l'Eucaristia nudo segno,
o nuda figura di Cristo, ma esserella piena
della di lui virtù, e talvolta disse esser la
stessa sostanza del corpo di Cristo; ma più
propriamente egli volea che la presenza di
Cristo non fosse reale, ma figurata per la
virtù ivi posta dal Signore. Onde, come
nota monsignor Bossuet nel suo libro delle
Variazioni delle chiese protestanti, non volle
mai Calvino ammettere che il peccatore co
municando riceve il corpo di Cristo, per non
ammettere la di lui presenza reale. Ma il
concilio di Trento Sess. 15. cap. 1. insegna:
In Eucharistia Sacramento post panis et vini
consecrationem Jesum Christum Dominum at
que hominem vere, realiter ac substantialiter
sub specie illarum rerum sensibilium contineri.
5. Ma prima di passare a trovar la pre
senza reale di Gesù Cristo nell'Eucaristia,
bisogna supporre che l'Eucaristia è vero
sacramento, come han dichiarato il concilio
di Fiorenza nel decreto, o sia istruzione fatta
agli Armeni, ed il concilio di Trento nella
Sess. 7. al can. 1. contro i Sociniani, che
diceano non esser sacramento, ma solamen
te una ricordanza della morte del Salvatore.
Ma è di fede esser l'Eucaristia vero sacra
mento: poichè per 1 º vi è il segno sensibile
225
delle specie del pane e del vino; per 2 º vi
è l'istituzione fatta da Cristo: Hoc facite in
meam commemorationem. Luc. 22. 19.; per 5 º
vi è la promessa della grazia: Qui manducat
meam carnem . . . habet vitam aeternam. Si
cerca poi qual cosa nell'Eucaristia abbia ra
gion di sacramento. I Luterani vogliono che
abbia ragion di sacramento l'uso del mede
simo con tutte le azioni che Cristo adope
rò nell'ultima cena, secondo quel che scrive
S. Matteo: Accepit Jesus panem, et benedi
acit ac fregit, deditgue discipulis suis. Matth.
26. 26. I Calvinisti all' incontro dicono che
nella sola manducazione attuale sta la ragion
di sacramento. Noi altri cattolici diciamo che
non ha ragion di sacramento la consacrazio
ne, perchè questa è un'azione transitoria,
e l'Eucaristia è sacramento permanente, co
me dimostreremo nel S III. ; nè l'uso, o
sia la comunione, perchè questa riguarda
l'effetto del sacramento, il quale è sacra
mento anche prima dell'uso; nè le sole spe
cie, perchè queste non conferiscono la gra
zia; nè il solo corpo di Gesù Cristo, per
chè non vi sta in modo sensibile: ma han
ragione di sacramento le specie sacramenta
li insieme ed il corpo di Cristo, oppure le
specie, in quanto contengono il corpo e il
sangue del Signore.
-

R 5
226

S. I.
DELLA PRESENZA REALE DEL CORPO E SANGUE

DI GEsU' CRISTO NELL' EUCARISTIA

4. Csa dunque abbiam notato di sopra,


insegna il concilio di Trento Sess. 15. c. 5.
che nelle specie sacramentali si contiene Ge
sù Cristo vere, realiter et substantialiter : ve
re, per ributtare la presenza figurata; poi
chè la figura si oppone alla verità: realiter,
per ributtare la presenza immaginaria, che
si apprende colla fede, come voleano i Sa
cramentarj: substantialiter, per ributtare quel
che volea Calvino, dicendo che nell'Euca
ristia non vi è il corpo, ma solo la virtù
di Cristo, per la quale egli a noi si comu
nica; ma errava anche Calvino, perchè nell'
Eucaristia vi è tutta la sostanza di Gesù
Cristo. Indi il concilio di Trento nel Can. 1.
condanna chi dice esservi Cristo solamente
in signo, vel figura, aut virtute.
5. La presenza reale si prova per 1 º
colle stesse parole di Gesù Cristo: Accipite
et comedite: hoc est corpus meum, le quali
sono riferite da S. Matteo 26. 26., da San
Marco 14. 22. , da S. Luca 22. 19 e da
S. Paolo I. Cor. 1 1. 24. E regola certa e
comunemente abbracciata da Padri, come
227
insegna S. Agostino (1), che le parole della
Scrittura debbono intendersi nel proprio sen
so letterale, sempre che non vi sia qualche
assurdo che ripugni: altrimenti, se tutte
potessero spiegarsi in senso mistico, non
vi sarebbe più alcun dogma di fede che si
provasse dalle Scritture; anzi sarebbe la Scrit
tura una fonte di mille errori, dandovi cia
scuno il senso figurato che gli piace. È una
troppo enorme iniquità pertanto, dice il con
cilio nel detto cap. 1., il volere storcere le
parole di Cristo a tropi finti, dopo che tre
evangelisti e S. Paolo attestano essere state
proferite da Cristo: Quae verba a sanctis
evangelistis commemorata et a D. Paulo re
petita, cum propriam illam significationem
prae se ferant ... indignissimum flagitium est
ea ad fictitios tropos contra universum eccle
siae sensum detorqueri. Esclama S. Cirillo Ge
rosolimitano (2): Cum ipse de pane pronun
ciaverit: Hoc est corpus meum, quis aude
bit deinceps ambigere ? Et cum idem ipse
diacerit : Hic est sanguis meus, quis dicet
non esse ejus sanguinem ? Domandiamo agli
eretici : potea Gesù Cristo, o no converti
re il pane nel suo corpo? Non crediamo
che alcun settario abbia ardire di negarlo;

(1) S. August. lib. 3. de Doctr. Christ. cap. 1o.


(2) S. Crrill. Hier. Catech, My stag. 4.
228
mentre ogni cristiano sa che Dio è onnipo
tente. Non erit impossibile apud Deum omne
verbum. Luc. 1. 57. Diranno forse: sappiamo
che potea farlo, ma forse non ha voluto
farlo. Dicono: forse non ha voluto farlo. Ma
io ripiglio : se avesse voluto farlo, avrebbe
potuto dichiarar questa sua volontà più chia
ramente, che dicendo: Hoc est corpus meum?
Altrimenti, quando Gesù medesimo interro
gato da Caifas se era Figlio di Dio: Tu es
Christus Filius Dei benedicti? Matth. 14. 6 r.,
e Cristo rispose che tal era : Jesus autenn
dixit illi: Ego sum, vers. 62., anche potreb
be dirsi ch'egli parlò figuratamente. Di più,
se si concedesse a Sacramentari che le paro

le di Cristo Hoc est corpus meum si deb


bono intendere figuratamente, perchè poi
essi non concedono a Sociniani che le pa
role simili di Cristo, il quale disse in San
Giovanni 1o. 5o: Ego et Pater unum sumus,
si debbano intendere moralmente dell'unio
me non di sostanza, ma di volontà, come
le intendeano i Sociniani, negando che Cri
sto fosse Dio? Ma passiamo alle altre prove.
6. Si prova per 2.º la presenza reale di
Cristo nell'Eucaristia dal capo sesto di San
Giovanni, ove Gesù stesso disse: Panis,
quem ego dabo, caro mea est pro mundi vi
ta. Joan. 6. 52. I settari dicono che in que
sto capo non si parla dell'Eucaristia, ma
229
solamente dell'incarnazione del Verbo. Non si
nega che in questo capo a principio non si
tratta dell'Eucaristia; ma non può dubitarsi
che dal numero 52 in poi non si parli che
del sacramento dell'altare, come ammette
anche Calvino (1). E così l'intendono i san
ti Padri ed anche i concilj. Poichè il conci
lio di Trento al cap. 2 della Sessione 15 ed
al capo I della Sessione 22 cita più luoghi
del detto cap. 6 di S. Giovanni per con
fermare la verità della presenza reale di
Gesù nell'Eucaristia; e il concilio Niceno
II. nell'azione 6 si servì delle parole dello
stesso cap. 6 vers. 54 : Nisi manducaveritis
carnem filii hominis etc. per provare che nella
Messa si offerisce il vero corpo di Cristo.
Sicchè in questo capo promise il Signore di
dare un giorno a suoi fedeli in cibo la sua
medesima carne: Panis, quem ego dabo,
caro mea est pro mundi vita. Joan. 6. 52.
Colle quali parole si esclude la falsa inter
pretazione del settari, che dicono parlarsi
qui della manducazione spirituale, che si fa
per mezzo della fede, in credere l'incarna
zione del Verbo : si esclude, dico, perchè
se ciò avesse voluto intendere il Signore,
non avrebbe detto Panis quem ego dabo,
ma panis, quem ego dedi; mentre il Verbo

(1) Calvin. Instit. lib. 4. cap. 17. S. 1.


25o

già si era incarnato, onde sin d'allora po


teano i discepoli spiritualmente cibarsi di Ge
sù Cristo. Pertanto disse dabo; poichè allo
ra non aveva ancora istituito questo sacra
mento, ma solo promesso. Ma sin d'allora
disse che in questo sacramento vi era la ve
ra sua carne: Panis, quem ego dabo, caro
mea est pro mundi vita: commenta S. Tom
maso (1): Non dicit autem carnem meam
significat, predicendo la bestemmia di Zuin
glio, sed caro mea est; quia hoc quod su
mitur, vere est corpus Christi. Seguì poi il
Signore a dire: Caro mea vere est cibus,
et sanguis meus vere est potus. Joan. 6. 56.
S. Ilario (2), dopo aver citate le predette pa
role, soggiunge: De veritate carnis et sangui
nis non est relictus ambigendi locus. Ed in
verità se nell'Eucaristia non vi fosse la ve
ra carne e il vero sangue del Signore, que
ste parole del vangelo sarebbero state affat
to false. Oltrechè la distinzione di cibo e
di bevanda non può aver luogo, se non
nella manducazione del vero corpo, e nel
bevere il vero sangue di Cristo, e non già
nella manducazione spirituale fatta per fede,
come fingono i novatori, la quale, essendo
interna, ſa che il cibo e la bevanda siano
la stessa cosa e non due distinte.

(1) S. Thom. Lect. 9. in Joan.


(2) S Hilar. lib. 8 de Trin. num. 13.
- 25 I
7. Si prova di più tal verità nello stesso
capo 6 di S. Giovanni da quel che dissero
i Cafarnaiti, udendo tali parole di Cristo:
Quomodo potest hic nobis carnem suam dare
ad inanducandum ? vers. 55. Ed allora gli
voltarono le spalle, e si partirono : Ex hoc
multi discipulorum eius abierunt retro. Vers.
67. Or se nell'Eucaristia non vi fosse real
mente la carne di Cristo, poteva egli, anzi
dovea per togliere lo scandalo quietarli subito,
dicendo loro che si sarebbero cibati del suo
corpo solo spiritualmente colla fede; ma no,
soggiunse loro, confermando quel che avea
detto : Visi manducaveritis carnem Filii ho
minis, ct biberitis ejus sanguinem, non habe
bitis vitam in vobis. Vers. 54. Ed agli Apo
stoli che seco erano restati disse: Numquid
et vos vultis abire? ed allora rispose S. Pie
tro: Domine, ad quem ibimus ? Verba vitae
aeterna habes; et nos credidimus, et cogno
vimus quia tu es Christus Filius Dei vivi. Vers.
68. et 69. -

e 8. Si prova per 5.º la presenza reale di


Gesù Cristo nell'Eucaristia colle parole di
S. Paolo: Probet autem seipsum homo...
qui enim manducat et bibit indigne, judicium
sibi manducat et bibit, non diſudicans corpus
Domini 1. Cor. I 1. 22. et 29. Si notino le
parole non diiudicans corpus Domini, colle
quali si dimostra non esser vero quel che
252
dicono i settari, venerarsi nell'Eucaristia
colla fede la sola figura del corpo di Gesù
Cristo; perchè, se ciò fosse vero, non avreb
be l'Apostolo condannato come reo di mor
te eterna chi si comunica col peccato; in
tanto lo dichiara tale, in quanto, comunican
dosi l'uomo indegnamente, non distingue il
corpo di Gesù Cristo dagli altri cibi terreni.
9. Si prova per 4 º dallo stesso Aposto
lo, allorchè parlando dell'uso di questo sa
cramento, scrisse: Calix benedictionis cui
benedicimus, nonne communicatio sanguinis
Christi est? et panis quem frangimus, non
ne participatio corporis Domini est ? 1. Cor.
1o. 16. Si noti et panis quem frangimus,
cioè che prima si offerisce a Dio nell'altare
e poi si distribuisce al popolo, nonne parti
cipatio corporis Domini est? cioè quelli che
lo ricevono, non si fanno partecipi del ve
ro corpo di Cristo?
1o. Si prova per 5.º coi concili. Questa
verità fu insegnata prima dal concilio Ales
sandrino, che fu poi approvato dal concilio
Costantinopolitano I. Poi dal concilio Efesino
furono approvati i 12 anatematismi di San
Cirillo contro Nestorio, ne quali si afferma
va la reale presenza di Cristo nell'Eucari
stia. Indi dal concilio Niceno II. nell'azione
6 fu riprovato come errore contro la fede
il dire che nell'Eucaristia siavi la sola figura
255

e non il vero corpo di Cristo con queste


parole: Dixit: Accipite, edite; hoc est cor
pus meum ... Non autem diacit: Sumite, edite
imaginem corporis mei. Di poi nel concilio
Romano sotto Gregorio VII. nell'anno 1 o 79
Berengario nella professione di fede confessò
che il pane e il vino per la consacrazione si
convertono sostanzialmente nel corpo e san
gue di Cristo. Di più nel concilio IV. Late
ranese sotto Innocenzo III. nell'anno 12 15
nel capo 1 si disse: Credimus corpus et san
guinem Christi sub speciebus panis et vini ve
raciter contineri, transubstantiatis pane in
scorpus, et vino in sanguinem. Di più dal con
cilio di Costanza furon condannate le pro
posizioni di Wicleffo e di Hus, che diceano
nell'Eucaristia non esservi che verus panis
naturaliter et corpus Christi figuraliter Haec
est figurativa locutio: Hoc est corpus meum;
sicut ista: Joannes est Elias. Dal concilio
Fiorentino per ultimo nel decreto dell'unio
ne de' Greci si dice : In azrmo, sive in fer
mentato pane triticeo corpus Christi veraciter
confici. -

11. Si prova per 6.º colla perpetua ed uni


forme tradizione de santi Padri S. Ignazio
martire (1): Eucharistian non admittunt, quod

(1) S. Ignat. Ep. ad Smyrnens. ap. Theodoret.


Dialog. 3.
254
non confiteantur Eucharistiam esse carnem
Salvatoris nostri Jesu Christi. S. Ireneo (1):
Panis percipiens invocationem Dei jam non
communis panis est, sed Eucharistia. Ed in
altro luogo (2) scrisse: Eum panem, in quo
gratiae sunt actae, corpus esse Christi et cali
cem sanguinis ejus. S. Giustino martire (5):
Non hunc ut communem panem sumimus,
sed quemadmodum per verbum Dei caro
factus est. J. C. carnem habuit etc. Vuole
dunque che nell'Eucaristia vi è la stessa
carne che il Verbo assunse Tertulliano (4) :
Caro corpore et sanguine Christi vescitur, ut
et anima de Deo saginetur. Origene (5) scris
se : Quando vitae pane et poculo frueris,
manducas, et bibis corpus et sanguinem Do
mini S. Ambrogio (6) scrisse: Panis iste pa
nis est ante verba sacramentorum; ubi acces
serit consecratio, de pane fit caro Christi.
S. Gio. Grisostomo (7) scrisse: Quot nunc
dicunt: vellem ipsius formam aspicere... Ecce
eum vides, ipsum tangis, ipsum manducas.
Lo stesso scrissero S. Atanasio, S. Basilio e

(1) S. Iren. lib. adv. Haer. cap. 18. al. 34.


(2) Idem lib. 4. cap. 34.
(3) S. Justin. Apol. 2.
(4) Tertull. lib. Resurrect. cap. 8.
(5) Orig. Hom. 5. in divers.
(6) S. Ambros. lib. 4. de Sacram. cap. 4.
(7) S. Joan. Chrysost. Hom. ap. Pop. Antioch.
255
S. Gregorio Nazianzeno (1) S. Agostino (2)
scrisse: Sicut mediatorem Dei et hominum,
hominem Christum Jesum, carnem suam no
bis manducandam, bibendumque sanguinem
dantem fideli corde suscipinus. San Remi
gio (5): Licet panis videatur, in veritate corpus
Christi est. S. Gregorio M. (4): Quid sit san
guis agni, non jam audiendo, sed bibendo
didicistis; qui sanguis super urumque postern
ponitur, quando non solum ore corporis, sed
etiam ore cordis hauritur. S. Giovan Damasce
no (5): Panis ac vinum et aqua per S. Spi
ritus invocationem et adventum mirabili mo
do in Christi corpus et sanguinem vertuntur.
12. Quindi resta confutata l' opinione di
Zuinglio, il quale sopra le parole Hoc est
corpus meum, interpretava la parola est per
significat, e ne ricavava l'esempio dall'Eso
do, ove si dice Est enim Phase Cidest tran
situs ) Domini. Exod. 12. 11. Dicea Zuinglio:
il mangiar l'agnello pasquale non era già il
passaggio del Signore, ma lo significava.
Questa interpretazione non è stata seguita
che da soli Zuingliani: poichè il prendere il

(1) Apud Antoin. de Euch. Theol. univ. cap.


4. S. 1.
(2) S. Aug. lib. 2. contr. Adversar. legis. cap. 9.
(3) S. Remig. in Ep. 1. ad Cor. cap. 1o.
(4) S. Greg. Hom. 22. in Evang.
(5) S. Joan. Dam. lib. 4. Orthod. cap. 14.
256
verbo est per significat non può correre,
se non dove la voce est non può avere la
propria significazione; ma nel caso nostro ta
le interpretazione è contraria al proprio sen
so letterale ; secondo il quale si debbono
intendere le parole della Scrittura, sempre
che non ripugna il senso letterale. Inoltre
la spiegazione di Zuinglio si oppone a quel
che l'Apostolo scrive, narrando le parole
di Gesù Cristo: Hoc est corpus meum, quod
pro vobis tradetur. 1. Cor. 11.24 Il Signore
non diede alla passione il solo segno o la sola
significazione del suo corpo, ma diede il ve
ro suo corpo. Dicono di più i Zuingliani che
nella lingua siriaca o ebraica, in cui parlò
Gesù Cristo nell' istituzione dell'Eucaristia,
non si trova il verbo significo; onde nel
vecchio Testamento in vece di quello si
usurpa il verbo sum; e pertanto la parola
est dee prendersi per significat. Si risponde
per 1.º non esser vero che non sia stata
usata la parola significo nelle Scritture: vi
sono molti luoghi, ove si vede usata, co
me nell'Esodo ( 16. 15. ): Quod significat:
Quid est hoc ? ne Giudici ( 14 15. ) : Quid
significet problema; in Ezechiele ( 17. 12. ):
Nescitis quid ista significent ? Per 2.º ancor
chè nella lingua ebraica o siriaca non si tro
vasse la parola significo, non perciò la pa
rola est dovrebbe prendersi sempre per
257
significat, ma solo quando ciò esigesse la
materia di cui si tratta. Ma nel caso nostro
necessariamente si dee intendere per est,
come sta espresso già nel testo greco ne van
gelj e nell'epistola di S. Paolo; nè la lin
gua greca è priva della parola significat.
15. Resta ancora confutata l'opinione di
quei settari che vogliono non esservi nell'
Eucaristia il corpo di Cristo, ma la sola ,
figura del corpo. A ciò si dà la stessa ri
sposta data di sopra, cioè che il Signore
attestò esservi nell'Eucaristia quello stesso
suo corpo, che poi dovea esser crocifisso:
Hoc est corpus meum, quod pro vobis tra
detur. 1. Cor. 1 1. 24 Gesù Cristo diede il
suo corpo alla morte, non già la figura del
suo corpo. E parlandosi poi del suo sangue,
scrive S. Matteo ( 26. 28. ) : Hic est enim
sanguis meus novi testamenti, ( e poi ) qui
pro multis effundetur in remissionem pecca
torum. Cristo dunque sparse il vero suo san
gue, non già la figura del sangue, poichè
la figura si espone colla voce, o colla pen
na, o col pennello, ma non si sparge. Ma
oppone il Picenino che S. Agostino (1), par
lando del luogo di S. Giovanni Nisi mandu
caveritis carnem filii hominis, dice che la
carne del Signore è una figura, per cui ci

(1) S. Aug. lib. 3. de Doctr. Christ. cap. 16.


238
vien raccomandata la memoria della sua pas
sione: Figura est praecipiens passione domi
nica esse communicandum. Rispondiamo: non
si nega essere stata l'Eucaristia istituita da
Cristo per memoria della sua morte, come
abbiamo in S. Paolo: Quotiescumque enim
manducabitis panem hunc ... mortem Domini
annunciabitis. 1. Cor. 1 1. 26. Ma diciamo
che nell'Eucaristia il corpo di Cristo è ve
ro corpo ed insieme è figura che ci ricorda
la sua morte. E ciò intendea dire S. Agosti
no, il quale non mai dubitò che il pane
consacrato nell'altare non sia il vero corpo
di Gesù Cristo, come l'espresse altrove (1):
Panis, quem videtis in altari, sanctificatus
per verbum Dei corpus est Christi.
14. In quanto poi al sentimento di Calvi
mo circa la presenza reale di Cristo nell'Eu
caristia, non vi è bisogno di confutarlo,
mentre Calvino si confutò da se stesso, con
aver mutate mille opinioni su questo punto,
parlando sempre ambiguamente. Si osservino
monsignor Bossuet e Du Hamel (5), che
trattando a lungo questa materia, riferiscono
i luoghi di Calvino: il quale ora dice che
nell'Eucaristia vi è la vera sostanza del

(1) S. Aus. Serm. 83. de Divers. num. 227.


(2) Bossuet Ist. delle Variaz. tom. 2. lib. 9.
al num. 36. Du Hamel Theol. de Euc. cap. 3:
259
corpo di Cristo, e poi dice in altro luogo (1)
che Cristo si unisce a noi per la fede, onde
per presenza di Cristo intende una presenza
di virtù; e ciò si conferma per quel che dice
egli stesso in altro luogo (2), ove scrive che
Gesù Cristo tanto è presente a noi nell'Eu
caristia, quanto nel Battesimo: ora chiama
miracolo questo sacramento dell'altare; ma
poi in altro luogo (5) ripone il miracolo nel
dire che il fedele è vivificato dalla carne di
Cristo, mentre scorre dal cielo in terra una
virtù sì potente: ora dice che anche gl'in
degni nella cena ricevono il corpo di Cristo,
ma in altro luogo (4) dice che il Signore si
riceve da soli eletti. In somma Calvino sopra
questo dogma molto faticò per non parere
eretico co Zuingliani, nè cattolico colla chie
sa Romana. Ma i suoi discepoli ben fecero
intendere qual era il vero sentimento di Cal
vino, cioè che nella comunione della cena
si riceve il corpo di Cristo, o per meglio
dire, si riceve la virtù del corpo per mezzo
della fede. Ecco la confessione di fede che
i ministri di Calvino presentarono ai prela
ti nel colloquio di Poissy, come riferisce

(1) Calvin. Inst. lib. 4. cap. 17. num. 33.


(2) Idem Opusc. 864.
(3) Idem Opusc. 845.
(4) Idem Inst. cit. lib. 4. cap. 17. num. 33.
- 24o
monsignor Bossuet (1): Crediamo che il corpo
e sangue sono veramente uniti al pane ed al
vino, ma di un modo sacramentale, cioè non
giusta la natural posizione de corpi, ma in
quanto significano che Dio dà il corpo e il
sangue a coloro che li ricevono veramente
per la fede. Ed è celebre la proposizione che
in quel colloquio, come scrive il Tuano (2),
proferì in pubblico Teodoro Beza primo di
scepolo di Calvino, e ch'era appieno imbe
vuto de' suoi sentimenti. Disse: E tanto lon
tano Gesù Cristo dalla cena, quanto è lon
tano il cielo dalla terra. Onde i prelati di
Francia stesero la vera confessione tutta op
posta a Calvinisti, dicendo : Crediamo che
nel sacramento dell'altare vi sia realmente e
transostanzialmente il vero corpo e sangue di
Gesù Cristo sotto le specie del pane e del
vino, per virtù della divina parola pronun
ziata dal sacerdote ec.

SI RISPONDE ALLE OBBIEZIONI

CONTRO LA PRESENZA REALE.

15. Oassesso per 1.º le parole di Cristo:


Spiritus est qui vivificat, caro non prodest
quidquam ; verba quae ego locutus sum vobis,

(1) Bossuet tom. 2. lib. º


(2) Thuan. lib. 28. cap. 48.
241
spiritus et vita sunt Joan 6.64. Ecco, di
cono, che le parole, di cui noi ci serviamo
per provare la presenza reale di Cristo nell'
Eucaristia, sono parole figurate che signifi
cano il cibo celeste di vita, il quale si ri
ceve colla fede. Si risponde per 1.º con San
Giovan Grisostomo (1), che scrisse: Quo
modo igitur ( Christus ) ait: Caro non pro
dest quidquam? Non de sua carne dicit, ab
sit; sed de his qui carnaliter accipiunt quae
dicuntur. Secondo quel che dice l'Apostolo:
Animalis homo non percipit ea quae sunt
spiritus Dei. 1. Cor. 2. 14. Sicchè il Signo
re non parlava della sua carne, secondo
il Grisostomo, ma degli uomini carnali che
parlano carnalmente del misteri divini; e que
sto senso ben si accorda colle parole di San
Giovanni : Verba quae ego locutus sum vobis,
spiritus et vita sunt ( Joan. 6. 64 ) , signi
ficando che le parole dette non erano di co
se carnali e caduche, ma spirituali e di vita
eterna. Ma se le riferite parole si vogliono
intendere della propria carne di Cristo, co
me spiegano S. Atanasio e S. Agostino, il
Signore volle con quelle significarci che la
sua carne data a noi in cibo, ricevea bensì
la virtù di santificarci dallo spirito, o sia
dalla divinità che le era unita, ma che la sola

(1) S. Joan. Chrysost. Hom. 46. in Joan.


LIG. Storia delle Eresie T III. L
242
carne niente giovava. Ecco le parole di Sant'
Agostino (1) : Non prodest quidquam (caro),
sed quomodo illi intellecerunt; carnem quip
pe sic intellecerunt, quomodo in cadavere
dilaniatur, aut in macello venditur, non quo
modo spiritu vegetatur. Caro non prodest quid
quam, sed sola caro; accedat spiritus ad
carnem, et prodest plurimum.
16. Oppongono per 2 º che nelle parole
proferite da Cristo Hoc est corpus meum,
il pronome hoc non dimostrava, nè altro
potea dimostrare che il solo pane che tene
va in mano ; ma il pane non poteva esser
corpo di Cristo, se non per mera figura.
Si risponde che la proposizione Hoc est cor
pus meum, se si guarda imperfetta e non
ancora compita, come se si dicesse sola
mente Hoc est, allora è vero che il prono
me hoc dimostra il solo pane; ma se si guar
da perfetta e compita, dinota non il pane,
ma il corpo di Cristo. Quando il Signore
mutò l'acqua in vino, se avesse detto Hoc
est vinum, ognuno avrebbe capito che l' hoc
si riferiva non all'acqua, ma al vino: e così
nell'Eucaristia la voce hoc dee riferirsi, se
condo il senso compito, al corpo; poichè la
mutazione allora si fa, quando tutta la pro
posizione è compita. Sicchè il pronome hoc

(1) S. August. Tract. 27. in Joan.


245
nella proposizione detta da Cristo non signi
ficò cosa alcuna, fin tanto ch'egli non pro
ferì il sostantivo di quel pronome, quale fu
corpus meum, e con cui restò compita la
proposizione.
17. Oppongono per 5.º che la suddetta
proposizione Hoc est corpus meum fu mera
figura, come le altre che nella Scrittura vi
sono di Cristo: Ego sum vitis vera = Ego
sum ostium = Petra erat Christus. Si risponde
che intanto queste proposizioni si prendono
in senso improprio, perchè ripugna a Cristo
il senso proprio, come l'esser vite, porta
o pietra ; e perciò non possono congiunger
si col verbo sum, se non solo nel senso
improprio. Ma nelle parole dell'Eucaristia
non vi è alcuna ripugnanza di congiungere
il predicato col soggetto ; poichè, come si
è detto, non disse il Signore: Hic panis
est corpus meum, ma disse: Hoc est corpus
meum; hoc, cioè la cosa che si contiene sotto
questa specie di pane, è il mio corpo; nel
che non vi è affatto alcuna ripugnanza.
18. Oppongono per 4 º contro la presenza
reale di Cristo nel sacramento le parole che
narra S. Giovanni ( 12.8. ): Pauperes enim
semper habetis vobiscum, me autem non sem
per habetis. Dunque nell'ascensione il Salva
tore lasciò di stare più in terra. Si risponde
che il Signore parlava allora della presenza
244
visibile, in cui poteva in quel tempo ricever
l'ossequio prestatogli dalla Maddalena. Quin
di a Giuda che mormorava dicendo ut quid
perditio hac ? rispose me autem non sem
per habetis, cioè in sembianza visibile e na
turale; ma ciò non escludea che dopo la
salita al cielo non fosse rimasta in terra nell'
Eucaristia sotto le specie di pane e di vino
invisibilmente in modo soprannaturale. E co
si intendonsi tutti gli altri passi consimili:
Iterum relinquo mundum, et vado ad Patren,
Joan. 16. 28. : Assumptus est in coelum , et
sedet a dectris Dei. Marc. cap. 16. 19.
19 Oppongono per 5 º il testo dell'Apo
stolo: Patres nostri omnes sub nube fuerunt...
et omnes eandem escam spiritalem manduca
verunt. 1. Cor. 1o. 1. et 5. Dunque, dicono,
non prendiamo noi Cristo nell'Eucaristia se
non per la fede, siccome lo ricevettero gli
Ebrei. Si risponde che il senso di tali parole
è che sì bene gli Ebrei presero lo stesso ci
bo spirituale, cioè la manna, di cui parla
S. Paolo, che fu figura dell'Eucaristia, ma
non presero il corpo di Cristo realmente,
come lo prendiamo noi. Gli Ebrei mangia
rono la figura del corpo di Cristo; noi man
giamo il vero corpo prima già figurato.
2o. Oppongono per 6 º le parole del Si
gnore : Non bibam amodo de hoc genimine
vitis usque in diem illum, cum illud bibam
245
vobiscum novum in regno Patris mei. Matth.
26. 29. E ciò lo disse dopo le parole : Hic
est enim sanguis meus novi testamenti, qui
pro multis effundetur in remissionem pecca
torum, vers. 28. Notate, dicono, de hoc ge
nimine vitis : ecco che il vino restò vino,
anche dopo che fu consacrato. Si risponde
per 1.º che Cristo potea chiamarlo vino an
che dopo la consacrazione, non già perchè
ritenesse la sostanza di vino, ma perchè ne
ritenea la specie, siccome da S. Paolo l'Eu
caristia si chiama pane anche dopo la con
sacrazione: Quicunque manducaverit panem
hunc, vel biberit calicem Domini indigne,
reus erit corporis et sanguinis Domini. 1. Cor.
1 1. 27. ( vedi quel che si dirà a questo pro
posito al num. 29 ). Si risponde per 2 º con
S. Fulgenzio (1), il quale accortamente di
stingue, e dice che Gesù Cristo prese due
calici, uno pasquale secondo il rito giudaico,
l'altro eucaristico secondo il rito sacramen
tale. Ora il Signore nelle prime parole rife
rite di sopra, parlò del primo calice e non
già del secondo; e ciò apparisce chiaramente
dall'altro vangelo di S. Luca al capo 22,
ove nel verso 17 scrive S. Luca: Et ac
cepto calice, gratias egit, et dixit: Accipite,

(1) S. Fulgent. ad Ferrandum Dialog. de quinq.


quaest. q. 5.
246
et dividite inter vos; dico enim vobis, quod
non bibam degeneratione vitis, donec regnum
Dei veniat. Indi al verso 2o narra lo stesso
S. Luca che Cristo prese il calice del vino
e lo consacrò: Similiter et calicem, postguam
coenavit, dicens: Hic est calia: novum testa
mentum in sanguine meo, qui pro vobis fun
detur. Sicchè le parole notate di sopra non
bibam amodo degeneratione vitis etc., fu
rono dette prima della consacrazione del ca
lice eucaristico.

21. Oppongono per 7.º che questa presen


za reale di Cristo nell'Eucaristia non si può
credere, mentr ella ripugna affatto al giudi
zio del sensi. Ma si risponde in breve a ciò
con quel che dice l'Apostolo, che le cose
della fede non appariscono a sensi : Est au
tem fides... argumentum non apparentium.
Hebr. 1 1. 1. E con quell'altro testo, ove
dice che l'uomo animale, cioè che vuol re
golarsi col solo lume naturale, non può
intendere le cose divine : Animalis autem
homo non percipit ea quae sunt spiritus Dei;
stultitia enim est illi, et non potest intelligere.
1. Cor 2. 14. Ma leggasi quel che si dirà
su questa opposizione nel S III. seguente.
247
S. II.
DELLA TRANsosTANZIAzioNE , cioè DELLA con
vERsIoNE DELLA sosTANzA DEL PANE E DEL
VINO NELLA SOSTANZA DEL CORPO E DEL SAN

GUE DI GESU' CRIsTo.

22e Leno prima lasciò in arbitrio di cia


scuno il credere o non credere la transostan
ziazione, ma poi mutò sentenza, e nell'anno
1522 nel libro che scrisse contro il re Errico
VIII. disse: Nunc transubstantiare volo senten
tiam meam; antea posui nihil referre sic sen
tire de transubstantiatione, nunc autem decer
no impium et blasphemum esse, si quis dicat
transubstantiari (1). E concluse che rimaneva
nell'Eucaristia insieme col corpo e col sangue
del Signore anche la sostanza del pane e
del vino; onde scrisse: Corpus Christi esse
in pane, sub pane, cum pane, sicut ignis
in ferro candente. E pertanto chiamò la pre
senza di Cristo nell'Eucaristia Impanationem,
e più presto Consubstantiationem, cioè asso
ciazione della sostanza del pane e del vino
colla sostanza del corpo e sangue di Gesù
Cristo. -

25. Ma il concilio di Trento insegna che


tutta la sostanza del pane e del vino passa

() Lutherus lib. contra Regem Angliae.


248
ad esser corpo e sangue di Cristo. Così di
chiarò nel cap. 4 della Sess. 15, e questa
conversione dice chiamarsi dalla chiesa tran

sostanziazione; onde poi nel Can. 2. si disse:


Si quis dicerit in sacrosancto Eucharistia
sacramento remanere substantiam panis et
vini, una cum corpore et sanguine D. N. Jesu
Christi; negaveritgue mirabilem illam, et sin
gularem conversionem totius substantiae panis
in corpus et totius substantiae vini in sangui
nem, manentibus dumtaxat speciebus panis
et vini, quam quidem conversionem catholica
ecclesia aptissime transubstantiationem appel
lat; anathema sit. Si notino le parole mi
rabilem illam et singularem conversionem to
tius substantiae. Si dice per 1.º mirabilem
per dinotare che tal conversione è mistero
a noi nascosto, che non si può da noi com
prendere. Per 2.º singularem, perchè nella
natura non vi è altro esempio di tal con
versione. Per 5.º conversionem, perchè ella
non è una semplice unione col corpo di Cri
sto, come fu l' unione ipostatica, per cui le
due nature, divina ed umana, si unirono
nella sola persona di Cristo, restando am
bedue intiere e distinte ; il che non è così
nell'Eucaristia, dove la sostanza del pane e
del vino non si unisce, ma tutta si muta e
converte nel corpo e sangue di Cristo. Per
4° si dice totius substantiae, per distinguere
249
tal conversione dalle altre sorte di con
versioni, com'è quella del cibo in carne
del vivente, o come fu quella fatta da Cri
sto dell'acqua in vino, e quella di Mosè
della verga in serpente ; perchè in tutte
quelle rimanea la materia, e la sola forma
si mutava, ma nell'Eucaristia si muta la
materia e la forma del pane e del vino,
non restandone altro che le sole specie, cioè
la sola apparenza, come spiega il concilio,
remanentibus dumtaxat speciebus panis et vini.
24. È poi comune la sentenza che questa
conversione non si fa per creazione del cor
po di Cristo, perchè la creazione si fa dal
niente, ma questa conversione si fa dal pane,
convertendosi la sostanza di quello nella so
stanza del corpo di Cristo. Nè si fa coll'an
nichilazione della materia del pane e vino :
perchè l'annichilazione importa la distruzio
ne totale della materia ; onde il corpo di
Cristo si convertirebbe ad esser corpo dal
nulla, ma nell'Eucaristia la sostanza del
pane passa nella sostanza di Cristo, sicchè
non passa dal nulla. Nè si fa colla trasmu
tazione della sola forma, come voleva un
certo autore, restando la stessa materia,
come avvenne nell'acqua mutata in vino,
e nella verga mutata in serpente. Scoto disse
che la transostanziazione è un'azione adotti
va del corpo di Cristo nell'Eucaristia, ma
L 5
25o
questa opinione non è stata seguita dagli al
tri, poichè l'adozione non importa conver
sione col passaggio da sostanza in sostanza.
E neppure può dirsi azione unitiva, perchè
questa suppone due estremi che esistono nel
punto che si uniscono. Onde diciamo col
maestro S. Tommaso che la consacrazione
opera in tal modo, che se il corpo di Cri
sto non vi fosse in cielo, comincierebbe ad
essere nell'Eucaristia; la consacrazione real
mente ed in istanti, come scrive S. Tom
maso (1), riproduce il corpo di Cristo sotto
le presenti specie del pane, perchè essendo
questa azione sacramentale, esige che vi sia
il segno esterno, in cui sta la ragion di sa
Cramento.

25. Ha dichiarato poi il concilio di Trento


Sess. 15. cap. 5., che vi verborum sotto le
specie del pane vi è il solo corpo di Gesù
Cristo, e sotto quelle del vino il solo sangue;
di più che per concomitanza naturale e pros
sima, sotto amendue le specie col corpo e
col sangue vi è anche l'anima del Signore;
e per concomitanza soprannaturale e rimota
vi è la divinità del Verbo, per l'unione
ipostatica che il Verbo ha col corpo e coll'
anima di Cristo, ed anche del Padre e dello
Spirito Santo per l'identità di essenza che

(1) S. Thom. part. 3. qu. 75. art. 7.


25 I
hanno il Padre e lo Spirito Santo col Verbo. l
Queste sono le parole del concilio : Semper
haec fides in ecclesia Dei fuit statim post
consecrationem verum Domini nostri corpus,
verumque eius sanguinem sub panis et vini
specie, una cum ipsius anima et divinitate
existere; sed corpus quidem sub specie panis
et sanguinem sub vini specie ex vi verborum:
ipsum autem corpus sub specie vini et sangui
nem sub specie panis, animamque sub utra
que vi naturalis illius connexionis et conco
mitantiae, qua partes Christi Domini, qui jam
ex mortuis resurrexit, non amplius moriturus,
inter se copulantur: divinitatem porro propter
admirabilem illam eius cum corpore et anima
hypostaticam unionem.
26. Si prova poi la transostanziazione colle
stesse parole di Cristo, Hoc est corpus meum.
Il pronome hoc, secondo gli stessi Lutera
ni, significa il corpo realmente presente del
Salvatore. Se vi sta il corpo di Cristo, dun
que non vi sta più la sostanza di pane. Se
vi stesse il pane, e per la voce hoc si vo
lesse dinotare il pane, la proposizione sareb
be falsa, volendosi intendere le parole, Hoc
est corpus meum, così : questo pane è il
mio corpo, mentre è falso che il pane è
corpo di Cristo. Ma, dirà alcuno, prima di
proferirsi la voce corpus, la parola hoc a
chi si riferisce? Si risponde, come già si è
252
accennato di sopra, che non si riferisce nè
al pane, nè al corpo, ma s'intende neutral
mente, cioè questa cosa che si contiene sot
to queste specie di pane, non è pane, ma
è il corpo mio. E che così s'intenda, si
prova dalla comune autorità de santi Padri.
S. Cirillo Gerosolimitano (1) scrive: Aquam
aliquando ( Christus) mutavit in vinum in
Cana Galilaeae sola voluntate, et non erit
dignus cui credamus quod vinum in sangui
nem transmutasset? S. Gregorio Nisseno (2):
Panis statim per verbum transmutatur sicut
dictum est a verbo : Hoc est corpus meum.
S. Ambrogio (5): Quantis utimur exemplis,
ut probemus non hoc esse quod natura for
mavit, sed quod benedictio ( cioè la parola
divina ) consecravit; majoremque vim esse
benedictionis, quam naturae, quia benedictio
ne etiam natura ipsa mutatur. S. Gio. Dama
sceno (4) scrive : Panis, ac vinum et aqua
per Sancti Spiritus invocationem, et adventum
mirabili modo in Christi corpus et sanguinem
vertuntur. Lo stesso scrive Tertulliano, S. Gio.
Grisostomo e S. Ilario (5).

(1) S. Cirill. Hierosol. Catech. 4. My stag.


(2) S. Greg. Nyssen. Orat. Catech. cap. 37.
(3) S. Ambros. de Initiand. cap. 9.
(4) S. Joan. Dam. lib. 4. Orthod. Fidei cap. 14.
(5) Tertullian. lib. 4. contra Marcion. cap. 4.
Chrysost. Hom. 4. in una cor. S. Hil. l. 8. de Trin.

- àa.
l 255

27. Si prova di più coll'autorità del con


cilj, e specialmente per 1.º del concilio Ro
mano sotto Gregorio VII., dove Berengario
confessò di credere Panem et vinum, quae
ponuntur in altari, in veram et propriam ac
vivificatricem carnem et sanguinem Jesu Christi
substantialiter converti per verba consecratoria.
Per 2.º del concilio Lateranese IV., ove nel
capo 1 si dice: Idem ipse sacerdos et sacri
ficium Jesus Christus, cum corpus et sanguis
in sacramento altaris sub speciebus panis et
vini veraciter continetur, transubstantiatis pa
ne in corpus, et vino in sanguinem potestate
divina etc. E per 5.º del concilio di Trento
Sess. 15, ove nel can. 2 trascritto di sovra
al num. 21 fu condannato chi negasse : Mi
rabilem illam conversionem totius substantiae
panis in corpus et vini in sanguinem... quam
conversionem catholica ecclesia aptissime tran
substantiationem appellat.
SI RISPONDE ALLE OBBIEZIONI

CONTRO LA TRANSOSTANZIAZIONE,

28. Desso per 1.º i Luterani che il cor

po di Cristo sta nel pane localiter, come in


un vaso; onde siccome, dimostrandosi la bot
te ove sta il vino, si dice: questo è il vino;
così Cristo, dimostrando il pane, disse: Hoc
est corpus meum ; e quindi dicono esservi
254
nell'Eucaristia il corpo di Cristo, ed insieme
il pane. Si risponde che, secondo l'uso di
parlare, la botte è atta a dimostrare il vino,
perchè ordinariamente il vino si conserva
nelle botti : ma il pane non è per sè atto a
dimostrare un corpo umano; poichè non può
avverarsi, se non per un miracolo, che nel
pane si contenga un corpo umano.
29 E per confusione de Luterani vagliaci
qui quel che diceano i Zuingliani (1) contro
questa impanazione, o sia consostanziazione
del pane col corpo di Cristo inventata da Lu
tero. Diceano che, dovendosi tenere il senso
letterale delle parole Hoc est corpus meum,
come volea Lutero, dovea tenersi necessa
riamente ancora la transostanziazione del cal
tolici. E giustamente la discorreano così i
Gesù Cristo non disse : Hic panis, oppure
IIic est corpus meum, ma Hoc est corpus
meum, come di sopra dicemmo doversi in
tendere: questa cosa è il corpo mio. Onde
diceano che, ributtando Lutero la figura o la
significazione del corpo, come essi teneano,
e spiegando a modo suo: Hoc est corpus
meum, cioè questo pane è il corpo mio real
mente, senza figura, veniva a distruggere
da se stesso la sua dottrina; poichè se,

(1) Vedi Bossuet Variaz. tom. 1. lib. 2. num.


31. da Ospinian. ann. 1527. pag. 49.
255
dicendo il Signore: Hoc est corpus meum,
avesse voluto intendere: questo pane è il
mio corpo, e poi avesse voluto che restese
la sostanza del pane, sarebbe stata la sua
una proposizione inetta e sconnessa. Ma il
vero senso è che, dicendo il Signore : Hoc
est corpus meum, il pronome hoc s'intende
neutralmente i ciò che tengo nelle mani, è
il mio corpo. Pertanto concludeano i Zuin
gliani che la conversione della sostanza del
pane nella sostanza del corpo di Cristo, de
ve intendersi o totalmente in figura, o to
talmente in sostanza; e lo stesso disse Beza
nella conferenza avuta in Mombeillard coi
Luterani. Ecco dunque secondo il vero dog
ma la conclusione contro Lutero : dicendo
il Signore Hoc est corpus meum, volle che
di quel pane si formasse o la sostanza, o
la figura del suo corpo; se dunque la so
stanza di quel pane non divenne sola e sem
plice figura, come sostenne Lutero, dunque
divenne tutta sostanza del corpo di Gesù
Cristo.

5o. Oppongono per 5º che l'Eucaristia


nella Scrittura si chiama pane anche dopo
la consacrazione: Omnes, qui de uno pane
participamus. 1. Cor. 1o. 17. Quicunque man
ducaverit panem hunc, vel biberit calicem
Domini indigne etc. 1. Cor. 1 1. 27. Dunque
vi resta il pane. Non signore; si chiama
256
pane, non perchè ritenga la sostanza di pa
-
ne, ma perchè il corpo di Cristo si è fatto
dal pane. Nella Scrittura quelle cose che si
son convertite in altre per miracolo divino,
si chiamano col nome priniero, che aveano
prima di convertirsi: così l' acqua convertita
in vino nelle nozze di Cana da S- Giovanni
si chiama acqua, anche dopo la conversione:
Ut autem gestavit Architriclinus aquam vinum
factam. Joan. 2. 9. Così anche nell'Esodo
della verga di Mosè mutata in serpente si
dice : Devoravit virga Aaron virgas eorum.
Ecod. 7. 12. E così ancora l'Eucaristia si
chiama pane anche dopo la consacrazione,
perchè è stato pane, e ritiene anche l'ap
parenza di pane. Oltrechè, essendo l'Euca
ristia cibo dell'anima, ben può chiamarsi
pane; come la manna, perchè era stata fat
ta dagli angeli, si chiamava pane, cioè pane
spirituale: Panem angelorum manducavit ho
mo. Psalm. 77. 25. Replicano i settari: ma
il corpo di Cristo non si frange ; solo il
pane si frange, e S. Paolo scrisse : Et pa
nis, quem frangimus, nonne participatio cor
poris Domini est? 1. Cor. 1o. 16. Si rispon
de che il frangere s'intende a riguardo del
le specie del pane, le quali rimangono, ma
non già del corpo del Signore, che, stando
in modo sacramentale, non può esser fratto,
mè leso.
257
51. Oppongono per 5º che Cristo disse
in S. Giovanni: Ego sum panis vitae, Joan.
6. 48.; e con tutto ciò non si mutò in pane.
Ma ecco la risposta nelle stesse parole. Il
Signore disse: Ego sum panis vitae: la paro
la vitae fa chiaramente intendere che il no
me di pane si prendea in senso metaforico,
non già proprio. Altrimenti poi debbono in
tendersi le parole Hoc est corpus meum:
per render vera questa proposizione era ne
cessario che il pane si convertisse nel cor
po di Cristo, e questa è la transostanziazio
ne che noi teniamo per fede, la quale con
siste nel convertirsi la sostanza del pane
nella sostanza del corpo di Cristo; sicchè
nel punto che terminano le parole della con
sacrazione, il pane lascia di aver la sostanza
di pane, e sotto quelle specie entra la so
stanza del corpo. La conversione pertanto
ha due termini, del quali uno finisce di es
sere, e l'altro nello stesso punto che l'uno
termina, comincia ad essere ; altrimenti,
se precedesse l'annichilazione del pane, e
succedesse la produzione del corpo, non
potrebbe dirsi vera conversione, nè tran
sostanziazione. ll dire poi che questa vo
ce di transostanziazione è voce nuova non
usata nella Scrittura, non dee recar meravi
glia, sempre ch'è vera la cosa significata,
com'è nell'Eucaristia. La chiesa giustamente
258
usurpa le voci nuove, siccome usurpò la
voce consostanziale contro l' eresia di Ario,
per meglio spiegare qualche verità di fede,
allorchè sorgono nuovi errori.
S III.
DEL Mono CoME sTA GESU' CRIsTo NELL' EUCA
RISTIA; E QUI SI RISPoNDE ALLE DIFFICoLTA'
FILOSOFICHE DE' SACRAMENTARI.

52. P, di rispondere in particolare ai


dubbi ſilosofici che oppongono i settari, cir
ca il modo con cui sta il corpo di Cristo
nel sacramento, bisogna persuadersi che in
materia di fede i santi Padri non hanno at
teso ai principi della filosofia, ma all'auto
rità delle Scritture e della chiesa; persuasi
che Dio può fare più cose che la nostra
corta mente non può capire. Noi non giun
giamo ad intendere i segreti della natura
delle creature, or come possiam compren
dere dove possa o no giungere la potenza
di Dio, ch'è il Signore delle creature e della
natura? Ora udiamo i dubbi. Oppongono
quei che negano la presenza reale di Gesù
Cristo nell'Eucaristia, che quantunque Dio
sia onnipotente, non può fare però quelle
cose che tra loro ripugnano. Quindi dicono
che ripugna lo star Cristo in cielo, e star
anche in terra realmente; dove, come noi
259
crediamo, sta non in un solo, ma in molti
luoghi. Ecco come il concilio di Trento, Sess.
15. c. 1., risponde a queste difficoltà dei
miscredenti: Nec enim hapc inter se pugnant,
ut ipse Salvator noster semper ad deacteram
Patris in coelis assideat juxta modum exi
stendi naturalem, et ut multis nihilominus aliis
in locis sacramentaliter praesens sua substan
tia nobis adsit, ea existendi ratione, quam
etsi verbis exprimere via possumus, possibilem
tamen esse Deo, cogitatione per fidem illu
strata, assequi possumus, et constantissime
credere debemus. Insegna dunque il concilio
che il corpo di Gesù Cristo in cielo sta in
modo naturale, ma in terra vi sta in modo
sacramentale, cioè sovrannaturale, che dal
nostro corto intendimento non si può com
prendere: siccome parimente non sappiamo
comprendere, come nella Trinità le tre di
vine persone sono la stessa essenza; e co
me nell'incarnazione del Verbo in Gesù Cri
sto vi è la sola persona divina, che suppo
me due nature, la divina e l'umana.
55. Ma, dicono, ripugna ad un corpo
umano il moltiplicarsi in più luoghi. Noi
diciamo che nell'Eucaristia non si molti
plica il corpo di Gesù Cristo; perchè il
Signore non vi sta definitive, come deter
minato a tal luogo e non ad altro, ma vi
sta sacramentalmente sotto le specie del pane
26o
e del vino; onde in tutti i luoghi ove si
trovano le specie del pane e del vino con
sacrato, vi sta presente Gesù Cristo. E per
tanto la moltiplicità della presenza di Cristo
non proviene dal moltiplicarsi il suo corpo
in più luoghi, ma dalla moltiplicità delle
consacrazioni del pane e del vino fatte da sa
cerdoti in diversi luoghi. Ma come può es
sere che il corpo di Gesù Cristo stia in più
luoghi nello stesso tempo senza moltiplicarsi?
Rispondiamo: per provare che ciò non può
essere, dovrebbero avere i contrari una pie
na cognizione de'corpi gloriosi e del luoghi;
e saper distintamente che cosa sia luogo, e
qual esistenza possono avere i corpi glorio
si. Ma se tali cose sorpassano la debolezza
delle nostre menti, chi mai può aver l'ar.
dire di negare che il corpo del Signore pos
sa esser presente in più luoghi, avendoci
Dio rivelato per mezzo delle divine Scrit
ture che Gesù Cristo è realmente esistente
in ogni ostia consacrata ? Ma, replicano,
ciò non si può da noi comprendere: e noi
di nuovo rispondiamo che per ciò l'Euca
ristia è mistero di fede, perchè non può la
nostra mente comprenderlo; e non giungen
do noi a poterlo comprendere, è temerità
il dire che non può essere, dopo che ci è
stato da Dio rivelato, giacchè non possiamo
noi decidere colla nostra ragione cose, alle
quali la nostra ragione non giunge.
261
54. Dicono inoltre che ripugna il dire che
il corpo di Gesù Cristo sia sotto le specie
senza estensione e senza la sua quantità:
mentre è di essenza al corpo l' essere este
so, e quanto egli è , nè Dio può togliere
alle cose la loro essenza, e per conseguen
za dicono che il corpo di Cristo non può
stare senza occupare un luogo corrispon
dente alla sua quantità ; e perciò non può
trovarsi in una piccola ostia, ed in ogni
particella dell' ostia, come noi diciamo. Ri
spondiamo che sebbene Dio non possa to
gliere l'essenza, ben può non però toglie
re le proprietà dell'essenza; non può to
gliere al fuoco l'essenza di fuoco, ma può
impedire al fuoco la proprietà di bruciare,
come avvenne in persona di Daniele e suoi
compagni, che posti nella fornace non fu
rono lesi dal fuoco. E così, benchè Dio
non possa fare che un corpo esista senza
estensione e senza la sua quantità, può non
dimeno far che quello non occupi luogo, e
stia intiero in ogni parte delle specie sensi
bili che lo contengono a modo di sostan
za. Onde siccome la sostanza del pane e
del vino stava prima sotto le sue specie,
senza occupar luogo, e tutta in ciascuna
parte delle specie, così il corpo di Cristo,
in cui si converte la sostanza del pane,
non occupa luogo, e sta tutto in ogni parte
262
delle specie. Ecco come lo spiega S. Tom
maso (1) : Tota substantia corporis Chri
sti continetur in hoc sacramento post conse
crationem, sicut ante consecrationem conti
nebatur ibi tota substantia panis. E soggiun
ge (2) : Propria autem totalitas substantiae
continetur indifferenter in pauca vel magna
quantitate; unde et tota substantia corporis
et sanguinis Christi continetur in hoc sacra
mento,

55. Posto ciò, non è vero che il corpo


di Cristo nell'Eucaristia vi sta senza la sua
quantità; egli vi sta con tutta la sua quantità/
non già in modo naturale, ma soprannatura
le; sicchè non vi sta circumscriptive, cioè
secondo la misura della propria quantità,
corrispondente alla quantità del luogo, ma
vi sta, come si è detto, sacramentaliter per
modo di sostanza. E quindi è che Gesù Cri
sto nel sacramento non esercita alcuna azione
dipendente da sensi; onde sebbene esercita
gli atti d'intelletto e di volontà, non eser
cita però gli atti corporali della vita sensi
tiva, i quali richiedono una certa sensibile
ed esterna estensione negli organi del corpo.
56. E così anche non è vero che nel sa
cramento sta Gesù Cristo senza estensione.

(1) S. Thom. 3. part. qu. 76. art. 1.


(2) Ibid. ad 3.
265
Vi sta il suo corpo, e vi sta esteso, ma la
sua estensione non è esterna, o sia sensi
bile e locale, ma interna in ordine a sè ,
onde, benchè tutte le parti si ritrovino nel
lo stesso luogo, nondimeno una parte non
è confusa coll'altra. Sicchè Gesù Cristo sta
nel sacramento colla estensione interna, ma
in quanto all'esterna e locale vi sta inesteso
ed indivisibile, e tutto in ciascuna parte
dell'ostia a modo di sostanza, come si è
detto di sopra, senza occupar luogo. E quin
di è che il corpo del Signore, non occupan
do luogo, non si può muovere da un luogo
in un altro, e solo per accidente si muove,
movendosi le specie sotto le quali si con
tiene: siccome avviene anche nelle nostre
persone, che, movendosi il corpo, per acci
dente si muove anche l'anima, la quale
neppure è capace di occupare alcun luogo.
Del resto l'Eucaristia è sacramento di fede,
mysterium fidei; onde siccome noi non com
prendiamo tante cose di fede, così non dob
biamo pretendere di comprendere tutto ciò
che la fede per mezzo della chiesa c'insegna
di questo sacramento.
57. Ma come gli accidenti, oppongono,
del pane e del vino possono stare senza la
lor sostanza, o sia il lor soggetto? Rispon
diamo esser già nota la questione se dian
si gli accidenti distinti dalla materia. La
264
sentenza più comune l'afferma: del resto,
prescindendo da tal controversia, dal concilio
Lateranese, dal Fiorentino e dal Tridentino
tali accidenti son chiamati specie. Di legge
ordinaria questi accidenti, o siano specie,
non possono stare senza il soggetto, ma
ben lo possono di legge straordinaria e so
prannaturale. Di legge ordinaria l'umanità non
può stare senza la propria sussistenza, ma
ciò non ostante è di fede che l'umanità di
Cristo non ebbe la sussistenza umana, ma
la sola divina, che fu la persona del Verbo.
Come dunque l'umanità di Cristo unita ipo
staticamente al Verbo sussistette senza la
persona umana, così nell'Eucaristia le spe
cie possono stare senza soggetto, cioè senza
la sostanza del pane, poichè la loro sostanza
si converte nel corpo di Cristo. Perlochè tali
specie nulla hanno di reale, ma per divina
virtù fanno le veci del loro primiero sog
getto, ed operano come ancor ritenessero
la sostanza di pane e di vino; ed allorchè
si corrompono, e si generano vermi, quella
è nuova materia creata da Dio, dalla quale
nascono quei vermi ; ed allora Gesù Cristo
lascia di esservi presente, come insegna San
Tommaso (1). All'incontro per quel che ri
guarda la sensazione degli organi nostri, il

(1) S. Thom. 3. part. qu. 76. art. 5. ad 3.


265
corpo di Cristo nell'Eucaristia nè si vede,
mè si tocca immediatamente in sè, mentre
non vi sta in modo sensibile, ma solo me
diatamente in quanto alle specie sotto le qua
li si contiene, e così dee intendersi quel
che dice S. Giovanni Grisostomo (1) : Ecce
eum vides, ipsum tangis, ipsum manducas.
58. È di fede poi che Gesù Cristo nell'
Eucaristia vi sta permanentemente, e prima
dell'uso della comunione, contro quel che
dicono i Luterani, come dichiarò il conci
lio di Trento, assegnandone la ragione : In
Eucharistia ipse sanctitatis Auctor ante usum
est: nondum enim Eucharistian de manu Do

mini Apostoli susceperant, cum vere tamen ipse


affirmaret corpus suum esse, quod praebebat.
Sess. 15. c. 5. E siccome vi sta Gesù Cristo
prima dell'uso, così anche vista dopo l'uso,
come sta espresso nel can. 4 : Si quis di
acerit ... in hostis, seu particulis consecratis
quae post communionem reservantur, vel su
persunt, non remanere verum corpus Domi
ni; anathema sit.
59. Ciò poi si prova non solo dall'auto
rità e dalla ragione, ma anche dalla prati
ca antica della chiesa, giacchè ne primi se
coli la comunione per causa delle persecu
zioni si faceva ancora nelle case private e

(1) S. Joan. Chrysost. Hom. 6o. ad Pop.


LIG. Storia delle Eresie T. III. M
266
nelle grotte, come scrive Tertulliano (1) :
Non sciet maritus, quid secreto ante omnem
cibum gustes; et si sciverit panem, non
illum esse credat, qui dicitur, cioè il cor
po di Cristo. Lo stesso scrisse S. Cipria
no (2), attestando che a suo tempo i fedeli
si portavano l'Eucaristia nelle loro case,
per comunicarsi a tempo opportuno. Lo stes
so scrisse S. Basilio (5) a Cesaria Patricia,
e l'esortò che non potendosi trovare per la
persecuzione alla pubblica comunione, tenes
se seco l'Eucaristia, affin di comunicarsi
in caso di pericolo. S. Giustino Martire (4)
scrive che da diaconi portavasi l'Eucaristia
agli assenti. S. Ireneo (5) si lamenta con Vit
tore Papa, che avendo omesso di celebrar
la pasqua, avea con ciò privati della comu
nione molti preti, che non avean potuto in
tervenire alle pubbliche adunanze, mentre a
questi impediti mandavasi allora l'Eucaristia
in segno di pace. Ecco le parole del Santo:
Cum tamen qui te praecesserunt, presbrteris,
quamvis id minime observarent, Eucharistiam
transmiserunt. S. Gregorio Nazianzeno (6)

(1) Tertull. lib. 2. ad Uxor. cap. 5.


(2) S. Cypr. Tract. de Lapsis.
(3) S. Basil. Ep. 289. ad Caesar. Patriciam.
(4) S. Justin. Apol. 2. pag. 97.
(5) S. Iren. Ep. ad Victor. Pont.
(6) S. Greg. Nazianz. Orat. 11.
26
narra che Orgomia sua sorella, stando º
gran fede davanti il sacramento presso di
sè nascosto, fu liberata dal morbo che pa
tiva. S. Ambrogio (1) riferisce che S. Sa
tiro, portando sospesa al collo l'Eucaristia
superò il pericolo del naufragio.
4o. Vi sono sovra di ciò più altri esempi,
che ne adduce il dotto P. D. Agnello Cirillo
nel suo libro intitolato: Ragguagli Teologici ec.
circa la fine alla pagina 555. Ed ivi poi fa
vedere con buone ragioni, quanto sia impro
babile l'opinione di un moderno autore ano
nimo, il quale vuole non esser lecito ammini
strar la comunione fuori della Messa colle par
ticole preconsecrate, e riposte nella custodia.
Ma contro di ciò scrive il P. Mabillon (2),
che l'uso di dar la comunione fuori della
Messa principiò nella chiesa di Gerusalem
me sin dal tempo di S. Cirillo, per causa
che non era possibile il dir la Messa, ogni
volta che voleano comunicarsi i pellegrini,
che ivi concorreano in gran numero. Questa
costumanza poi passò dalla chiesa orientale
alla nostra occidentale; onde Gregorio XIII.
nell'anno 1584 stabilì nel suo Rituale il modo
come i sacerdoti debbono dar l'Eucaristia

(1) S. Ambros. Orat. de obitu fratris Satyri.


(2) Mabillon Liturg. Gallican. lib. 2. cap. 9.
num. 26.
268
al popolo fuori della Messa. Questo Ri
tuale poi fu confermato dal Papa Paolo V.
nel 1614, dove al capo de Sacram. Eucari
stia sta ordinato : Sacerdos curare debet,
ut perpetuo aliquot particulae consecrata eo
numero, quae usui infirmorum et aliorum, si
noti, fidelium communioni satis esse possint,
conserventur in piaide. Inoltre abbiamo che
il Pontefice Benedetto XIV. nella sua lettera
enciclica Certiores, data ai 12 di novembre
1742, chiaramente approva la comunione
fuori della Messa con queste parole: De eo
dem sacrificio participant, praeter eos quibus
a sacerdote celebrante tribuitur in ipsa Missa
portio victimae a se oblatae, ii etiam quibus
sacerdos Eucharistiam praeservari solitam mi
nistrat. -

41. Giova qui avvertire su di tal materia,


che va in giro un certo decreto della S. C.
de Riti ai 2 di settembre dell'anno 1741,
in cui si vieta di dar la comunione al po
polo nelle Messe del Morti colle particole
preconsecrate, estraendo la pisside dalla cu
stodia, per ragione che con paramenti negri
non si può dar la benedizione, come si pra
tica, a coloro che si son comunicati. Ma
scrive il nominato P. Cirillo pag. 568, che
questo decreto non obbliga per non essere
stato approvato dal Pontefice, che in quel
tempo era Benedetto XIV. E ciò in verità
269
ben si deduce dal vedere che il medesimo
Pontefice, avendo già prima quando era ar
civescovo di Bologna nel suo libro del Sa
crificio della Messa approvata la sentenza
del dotto Merati, che ben si potea nella
Messa del Morti dar la comunione colle par
ticole preconsecrate; essendo poi fatto Papa,
e ricomponendo il detto trattato della Mes
sa, non si prese pensiero di ritrattar la sua
sentenza, come avrebbe fatto se avesse avu
to per valido, ed avesse approvato il sup
posto decreto, il quale era già stato forma
to nel suo pontificato. Aggiunge il nominato
P. Cirillo, aver egli inteso da un consultore
della stessa congregazione de santi Riti, che
quantunque nell'anno 1741 fu formato il de
creto, nondimeno più consultori non volle
ro soscriverlo, e perciò quello restò sospe
so, e non si pubblicò. -

42. Ritornando poi a settari che negano


la presenza del corpo di Gesù Cristo fuori
dell'uso, io non so come possono rispon
dere al concilio Niceno I., dove nel can.
15 si ordinò che a moribondi si ammini
strasse la comunione in ogni tempo; ma
ciò non avrebbesi potuto osservare, se non
si fosse conservata l'Eucaristia. E ciò fu di
poi particolarmente ordinato dal concilio La
teranese IV. can. 2o, ove si disse: Statui
mus quod in singulis ecclesiis Chrisma et º
27o
Eucharistia sub fideli custodia conservetur.
Lo stesso fu confermato poi dal concilio di
Trento Sess. 15. cap. 6. Presso i greci sin
da primi secoli si conservava l'Eucaristia
nelle custodie di argento fatte a forma di
colombe o di torrette, che teneansi sospese
sopra gli altari, come si legge nella vita di
S. Basilio, e nel Testamento di Perpetuo
vescovo di Durs (1).
45. Oppongono i contrari quel che scrive
Niceforo (2), cioè che nella chiesa greca si
usava darsi a bambini i frammenti che re
stavano dopo la comunione, dunque, dico
no, l'Eucaristia non si conservava. Si ri
sponde che ciò non faceasi ogni giorno, ma
solamente nella feria quarta e sesta, quando
si purificava la pisside; dunque negli altri
giorni ben si conservava. Oltrechè sempre si
conservavano le particole per gl'infermi. Op
pongono di più, che le parole Hoc est cor
pus meum, non furono dette da Cristo avan
ti, ma dopo la manducazione, come si leg
ge in S. Matteo ( 26. 26 ) : Accepit Jesus
panem, et benedirit, ac fregit, deditgue di
scipulis suis, et ait: Accipite et comedite, hoc
est corpus meum. Si risponde con Bellarmino

(1) Vedi Tournely tom. 2. de Euch. pag. 165.


num. 5.
(2) Niceph. Histor. lib. 17. cap. 25.
2r, I

che in questo testo non si attende l' ie


delle parole, poichè tal ordine è diverso
secondo i diversi vangelisti su questa mate
ria dell'Eucaristia. S. Marco (14- 25. et 24.),
parlando della consacrazione del calice, di
ce: Et accepto calice... et biberunt ex illo
omnes, et ait illis: Hic est sanguis meus.
Da ciò sembra che le parole Hic est sanguis
meus, anche sieno state dette dopo la sun
zione del sangue: ma dal contesto de van
gelisti si raccoglie per certo, che le paro
le Hoc est corpus meum ed Hic est sanguis
meus furono dette dal Signore prima di por
gere le specie del pane e del vino.
S. I V.
IoELLA MATERIA E FORMA

DEL SACRAMENTO DELL'EUCARISTIA.

44. In quanto alla materia dell'Eucaristia


niuno dubita doversi adoperare quella sola
che fu adoperata da Gesù Cristo, cioè il
pane comune di frumento e il comun vino
di vite, come si ha da vangelj di S. Mat
teo, 26. 26., di S. Marco, 14 22., di San
Luca, 22. 19., e da S. Paolo, 1. Cor. 11.
27. E così ha praticato sempre la chiesa
cattolica, ed ha ributtati tutti coloro che
hanno osato di servirsi di altra materia, co
me si provò nel concilio III. Cartaginese al
-
-

272
capo 24 nell'anno 597. Estio (1) dice po
tersi consacrare il corpo con ogni sorta di
pane, o sia di frumento, o sia di orzo, di
farre, o di spelta; ma S. Tommaso (2) scri
ve che non si dee usare altra materia che di
solo pane triticeo, cioè di frumento, o sia
di grano ; ammette non però la siligine,
cioè la segala, dicendo: Et ideo si qua fru
menta sunt, quae ex semine tritici generari
possunt, sicut ex grano tritici seminato malis
terris nascitur siligo, ex tali frumento panis
confectus potest esse materia hujus sacra
menti; indi ributta le altre specie nominate,
e questa sentenza dee senza meno seguirsi.
Se poi il pane debba essere azimo secondo
usiamo noi latini, o fermentato come usa
no i greci, questa è una gran questione
agitata fra dotti, la quale ancora pende, co
me può osservarsi presso il Mabillone, il
Sirmondo, il cardinal Bona ed altri; del re
sto è certo che nell'uno e nell'altro pane è
valida la consacrazione, ma a latini oggi è
vietato il consacrare in pane fermentato ed
a greci in azimo, come determinò il conci
lio di Fiorenza nell'anno 1429 in questo
modo: Definimus in azrmo, sive in fermen
tato pane triticeo corpus Christi veraciter

(1) AEstius in 4. Dist. 8. eap. 6.


(2) S. Thom. 3. part qu. 74 art. 3. ad a.
275
confici, sacerdotesque in alterutro ipsum Do
mini corpus conficere debent, unumquemque
scilicet juxta sua ecclesiae occidentalis, sive
orientalis consuetudinem. La materia poi per
la consacrazione del sangue deve essere il
vino usuale, spremuto dalle uve mature,
onde non è atto il vino spremuto dall'agre
sto, nè il vino cotto, o aceto; il vino mu
sto è atto, ma non può usarsi senza neces
sità.

45. Parlando poi della quantità del pane


e del vino che dee consacrarsi, basta ch'ella
sia sensibile, quantunque sia minima; dee
InOn però esser certa e determinata , e mo
ralmente presente. Secondo poi la mente
della chiesa, e secondo insegna S. Tomma
so (1), non dee consacrarsi maggior nume
ro di particole di quel che bisogna per co
loro che dovran comunicarsi in quel tempo,
in cui possono conservarsi le specie del pa
ne e del vino senza cominciare a corrom
persi. Da ciò deduce Pietro de Marca (2),
che se alcun sacerdote volesse consacrare
tutti i pani d'una bottega, la consacrazione
sarebbe nulla; altri non però la danno per
illecita, ma non invalida. Lo stesso dubbio

(1) S. Thom. 3. part. qu. 74. art. 2.


(2) Petr. de Marca Diss. posthuma de Sacrif.
Missae. -

M 5
274
si fa fra teologi, se un sacerdote consacras
se per abusarsene in prestigi di magia, o
per esporre il pane consacrato al ludibrio
de miscredenti.
46. Veniamo ora alla forma dell'Euca
ristia. Lutero (1) scrisse che non bastano
per consacrar l'Eucaristia le sole parole di
Cristo, Hoc est corpus meum, ma bisogna
recitare tutta la liturgia. Calvino (2) disse
che tali parole non erano necessarie per
consacrare, ma solo per eccitar la fede. Al
cuni greci scismatici, come porta Arcudio (5),
dissero che le dette parole Hoc est etc. pro
ferite una volta da Gesù Cristo sono suffi
cienti per sè alla consacrazione di tutte le
ostie.
47. Altri poi del nostri cattolici hanno opi
nato che Cristo consacrò l'Eucaristia colla
sua sola occulta benedizione, senza alcune
parole, per la sua potestà di eccellenza; ma
che ordinò poi la forma che gli uomini do
vessero tenere nel consacrare; e di tale opi
mione furono Innocenzo III. (4), Durando (5)
e specialmente Caterino (6) con più forza.

(1) Luther. lib. de Ambrog. Missa.


(2) Calvin. Inst. lib. 4. cap. 17. S. 39.
(3) Arcud. lib. 3. cap. 28.
(4) Innoc. III. lib. 4. Myst. cap. G.
(5) Durand. lib. 4. de Div. Oſſic. c. 41. n. 15.
(6) Ap. Tournely Comp. de Euch. qu. 4. art.
6. pag. 184.
- 275
Ma queste opinioni, come scrive il cardinal
Gotti (1), da tutti sono state abbandonate;
e non mancano altri che le notano di te
merita. La vera e comune sentenza con San
Tommaso (2), insegna che Gesù Cristo con
sacrò proferendo le parole, Hoc est corpus
meum, Hic est sanguis meus. E nello stesso
modo consacrano al presente i sacerdoti,
proferendo le stesse parole in persona di
Cristo; e non già solo narrative, ma anche
significative, cioè applicando la loro signifi
cazione alla materia presente, come anche
comunemente insegnano i dottori con San
Tommaso (5).
48. Disse di più il Caterino, che per la
consacrazione alle parole dette dal Signore,
bisogna anche aggiungere le preghiere che
le precedono, o che le sieguono secondo i
greci. Ed a questa opinione si attaccò il P.
Le Brun dell'Oratorio (4). Ma i teologi con
S. Tommaso (5), e colla sentenza comune,
insegnano che Cristo consacrò colle stesse
parole, con cui oggi consacrano i sacerdoti;
e che le preghiere poste nel canone della
Messa debbono recitarsi per necessità di

(1) Gotti Theol. de Euch. qu. 2. S. 1. num. 2.


(2) S. Thom. 3. part. qu. 78. art. 1.
(3) S. Thom. loco cit. art. 5.
(4) Le Brun tom. 3. rer. Liturg. pag. 212.
(5) S. Thom 3. part. qu. 78. art. 5.
276
precetto, ma non già di sacramento. Il con
cilio di Trento nella sessione 15 capo 1 di
chiarò che il Salvatore post panis vinique
benedictionem se suum ipsius corpus illis prae
bere, ac suum sanguinem, disertis ac perspi
cuis verbis testatus est: quae verba a sanctis
evangelistis commemorata, et a D. Paulo
postea repetita, cum propriam illam et aper
tissimam significationem prae se ferant, se
cundum quam a Patribus intellecta sunt etc.
Quali furono le parole commemorate dagli
evangelisti, che portano seco l'aperto lor
significato, e colle quali Gesù attestò chia
ramente di dare ai discepoli il suo corpo,
se non quelle: Accipite, et comedite, hoc
est corpus meum ? Dunque con tali parole,
e non altre, il Signore convertì il pane nel
suo corpo, come scrisse S. Ambrogio (1):
Consecratio igitur quibus verbis est, et cujus
sermonibus? Domini Jesu. Nam reliqua om
nia, qua dicuntur, laudem Deo deferunt;
oratio praemittitur pro populo, pro regibus,
pro, ceteris; ubi venitur ut conficiatur vene
rabile sacramentum, jam non suis sermoni
bus sacerdos, sed utitur sermonibus Christi.
S. Gio. Grisostomo (2), rammemorando le
stesse parole, Hoc est corpus meum, scrisse:

(1) S. Ambros. de Sacram. lib. 4. cap. 4.


(2) S. Joan. Chrysost. Hom. 1. de Prod. Jude.
2

Hoc verbum Christi transformat ea,


posita sunt. Lo stesso scrisse S. Gio. Dama
sceno: Dixit pariter Deus, Hoc est corpus
meum, ideoque omnipotenti eius praecepto,
donec veniat efficitur.
49. Inoltre lo stesso concilio nel capo 5
dice: Et semper hac fides in ecclesia Dei
fuit, statim post consecrationem verum Do
mini nostri corpus, verumque eius sanguinem
sub panis et vini specie... eristere... ex vi
verborum. Dunque per forza delle parole,
cioè di quelle che stan commemorate dagli
evangelisti subito dopo la consacrazione, il
pane si converte nel corpo e il vino nel
sangue di Gesù Cristo. Molto poi differisco
no queste due proposizioni, Hoc est corpus
meum, e l'altra, Quaesumus facere digneris,
ut nobis corpus fiat Jesu Christi, oppure
come dicono i greci, Fac hunc panem cor
pus Christi; poichè la prima dinota esservi
il corpo di Cristo nello stesso momento, in
cui la proposizione è proferita; ma la se
conda significa una semplice preghiera, per
impetrare che l'obblazione si faccia corpo,
con senso non determinato, ma sospeso ed
aspettativo. Il concilio dice che la conver
sione del pane e del vino nel corpo e san
gue di Cristo si fa ea vi verborum, non
già ex vi orationum Scrive S. Giustino (1):
(1) S. Justin. Apol. 2.
278
Eucharistiam confici per preces ab ipso Ver
bo Dei profectas, e poi spiega che queste
preci furono, Hoc est corpus meum. Ma la
preghiera che si fa nel canone, non fu pro
ferita ab ipso Verbo Dei. Parimente S. Ire
neo (1) scrive: Quando mixtus calix, et
factus panis percipit verbum Dei, fit Eucha
ristia corporis Christi. Nella consacrazione
fuori delle parole, Hoc est corpus meum,
Hic est sanguis meus, o simili, non si tro
va che Gesù Cristo abbia proferite altre pa
role. Onde, considerate tutte queste cose,
pare che l'opinione del P. Le Brun non
abbia grado di soda probabilità.
5o. Si oppone che da più Padri si dice
consacrarsi l'Eucaristia colle preci insieme
e colle parole di Cristo. Si risponde che
sotto il nome di preci s'intendono le stes
se parole di Cristo, Hoc est corpus meum,
come appunto scrive S. Giustino (2), il qua
le dice espressamente che le preghiere con
cui si fa l'Eucaristia, sono le parole, Hoc
est etc. E prima lo scrisse S. Ireneo (5),
dicendo che la divina invocazione, con cui
si fa l'Eucaristia, è la divina parola. E lo

(1) S. Iren. lib. 5. cap. 2.


(2) S. Justin Apolog. 2.
(3) S. Iren. lib. 4. cap. 24 e lib. 5. cap. 2.
279
stesso scrisse poi S. Agostino (1), ove significò
che la preghiera mistica, colla quale disse (2)
farsi l'Eucaristia, consiste nelle parole di
Cristo Hoc est etc., siccome anche le forme
degli altri sacramenti si chiamano preci, per
chè sono parole sacre, che hanno la virtù
d'impetrare da Dio l'effetto del sacramenti.
Si oppongono inoltre alcune liturgie, come
quelle di S. Giacomo, S. Marco, S. Cle
mente, S. Basilio e S. Gio. Grisostomo, ove
par che nella consacrazione dell'Eucaristia,
oltre le parole di Cristo, si richiedano altre
preci, come quella che abbiamo nel canone:
Quaesumus... ut nobis corpus et sanguis fiat
dilectissimi Filii tui etc. Questa preghiera si
fa anche nella Messa de greci, ma come
scrive il Bellarmino (5), essendo stati inter
rogati i greci da Eugenio IV., per qual fine
dopo le parole Hoc est corpus meum ed Hic
est sanguis etc., proferivano le suddette pa
role ut nobis fiat corpus etc., risposero che
aggiungeano quella preghiera, non già per
convalidare la consacrazione, ma acciocchè
il sacramento giovasse alla salute delle ani
me che lo riceveano.

(1) S. Aug. Serm. 28. de Verb. Dom.


(2) Idem lib. 3. de Trinit. cap. 4.
(3) Bellarm. lib. 4. de Euch. cap 19.
28o -

51. Con tutto ciò dicono i teologi (1) non


esser di fede che Cristo abbia consacrato
colle sole parole riferite, ed abbia ordinato
che con quelle sole da sacerdoti si consa
crasse; poichè sebbene questa sentenza sia
comune, e molto consona coi sentimenti del
concilio di Trento, nondimeno in niun luo
go sta dichiarato di fede con qualche cano
ne dalla chiesa; e benchè i santi Padri l'han
molto avvalorata colla loro autorità, nul
ladimanco non l'han chiamata certa di fede.
Tanto più che come attesta Alfonso Salme
rone nel luogo citato, essendo stato richiesto
il concilio di Trento di spiegar la forma,
con cui Cristo propriamente consacrò questo
sacramento, i Padri stimaron bene di non
definirla. E Tournely (2) risponde a tutte le
obbiezioni che possono farsi da coloro che la
volessero tenere come certa di fede. Ma se
non è certa di fede, almeno è senza dubbio
comune con S. Tommaso (5), ed è moral
mente certa, nè la contraria può dirsi solida
mente probabile. Sicchè peccherebbe grave
mente il sacerdote, se omettesse le prece
denti preci, ma validamente consacrarebbe,

(1) Salmeron. tom. 9. Tract. 13. pag. 88. e


Tournely de Euch. qu. 4. art. 6. pag. 19o. vers.
Quaer. -

(2) Tournely loco cit. pag. 191. vers. Dices 1.


(3) S. Thom. 3. part. qu. 78. art. 1. a 4.
281
proferendo le sole parole dette da Cristo.
Se poi nella consacrazione del sangue oltre
le parole Hic est calix sanguinis mei, siamo
di essenza ben anche le altre che son no
tate nel messale, è gran questione tra gli
autori, i quali si possono osservare nella
nostra Teologia Morale (1): molti l'afferma
mo, e pretendono esser S. Tommaso dalla
loro parte, il quale (2) scrisse: Et ideo illa
quae sequuntur, sunt essentialia sanguini,
prout in hoc sacramento consecratur; et ideo
oportet, quod sint de substantia forma. Ma
la sentenza opposta degli altri è più comu
me, e questa dice non esserle contrario San
Tommaso, mentre il Santo scrisse che le pa
role seguenti bensì appartengono alla sostan
za, ma non all' essenza della forma ; onde
concludono che le altre parole non sono già
di essenza, ma solo spettano all'integrità
della forma, in modo che il sacerdote che
omettesse le parole seguenti, peccherebbe
senza dubbio gravemente, ma validamente
consacrarebbe.
52. Giova qui notare che dal concilio di
Trento nella Sess. 22 con nove canoni stan
condannati nove errori de novatori circa il

(1) De Liguori Theolog. Mor. tom. 2. dub. 6.


de Euchar. cap. 1. dub. 6. qu. 2. num. 223.
(2) S. Thom. in 4. Dist. 8. qu. 2. art. 2. qu. 2.
282 -

sacrificio della Messa, e questi sono: 1.º che


la Messa non è vero sacrificio; o che non
si offerisce per altro, che per amministrar
l'Eucaristia a fedeli; 2.º che colle parole
Hoc facite in meam commemorationem, Cri
sto non istituì sacerdoti gli Apostoli, nè
ordinò che i sacerdoti offerissero il suo
corpo e sangue; 5.º che la Messa non è
che ringraziamento, o memoria del sacrifi
cio della croce, ma non già sacrificio pro
piziatorio : oppure che giova solo a chi si
comunica ; 4.º che con tal sacrificio si de
roga a quello della croce; 5.º ch'è una im
postura il celebrare in onore de Santi, e per
ottenere la loro intercessione; 6.º che nel
canone vi sono errori; 7.º che le cerimonie,
vesti e segni usati dalla chiesa cattolica so
no incentivi di empietà ; 8.º che sono il
lecite le Messe private, in cui il solo sa
cerdote si comunica; 9.º che debbasi con
dannar l'uso di dire parte del canone in se
greto, ma che tutto dee recitarsi in lingua
volgare; e così anche dee condannarsi il
mescolare l'acqua col vino nel calice. Con
tro questi errori io ne ho scritto a lungo
nella mia opera Dogmatica contro i Rifor
mati alla sessione 22.
283

C O N FUT A Z I O N E X I.

DEGLI ERRORI DI LUTERO E CALVINO,

Sommario de punti principali. S. I. che ben


vi è libero arbitrio. S. II. che la legge di
vina non è impossibile. S III. che le ope
re son necessarie. S IV. che la sola fede
non giustifica. S. V. della incertezza della
giustizia, perseveranza e salute eterna. S. VI.
Dio non è autor del peccato. S. VII. Dio
non predestina alcuno all'inferno. S. VIII.
l'autorità del concili ecumenici è infallibile.
S I.
DEL LIBERO ARBITRIo,

Ie Cea scrissi nella Storia delle eresie,


gli errori di Lutero, di Calvino e del loro
discepoli, che sempre hanno aggiunti errori
ad errori, sono quasi innumerabili; special
mente, come notai col Prateolo, parlando
dell'eresia di Calvino (1), si contano 2o7
errori di Calvino contro la fede, ed un al
tro autore ne numera sino a 14oo. Qui per
tanto ho preso a confutare gli errori più
principali così di Calvino, come degli altri
movatori; poichè la confutazione degli altri

(1) Tom. 2. cap. 11. sec. 16. art. 3. S. 3. p. 159.


284
errori si trova presso il Bellarmino, il Gotti
ed altri molti autori che l'han fatta. Uno
de capitali errori di Calvino fu quello di di
re che solo Adamo ebbe il libero arbitrio,
ma col suo peccato, non solo da esso, ma
da tutti i suoi posteri si è perduta la liber
tà, onde il libero arbitrio, come dice Cal
vino, è diventato titulus sine re. Ma que
sto errore è stato condannato dal concilio
di Trento con uno speciale anatema nella
Sess. 6 al can. 5: Si quis liberum hominis ar
bitrium post Adae peccatum amissum et eartin
ctum esse diarerit, aut rem esse de solo titulo,
imo titulum sine re, figmentum denique a Sa
tana invectum in ecclesiam ; anathema sit.
2. Il libero arbitrio contiene due libertà,
l'una chiamata di contraddizione, quale è
quella di fare o tralasciare un'azione; l'al
tra che si chiama di contrarietà, ch'è di fa
re un'azione o di fare l' opposta, come di
far bene o male. Ambedue queste libertà ben
sono rimaste all'uomo, come abbiamo dalla
Scrittura. La prima contraddizione di fare o
non fare il bene, l'abbiamo da diversi testi:
Deus ab initio constituit hominem, et reliquit
illum in manu consilii sui. Adjecit mandata
et praecepta sua; si volueris mandata servare,
conservabunt te. Eccl. 15. 14. ad 16. In ar
bitrio viri erit, sive faciat, sive non faciat.
Num. 5o. 14. Potuit transgredi, et non est
»85
transgressus. Eccl. 51. 1 o. Nonne manens tibi
manebat, et venumdatum in tua erat potesta
te ? Actor. 5. 4. Sub te erit appetitus ejus, et
tu dominaberis illius. Gen. 4. 7. La libertà
poi di contrarietà l'abbiamo da altri testi :
Quod proposuerim vobis vitam et mortem, be
nedictionem et maledictionem. Deut. 5o. 19.
Ante hominem vita et mors, bonum et malum;
quod placuerit ei, dabitur illi. Eccl. 15. 18.
Ed acciocchè i settarj non restringano il sen
so di questi passi al solo stato dell' inno
cenza , aggiungiamo questi altri che parlamo
del tempo posteriore al peccato di Adamo :
Ut Domino serviatis , optio vobis datur; eli
gite hodie quod placet, cui servire potissimum
debeatis, utrum diis etc. Jos. 24. 15. Si quis
vult post me venire, abneget semetipsum. Luc.
g. 25. Qui statuit in corde suo firmus non
habens necessitatem , potestatem autem ha
bens suæ voluntatis. 1. Cor. 7. 57. Dedi illi
tempus , ut poenitentiam ageret, et non vult
poenitere. Apoc. 2. 2 1. Si quis.... aperuerit
mihi januam, intrabo ad illum. Apoc. 5. 2o.
Vi sono molti altri testi consimili, ma questi
bastano a far vedere esser rimasto all'uomo
anche dopo il peccato originale il libero arbi
trio. Oppone Lutero quel passo d'Isaia: Bene
quoque, aut male, si potestis, facite. Isa. 41.
25. Ma dovea accorgersi Lutero che il pro
feta ivi non parla agli uomini, ma agl' idoli,
286
i quali, come dice Davide, non sono abili
a far nulla: Os habent, et non loquentur;
oculos habent, et non videbunt etc. Psal. I 15.
5. et seqq.
5. Posto ciò non basta, come voleano
Lutero e Calvino co' Giansenisti, a meritare
o demeritare la libertà dalla coazione, o sia
violenza. E questa fu appunto la terza pro
posizione di Giansenio condannata come ere
tica : Ad merendum et demerendum in statu
natura lapsae non requiritur in homine liber
tas a necessitate, sed sufficit libertas a coac
tione. In tal modo potrebbe dirsi che an
che le bestie hanno il libero arbitrio, men
tre senza violenza esse son portate sponta
neamente, secondo la loro maniera, a se
guire i piaceri sensibili; ma per la vera li
bertà dell'uomo bisogna ch'egli abbia la li
bertà dalla necessità, sì che resti indifferente
ad eleggere quel che vuole, secondo scrive
l'Apostolo: Non habens necessitatem, potesta
tem autem habens suae voluntatis. 1. Cor 7.57.
E questo è quel volontario che si richiede
così a meritare, come a demeritare. S. Ago
stino (1) parlando del peccato, scrive: Pec
catum usque adeo voluntarium, cioè libero,
com'egli stesso dopo lo spiega, malum est

(1) S. August. lib. de vera Relig. cap. 14.


287
ut nullo modo sit peccatum, si non sit volun
tarium. E ne apporta la ragione: Servos suos
meliores esse Deus judicavit, si ei servirent
liberaliter; quod nullo modo fieri posset, si
non voluntate sed necessitate servirent.
4. Dicono che Dio è quegli che in noi
opera tutto il bene che facciamo, secondo
parlano le Scritture: Deus qui operatur omnia
in omnibus. 1. Cor. 12.6. Omnia enim opera
nostra operatus est nobis. Isa. 26. 12. Ipse
faciam, ut in praeceptis meis ambuletis. Ezech.
56. 27. Rispondiamo: non ha dubbio, che
il libero arbitrio dopo il peccato, non già
fu estinto, ma restò debilitato ed inclinato
al male, come parla il concilio di Trento:
Tametsi in eis liberum arbitrium minime ex
tinctum esset, viribus licet attenuatum et in
clinatum. Sess. 6. cap. 1. Inoltre non ha dub
bio che Iddio fa tutto il bene in noi, ma
lo fa insieme con noi, come scrive S. Pao
lo : Gratia autem Dei sum id quod sum ....
sed gratia Dei mecum. 1. Cor. 15. 1o. Si no
ti sed gratia Dei mecum ; Iddio ci eccita al
bene colla grazia preveniente, e ci soccorre
a perfezionarlo colla grazia adjuvante; ma
vuole che anche noi uniamo alla sua grazia
l'opera nostra, e perciò egli ci esorta a
cooperare per quanto possiamo: Convertimini
ad me. Zac. 1. 5. Facite vobis cor novum.
Ez. 18. 51. Mortificate ergo membra vestra...
288 -

expoliantes vos veterem hominem cum acti


bus suis, et induentes etc. Col. 5. 5. et seqq.
E rimprovera coloro che resistono alle sue
chiamate: Vocavi et renuistis. Prov. 1. 24.
Quoties volui congregare filios tuos... et no
luisti? Matth.25.57. Vos semper Spiritui San
cto resistitis. Act. 7. 51. Tutte queste chia
mate divine e rimproveri sarebbero vani ed
ingiusti, se Dio facesse tutto circa la nostra
salute eterna, senza che noi vi cooperassimo;
ma no, Dio ſa tutto, e nel bene che fac
ciamo, egli ci mette la massima parte, ma
vuole che noi ci mettiamo ancora quella
picciola fatica che possiamo metterci: onde
dicea S. Paolo: Abundantius illis omnibus
laboravi, non ego autem, sed gratia Dei
mecum. 1. Cor. 15. 1o. Per questa divina
grazia poi non s'intende la grazia abituale
che rende santa l'anima, ma l'attuale, pre
veniente e adjuvante, la quale ci dà forza
di operare il bene; e quando ella è efficace,
non solo ci dona tal forza, siccome fa la
grazia sufficiente, ma di più ci fa operare
il bene attualmente. Da questo errore poi,
di essersi col peccato estinto nell'uomo il
libero arbitrio, ne deducono i novatori altri
errori, cioè che la legge del decalogo è im
possibile ad osservarsi : che le nostre opere
non sono necessarie alla salute, ma basta
la sola fede : che alla giustificazione del
289
peccatore non si richiede la nostra coopera
zione, poichè ella si fa pei soli meriti di
Cristo, ancorchè l'uomo resti peccatore ; e
di questi errori parleremo ne seguenti para
grafi.
S. II.
CIIE LA DIVINA LEGGE

NoN È IMPossIBILE AD ossERVARsi.

5. Avere perduto l'uomo il libero arbi


trio, dicono i settari essergli impossibile
l'osservanza del precetti del decalogo e spe
cialmente del decimo e del primo. Parlando
del decimo precetto non concupisces, dicono
che questo non può da noi osservarsi, e
perchè? Perchè suppongono in ciò una fal
sità. Dicono che la concupiscenza in sè è
peccato ; onde poi insegnano esser peccati
mortali, non solo i moti di concupiscenza
in atto secondo, che prevengono il consenso,
ma anche i moti in atto primo che preven
gono la ragione, o sia l'avvertenza. Ma i
cattolici giustamente insegnano che i moti
di concupiscenza in atto primo che preven
gono l'avvertenza, non sono peccati, nè mor
tali, nè veniali, ma solamente difetti naturali
secondo la nostra natura corrotta, e che Dio
non gl'imputa a colpa. I moti poi che pre
vengono il consenso, al più son peccati
LIG. Storia delle Eresie T III. N
2O O

si quando noi trascuriamo di scacciarli


dalla nostra mente, dopo che li abbiamo av
vertiti, siccome dicono il Gersone ed i Sal
maticesi con S. Tommaso; perchè in tal ca
so il pericolo del consenso, che vi può es
sere al cattivo desiderio nel non resistere
positivamente, e scacciare quel moto di con
cupiscenza, non è prossimo, ma solamente
rimoto. Ma comunemente poi i dottori ne
eccettuano i moti di dilettazione carnale,
mentre a questa sorta di moti non basta,
negative se habere, come parlano i dottori,
ma dobbiamo noi positivamente resistere;
altrimenti, se essi sono alquanto veementi,
posson facilmente attrarsi il consenso della
volontà: del resto trattandosi di altra mate
ria, il solo consenso, come si è detto, del
desiderio di un male grave, è peccato mortale.
Ora il precetto così inteso, chi mai può dire
che sia impossibile ad osservarsi, coll' ajuto
della divina grazia, la quale non mai ci ab
bandona ? Se l' uomo avvertendo il mal de
siderio vi consente, o si diletta morosamente
in pensarvi, giustamente si fa reo di colpa
grave, o almeno leggiera, giustamente avver
tendoci il Signore: Ne sequaris in fortitudine
tua concupiscentiam cordistui, Eccl. 5. 2.: Post
concupiscentias tuas non eas, Eccl. 18.5o.: Non
ergo regnet peccatum in vestro mortali corpore,
ut obediatis concupiscentiis ejus. Rom. 6. 12.
29 I
Si è detto di sopra, o almeno leggiera, per
chè altra è la dilettazione dell'oggetto malo,
altra del pensiero di un oggetto malo; que
sta dilettazione del pensiero per sè non è
mortalmente mala, ma solo leggiermente,
ed essendovi giusta causa, può essere affatto
innocente. Intendesi ciò nondimeno, purchè
si abbomini l'oggetto malo; ed inoltre pur
chè la cogitazione non fosse inutile, e la
dilettazione di tal cogitazione recasse ad al
cuno pericolo di dilettarsi dello stesso og
getto malo; poichè allora, se il pericolo
fosse prossimo, tale dilettazione sarebbe gra
vemente colpevole. Quando poi all'incontro
la concupiscenza ci assalta senza nostra vo
lontà, allora non vi è colpa, perchè Dio
non ci obbliga a fare ciò che non possiamo.
L'uomo è composto di carne e spirito, che
sempre tra loro naturalmente pugnano; onde
non è in nostra potestà di non sentire spes
o moti ripugnanti alla ragione. Non sarebbe
Vi quel padrone, il quale imponesse
al servo che non abbia sete? Che non senta
freddo? Nell'antica legge Mosaica era im
posta la pena ai soli delitti attuali esterni,
dal che poi gli Scribi e i Farisei perversa
mente ne deduceano, che i peccati interni non
eran proibiti; ma il nostro Redentore nella
nuova legge ha spiegato che anche i deside
rj pravi sono vietati: Audistis, quia dictum
292
est antiquis: Non mochaberis. Ego autem dico
vobis: quia omnis qui viderit mulierem ad con
cupiscendum eam, jam moechatus est eam in
corde suo. Matth. 5. 27. et 28. E con ragio
ne, poichè se non si ributtano i mali desi
derj, difficilmente possono evitarsi i peccati
attuali esterni. Ma i desideri ributtati son
più presto materia di merito, che di castigo.
Gemea S. Paolo molestato da stimoli carna
li, e cercava di esserne liberato; ma Dio
gli rispose che dovea bastargli la sua grazia:
Datus est mihi stimulus carnis meae... prop
ter quod ter Dominum rogavi, ut discederet
a me; et dixit mihi: Sufficit tibi gratia mea;
nam virtus in infirmitate perficitur. 2. Cor. 12.
7. et seqq. Nota virtus perficitur; sicchè tali
concupiscenze rigettate non infettano, ma
accrescono la nostra virtù. E qui bisogna
anche avvertire quel che scrive l'Apostolo,
che Dio non permette che noi siamo tentati
oltre le nostre forze: Fidelis autem Deus est,
qui non patietur vos tentari supra id quod po
testis, sed faciet etiam cum tentatione pro
ventum. 1. Cor. 1o. 15.
6. Tanto più dicono poi esser impossibile
ad osservarsi il primo precetto: Diliges Do
minum Deum tuum ex toto corde tuo. Come
è possibile, dice Calvino, vivendo noi nella
natura corrotta, il tenere occupato continua
mente tutto il cuore nell' amore divino ?
295
Così l'intende Calvino. Ma non V intende
così S. Agostino (1). Il Santo consiglia che
tal precetto in questa vita da noi non può
adempirsi in quanto alle parole, ma solo in
quanto all'obbligo; e si adempisce coll'ama
re Dio sopra ogni cosa, cioè preferendo la
divina grazia ad ogni bene creato. Lo stesso
insegna S. Tommaso l'Angelico (2), dicendo
che il precetto di amare Dio con tutto il
cuore si osserva con amarlo sovra ogni co
sa: Cum mandatur quod Deum ex toto cor
de diligamus, datur intelligi quod Deum su
per omnia debemus diligere. Sicchè la so
stanza del primo precetto consiste nell' ob
bligo di preferire Dio ad ogni cosa; onde
disse Gesù Cristo: Qui amat patrem aut ma
trem plus quam me... non est me dignus.
Matth. 1o. 57. E ciò anche dicea S. Paolo
confidato nella divina grazia, che per qua
lunque bene creato non si sarebbe mai se
parato dal divino amore: Certus sum enim,
quia neque mors, neque vita, neque angeli,
neque principatus. . . neque creatura alia po
terit nos separare a charitate Dei. Rom. 8.
58. et 59. Lo stesso poi che del primo e
decimo precetto, dicea Calvino (5) degli
(1) S. Aug. lib. de Spir. et lit. cap. 1. et lib.
de Perf. Just. Resp. 17.
(2) S. Thom. 2. 2. qu. 44. art. 8. a 2.
s
(3) Cale. in Antid Trid. Sess. 6. cap. 12. l
294
altri precetti, asserendo tutti essere impos
sibili.
7. Oppongono per 1.º quel che disse San
Pietro nel concilio di Gerusalemme: Nunc
ergo quid tentatis Deum, imponere jugum su
per cervices discipulorum, quod neque patres
nostri, negue nos portare potuimus? Act. 15.
io. Ecco che lo stesso Apostolo dichiarò
impossibile la legge. Ma si risponde che non
parla S. Pietro della legge morale del deca
logo, ma della cerimoniale, e dice non do
versi imporre a cristiani, mentre era stata
così difficile agli Ebrei ad osservarsi, che
pochi l'aveano adempita ; benchè tra essi
non fossero mancati altri che l'adempirono,
come attesta S. Luca già di S. Zaccaria e
S. Lisabetta: Erant autem justi ambo ante
Deum, incedentes in omnibus mandatis etc.
Luc. 1. 6. -

8. Oppongono per 2.º quel che disse di


se stesso l'Apostolo: Scio enim quia non ha
bitat in me, hoc est in carne mea, bonum.
Nam velle, adiacet mihi; perficere autem bo
num, non invenio. Rom. 7. 18. Dice dunque:
Non habitat in me bonum ; sicchè si dichia
ra inosservante della legge. Ma bisogna a
queste unire le altre parole, hoc est in carne
mea. Vuol dire S. Paolo che la carne ripu
gnava allo spirito, e quantunque conservasse
la buona volontà, non poteva esentarsi da
200

ogni moto cattivo di concupiscenza; si


sti moti, come dicemmo, non gl'impediva
no l' osservanza della legge.
9. Oppongono per 5.º quel di S. Giovan
ni: Si dixerimus, quoniam peccatum non
habemus, ipsi nos seducimus. 1. Joan. 1. 8.
Si risponde: con ciò l'Apostolo non dichiara
esser a noi impossibile osservare il decalogo,
sì che niuno sia esente da peccati mortali,
ma dice che secondo la presente debolezza
della natura corrotta, niuno è esente da pec
cati veniali, come dichiarò il concilio di
Trento ( Sess. 6. cap. 1 1. ) : Licet enim
in hac mortali vita, quantumvis sancti et justi
in levia saltem et quotidiana, qua etiam ve
nialia dicuntur, peccata, quandoque cadant,
non propterea desinunt esse justi.
1o. Oppongono per 4 º quel che scrisse
S. Paolo ( Gal. 5. 15. D : Christus nos re
demit de maledicto legis, factus pro nobis
maledictum. Con ciò vogliono i settari che
Gesù Cristo pei meriti della sua morte ci
ha liberati dall'obbligo di osservar la legge.
Si risponde : altro è dire che Cristo ci ha
liberati dalla maledizione della legge, men
tre la sua grazia ci dà forza di osservarla,
e così evitare la maledizione fulminata dalla
legge contro i suoi trasgressori. Altro è dire
che ci ha liberati dall'osservanza della legge,
il che è affatto falso.
296
1 1. Oppongono per 5.º un altro testo dell'
Apostolo: Sciens hoc, quia lex justo non
est posita, sed injustis et non subditis, im
piis et peccatoribus. 1. Tim. 1. 9. Ripetono
con quest'altro passo quel che han detto di
sovra, che il nostro Redentore ci ha liberati
dall' obbligo della legge, e che quelle parole
che disse a quel giovine ( Matth. 19. 17. ):
Si autem vis ad vitam ingredi, serva mandata;
le disse ironicamente; poichè sapendo esser
impossibile a noi figli di Adamo l'osservare i
precetti, disse così per deluderlo, come di
cesse : Serva mandata, si potes. Si risponde
con S. Tommaso (1) che la legge è data co
sì a giusti, come agl'ingiusti in quanto alla
potestà direttiva, la quale dirige tutti gli uo
mini a fare quel che debbono; ma in quanto
alla potestà coattiva, la legge non è posta a
coloro che volontieri l'osservano, senza esser
costretti ad osservarla, ma agli empi che vo
glion sottrarsi dalle leggi, poichè questi soli
son quelli che debbon costringersi ad osser
varla. Il dire poi co novatori che Cristo volle
deludere quel giovine, dicendogli: Serva man
data, questo è parlare da eretico, che scon
volge le Scritture come gli piace, e per
ciò non merita risposta. La verità è quella
che insegna il concilio di Trento : Deus

(1) S. Thom. 1. 2. qu. 96. art. 5.


297
impossibilia non jubet, sed jubendo monet et
facere quod possis, et petere quod non possis,
et adjuvat ut possis. Sess. 6 cap. 1 1. Iddio
dà a ciascuno la grazia ordinaria per osser
vare i precetti, e dove abbisogna una gra
zia più abbondante, cerchiamola noi a Dio,
ed egli è pronto a darcela. -

12. Questa fu la risposta che diede Sant'


Agostino (1) agli Adrometini, i quali gli op
poneano: ma se Dio non ci dà la grazia ef
ficace per adempire la legge, perchè tu ci
riprendi, se noi non l'adempiamo ? Cur me
corripis ? et non potius ipsum rogas, ut in
me operetur et velle (2)? Il Santo rispose:
Qui corrigi non vult, et dicit: ora potius pro
me, ideo corripiendus est, ut faciat ( cioè
oret ) etiam ipse pro se. Rispose dunque
S. Agostino che benchè l'uomo non riceva
da Dio la grazia efficace per adempir la
legge, pure deve esser corretto, e pecca
se non l'adempisce, perchè potendo prega
re, e colla preghiera ottenere l'ajuto più
abbondante che gli faccia adempir la legge,
lascia di pregare, e così non adempisce la
legge. Altrimenti, se non fosse concesso a
tutti il pregare, e colla preghiera ottener

(1) Ap. S. Aug. de corrept. et grat. tom. 1o.


cap. 4. num. 6. in fine. -

(2) S. Aug. ibid. cap. 5. num. 7.


N 5
298
la forza di operare il bene, ma vi bisognas
se un'altra grazia efficace per pregare, a mio
sentimento , irragionevolmente avrebbe ri
sposto S. Agostino agli Adrometini, che l'uo
mo dev'esser corretto, quando non prega
per sè, giacchè avrebbero quelli potuto re
plicare, ma come vogliamo pregare, se non
abbiamo la grazia efficace di pregare ?
S III.
CHE LE OPERE BUONE

SON NECESSARIE ALLA SALUTE ,


NÈ BASTA LA solA FEDE.

15. Lemo disse che non solo negl'infe


deli e nel peccatori non si trova alcuna ope
ra buona, ma che anche le opere del giusti
sono meri peccati, o almeno viziate da pec
cati. Ecco le sue parole: In omni opere bo
no justus peccat (1). Opus bonum, optime
factum, est mortale peccatum secundum ju
dicium Dei (2). Justus in bono opere pec
cat mortaliter (5). Lo stesso scrisse poi Cal
vino, come riferisce il Becano (4), dicendo

(1) Luther. in Assert. art. 31.


(2) Idem art. 32.
(3) Idem art. 36.
(4) Becan. Man. contr. lib. 1. cap. 18. ex Cale.
Inst. lib. 2. cap. 1. 5. 9. etc.
299
che le opere del giusti sono mera iniquità.
Oh Dio, io rifletto, dove arriva la cecità
della mente umana, quando perde la luce
della fede! Questa bestemmia di Lutero e
di Calvino fu giustamente condannata dal
concilio di Trento ( Sess. 6 can. 25 ) : Si
quis in quolibet bono opere justum saltem
venialiter peccare di cerit, aut, quod intolera
bilius est, mortaliter, atque ideopoenas aeter
nas mereri; tantumque ob id non damnari,
quia Deus ea opera non imputet ad damna
tionem: anathema sit. Ma dicono che in
Isaia si legge: Et facti sumus ut immundus
omnes nos, et quasi pannus menstruata uni
versa justitiae nostra. Isa. 64 6. Ma ivi non
si parla, come spiega S. Cirillo in detto luo
go, delle opere del giusti, ma delle iniquità
che in quel tempo commetteano gli Ebrei.
Ma come posson esser peccati le opere buo
ne, quando il Signore ci esorta a farle? Sic
luceat lux vestra coram hominibus, ut videant
opera vestra bona. Matth. 5. 16. No che non
sono peccati, ma sono care a Dio, e sono
necessarie a noi per ottener la salute. Sono
troppo chiare le Scritture: Non omnis qui
dicit mihi, Domnine, Domine, intrabit in re
gnum coelorum, sed qui facit voluntatem Pa
tris mei. Matth. 7. 21. Il far la volontà di Dio
è far opere buone: Si autem vis ad vitam in
gredi, serva mandata. Matth. 19. 17. L'eterno
5oo
giudice nel condannare i reprobi dirà lo
ro: Discedite a me maledicti etc. E perchè?
Esurivi enim , et dedistis mihi manducare ;
sitivi, et dedisti milii bibere etc. Matth. 25.
55. Patientia enim vobis necessaria est, ut
voluntatem Dei facientes, reportetis promis
sionen. Hebr. 1o. 56. Di più dice S. Gia
como: Quid proderit, fratres mei, si fi
dem quis dicat se habere, opera autem non
habeat ? Nunquid poterit fides salvare eum ?
Jac. 2. 14. Ecco la necessità delle opere alla
salute, per la quale la fede non basta ; ma
di ciò parleremo più distesamente appresso.
14 Ma oppongono i settari il testo dell'
Apostolo che dice: Non ex operibus justitiae,
quae fecimus nos, sed secundum suam miseri
cordiam salvos nos fecit, per lavacrum rege
nerationis et renovationis Spiritus Sancti, quem
effudit in nos abunde per Jesum Christum Sal
vatorem nostrum ; ut justificati gratia ipsius,
heredes simus secundum spem vitae aeterna. Ad
Tit. 5.5. ad 7. Dunque, dicono, tutte le opere
nostre anche di giustizia niente vagliono a
salvarci, ma tutta la speranza della grazia e
della salute dobbiamo riporla in Gesù Cristo,
che coi meriti suoi ci ha ottenuta la grazia
e la salute. Per rispondere a tutto adequa
tamente, bisogna distinguere più cose. La
grazia e la salute eterna possono da noi
meritarsi de condigno e de congruo: il merito
5o 1
de condigno induce nel rimunerante un de
bito di giustizia di rimunerarlo : il merito
de congruo non induce altro che una conve
nienza della rimunerazione, la quale per al
tro dipende dalla sua liberalità. Ora per il
merito umano appresso Dio di giustizia, per
parte dell'atto, si richiede che l'opera sia
per sè onesta; per parte dell' operante si
richiede ch'egli sia in grazia; per parte poi
di Dio si richiede che vi sia la promessa
del premio; poichè Iddio può ben esigere
dall'uomo come suo supremo Signore ogni
servitù senz'alcuna mercede. Onde acciocchè
svi sia debito di giustizia, bisogna che vi
preceda la gratuita promessa divina, per
cui lo stesso Dio siasi gratis costituito de
bitore della mercede promessa; e secondo
tal ragione potè dire S. Paolo che la vita
eterna gli sarebbe spettata per giustizia a
riguardo delle sue buone opere: Bonum cer
tamen certavi, cursum consummavi, fidem
servavi; in reliquo reposita est mihi corona
justitiae, quam reddet mihi Dominus in illa
die justus judex. 2. Tim. 4. 7. et 8. Quindi
scrisse poi S. Agostino (1): Debitorem Do
minus ipse se fecit, non accipiendo, sed pro
mittendo. Non ei dicimus : Redde quod acce
pisti, sed: redde quod promisisti.

(1) S. August. in Psalm. 83.


5o2
15. Ecco quel che insegna la chiesa cattoli
ca: da niun uomo può meritarsi decondigno,
ma solamente de congruo, la grazia attuale
giustificante. Pertanto è tutta falsa la calun
mia apostaci da Melantone nell'apologia del
la Confessione pag. 157, che noi crediamo
di potersi meritar la giustificazione colle ope
re nostre. Il concilio di Trento ha dichiarato
( Sess. 6. cap. 8. ), e così tutti noi credia
mo, che i peccatori son giustificati gratuita
mente da Dio, e che niuna loro opera pre
cedente alla giustificazione può meritarla. Ha
dichiarato all'incontro il concilio, che l'uo
mo giustificato, quantunque non possa me
ritare de condigno la perseveranza finale
( Sess. 6 c. 15 ), nondimeno ben può me
ritare de condigno colle opere buone, che
fa in vigor della divina grazia, e de meriti
di Gesù Cristo, l'aumento della grazia e la
vita eterna; ed a chi nega ciò sta dal con
cilio fulminato l'anatema ( Sess. 6. can. 52. ):
Si quis dixeril hominis justificati bona opera
ita esse dona Dei, ut non sint etiam bona
ipsius justificati merita, aut ipsum justifica
tum bonis operibus, quae ab eo per Dei gra
tiam, et Jesu Christi meritum, cujus vivum
membrum est, fiunt, non vere mereri aug
mentum gratiae, vitam aeternam, et ipsius
vitae aeternae ( si lamen in gratia decesserit )
consecutionem, atque etiam gloriae augmentum:
3o5
anathema sit. Dunque tutto ciò che noi ri
ceviamo da Dio, lo riceviamo per la sua
misericordia, e pei meriti di Gesù Cristo;
ma Dio ha disposto per sua bontà, che col
le opere buone da noi fatte per virtù della
grazia possiamo meritar la vita eterna, per
ragion della promessa gratuita da lui fatta a
chi opera bene. Ecco come parla il concilio:
Justificatis hominibus, sive acceptam gratiam
perpetuo conservaverint, sive amssam recupe
raverint... proponenda est vita aeterna, et
tanquam gratia filiis Dei per Christum Jesum
misericorditer promissa; et tanquam merces ex
ipsius Dei promissione bonis ipsorum operibus
et meritis fideliter reddenda. Sess. 6. c. 16. Dun
que, replicano gli eretici, l'uomo che si salva
può gloriarsi di essere salvato per le opere
sue ? No, dice il concilio nel luogo citato :
Licet bonis operibus (merces) tribuatur... absit
tamen, ut christianus homo in se ipso vel con
fidat, vel glorietur, et non in Domino: cujus
tanta est erga omnes homines bonitas, ut eo
rum velit esse merita, quae sunt ipsius dona.
16. Cessino dunque i contrari, secondo
dicono i Calvinisti, di rimproverarci che noi
facciamo ingiuria alla misericordia di Dio
ed a meriti di Gesù Cristo, attribuendo ai
nostri meriti l'acquisto della salute. Noi di
ciamo che tutte le opere buone da noi non
si fanno se non in virtù della grazia che
5o4
Dio ci comunica pei meriti di Gesù Cristo,
onde tutti i nostri meriti son doni di Dio;
e se Dio ci dà la gloria in mercede de no
stri meriti, non la dà, perchè era tenuto a
darla, ma perchè ( a fine di animarci a
servirlo, e per renderci più sicuri della vita
eterna, se gli siamo fedeli ) ha voluto egli
per sua mera bontà gratuitamente obbligarsi
colla promessa di dar la vita eterna a chi lo
serve. Posto ciò, di che mai noi possiamo
gloriarci, mentre tutto quel che ci è dato,
lo riceviamo per la misericordia di Dio e
pei meriti di Gesù Cristo che ci vengono
comunicati ?
17. Che poi alle opere buone sia data
nell'altra vita la gloria eterna per mercede
di giustizia, sono troppo chiare le Scrit
ture che l'affermano, dove la gloria si
chiama mercede, debito, corona di giustizia
e paga per patto Unusquisque autem propriam
mercedem accipiet secundum suum laborem. 1.
Cor. 5. 8. Ei autem qui operatur merces non
imputatur secundum gratiam, sed secundum de
bitum. Rom. 4. 4. Si noti, sed secundum debi
tum = Reposita est mihi corona justitiae, quam
reddet mihi Dominus. 2. Tim. 4. 8. Conventio
ne autem facta cum operariis ex denario diur
no. Matth. 2o. 2. Ut digni habeamini in regno
Dei, pro quo et patimini. 2. Thessal. 1. 5.
Quia super pauca fuisti fidelis, supra multa
5o5
te constituam; intra in gaudium Domini tui.
Matth. 25. 21. Beatus vir qui suffert tentatio
nem, quoniam cum probatus fuerit, accipiet
coronam vitae, quam repromisit Deus diligen
tibus se Jac. 1. 12. Tutti questi testi dinotano
chiaramente che il merito dell' uomo giusto
è merito di giustizia e de condigno.
18. Ciò vien confermato da santi Padri.
S. Cipriano (1) scrive: Justitiae opus est...
ut accipiant merita nostra mercedem. S. Gio
van Grisostomo (2) dice ( il passo è lungo;
io l'accorcio, ma colle stesse parole ): Nun
quam profecto, cum justus sit Deus, bonos
hic cruciatibus affici sineret, si non in futuro
saeculo mercedem pro meritis parasset. S. Ago
stino (5) scrive : Non est injustus Deus, qui
justos fraudet mercede justitiae. In altro luo
go (4) dice : Nullane sunt merita justorum ?
Sunt plane; sed ut justi fierent, merita non
fuerunt: poichè non si sono fatti giusti pei
loro meriti, ma per la divina grazia. In altro
luogo disse: Deus cum coronat nostra merita,
quid aliud coronat quam sua dona? I Padri
del concilio Arausicano II. nel can. 18 asse
rirono : Debetur merces bonis operibus, si
fiant, sed gratia Dei, qua non debetur,
(1) S. Cypr. de unit. Eccles. -

(2) S. Joan. Chrysost. tom. 5. lib. 1. de Prov.


(3) S. Aug. lib. de Nat. et Grat. cap. 2.
(4) Idem Epist. 1o5.
5o6
praecedit ut fiant. Sicchè per concludere, tut
ti i nostri meriti dipendono dall'ajuto della
grazia, senza cui non possiamo averli; e la
mercede della salute dovuta alle nostre buo
ne opere fondasi nella promessa gratuita
mente a noi fatta da Dio pei meriti di Gesù
Cristo. -

19 Ma si oppone per 1.º quel che dice


S. Paolo ( Rom. 6. 25. ) : Gratia autem Dei,
vita aeterna, in Christo Jesu Domino nostro.
Dunque, dicono, la vita eterna è grazia della
divina misericordia, non è mercede dovuta
alle buone opere nostre. Si risponde: la vita
eterna ben si attribuisce alla misericordia di
Dio, mentr egli per sua misericordia l'ha
promessa alle opere buone. Con ragione poi
l'Apostolo chiama la vita eterna grazia,
mentre per sua grazia, Iddio si è fatto de
bitore della vita eterna a chi opera bene.
2o. Si oppone per 2.º che la vita eterna
si chiama ancora eredità: Scientes quod a
Domino accipietis retributionem hocreditatis.
Coloss. 5. 24. L'eredità, dicono, non si de
ve a cristiani come figli di Dio per merito,
ma solo per ragion di gratuita adozione. Si
risponde che a bambini si dona la gloria
per solo titolo di eredità ; ma agli adulti si
dà insieme come eredità, perchè son figli
adottivi, e si dà ancora per mercede delle
loro opere, mentre Iddio ha promessa loro
5o7
questa eredità, se osservano la legge ; sic
chè la stessa eredità è dono insieme, ed è
retribuzione dovuta ad essi pei loro meriti.
E ciò ben lo dichiara l'Apostolo dicendo,
a Domino accipietis retributionem hereditatis.
21. Si oppone per 5 º il Signore vuole
che quantunque adempiamo i precetti, ci
chiamiamo servi inutili: Sic et vos, cum fe
ceritis omnia quae praecepta sunt vobis, dici
te: Servi inutiles sumus, quod debuimus fa
cere, fecimus. Luc. 17. 1o. Se dunque siamo
servi inutili, dicono, come possiamo meri
tare colle opere la vita eterna ? Si risponde
che le opere mostre per se stesse, senza la
grazia, niente meritano; ma fatte colla gra
zia, meritano per giustizia la vita eterna,
a riguardo della promessa fatta da Dio a chi
le esercita. *
22. Si oppone per 4.º che le opere nostre
son dovute a Dio per ubbidienza come a
nostro supremo Signore, onde non posso
no meritare la vita eterna come dovuta per
giustizia. Ma si risponde che Iddio per sua
bontà, lasciando gli altri titoli, per cui giu
stamente potea da noi esigere tutti i nostri
ossequi, ha voluto obbligarsi colla promessa
di dare alle nostre opere buone la sua gloria
per mercede. Ma l'opera buona, replicano,
è tutta di Dio, onde qual mercede le spetta?
Rispondo : ella è tutta di Dio, ma non è
3 o8
totalmente di Dio; siccome all'incontro l'ope
ra buona è tutta nostra, ma non totalmente
nostra ; perchè Dio opera con noi, e noi
con Dio; ed a questa nostra cooperazione
Dio ha voluto promettere gratuitamente la
mercede della vita eterna.
25. Si oppone per 5.º che acciocchè l'ope
ra sia meritoria della gloria, si richiede che
fra l'una e l'altra vi sia la giusta propor
zione; ma qual proporzione mai può trovar
si fra l' opera nostra e la gloria eterna?
Non sunt condignae passiones hujus temporis
ad futuram gloriam quae revelabitur in nobis.
Rom. 8. 18. Si risponde che l'opera nostra
secondo sè, non informata dalla divina gra
zia, certamente non è degna della gloria;
ma informata poi dalla grazia, ben se ne
rende degna per la promessa fatta, e si fa
proporzionata talmente, che, come scrive
lo stesso Apostolo, momentaneum et leve
tribulationis nostra .... aeternum gloriae pon
dus operatur in nobis. 2. Cor 4. 17.
24. Si oppone per 6.º quel che dice San
Paolo : Gratia enim estis salvati per fidem ;
et hoc non ex vobis, Dei enim donum est,
et non ex operibus; ut ne quis glorietur. Ephes.
2. 8. et 9. Ecco, dicono, la grazia è quella
che ci salva per mezzo della fede che ab
biamo in Gesù Cristo. Ma ivi non parla già
l'Apostolo della vita eterna, ma della grazia
5o
che certamente non può da noi colle ie
meritarsi ; all'incontro Dio ha voluto, come
si è detto di sopra, che ben possa da noi
acquistarsi la gloria per la promessa di dar
la a chi adempisce i suoi precetti. Dunque,
replicano, se son necessarie le opere nostre
alla salute, non bastano a salvarci i soli me
riti di Gesù Cristo. Non signore, non ba
stano, ma vi bisognano anche le nostre ope
re; poichè il beneficio di Gesù Cristo è sta
to di ottenerci la facoltà di poter applicarci
i meriti suoi colle opere nostre. Nè in ciò
possiamo di noi gloriarci : poichè tutta la
virtù che abbiam di meritare il cielo, l' ab
biamo pei meriti di Cristo, onde tutta la
gloria è sua; siccome quando i tralci danno
frutto, tutta la gloria è della vite, che dà
loro l'umore per fruttificare. Sicchè il giu
sto in acquistar la vita eterna non si gloria
già nelle opere sue, ma nella divina grazia,
che pei meriti di Cristo gli dà la virtù di
meritarla. Ma colla bella dottrina del nova
tori vengonoi tolti quasi tutti i mezzi per
salvarci; mentre, posto che le nostre opere
non sono affatto necessarie alla salute, e
tutto fa Dio, e il bene ed il male, non ci
sono più necessari i buoni costumi, non le
buone disposizioni per ben ricevere i sacra
menti, non il mezzo della preghiera così in
culcata da tutte le divine Scritture. Oh la
51 o
dottrina più perniciosa che poteva inventare
il demonio per condurre sicuramente le ami
me all'inferno!
25. Veniamo ora all'altro punto proposto
nel predetto S III., se basti la sola fede a
salvarci, come diceano Lutero e Calvino, i
quali a questa unica ancora della loro fede
appoggiavano l'eterna salute; e perciò non
faceano poi più conto nè di leggi, nè di
castighi, nè di virtù, nè di orazioni, nè di
sacramenti, ed ammetteano per lecita ogni
azione ed ogni scelleraggine. Diceano che la
ſede con cui noi fermamente crediamo, che
Dio ci salvi pei meriti di Gesù Cristo e per
le promesse da lui fatte, ella sola senza le
opere mostre è sufficiente ad ottenerci da Dio
la salute; e questa fede la chiamavano fidu
cia, essendo ella una speranza fondata sulle
promesse di Gesù Cristo. Appoggiavano que
sto loro falso dogma alle seguenti Scritture:
Qui credit in Filium, habet vitam aeternam.
Joan. 5. 56. Ut sit ipse justus, et justificans
eum, qui est ex fide Jesu Christi. Rom. 5.
26. In hoc omnis qui credit, justificabitur.
Act. 15 59 Omnis qui credit in illum, non
confundetur. Rom. 1o. 11. Justus ex fide
vivit. Gal. 5. 1 1. Justitia Dei per fidein Jesu
Christi, in omnes et super omnes, qui cre
dunt in eum. Rom. 5. 22.
26. Ma se la sola fede basta a salvarci
5I I
senza le opere, come poi la stessa Scrittura
ci fa sapere che la sola fede niente giova
senza le opere? Quid proderit, fratres mei,
si fidem quis dicat se habere, opera autem
non habeat? Nunquid poterit fides salvare
eum ? Jac. 2. 14. Ed indi al verso 17 l'Apo
stolo ne assegna la ragione: Sic et fides, si
non habeat opera, mortua est in semetipsa.
Dice Lutero che questa epistola di S. Gia
como non è canonica; ma noi dobbiamo cre
dere, non a Lutero, ma all'autorità della
chiesa, che questa epistola ha posta già nel
catalogo de libri canonici. Ma vi sono mille
altre Scritture che insegnano non bastar la
sola fede a salvarci, ma esser necessario
l' adempimento del precetti. S. Paolo dice
C 1. Cor. 15. 2. ) : Et si habuero omnem fi
dem... charitatem autem non habuero, nihil
sum. Gesù Cristo comanda a discepoli: Eun
tes ergo docete omnes gentes.... docentes
eosservare omnia quaecunque mandavi vobis.
Matth. 28. 19 et 2o. Ed in altro tempo disse
a quel giovane: Si autem vis ad vitam ingre
di, serva mandata. Matth. 19 17. E vi sono
molti altri testi simili. Dunque i passi ad
dotti da settari si hanno da intendere di
quella fede, come insegna S. Paolo, che
opera per mezzo della carità: Nam in Chri
sto Jesu neque circumcisio aliquid valet, ne
que praputium, sed fides quae per charitatem
º i 2

operatur. Gal. 5. 6. Onde S. Agostino (1)


poi scrive: Fides sine charitate potest quidem
esse, sed non prodesse. Sicchè ove si trova
nelle Scritture che la fede salva, s'intende
della fede viva, cioè che salva per mezzo
delle opere buone, le quali sono le opera
zioni vitali della fede; altrimenti se quelle
mancano, è segno che la fede è morta, e
se ella è morta, non può dar vita. Quindi
gli stessi Luterani, come Lomer, Gerardo,
i dottori di Argentina, e, come attesta un
autore (2), la massima parte di essi oggi,
scostandosi dal lor maestro, confessano non
bastar la fede alla salute. Di più rapporta
monsignor Bossuet (5) che i Luterani dell'
accademia di Vittemberga nella confessione
al concilio di Trento dissero che le opere
buone debbono esser necessariamente pratica
te, e che per la bontà gratuita di Dio me
ritano le loro ricompense corporali e spirituali.
27. Il concilio di Trento poi nella Sess. 6
pronunziò i seguenti due canoni. Nel can.
19 disse : Si quis dixerit, nihil praeceptum
esse in evangelio praeter fidem, cetera esse
indifferentia, neque praecepta, neque prohibita,
sed libera; aut decem praecepta nihil pertinere

(1) S. Aug. lib. 15. de Trin. cap. 18.


(2) Pichler. Theol. Polem. par. post. ar. 6.
(3) Bossuet Variat. lib. 8. num. 3o. in fin.
3 15
ad christianos: anathema sit. E nel can. 2o:
Si quis hominem justificatum et quantumli
bet perfectum dixerit non teneri ad obser
vantiam mandatorum Dei et ecclesiae, sed
tantum ad eredendum; quasi vero evangelium
sit nuda, et absoluta promissio vitae aeterna,
sine conditione observationis mandatorum,
anathema sit.

S IV.
CHE COLLA SOLA FEDE

INON RESTA IL PECCATORE GIUSTIFICATO,

28. Deso i settari che il peccatore per


mezzo della fede, o sia fiducia nelle pro
messe di Gesù Cristo, credendo con certez
za infallibile di esser giustificato, vien giusti
ficato con imputarsegli estrinsecamente la
giustizia di Gesù Cristo, per la quale i suoi
peccati non già si cancellano, ma restano
coperti, e così non gli sono imputati. E
fondano questo loro dogma sulle parole di
Davide, che dice : Beati quorum remissae
sunt unuquitates, et quorum tecta sunt peccata.
Beatus vir, cui non imputavit Dominus pec
catum, nec est in spiritu eius dolus. Psalm.
5 1. 1. et 2.

29. Ma la chiesa cattolica condanna con


anatema il dire che l'uomo viene assoluto
LIG. Storia delle Eresie T. III. O
514
da suoi peccati colla sola fede di esser giu
stificato. Ecco come parla il concilio di Tren
to nella Sess. 6 al can. 14: Si quis diarerit
hominem a peccatis absolvi, ac justificari
ex eo quod se absolvi, ac justificari cer
to credat; aut neminem vere esse justifica
tum, nisi qui credat se esse justificatum, et
hac sola fide absolutionem et justificationem
perfici, anathema sit. Inoltre la chiesa inse
gna che, affinchè il peccatore diventi giusto,
bisogna che sia disposto a riceverla grazia.
Per questa disposizione è necessaria la fede,
ma non basta la sola fede: dice il concilio
di Trento, Sess. 6 cap. 6, che vi bisogna
no ancora gli atti di speranza, di amore,
di dolore e di proposito; ed allora Dio,
trovando il peccatore così disposto, gli do
ma gratuitamente la sua grazia, o sia giu
stizia intrinseca, ibid cap. 7, la quale gli
rimette i peccati, e lo santifica.
5o. Esaminiamo ora i punti falsamente
supposti dagli avversari. Dicono in primo
luogo che per mezzo della fede nei meriti e
nelle promesse di Gesù Cristo non si tolgono
già i peccati, ma si coprono. Ma a questo
ch'essi suppongono ostano chiaramente le
Scritture, le quali dicono che i peccati non
solo si coprono, ma si tolgono e si can
cellano dall'anima giustificata: Ecce Agnus
Dei, ecce qui tollit peccata mundi Joan 1. 29.
3 15
Poenitemini igitur et convertimini, ut deleantur
peccata vestra. Actor 5. 19. Projiciet in pro
fundum maris omnia peccata nostra. Micheae
7. 19. Christus semel oblatus est ad mºltorum
echaurienda peccata. Hebr 9 28. Ciò che
si toglie e si cancella, si annichila, e non
può dirsi più che rimanga. Di più abbiamo
che l'anima giustificata resta mondata e li
berata da suoi peccati: Asperges me hrsso
po, et mundabor; lavabis me, et super ni
vem dealbabor Psal 5o. 9. Mundabimini ab
omnibus inquinamentis vestris. Ezech. 56. 25.
Haec quidem fuistis; sed abluti estis, sed
sanctificati estis, sed justificati estis. 1. Cor. 6.
I 1. Nunc vero liberati a peccato, servi au
tem facti Deo, habetis fructum vestrum in
sanctificationem. Rom. 6. 22. E perciò il bat
tesimo, con cui si rimettono i peccati, chia
masi rigenerazione e rinatività : Salvos nos
fecit per lavacrum regenerationis et renova
tionis Spiritus Sancti Tit. 5. 5. Nisi quis re
natus fuerit denuo, non potest videre regnum
Dei. Joan. 5. 5. Sicchè il peccatore, allorchè
viene giustificato, è di nuovo generato e ri
nasce alla grazia, in modo che resta tutto
mutato e rinnovato da quello che era.
51. Ma Davide dice che i peccati si co
prono: Beati quorum tecta sum peccata. Ri
sponde S. Agostino, scrivendo sopra il det
to salmo, e dice che le piaghe possono
516
coprirsi dall'infermo e dal medico: l'infermo
solamente le copre, ma il medico coll' em
piastro le copre insieme e le guarisce: Si
tu tegere volueris erubescens, scrive S. Ago
stino, medicus non sanabit; medicus tegat
et curet. I peccati per l'infusione della gra
zia si coprono insieme e si sanano ; ma se
condo gli eretici si coprono senza sanar
si. Spiegano essi che intanto dicesi che i
peccati si coprono, in quanto Iddio non
gl'imputa. Ma se i peccati restano nell'ani
ma in quanto alla colpa, come Dio può
non imputarli? Iddio giudica secondo la ve
rità : Judicium Dei est secundum veritatem.
Rom. 2. 2. Ma come giudicherebbe Dio se
condo la verità quando giudicasse non es
ser colpevole quell'uomo che in verità è
colpevole? Questi son misteri di Calvino,
che superano la nostra capacità. Ma noi leg
giamo: Odio sunt Deo impius et impietas
ejus. Sap. 14. 9. Se Dio odia il peccatore
per il peccato che in esso regna, come poi
può amarlo come figlio per trovarsi coperto
della giustizia di Cristo, ma restando pecca
tore? Il peccato per sua natura è contrario
a Dio; ond'è impossibile che non sia odiato
da Dio, semprechè non è tolto, e non sia
insieme odiato il peccatore che lo ritiene.
Dice Davide: Beatus vir cui non imputavit
Dominus peccatum. Il non imputare di Dio
3I
non s'intende che lasci il peccato nell' i.
ma, e finga di non vederlo ; s' intende che
non l'imputa col cancellarlo e rimetterlo:
e perciò Davide premette nello stesso luogo
quelle parole: Beati quorum remissa sunt
iniquitates. Le colpe rimesse sono le colpe
non imputate. -

52. Dicono dunque in secondo luogo che


nella giustificazione del peccatore, non s'in
fonde la giustizia intrinseca, ma solamente
gli s'imputa la giustizia di Gesù Cristo, in
modo che l'empio non diventa giusto, ma
resta empio, e solamente vien riputato giu
sto per la giustizia estrinseca di Cristo
che gli viene imputata. Ma in ciò errano
evidentemente : poichè il peccatore non può
diventare amico di Dio, se non riceve la
giustizia propria sua, che internamente lo
rinnovi, e muti da peccatore in giusto; e,
dove prima era odioso, dopo avere acqui
stata la giustizia si renda grato agli occhi
di Dio. Quindi S. Paolo esortava gli Efesini
a rinnovarsi nello spirito: Renovamini autem
spiritu mentis vestrae. Ephes. 4. 25. Ed indi
disse poi il concilio di Trento che pei me
riti di Cristo a noi si comunica la giustizia
interna, qua ... renovamur spiritu mentis no -
strae, et non modo reputamur, sed vere etiam
justi nominamur, et sumus. Sess. 6 cap. 7.
Ed in altro luogo scrisse l'istesso Apostolo,
5 18
che il peccatore colla giustificazione renova
tur in agnitionem, secundum imaginem eius
qui creavit illum, Coloss. 5. 1o., in modo che
pei meriti di Cristo ritorna l'uomo in quel
lo stato, dal quale cadde per il peccato; e
con ciò resta santificato come un tempio in
cui Dio abbia la sua abitazione. Onde l'Apo
stolo ammoniva i suoi discepoli, dicendo :
Fugite fornicationem... An nescitis quoniam
membra vestra templum sunt Spiritus Sancti,
qui in vobis est? 1. Cor 6. 18. et 19. La me
raviglia è che lo stesso Calvino conobbe que
sta verità di non poterci noi riconciliare con
Dio, se non ci è donata la giustizia interna
ed inerente : Nunquam reconciliamur Deo,
quin simul donemur inhaerente justitia. Così
scrisse (1); e poi come dice che noi per
mezzo della sola fede restiamo giustificati
colla giustizia imputativa di Cristo, la quale
non è nostra, e non è in noi, ma è aliena
e fuori di noi, venendoci solo estrinseca
mente imputata, sì ch' ella non ci rende giu
sti, ma solamente fa che siamo riputati giusti?
Ben fu ciò condannato dal concilio di Tren
to, Sess. 6. can. 1o. Si quis dixerit homines
sine Christi justitia, per quan nobis meruit,
justificari, aut per eam ipsam formaliter justos
esse, anathema sit. E nel can. 1 I disse: Si

(1) Calvin. lib. de vera rat. reform. Eccl.


519
quis dicerit, homines justificari vel sola in
putatione justitiae Christi, vel sola peccato
rum remissione, exclusa gratia et charitate,
quae... illis inhaereat... anathema sit.
55. Si oppone per 1.º Credenti in eum
qui justificat impium, reputatur fides ejus
ad justitiam Rom. 4. 5. Rispondiamo, sen
za perder parole, che qui l'Apostolo dice
imputarsi la fede a giustizia , per farci in
tendere che il peccatore non già per le ope
re sue, ma per la fede ne meriti di Cristo
vien giustificato; ma non dice che in virtù
della fede la giustizia di Cristo s'imputa
estrinsecamente al peccatore, e fa che sia,
senza esser giusto, riputato giusto.
54 Si oppone per 2 º quel che scrisse
S. Paolo a Tito: Non ex operibus justitiae
quae fecimus nos, sed secundum suam mise
ricordiam salvos nos fecit per lavacrum re
generationis et renovationis Spiritus Sancti,
quem effudit in nos abunde per Jesum Chri
stum salvatorem nostrum. Tit. 5. 5. et 6.
Dunque, ci dicono, il Signore ci giustifica
per la sua misericordia, e non già per le
opere che noi diciamo essere necessarie alla
giustificazione? Noi rispondiamo che le ope
re mostre, come sono la speranza, la carità
e il pentimento delle colpe col proposito,
son necessarie per renderci disposti a rice
ver da Dio la sua grazia; ma quando Dio
52 o
ci dà la sua grazia, non ce la dona per le
opere mostre, ma per sua sola misericordia
e pei meriti di Gesù Cristo. Ma avvertano
i contrari quelle parole del testo: et reno
vationis Spiritus Sancti, quem effudit in nos
abunde per Jesum Christum. Sicchè quando
Dio ci giustifica, infonde in noi, non fuori
di noi, lo Spirito Santo che ci rinnova, mu
tandoci da peccatori in santi.
55. Si oppone per 5 º un altro testo di
S. Paolo: Vos estis in Christo Jesu, qui fac
tus est nobis sapientia a Deo et justitia et
sanctificatio et redemptio. 1. Cor. 1. 5o. Ecco,
dicono, che Gesù Cristo si è fatto nostra
giustizia. Non neghiamo che la giustizia di
Gesù Cristo è causa della nostra giustizia,
ma neghiamo che la giustizia di Cristo sia la
giustizia nostra, siccome non può dirsi che la
sapienza nostra sia la sapienza di Cristo; onde
siccome non diventiamo noi sapienti per la
sapienza di Cristo che a noi s'imputi, così non
diventiamo giusti per la giustizia di Cristo a
noi imputata, come dicono i settari. Factus
est nobis sapientia et justitia et sanctificatio etc.,
tutto s'intende non imputativamente, ma ef
fettivamente, cioè che Gesù Cristo colla sua
sapienza, colla sua giustizia e colla sua santità
ci ha fatti diventare effettivamente sapienti,
giusti e santi. In questo medesimo senso noi
diciamo a Dio: Diligam te, Domine, fortitudo
- 52 I
mea, Psal 17. 1.: Tu es patientia mea, Do
mine, Psal 7o. 5. : Dominus illuminatio mea
et salus mea. Psal. 26. 1. Come Dio è la for
tezza, la pazienza, la luce e la salute no
stra? forse solo imputativamente ? No, ma
effettivamente ; perchè Dio ci rende forti,
ci rende pazienti, c'illumina e ci salva.
56. Si oppone per 4 º quel che dice l'Apo- -
stolo: Induite novum hominem, qui secundum...
Deum creatus est in justitia et sanctitate verita
tis. Eph. 4. 24. Ecco, dicono, che noi nella
giustificazione colla fede ci vestiamo della
giustizia di Cristo, come di una veste, la
quale è estrinseca a noi. Ma ecco, noi rispon
diamo, perchè gli eretici tanto si vantano di
non seguire essi altro che le pure Scritture,
e non vogliono sentir nominare nè tradizione
nè definizioni del concilj, nè autorità della
chiesa: Scritture, Scritture, sempre gridano,
solo a queste crediamo; ma perchè? Perchè
le Scritture essi le stravolgono e le spiega
no a lor modo, come meglio loro si accor
da; e così poi rendono la Scrittura, ch'è li
bro di verità, un fonte di errori e di falsità.
Ma rispondiamo all' opposizione fatta. San
Paolo ivi non parla della giustizia estrinseca,
ma dell'intrinseca, e perciò dice: Renovamini
auten spiritu mentis vestrae, et induite novum
hominem etc. Ephes. 4. 25. et seqq. Vuole
che vestendoci di Gesù Cristo ci rinnoviamo
O 5
522
internamente nello spirito colla giustizia in
trinseca ed inerente, come confessò lo stes
so Calvino; altrimenti restando internamen
te peccatori, non possiamo rinnovarci. Di
ce: Induite novum hominem, perchè sicco
me la veste non è cosa propria del corpo,
così la grazia, o sia la giustizia non è pro
pria del peccatore, ma gli vien donata gra
tis per sola misericordia di Dio. In altro
luogo dice l'Apostolo: Induite... viscera mi
sericordiae. Colos. 5. 12. Ora siccome ivi
non parla della misericordia estrinseca ed
apparente, ma della vera ed intrinseca; co
sì dicendo: Induite novum hominem, vuole
che, spogliandoci dell'uomo antico vizioso
e privo della grazia, ci vestiamo dell'uomo
nuovo, fatto già ricco della giustizia, non
già imputativa di Gesù Cristo, ma dell'in
trinseca che sia propria mostra, donataci
bensì pei meriti di Gesù Cristo.
S. V.
cHE LA soLA FEDE NoN PUò RENDERCI sicuRI
DELLA GIUSTIZIA, NÈ DELLA PERSEVERANZA,
nè DELLA viTA ETERNA.

57. F, dottrina di Lutero, a cui forte


mente si attaccò poi Calvino, che l'uomo
dopo essere stato giustificato per cagion della
sua fede, non dee più temere, nè dubitare
- 525

che gli sieno stati rimessi tutti i suoi peccati;


onde dicea Lutero (1): Crede firmiteresse ab
solutum, et sic eris, quidquid sit de tua con
tritione. E come provava questa sua falsa dot
trina? Citava le parole di S. Paolo: Vosmet
ipsos tentate si estis infide: ipsi vos probate.
An non cognoscitis vosmetipsos, quia Christus
Jesus in vobis est ? nisi forte reprobi estis. 2.
Cor 15. 5. Da questo testo deducea Lutero
che uno può esser certo della sua fede; ed
indi concludea che, essendo certo di sua fe
de, è certo ancora della remissione del pec
cati. Ma qual conseguenza è questa? Chi è
certo di sua fede, ma si trova di aver pec
cato, come può esser certo del perdono,
se non è certo di sua contrizione ? Lo stes
so Lutero avea detto prima (2): Nullus est,
qui certus sit de veritate suae contritionis, et
tanto minus de venia. Questo è il carattere
degli eretici, lo spesso contraddirsi. Oltre
chè l'Apostolo in quel luogo non parla della
giustificazione, ma de miracoli che i Corin
ti dovean credere operati da Dio.
58. Il concilio di Trento, Sess. 6 cap. 9,
insegna che, quantunque ognuno debba star
certo della divina misericordia, del meri
to di Cristo e della virtù del sacramenti,

(1) Luther Serm. de Indulg. tom. 1. pag. 59.


(2) Idem tom. 1. Prop. 3o.
524
nondimeno niuno può aver certezza di fede
della remissione ottenuta del peccati; e nel
can. 15 condanna chi dice il contrario: Si quis
diacerit, omni homini ad remissionem pecca
torum assequendam necessarium esse, ut cre
dat certo, et absque ulla ha sitatione propria
infirmitatis et indispositionis, peccata sibi es
se remissa; anathema sit. E ciò ben si prova
colla Scrittura, che dice: Vescit homo, utrum
amore, an odio dignus sit, sed omnia in
futurum servantur incerta. Eccl. 9. 1. et 2.
Calvino oppone (1) che ivi non si parla dello
stato dell'anima in grazia, o in disgrazia di
Dio, ma delle cose prospere o avverse che
ci accadono in questa vita; mentre per ta
li accidenti temporali non possiamo sapere
se Dio ci ama o ci odia, giacchè le pro
sperità e le avversità avvengono tanto ai
buoni, quanto a cattivi; ma dice all'in
contro che ben può conoscere l'uomo di
esser giusto o ingiusto, col conoscere se
ha o non ha la fede. Ma rispondiamo che
il testo affatto non parla qui di cose tempo
rali, ma dell'amore o dell'odio di Dio, che
riguardano lo stato dell'anima; e poi sog
giunge : sed omnia in futurum servantur in
certa. Se in questa vita omnia servantur in
certa, dunque non è vero quel che dicono

(1) Calv. Inst. lib. 3 cap. 2. S. 38.


325
i settari che l'uomo colla cognizione di sua
fede può star certo di stare in grazia.
59. Inoltre Iddio ci ammonisce che del
peccato, quantunque rimesso, non dobbiamo
stare senza timore : De propitiato peccato
noli esse sine metu. Eccl. 5. 5. I novatori, in
vece de propitiato, leggono nel testo greco
de propitiatione, e dicono che qui si ammo
nisce a non presumere del perdono del pec
cati futuri, non de' commessi. Ma ciò non è
vero, perchè la parola propitiatione greca,
comprende tanto i peccati passati, quanto i
futuri; oltrechè la parola propitiatione del
testo greco viene spiegata dal testo latino,
che esprime i peccati commessi. S. Paolo
certamente avea cognizione della sua fede:
ma quantunque dicesse di non sentirsi ag
gravata la coscienza di alcun peccato, e
quantunque si vedesse favorito da Dio con
rivelazioni e doni straordinari, pure non si
tenea con certezza giustificato, ma dicea che
Dio sapea la verità: Nihil enim mihi conscius
sum, sed non in hoc justificatus sum : qui
autem judicat me Dominus est. 1. Cor 4. 4.
4o. Oppongono i contrari le parole dello
stesso Apostolo: Ipse enim Spiritus testimo
nium reddit spiritui nostro, quod sumus filii
Dei Rom. 8. 16. Da ciò deduce Calvino
che la fede è quella che ci assicura di esser
figli di Dio. Ma si risponde che, sebbene il
526 -

testimonio dello Spirito Santo è infallibile


in quanto a sè , in quanto però a noi che
l'apprendiamo non possiamo avere che una
certezza congetturale di stare in grazia di
Dio, ma non certezza infallibile , senza
una special rivelazione. Tanto più che circa
la nostra cognizione noi non sappiamo se
quello spirito sia certamente di Dio; poichè
molte volte l'angelo delle tenebre si tras
forma in angelo di luce, e c'inganna.
41. Sicchè Lutero dicea che il fedele per
mezzo della fede giustificante, ancorchè stia
in peccato, dee credere con certezza infalli
bile di esser giustificato, per ragion della
giustizia di Cristo che gli viene imputata;
ma dicea poi che questa giustizia potea per
dersi dal fedele per qualche nuovo peccato.
Calvino all'incontro aggiunse a questa falsa
dottrina di Lutero l'inammissibilità (1) di tal
giustizia imputativa. E supposto per vero il
falso principio di Lutero della fede giustifi
cante, Calvino parlava meno inettamente di
Lutero. Diceva egli: se il fedele è certo di
sua giustificazione, dacchè la domanda, e
crede con confidenza che Dio pei meriti di
Cristo lo giustifica, questa domanda e questa
fede certa riguarda non meno la remissione

(1) Vedi Bossuet delle Variaz. tom. 3. lib. 14.


num. 16. pag. 28o. -

l
527
de peccati fatti, che la futura perseveran
za in grazia e per conseguenza anche la
salute eterna. Soggiungea poi Calvino (1)
che, ricadendo il fedele in peccato, benchè
la sua fede giustificante sarebbe rimasta op
pressa, non mai però sarebbesi perduta;
perchè l'anima ne avrebbe sempre ritenuto
il possesso. Questi sono gli speciosi dogmi di
Calvino; e questa fu la confessione di fede
che fece secondo questa falsa dottrina il
principe Federico III. conte palatino ed elet
tore: Io credo, disse, di essere un membro
vivente della chiesa cattolica in eterno, men
tre Iddio placato dalla soddisfazione di Ge
sù Cristo, non si ricorderà de peccati pas ;
sati e futuri della mia vita (2). ;
42. Ma il punto sta che primieramente il
principio di Lutero, come già di sopra ab
biam veduto, era affatto falso; mentre per
ottener la giustificazione non basta la sola
fede di esser giustificato pei meriti di Cri
sto, ma vi bisogna nel peccatore la contri
zione della sua colpa, acciocchè si renda
disposto a riceverne la remissione, che Dio
gli concede, secondo la promessa fatta di
perdonare a chi si pente, pei meriti di Gesù

(1) Calvin. Anti ad Conc. Trid sess. 6. cap 13.


(2) Tal confessione leggesi nella Raccolta di
Ginevra part. 2. pag. 149.
328 a

Cristo. Onde se il giustificato ricade in pec


cato, di nuovo perde la grazia.
45. Ma se la dottrina di Lutero circa la
certezza della giustizia è falsa, parimente è
falsa la dottrina di Calvino circa la certez
za della perseveranza e dell'eterna salute. San
Paolo in un luogo avverte che chi si stima
sicuro stia attento che non cada: Itaque qui
se existimat stare videat ne cadat. 1. Cor.
1o. 12. In altro luogo ci esorta ad operare
la nostra salute con gran timore: Cum me
tu et tremore vestram salutem operamini. Phil.
2. 12. E come poi Calvino può dire che il
temere della perseveranza è tentazione del
demonio? Quando dunque S. Paolo c'impo
me di viver con timore, c'impone forse di
secondar la tentazione del demonio? Ma di
cono: a che serve questo timore ? Se fosse
vero ciò che dice Calvino, che la giustizia
e lo Spirito Santo ricevuto una volta non
si perde mai, perchè, siccome asserisce,
la fede giustificante non mai si perde ? Ed
a colui che ha la fede, Dio non imputa
i peccati che commette? Se fossero vere,
dico, tutte queste false supposizioni di Cal
vino, certamente allora sarebbe inutile il ti
more di perder la divina grazia. Ma chi
mai può persuadersi che ad uno il quale di
sprezza i divini precetti, e commette mille
scelleraggini, abbia Dio a donare la sua
529
amicizia e la gloria eterna? e perchè? Perchè
quegli crede che pei meriti di Gesù Cristo
non gli sieno imputate le iniquità che com
mette? Ed ecco la bella gratitudine che ren
dono a Gesù Cristo i novatori! Si vagliono
della morte ch'egli ha patita per nostro amo
re, per rilassarsi vieppiù in tutti i vizi, fi
dando che pei suoi meriti da Dio non sa
ranno loro imputati i peccati. Dunque Ge
sù Cristo è morto, affinchè gli uomini ab
biano la libertà di fare tutto quel che vo
gliono senza timore di castigo? Ma se ciò
fosse vero, che serviva a Dio il promulgar
le sue leggi, il far tante promesse a chi gli
è fedele, e tante minacce a trasgressori ?
Ma no; il Signore non delude, nè inganna
quando parla : i precetti che impone, vuole
che siano da noi esattamente osservati: Tu
mandasti mandata tua custodiri nimis: Psalm.
1 18. 4. ; e condanna tutti coloro che offen
dono le sue leggi: Sprevisti omnes disce
dentes a judiciis tuis. Ibid. vers. I 18. Ed a
ciò serve il timore: il timore di perder la
divina grazia ci rende attenti a fuggir le
occasioni di peccare, e ci fa prendere i
mezzi a perseverare nella buona vita, come
sono il frequentare i sacramenti, e il non
cessare di continuamente pregare.
44. Dice Calvino che, secondo S. Paolo in
segna, i doni di Dio sono irrevocabili e senza
55o

penitenza: Sine penitentia enim sunt dona


et vocatio Dei Rom. 11. 29 Chi dunque,
dice, ha ricevuta la fede e colla fede la
grazia a cui va unita la salute eterna, es
sendo questi doni perpetui che non si pos
sono perdere, egli il fedele, ancorchè cada
in peccati, sempre possederà la giustizia
che colla fede gli è stata donata. Ma qui si
dimanda : Davide certamente avea la fede;
egli cadde ne' peccati di adulterio e di omi
cidio. Or domando : quando Davide stava
in peccato, prima della sua penitenza, era
peccatore o giusto ? Se moriva in quello
stato si sarebbe dannato o no? Non pos
siamo credere che alcuno ardisca dire che
anche in quello stato si sarebbe salvato. Dun
que Davide in quello stato cessò di esser
giusto, com'egli stesso confessava dopo che
si convertì : Iniquitatem meam ego cognosco;
e perciò pregava il Signore a cancellare il
suo peccato: Dele iniquitatem meam. Psal.
5o. Nè vale il dire che chi è predestinato
intanto si stima giusto perchè egli farà peni
tenza de' suoi peccati prima della morte. Ciò
non vale, dico; perchè la penitenza futura
non può render giusto il peccatore, che al
presente sta in peccato. Scrive monsignor
Bossuet (1) che questa gran difficoltà che

(1) Bossuet Variat. tom. 3. lib. 14. num. 16.


55 I
si oppone alla dottrina di Calvino ha fatti
ravvedere molti Calvinisti.
45. Ma prima di terminar questo punto
udiamo le Scritture, sulle quali Calvino apr
poggia la sua dottrina. Egli dice che l'Apo
stolo S. Giacomo insegnò che le grazie, tra
cui è principale la perseveranza, debbon
chiedersi a Dio senza dubitare di ottenerle:
Postulet autem in fide, nihil hasitans. Jac.
1. 6. E Gesù medesimo disse : Omnia quae
cunque orantes petitis, credite quia accipietis,
et evenient vobis. Marc. 1 1. 24. Dunque, di
cea Calvino, chi cerca a Dio la perseveran
za, e crede di riceverla, attesa la divina
promessa, quella non può mancargli. Si ri
sponde che, quantunque la promessa di Dio
di esaudir chi lo prega non può mancare,
ciò però s'intende quando noi domandia
mo le grazie con tutte le dovute condizio
ni. Or tra le condizioni della preghiera im
petratoria vi è quella della perseveranza nel
pregare. Ma se non possiamo noi esser cer
ti che in futuro persevereremo a pregare,
come possiamo esser certi al presente di
perseverare in grazia? Inoltre oppone Calvi
no quel che dicea S. Paolo : Certus sum
enim quia neque mors, neque vita etc. po
terit nos separare a charitate Dei Rom. 8.
58. et 59. Ma si risponde che l'Apostolo
qui neppure parla di certezza infallibile di
552
fede, ma di semplice certezza morale, fon
data sulla misericordia divina, e sulla buo
na volontà che Dio gli dava di patire ogni
pena, prima che separarsi dal di lui amore.
46. Ma lasciamo Calvino, e udiamo quel
che insegna il concilio di Trento in quanto
alla certezza insegnata da Calvino circa la
perseveranza e la predestinazione. Circa la
perseveranza, dice : Si quis magnum illud
usque in finem perseverantiae donum se certo
habiturum absoluta et infallibili certitudine
dixerit, nisi hoc ex speciali revelatione didi
cerit; anathema sit. Sess. 6. can. 16. In quan
to poi alla predestinazione, dice : Si quis
dicerit hominem renatum et justificatum te
neri ex fide ad credendum se certo esse in
numero praedestinatorum; anathema sit Sess.
6. can. 15. Ecco come il concilio definì con
somma chiarezza e distinzione tutti i dogmi
di fede che doveano tenersi contro gli erro
ri difesi da novatori. Dico ciò contro quello
ch'essi oppongono al concilio di Trento,
cioè che il concilio determinò ambiguamente
le controversie, e perciò fu causa che più
presto elle si moltiplicassero che avessero
fine. Ma i Padri del concilio più volte si
spiegarono che circa le questioni le quali
si agitavano tra gli scolastici cattolici non
intendeano di deciderle, ma voleano sol de
finire le cose di fede, e sol condannare gli
---
o od

errori che difendeansi da pretesi riformati,


i quali procuravano di riformare non già i
costumi, ma gli antichi e veri dogmi della
chiesa cattolica. E perciò circa le questioni
del nostri scolastici il concilio parlò ambi
guamente senza deciderle; ma nelle cose di
fede contrastate da protestanti parlò sempre
con tutta la chiarezza e senza ambiguità :
l'ambiguità solamente ve la trovano quei che
non vogliono acchetarsi alle definizioni fatte
dal concilio. Ma torniamo al punto. Insegna
il concilio che niuno può esser certo di es
ser predestinato. Ed in verità se niuno può
esser certo della perseveranza nel bene, co
me può esser certo di esser predestinato ?
Replica Calvino: ma S. Giovanni dice: Vi
tam habetis aeternam qui creditis in nomine
Filii Dei 1. Joan. 5. 15. Dunque, dice, chi
ha fede in Gesù Cristo ha già la vita eter
na. Si risponde: chi crede in Gesù Cristo,
ma colla vera fede informata dalla carità,
ha la vita eterna, non già in possesso, ma
in isperanza, come parla S. Paolo: Spe sal
vi facti sumus. Rom. 8. 24 Giacchè per ot
tener la vita eterna è necessaria la perseve
ranza nel bene: Qui autem perseveraverit
usque in finem, hic salvus erit. Matth. 1o.
22. Ma finchè siamo incerti della perseve
ranza, saremo sempre incerti della vita
eterna.
554
47. Oppongono i settari che l'incertezza
dell'eterna salute ci fa dubitare delle divine
promesse, di salvarci pei meriti di Gesù
Cristo. Si risponde che le promesse divine
non possono mancare; onde dal canto di
Dio non possiamo dubitare ch' egli ci ven
ga meno, col negarci quello che ci promet
te. Ma il dubbio ed il timore è dal canto
nostro; perchè noi possiam mancare con
trasgredire i suoi divini precetti, e così per
dere la sua grazia : ed allora Iddio non è
obbligato ad attenerci le promesse fatte,
anzi è tenuto a punire la nostra infedeltà ;
e perciò S. Paolo C Phil. 2. 12. ) ci esorta
ad operar la nostra salute con timore e tre
more. Sicchè quanto dobbiamo star certi
della salute, se saremo fedeli a Dio, altrettan
to dobbiamo temere della nostra perdizione,
se saremo infedeli. Ma questo timore e que
sta incertezza, dicono, ci disturba la pace di
coscienza. Ma rispondiamo che la pace di
coscienza che possiamo ottenere in questa
vita non consiste nella certezza creduta di
salvarci; perchè tal certezza dal Signore non
ci è stata promessa: ma consiste nello spe
rare ch'egli ci salverà pei meriti di Gesù
Cristo, se noi attenderemo a viver bene,
e procureremo colle preghiere d'impetrare
l'ajuto divino a perseverare nella buona vi
ta. E questa è la ruina degli eretici; perchè
555
fidando essi alla loro fede certa di esser sal
vi, poco attendono all' osservanza della di
vina legge, e tanto meno a pregare, e non

pregando restano privi del soccorsi divini


loro necessari a ben vivere, e così si perdo
no. Nella presente vita piena di pericoli e di
tentazioni abbiamo bisogno di un continuo
soccorso della grazia, che senza la preghie
ra non si ottiene; e perciò Iddio ci fa
sapere la necessità che abbiamo di sempre
orare: Oportet semper orare, et non defice
re. Luc. 18. 1. Ma chi crede di esser certo
di sua salute, e tiene che non è necessaria
la preghiera alla salute, poco o niente at
tenderà a pregare, e così certamente si per
derà. All'incontro chi sta incerto della sua
salute, e teme di cadere in peccato e di
perdersi, attenderà continuamente a racco
mandarsi a Dio che lo soccorra, e così può
sperare di ottener la perseveranza e la salu
te; e questa è quella pace di coscienza che
solamente può aversi nella vita presente. Ma
per quanto si studiano i Calvinisti a tro
var la perfetta pace col tenere per certa la
loro salute, non potranno trovarla mai per
questa via; tanto più che anche secondo le
loro dottrine io leggo (1) che il loro gran
sinodo di Dordrect nell'articolo 12 decise

(1) Vedi Bossuet Variat. tom. 3. lib. 14. num 36.


356
che il dono della fede, che porta seco la
giustificazione presente e futura, come essi
dicono, non si concede da Dio che a soli
eletti. Come dunque può il Calvinista esser
infallibilmente certo di esser tra il numero
degli eletti, se non sa di esser eletto? Dun
que almeno per questo motivo non può evi
tare di stare incerto della sua salute.

S. VI.
cHE DIo NoN PUò EssERE AUTOR DEL PECCATo.

48.Lerra mio, preparatevi a restare inor


ridito in sentir le bestemmie che i settari,
e specialmente Calvino, vomitano su questa
materia del peccati. Non si prendono orrore
di dire per 1.º che Iddio ordina tutti i pec
cati che nel mondo si commettono. Ecco co
me scrive Calvino (1): Nec absurdum videri
debet quod dico, Deum non modo primi
hominis casum et in eo posteriorum ruinam
praevidisse, sed arbitrio quoque suo dispen
sasse. In altro luogo (2) dice: Ex Dei ordi
natione reprobis injicitur peccandi necessitas.
Scrive per 2.º (5) che Dio spinge il demo
mio a tentare gli uomini al peccato : Dicitur

(1) Calvin. Inst. lib. 3. cap. 23. S. 7. infra.


(2) Idem ibid. S. 39. -

(3) Idem lib. 3. cap. 4. S. 3.


557
-

et Deus suo modo agere, quod Satan ipse


C instrumentum cum sit irae ejus ) pro eius
nutu, atque imperio se inflectit ad exequen
da ejus justa judicia. Ed al S. 5 dice: Por
ro Satanae ministerium intercedere ad repro
bos instigandos, quoties huc atque illuc Domi
nus providentia sua eos destinat. Per 5.º scri
ve (1) che Dio muove l'uomo a peccare:
Homo justo Dei impulsu agit quod sibi non
licet. Per 4 º scrive (2) che Dio stesso opera
in noi, e con noi i peccati, e si serve degli
uomini come di stromenti per eseguire i suoi
giudizi: Concedo fures, homicidas etc. divinae
esse providentiae instrumenta, quibus Dominus
ad exequenda sua judicia utitur. Per altro
questa bella dottrina Calvino l'apprese da
Lutero e da Zuinglio. Lutero scrisse : Mala
opera in impiis Deus operatur. Zuinglio (5)
scrisse: Quando facimus adulterium, homi
cidium, Dei opus est auctoris. In somma
poi Calvino (4) non ripugna di chiamare
Dio autore di tutti i peccati : Et jam satis
aperte ostendi Deum vocari omnium eorum
( peccatorum ) auctorem, quae isti censores
volunt tantum eius permissu contingere. Con

(1) Calvin. Inst. lib. 1. cap. 18. S 4.


(2) Idem lib. 1. cap. 17. S. 5.
(3) Zuingl. Serm. de Provid. cap. 6.
(4) Calv. lib. 1. cap. 18. S. 3.
LrG. Storia delle Eresie T. III. P
558
queste false dottrine credono, o per meglio
dire si lusingano i settari, di trovare scusa
ne loro vizi, dicendo che se peccano, pec
cano per necessità; e che se si dannano,
anche per necessità si dannano, perchè tutti
i dannati sono da Dio sin dalla loro crea
zione predestinati all'inferno ; errore che
poi confuteremo nel S seguente.
49. La ragione che adduce Calvino delle
esecrande proposizioni riferite di sopra è
questa: dice egli che Dio non avrebbe po
tuto aver la prescienza della sorte felice o
infelice di ciascuno di noi, se non avesse
ordinate con suo decreto le opere buone o
male che noi facciamo nella nostra vita :
Decretum quidem horribile fateor; inficiari
tamen nemo poterit quin praesciverit Deus
quem exitum esset habiturus homo, et ideo
praesciverit, quia decreto suo sic ordinaverit.
Ma si risponde che altro è il prevedere,
altro è il predestinare i peccati degli uomini.
Non ha dubbio che Dio colla sua infinita
intelligenza sa e comprende tutte le cose
future, e fra queste tutte le colpe che cia
scun uomo commetterà ; ma alcune cose Id
dio le prevede secondo il suo decreto posi
tivo, altre secondo la sua permissione. Ma
così il decreto divino, come la permissione,
niente offendono la libertà dell'uomo; poi
chè Dio prevedendo le di lui opere buone
- 559
o male, le prevede tutte liberamente fatte.
I settari argomentano così : se Dio ha pre
veduto il peccato di Pietro, egli non può
errare nella cognizione del futuro; dunque,
giungendo il tempo preveduto, Pietro neces
sariamente peccherà. Ma non dicono bene,
dicendo necessariamente: peccherà infalli
bilmente, perchè Dio già l' ha preveduto,
nè può errare nel prevedere ; ma Pietro non
peccherà necessariamente, perchè se egli
vorrà peccare, peccherà liberamente per sua
malizia, e Dio solamente lo permetterà per
non privarlo della libertà che gli ha data.
5o. Vediamo ora quanti assurdi vi sareb
bero, se si volessero ammettere le proposi
zioni asserite da settari. Il primo assurdo.
Dicono essi che Dio per giusti fini ordina e
vuole i peccati che dagli uomini si commet
tono. Ma son troppo chiare le Scritture, le
quali ci fan sapere che Dio non vuole i pec
cati, anzi gli odia, e non può guardarli sen
za orrore; e che all'incontro vuole la nostra
santificazione: Quoniam non Deus volensini
quitatem tu es. Psalm. 5. 5. Odio sunt Deo
impius et - impietas ejus. Sap. 14- 9 Mundi
sunt oculi tui, ne videas malum; et respicere
ad iniquitatem non poteris. Habac. 1. 15. Or
se Dio si protesta che non vuole il peccato,
ma l'odia e lo proibisce, come possono di
re i settari che Dio, facendosi contrario a
54o
se stesso, vuole i peccati, e li predestina ?
Calvino si fa già questa difficoltà (1), e dice:
Objiciunt: si nihil eveniat, nisi volente Deo,
duas esse in eo contrarias voluntates, quia
occulto consilio decernat, qua lege sua pa
lam vetuit. Facile diluitur. Udiamo da Calvi
no come si scioglie questa contrarietà di
voleri in Dio. Dice che si scioglie colla ri
sposta che si dà dai rozzi, quando sono
interrogati di qualche difficil punto : Non
capimus. Ma la vera risposta è che il sup
posto di Calvino è tutto falso; perchè Dio
non può mai volere quel che a noi proi
bisce ed egli odia. Anche Melantone nella
sua Confessione Augustana contro il suo Lu

tero disse: Causa peccati est voluntas impio


rum, qua avertit se a Deo.
51. Il secondo assurdo. Dicono che Dio
spinge il demonio a tentare, e Dio stesso
tenta e muove l'uomo a peccare. Ma come
ciò può essere, mentre Dio ci proibisce di
acconsentire a cattivi appetiti ? Post concu
piscentias tuas non eas. Eccl. 18. 5o. Ei ci
comanda di fuggire il peccato come dalla
faccia del serpente : Quasi a facie colubri,
fuge peccata. Eccl. 21. 2. S. Paolo ci esorta
a prender contro le tentazioni del demo
mio l'armatura di Dio, qual'è l' orazione:

(1) Calein. Inst. lib. 1. cap. 16. 5. 3.


541
Induite vos armaturam Dei, ut possitis stare
adversus insidias diaboli. Ephes. 6. I 1. Santo
Stefano rimproverava a giudei ch'essi resi
steano allo Spirito Santo. Se fosse vero che
Dio è quello che ci spinge a peccare, i giudei
poteano rispondere a S. Stefano: noi non già
resistiamo allo Spirito Santo, ma facciamo
ciò che lo Spirito Santo c'ispira, e perciò ti
lapidiamo. Gesù Cristo c'insegna a pregare
Dio che non permetta di esser tentati da
quelle occasioni malvage che ci farebbero ca
dere: Et ne nos inducas in tentationem. Or se
Dio spinge il demonio a tentarci, ed egli
stesso ci tenta e muove a peccare, e decre
ta che pecchiamo, come poi c'impone di fug
gire il peccatò, di resistere al peccato, e pre
gare che siamo liberi dalle tentazioni? Se Dio
ha destinato che Pietro abbia quella tenta
zione, e da quella sia vinto, come Pietro
potrà pregare Iddio che lo liberi da quella
tentazione, e muti il suo decreto ? Eh che
Dio non mai spinge il demonio a tentarci,
ma solamente lo permette per provarci. Il
demonio, quando ci tenta, opera empiamen
te; onde Dio non può imporcelo: Nemini
mandavit ( Deus ) impie agere. Eccl. 15. 2 1.
Anzi il Signore in tutte le tentazioni, ci of.
ferisce e ci porge l'ajuto bastante a resiste
re; e si protesta che non mai permetterà che
noi siamo tentati oltre le nostre forze: Fidelis
542
Deus est, qui non patietur vos tentari supra
id quod potestis. 1. Cor. 1o. 15. Ma noi, re
plicano, abbiamo in più luoghi della Scrittu
ra che Dio ha tentati gli uomini : Deus ten
tavit eos. Sap. 5.5. Tentavit Deus Abraham.
Gen. 22. 1. Bisogna distinguere : il demonio
tenta gli uomini per farli cadere in peccato;
ma Iddio li tenta solamente per provare la
loro fedeltà, come la provò in Abramo, e
la prova continuamente ne' suoi servi che
gli son fedeli: Deus tentavit eos: et invenie
illos dignos se. Sap. 5. 5. Del resto Iddio
non mai tenta a peccare, come fa il demo
mio: Deus enim intentator malorum est : ipse
autem neminem tentat. Jac. 1. 15.
52. Il terzo assurdo. Il Signore dice : No
lite omni spiritui credere, sed probate spiri
tus si ex Deo sint. 1. Joan. 4. 1. Pertanto
noi cattolici siam tenuti ad esaminar le ri
soluzioni che dobbiamo prendere , oppure i
consigli che riceviamo dagli altri, anche nel
le cose che a prima faccia ne sembrano one
ste e sante; perchè non rare volte quella
che crediamo ispirazione di Dio, è istiga
zione del demonio per rovinarci. Ma secondo
Calvino non siamo obbligati a far questo esa
me, se quello che ci muove sia spirito buo
no o malo, perchè o buono o malo, tutto
è da Dio, il quale vuole che si eseguisca
da noi così il bene, come il male ch' egli
545
c'ispira. E secondo questo modo non vale
più la massima de settari di dover intendere
la Scrittura giusta lo spirito privato; perchè
ogni cosa che si faccia, e qualunque errore
di falsa interpretazione o di eresia che si
siegua, egli è ispirato da Dio.
55. Il quarto assurdo. Tutte le Scritture
ci fan sapere che Dio è molto più inclinato
ad usar misericordia e perdonare, che ad
usar giustizia e punire: Universa via Domi
ni misericordia et veritas. Psal. 24. Io. Mi
sericordia Domini plena est terra. Psal. 52.
5. Miserationes ejus super omnia opera eius.
Psal. 144 9. Supereraltat autem misericordia
judicium. Jac. 2. 15. Sicchè Iddio non solo
sovra i giusti, ma ancora sovra i peccatori
sovrabbonda di misericordia. Basta a farci
intendere il gran desiderio che ha Dio di
farci bene e salvarci quel detto che tante
volte ripete nel vangelo : Petite, et accipie
tis. Joan. 16. 24. Petite, et dabitur vobis.
Matth. 7. 7. Omnis enim qui petit accipit.
Luc. 1 1. 1o. Egli offerisce a tutti i suoi te
sori, la luce, l'amor divino, la grazia ef:
ficace, la perseveranza finale, la salute eter
na, sempre che gliele domandiamo. Dio è
fedele, non può mancare alle sue promesse:
ond'è che chi si perde, solo per sua col
pa si perde. Calvino dice che pochi sono
gli eletti, e questi sono Beza ed i suoi
544
discepoli; e tutti gli altri son reprobi, sovra
i quali Iddio esercita solamente la sua giu
stizia, mentre gli ha predestinati all' infer
no, e perciò li priva d'ogni grazia, ed egli
stesso gl'incita a peccare. Dunque, secondo
Calvino, bisogna che non ci figuriamo un
Dio misericordioso, ma un Dio tiranno,
anzi il più crudele ed ingiusto di tutti i ti
ranni; mentr egli, come dice, vuole che
pecchino gli uomini, affin di tormentarli eter
namente. Dice Calvino che Dio lo fa per
esercitar la sua giustizia; ma questa appun
to è la crudeltà del tiranni, i quali vogliono
che gli altri commettano delitti, acciocchè
poi in castigarli possano saziare il loro ami
mo crudele.
54. Il quinto assurdo. Giacchè l'uomo è
necessitato a peccare, perchè Dio vuole che
pecchi, e lo muove a peccare, dunque è
ingiustizia il castigarlo; mentre chi è for
zato a peccare, non ha libertà, e perciò
non pecca. Anzi seguendo la volontà di
Dio, che vuole che pecchi, più presto me
rita premio, seguendo la divina volontà;
sicchè come Dio può punirlo per esercitar
la sua giustizia? Ma dice Beza che l'Apo
stolo scrive: Qui ( Deus ) operatur omnia
secundum consilium voluntatis sua. Ephes. 1.
11. Se tutto si fa per volontà di Dio, dun
que, dice, anche i peccati si fanno per sua
545
volontà. Ma no; erra Beza: tutto si fa per
volontà di Dio, ma fuori del peccati. Dio
non vuole i peccati, nè vuole che alcuno si
perda col peccato: Nunquid voluntatis meae
est mors impii ? dicit Dominus... Ezech. 18.
25. Nolens aliquos perire. 2. Petr 5. 9. Dio
vuole che tutti si facciano santi : Haec est
voluntas Dei, sanctificatio vestra. 1. Thess. 4. 5.
55. Il sesto assurdo. Dicono i settari che
Dio stesso opera con noi i peccati, e di
noi si serve come di stromenti per eseguire
i peccati; onde Calvino, come notammo a
principio di questo paragrafo, non ripugna di
chiamare Dio autore del peccato. Ciò sta
condannato dal concilio di Trento ( Sess. 6
al can. 6 ) : Si quis dixerit non esse in
potestate hominis vias suas malas facere, sed
mala opera, ita ut bona, Deum operari,
non permissive solum, sed etiam proprie, et
per se, adeo ut sit proprium eius opus non
minus proditio Judae, quam vocatio Pauli,
anathema sit. Ma se Dio è autor del pecca
to , mentr' esso lo vuole, e ci spinge a pec

care, ed opera con noi il peccato, come


poi l'uomo pecca, e Dio non pecca ? In
terrogato Zuinglio di questa difficoltà, non
sapendo altro che rispondere, disse sdegnato :
De hoc ipsum Deum interroga; ego enin ei
non fui a consiliis. E Calvino a questa stessa
difficoltà: come Dio condanni gli uomini
P 5
546
esecutori del peccato, quando egli stesso gli
opera per loro mezzo; nelle opere male non
l'istrumento, ma l'operante essendo il col
pevole; onde se l'uomo peccasse solo come
istrumento di Dio, non sarebbe l'uomo il
colpevole, ma Dio: risponde che dalle nostre
menti di carne ciò non si può intendere :
Via capit sensus carnis (1). Rispondono poi
alcuni settari che Dio non pecca operando il
peccato, ma pecca solamente l'uomo; per
chè l'uomo opera a mal fine, ma Dio opera
a buon fine di esercitar la sua giustizia con
punire il peccatore per il suo delitto. Ma
questa risposta neppure scuserebbe Dio da
colpa : perchè secondo Calvino, Iddio de
creta e predestina l'uomo, non solo a far
l' opera del peccato, ma a farla con mala
volontà, altrimenti non potrebbe punirlo;
dunque in quanto al peccato Dio è vero au
tor del peccato, e veramente pecca Zuin
glio (2) dà un'altra ragione, dicendo che
l'uomo pecca, perchè opera contro la legge;
ma Dio non pecca, perchè Iddio non ha
legge. Ma Calvino stesso ributta questa inet
ta ragione (5), dicendo: Non fingimus Deum
ex legem. E con ragione : perchè sebbene a

(1) Calvin. Inst. lib. 1. cap. 18. S. 1.


(2) Zuingl. Serm. de Provident. cap. 5.
(3) Calvin. lib. 3. cap. 23. S. 2.
54
Dio niuno può dar legge, mini e
stessa sua giustizia e bontà gli è legge. Per
tanto siccome il peccato è contrario alla
legge di natura, così è contrario alla bontà
di Dio; e perciò Dio non può mai volere
il peccato. Ma giacchè dice il Calvinista che
quanto fa l'uomo di bene o di male, lo fa
per necessità, perchè tutto l'opera Dio; se
accadesse poi che costui fosse bastonato da
un altro, e dicendogli esso : Perchè mi ba
stoni, colui gli rispondesse : Non son io
che ti batto; è Dio, il quale mi muove e mi
forza a batterti: vorrei vedere se il Calvi
nista lo scuserebbe secondo la dottrina di
Calvino, oppure sdegnato gli direbbe: Che
Dio, che Dio ? Non è Dio, sei tu che mi
percuoti, perchè vuoi percuotermi per l'odio
che mi porti. Ah miseri eretici, che ben co
noscono i loro inganni ! Son ciechi, perchè
vogliono esser ciechi.
56. Oppongono poi i settari molti passi
di Scrittura, coi quali intendono provare che
Dio voglia, comandi ed operi i peccati: Ego
Dominus... faciens pacem, et creans ma
lum. Isa. 45. 6. et 7. Ma a ciò risponde Ter
tulliano: Mala dicuntur et delicta et suppli
cia. Dio opera i supplici, non già i delitti.
E poi soggiunge: Malorum culpae diabolum,
malorum poenae Deum. Nella ribellione di As
salonne contro Davide suo padre Iddio volle
548
il castigo di Davide, ma non il peccato
di Assalonne. Ma sta scritto ( 2. Reg. 16.
1o. ): Dominus praecepit ei (Semei) ut ma
lediceret David. In Ezechiele ( 14.9 ) : Ego
Dominus decepi prophetam illum. Ne' salmi
( 1 o4. 25. ) : Convertit cor eorum, ut odi
rent populum eius. Ed in S. Paolo C2. Thess.
2. 11. ) : Mittet illis Deus operationem er
roris, ut credant mendacio. Ecco, dicono,
come Dio comanda ed opera i peccati. Ma
non vogliono i settari distinguere in questi
testi la volontà di Dio, dalla permissione di
Dio: Iddio per giusti suoi fini permette che
gli uomini s'ingannino e pecchino o per
pena degli empi, o per profitto del buoni;
ma non mai vuole, nè opera il peccato.
Scrive Tertulliano (1): Deus non est mali
auctor, quia non effector; certe permissor.
S. Ambrogio (2) scrive : Deus operatur quod
bonum est, non quod malum. S. Agostino (5)
scrive: Iniquitatem damnare novit ipse, non
facere.

(1) Tertull. lib. advers. Hermog.


(2) S. Ambros. lib. de Parad. cap. 15.
(3) S. August. Ep. 1o5. ad Sixtum.
549
S. VII.
CHE DIO NON HA MAI PREDESTINATO

ALCUN UOMO ALLA DANNAZIONE

SENZA RIGUARDO ALLA SUA COLPA

57. L. dottrina di Calvino è tutta contra


ria. Dice egli che Dio ha predestinati molti
alla dannazione non per causa del loro pec
cati, ma solo per suo beneplacito. Ecco come
parla (1): Aliis vita aeterna, aliis damnatio
aeterna praeordinatur; itaque prout in alteru
trum finem quisque conditus est, ita vel ad
vitam, vel ad mortem praedestinatum dicimus.
E di tal predestinazione non assegna altra
ragione che la volontà di Dio (2): Neque in
aliis reprobandis aliud habebinus, quam eius
voluntatem. Ben intendo che questa dottrina
riesce comoda agli eretici, perchè così si
danno la libertà di fare tutti i peccati che
vogliono, senza rimorso e senza timore,
riposandosi su quel loro celebre dilemma:
se son predestinato, mi salverò, per quante
opere male ch'io commetta; se son ripro
vato, io mi dannerò, per quante opere buo
ne ch'io faccia. Ma a questo falso argomento

(1) Calvin. Instit. lib. 1. cap. 21. S. 5.


(2) Idem S. 11.
55o
ben rispose un certo medico, il quale, co
me narra Cesario, intese far lo stesso argo
mento da un uomo malvagio, allorchè da
un altro fu ripreso de' suoi vizi. Or avven
ne che quel malvivente, chiamato Ludovico
Langravio, cadde infermo a morte. Chiamò
egli questo stesso medico a guarirlo. An
dò il medico a ritrovarlo; ed allorchè fu
richiesto da Ludovico di guarirlo, memore
della risposta ch'egli diede a chi l'ammo
miva, gli disse : Ludovico, a che serve l'ope
ra mia ? Se è venuta l' ora della tua morte,
morrai con tutti i miei rimedi, se non è
venuta, viverai senza la mia cura. Allora ri
spose l'infermo : Ora, signor medico, aiu
tatemi voi come potete, prima che venga la
morte; perchè coi rimedi può esser ch' io
risani, ma senza rimedi facilmente morrò.
Allora il medico, ch'era uomo prudente, gli
rispose: Se dunque pensi di conservar la vita
del corpo colla medicina, perchè poi non
procuri colla confessione di ricuperare la vi
ta dell'anima? E così lo persuase a confes
sarsi; e quegli si convertì.
58. Ma diamo la risposta diretta a Calvino:
Calvino mio, se sei predestinato alla vita
eterna, sei predestinato a salvarti per mezzo
delle opere buone che farai, almeno per ra
gion di esecuzione della tua predestinazione:
all'incontro se sei destinato all'inferno, vi sei
35 I
destinato solo per i tuoi peccati, e non per
la mera volontà di Dio, come tu bestemmi.
Lascia dunque i peccati, fa opere buone, e
ti salverai. È affatto falso il supposto di Cal
vino che Dio abbia creati molti uomini per
l'inferno; son troppo chiare, e quasi innu
merabili le Scritture, ove si dichiara che Id
dio vuol tutti salvi. Di ciò primieramente
abbiamo quel testo espresso di S. Paolo ( 1.
Tim. 2. 4. D: Qui omnes homines vult salvos
fieri, et ad agnitionem veritatis venire. Questa
verità che Dio voglia salvi tutti dice San
Prospero che, attese le parole dell'Apo
stolo, dee senza dubbio confessarsi e cre
dersi ; e ne apporta la ragione, dicendo:
Sincerissime credendum atque profitendum est
Dominum velle omnes homines salvos fieri;
siquidem Apostolus, cujus haec sententia est,
sollicite praecipit ut Deo pro omnibus sup
plicetur (1). L'argomento è chiaro; mentre
S. Paolo nel luogo citato prima scrive: Ob
secro igitur primum omnium fieri obsecratio
nes... pro omnibus hominibus; e poi sog
giunge : Hoc enim bonum est et acceptum
coram Salvatore nostro Deo, qui omnes ho
mines vult salvos fieri etc. Intanto dunque
vuol l'Apostolo che si preghi per tutti,
perchè Dio vuol salvi tutti. Dello stesso

(1) S. Prosp. Resp. ad 2. object. Vincent.


552
argomento si valse S. Gio. Grisostomo (1):
Si omnes ille vult salvos fieri, merito pro
omnibus oportet orare. Si omnes ipse salvos
fieri cupit, illius et tu concorda voluntati. Si
aggiunge quel che dice l'Apostolo del Sal
vatore: Christus Jesus qui dedit redemptionem
semetipsum pro omnibus. 1. Tim. 2. 6. Se
Gesù Cristo ha voluto redimere tutti gli uo
mini, dunque tutti ha voluto salvarli.
59. Ma dice Calvino: Iddio certamente
prevede le opere buone e male di ciascun
uomo; onde se ha fatto già il decreto per
alcuno di mandarlo all'inferno a riguardo de'
suoi peccati, come può dirsi ch' egli vuol
tutti salvi 2 Si risponde con S. Giovan Da
masceno, S. Tommaso di Aquino e colla
sentenza comune di tutti i dottori cattolici,
che a rispetto della riprovazione del pecca
tori bisogna distinguere la priorità di tempo
dalla priorità di ordine, o sia di ragione:
in quanto alla priorità di tempo, il divino
decreto è anteriore al peccato dell'uomo;
ma in quanto alla priorità di ordine, il pec
cato dell'uomo è anteriore al decreto divino;
perchè intanto Iddio ha destinato ab aeterno
molti peccatori all' inferno, in quanto ha
preveduti i loro peccati. Onde ben si avvera
che il Signore colla volontà antecedente, -

(1) S. Joan. Chrysost. in 1. Tim. 2. Homil. 7.


555
che riguarda la sua bontà, veramente vuol
salvi tutti; ma colla volontà conseguente,
che riguarda i peccati del reprobi, li vuole
dannati. Ecco come parla S. Giovan Dama
sceno: Deus praecedenter vult omnes salvari,
ut efficiat nos bonitatis sua participes ut bo
nus; peccantes autem puniri vult ut justus (1).
Lo stesso scrive S. Tommaso: Voluntas an
tecedens est, qua ( Deus ) omnes homines
salvos fieri vult ... Consideratis autem omni
bus circumstantiis personae, sic non invenitur
de omnibus bonum esse quod salventur; bo
num enim est eum qui se praeparat et consen
tit, salvari; non vero nolentem et resisten
tem... Et haec dicitur voluntas consequens,
eo quod praesupponit praescientiam operum,
non tanquam causam voluntatis, sed quasi
rationem voliti (2).
6o. Vi sono poi molti altri testi, ne' quali
si conferma questa verità, che Dio vuol sal
vi tutti; de quali non voglio tralasciare al
meno di riferirne alcuni pochi : Venite ad
me omnes, dice il Signore, qui laboratis et
onerati estis, et ego reficiam vos. Matth. 11.
28. Venite tutti, dice, voi che state op
pressi da' vostri peccati, ed io vi ristorerò

(1) S. Joan. Damascen. lib. 2. de Fide ortod.


cap. 2.
“ - (2) S. Thom. cap. 6. Joan. lect. 4.
554
dalle ruine che da voi stessi vi avete cagio
mate. Se egli tutti chiama al rimedio, dun
que ha vera volontà di salvar tutti. In altro
luogo scrive S. Pietro: Patienter agit prop
ter vos, nolens aliquos perire, sed omnes
ad poenitentiam reverti 2. Petr. 5. 9. Si noti
omnes ad poenitentiam reverti Iddio non vuole
la dannazione di alcuno, anzi neppure del
peccatori, mentre sono in questa vita; ma
vuole che tutti si pentano del loro peccati,
e si salvino. In altro luogo abbiamo quel
che dice Davide: Quoniam ira in indignatio
ne ejus, et vita in voluntate eſus. Psalm. 29.
6. S. Basilio spiega questo passo, e scrive:
Et vita in voluntate eius: quid ergo dicit ?
nimirum quod vult Deus omnes vitae fieri par
ticipes. Quantunque noi offendiamo Iddio colle
nostre opere, egli non vuole la nostra mor
te, ma la vita. Dicesi poi nella Sapienza
( cap. 11. vers. 25. ) : Diligis enim omnia
quae sunt, et nihil odisti eorum quae fecisti,
E poco appresso al verso 27 si aggiunge:
Parcis autem omnibus, quoniam tua sunt,
Domine, qui amas animas. Se dunque Dio
ama tutte le sue creature e specialmente le
anime, pronto anche a perdonar loro, se si
pentono del peccati, come possiamo poi pen
sare ch'egli le crea per vederle penare eter
namente nell'inferno ? No, che Dio non ci
vuole vedere perduti, ma salvi; e quando
555
vede che noi ostinatamente col peccati ci ti
riamo sopra la morte eterna, egli, compian
gendo la nostra ruina, quasi ci prega a non
perderci: Et quare moriemini domus Israel?...
Revertimini et vivite. Ezech. 18. 52. Come di
cesse: poveri peccatori, e perchè vi volete
dannare ? Ritornate a me, e troverete la vita
perduta. Quindi avvenne che il nostro Sal
vatore, mirando un giorno la città di Geru
salemme, e considerando la ruina che i giu
dei aveano a tirarsi sovra per l'ingiusta
morte che aveano da dargli, si pose a pian
gere per compassione: Videns civitatem, fle
vit super illam. Luc. 19 41. In altro luogo
si dichiara che non vuole la morte, ma la
vita del peccatore : Nolo mortem morientis.
Ezech. 18. 52. E poco appresso vi aggiun
ge il giuramento, dicendo: Vivo ego, dicit
Dominus Deus: nolo mortem impii, sed ut
convertatur impius a via sua, et vivat. Ezech.
55. I 1. - -

61. Attese dunque tante testimonianze del


la Scrittura, colle quali Iddio ci fa sapere
che vuol salvi tutti, giustamente dice il dot
tissimo Petavio essere un'ingiuria che si fa
alla divina misericordia, ed un cavillare i
decreti della fede il dire che Dio non voglia
salvi tutti: Quod si ista Scriptura loca, qui
bus hanc suam voluntatem tam illustribus ac
saepe repetitis sententiis, imo lacrrmis ac
556
iurejurando testatus est Deus, calumniari li
cet, et in contrarium detorquere sensum, ut,
proeter paucos, genus humanum omne perdere
statuerit, nec eorum servandorum voluntatem
habuerit, quid est adeo disertum in fidei de
cretis, quod simili ab injuria et cavillatione
tutum esse possit (1) ? Soggiunge il cardinal
Sfondrati che il dire il contrario, cioè che
Dio solamente voglia salvi alcuni pochi, e
tutti gli altri con decreto assoluto li vuole
dannati, dopo ch'egli tante volte ha palesa
to che vuol salvi tutti, è lo stesso che farlo
un Dio da scena, che una cosa dice, ed un'
altra vuole ed opera: Plane qui aliter sen
tiunt nescio an ex Deo vero Deum scenicum
faciant (2). Ma tutti i santi Padri greci e
latini convengono in dire che Dio since
ramente vuol tutti salvi. Petavio nel luogo
citato riferisce i testi di S. Giustino, S. Ba
silio, S. Gregorio, S. Cirillo, S. Giovan Gri
sostomo e S. Metodio. Vediamo qui ciò che
me dicono i Padri latini. San Girolamo (5):
Vult (Deus ) salvare omnes, sed quia nullus
absque propria voluntate salvatur, vult nos
bonum velle, ut cum voluerimus, velit in

(1) Petav. Theolog. tom. 1. lib. 1o. cap. 15.


num. 5.
(2) Nodus Praed. part. 1. S. 1.
(3) S. Hier. Comment. in cap. 1. Ad Ephes.
557
nobis et ipse suum implere consilium S. Ila
rio (1) scrive: Omnes homines Deus salvos
fieri vult, et non eos tantum qui ad san
ctorum numerum pertinebunt, sed omnes om
nino, ut nullus habeat exceptionem. San
Paolino (2) scrive: Omnibus dicit Christus:
Venite ad me etc. Omnem enim, quantum in
ipso est, hominem salvum fieri vult qui fecit
omnes. S. Ambrogio (5) scrive: Etiam circa
impios suam ostendere debuit voluntatem; et
ideo nec proditorem debuit praeterire, ut ad
verterent omnes quod in electiones etiam pro
ditoris sui salvandorum omnium praetendit...
et, quod in Deo fuit, ostendit omnibus quod
omnes voluit liberare. Lascio per brevità tut
te le altre autorità del Padri che potrei qui
addurre. Ma che Dio veramente dalla sua
parte voglia salvarci tutti, ben riflette il Pe
trocorese, ce ne assicura il precetto divino
della speranza; perchè se non fossimo noi
certi che Dio vuol tutti salvi, la nostra spe
ranza non sarebbe sicura e ferma, come la
vuole S. Paolo C anchoram tutam ac firmam,
Hebr. 6. 18. et 19 ), ma inferma e dubbio
sa : Qua fiducia, son le parole del Petroco
rese, divinam misericordiam sperare poterunt
º ,

(1) S. Hilar. Ep. ad Aug.


(2) S. Paul. Ep. 24. ad Sever. num. 9.
(3) S. Ambros. de libro Parad. cap. 8.
558
homines, si certum non sit quod Deus saluten
omnium eorum velit (1) ? Questa ragione è
evidente; qui sta solo accennata, ma nel
mio libro della Preghiera (2) sta dichiarata
a lungo.
62. Ma replica Calvino che per il peccato
di Adamo tutto il genere umano è massa
dannata; onde Iddio miun torto fa agli uo
mini, se di loro solo alcuni pochi vuol sal
vi, e tutti gli altri dannati, non già per i
peccati propri, ma per il peccato di Ada
mo. Ma rispondiamo che Gesù Cristo ap
punto questa massa dannata è venuto a
salvare colla sua morte: Venit enim Filius
hominis salvare quod perierat. Matth. 18.
11. Egli il nostro Redentore offerì la sua
morte non per quei soli uomini che aveano
a salvarsi, ma per tutti senza eccezione:
Qui dedit redemptionem semetipsum pro om
nibus. 1. Tim. 2. 6. Pro omnibus mortuus
est Christus etc. 1. Cor. 5. 15. Speramus in
Deum vivum, qui est salvator omnium homi
num, maxime fidelium. 1. Tim. 4- 1o. E
l'Apostolo, per accertarci che gli uomini
eran tutti morti per il peccato, lo prova
con dire che Cristo è morto per tutti: Cha
ritas enim Christi urget nos . . . quoniam si

(1) Petrocor. Theol. tom. 1. cap. 3. qu. 4.


(2) Mezzo della Preghiera part. 2. cap. 4.
-

559
unus pro omnibus mortuus est, ergo omnes
mortui sunt. 2. Cor. 5. 14. Quindi scrisse
S. Tommaso (1): Christus Jesus est media
tor Dei et hominum, non quorundam, sed
inter Deum et omnes homines ; et hoc non
esset, nisi vellet omnes salvare.
65. Ma se Dio vuol salvi tutti, e Gesù
Cristo per tutti è morto, perchè poi, di
manda S. Giovan Grisostomo, non tutti si
:.-
salvano? Ed egli stesso risponde : perchè
non tutti vogliono uniformarsi alla volontà
di Dio, il quale vuol salvi tutti, ma non
vuole forzar la volontà di niuno: Cur igitur
non omnes salvi fiunt, si vult ( Deus ) om
nes salvos esse? Quoniam non omnium volun
tatem sequitur, porro ipse neminem cogit (2).
Dice S. Agostino: Bonus est Deus, justus est
Deus; potest aliquos sine bonis meritis libera
re, quia bonus est; non potest quem quam sine
malis meritis damnare, quia justus est (5). An
che i Centuriatori luterani di Magdeburgo,
parlando del reprobi, confessano che i santi
Padri hanno insegnato che Dio non prede
stima i peccatori all'inferno, ma li condanna
per la prescienza che ha del loro peccati:

(1) S. Thom. ad 1. Tim. 2. lect. 1.


(2) S. Joan. Chrysost. Hom. 43. de Longitud.
praem. -

(3) S. Aug. lib. 3. contra Julian. cap. 18.

;
-
56o
Patres nec praedestinationem in eo Dei, sed
praescientiam solum admiserunt (1). Ma replica
Calvino che Dio, sebbene predestina molti
alla morte eterna, nondimeno non eseguisce
la pena se non dopo il loro peccato; e per
ciò vuole Calvino che Iddio prima predesti
ma i reprobi al peccato, acciocchè possa poi
con giustizia castigarli. Ma se sarebbe ingiu
stizia mandare gl'innocenti all'inferno, mol
to maggiore ingiustizia sarebbe il predestina
re gl'innocenti alla colpa, per poterli poi
punir colla pena. Major vero injustitia, scri
ve S. Fulgenzio, si lapso Deus retribuit poe
nam, quem stantem praedestinasse dicitur ad
ruinam (2).
64. La verità è che quei che si perdono,
solo per loro negligenza si perdono; men
tre, come scrive S. Tommaso, il Signore a
tutti dona la grazia necessaria per salvarsi:
Hoc ad divinam providentiam pertinet, ut
cuilibet provideat de necessariis ad salutem (5).
Ed in altro luogo, spiegando il testo di San
Paolo Qui vult omnes homines salvos fieri,
scrive: Et ideo gratia nulli deest, sed omni
bus ( quantum in se est ) se communicat (4).
- -

(1) Centuriat. 1o2. cap. 4.


(2) S. Fulgent. lib. 1. ad Monim. cap. 24.
(3) S. Thom. quaest. 14. de Verit. art. 1 1. ad 1.
(4) Idem in Epist. ad Hebr. cap. 12. lect. 3,
36 I
Ciò appunto è quel che un tempo disse
Dio per Osea, che se ci perdiamo, tut
to avviene per nostra colpa, mentre noi
abbiamo in Dio tutto l'ajuto necessario a
non perderci: Perditio tua, Israel; tantum
modo in me auxilium tuum. Oseae 15. 9.
Quindi ci fa sapere l'Apostolo che Dio non
soffre che noi siamo tentati a peccare oltre
le nostre forze: Fidelis autem Deus est, qui
non patietur vos tentari supra id quod pote
stis. 1. Cor. 1 o. 15. Sarebbe in verità una
iniquità ed una crudeltà, come scrivono San
Agostino e S. Tommaso, quel che dice Cal
vino, cioè che Dio obbliga gli uomini ad
osservare i precetti, benchè sappia non po
terli essi osservare: Peccati reum, scrive
S. Agostino, tenere quenquam, quia non fe
cit quod facere non potuit, summa iniquitas
est (1). E S. Tommaso scrive : Homini impu
tatur ad crudelitatem, si obliget aliquem per
praeceptum ad id quod implere non possit ;
ergo de Deo nullatenus est aestimandum (2).
Altrimenti poi dice il Santo è quando ex
ejus negligentia est, quod gratiam non habet,
per quan potest servare mandata (5). La
quale negligenza consiste nel trascurare di

(1) S. Aug. de Anima lib. 2. cap. 12. num. 17.


(2) S. Thom. in 2. Sent. Dist. 28. qu. 1. art. 3.
(3) Idem qu. 24. de Verit. art. 14. ad 2.
LrG. Storia delle Eresie T III. Q
562
valerci noi almeno della grazia rimota della
preghiera, con cui possiamo ottener la pros
sima ad osservare i precetti, secondo quel
che insegna il Tridentino : Deus impossibilia
non jubet, sed jubendo monet et facere
quod possis, et petere quod non possis, et
adjuvat ut possis. Sess. 6 cap. 15.
65. Onde concludiamo con S. Ambrogio :
il Salvatore ha fatto ben conoscere che,
quantunque gli uomini sieno tutti infermi e
rei per la colpa, egli nondimeno ha recato
loro il rimedio bastante a salvarli : Omnibus
opem sanitatis detulit... ut Christi manifesta
in omnes praedicetur misericordia, qui omnes
homines vult salvos fieri (1). E qual maggior
felicità, dice S. Agostino, può avvenire ad
un infermo, che l'avere in sua mano la vi
ta, essendogli offerto il rimedio per guarirsi
quando vuole ? Quid enim te beatius, quam
ut, tanquam in manu tua vitam, sic in volun
tate tua sanitatem habeas (2)? Onde ripiglia
a dire S. Ambrogio nel luogo citato che
chi si perde, egli stesso si cagiona la mor
te, non curando di prendere il rimedio che
gli è apprestato: Quicunque perierit, mortis
suae causam sibi adscribat, qui curari noluit,
cum remedium haberet. Sì ; perchè, come

(1) S. Ambros. lib. 2. de Abel cap. 3.


(2) S. August. Tract. 12. in Joan. circa fin.
565
scrive S. Agostino, il Signore sama tutti, e
li sana perfettamente in quanto a sè , ma
non sana colui che ricusa di sanarsi : Quan
tum in medico est, sanare venit aegroturn ...
Sanat omnino ille, sed non sanat invitum (1).
In somma, dice S. Isidoro Pelusiota, Dio in
tutti i modi vuole aiutare i peccatori a sal
varsi; onde nel giorno del giudizio non tro
veranno essi scusa per evitar la loro con
danna: Etenim serio et modis omnibus ( Deus )
vult eos adjuvare, qui in vitio volutantur, ut
omnem eis excusationem eripiat (2).
66. Ma a tutto ciò Calvino oppone per 1.º
più testi, ove par che Dio stesso induri i
cuori del peccatori e gli acciechi, acciocchè
più non vedano la via della salute: Ego in
durabo cor ejus. Eacod. 4- 2 1. Eaccaeca cor
populi hujus... ne forte videat. Isa. 6. 1o.
Ma a questi e simili passi risponde S. Ago
stino che Iddio indura i cuori degli ostinati
con non dispensar loro quella grazia, di cui
si sono renduti indegni, ma non già con in
fondere in essi la malizia, come vuole Cal
vino: Indurat subtrahendo gratiam, non in
fundendo malitiam (5). E così anche dicesi
che Dio accieca : Eaccaecat Deus deserendo,

(1) S. August. Tract. 12. in Joan. circa fin.


(2) S. Isid. Pel. lib. 2. Epist. 27o.
(3) S. August. Epist. 194. al. 1o5. ad Sixtum.
564
et non adjuvando (1). Altro pertanto è l'in
durare e l'acciecare gli uomini, altro è il
permettere, per giusti fini, come fa Dio,
la loro ostinazione ed acciecazione. E così
parimente rispondesi a quel che disse San
Pietro ai giudei, rinfacciando loro la morte
data a Gesù Cristo: Hunc definito consilio
et praescientia Dei traditum ... interemistis.
Act. 2. 25. et seqq. Dunque, oppongono, fu
consiglio di Dio che i giudei uccidessero il
Salvatore. Si risponde che Dio defini sibbene
la morte di Cristo per la salute del mondo,
ma solamente permise il peccato del giudei.
67. Oppone per 2 º Calvino quel che scris
se l'Apostolo ( Rom. 9- 1 1. et seqq. D: Cum
enim nondum... aliquid boni egissent, aut mali
C ut secundum electionem propositum Dei ma
neret) non ex operibus; sed ex vocante dictum
est ei: quia major serviet minori, sicut scrip
tum est: Jacob dileri, Esau odio habui. Di più
oppone quel che siegue nel medesimo capo:
Igitur non volentis, negue currentis, sed mi
serentis est Dei. Inoltre: Cujus vult misere
tur, et quem vult indurat. E per fine : An
non habet potestatem figulus luti ex eadem
massa facere aliud vas in honorem, aliud ve
ro in contumeliam ? Ma da tutti questi passi
io non so che cosa possa dedurne Calvino

(1) S. August. Tract. 53. in Joan.


565
in favore della sua falsa dottrina. Dice il te.
sto di S. Paolo: Jacob dileri, Esau odio
habui, premettendo quelle altre parole: cum
enim nondum aliquid boni egissent, aut mali.
Come dunque Dio odiò Esaù prima di far
male? Ecco quel che risponde S. Agosti
no (1): Deus non odit Esau hominem , sed
odit Esau peccatorem. Che l'ottenere poi la
divina misericordia non dipende dalla nostra
volontà, ma dalla bontà di Dio, e che Dio
altri peccatori lasci ostinati nei loro pec
cati, e ne formi vasi di contumelia, e ad
altri usi misericordia, e ne formi vasi di
onore, chi può negarlo? Niun peccatore
può in ciò vantarsi, se Dio gli usa miseri
cordia, nè può lamentarsi di Dio, che non
gli doni la grazia domata agli altri: Auxilium,
dice S. Agostino, quibuscunque datur, mi
sericorditer datur; quibus autem non datur,
ex justitia non datur (2). In ciò bisogna ado
rare i divini giudizi, e dire col medesimo
Apostolo: O altitudo divitiarum sapientiae et
scientiae Dei! quam incomprehensibilia sunt ju
dicia eius, et investigabiles via eius ! Rom.
I 1. 55. Ma tutto ciò niente giova a Calvino,
il quale vuole che Dio predestini gli uomini

(i) S. August. lib. 1. ad Simplician. cap. 2.


(2) Idem lib. de Corrept. et Grat. cap. 5. e 6.
al. I 1.
566
all'inferno, e che perciò prima li predestina
alla colpa; no, dice S. Fulgenzio (1): Po
tuit Deus praedestinare quosdam ad gloriam,
quosdam ad paenam; sed quos praedestinavit
ad gloriam, praedestinavit ad justitiam ; quos
praedestinavit ad paenam, non praedestinavit
ad culpam. Alcuni incolparono S. Agostino
di questo errore; onde Calvino prese occa
sione di scrivere: Non dubitabo cum Augu
stino fateri voluntatem Dei esse rerum ne
cessitatem, parlando della necessità che ha
l' uomo di operare il bene ed il male (2). Ma
S. Prospero ben discarica da questo erro
re il suo maestro S. Agostino, ed indi
scrive: Praedestinationem Dei sive ad bonum,
sive ad malum in hominibus operari, ineptis
sime dicitur (5). Ed i Padri del concilio Arau
sicano anche in difesa di S. Agostino scris
sero così : Aliquos ad malum divina potesta
te pradestinatos esse, non solum non credi
mus, sed etiam si sint qui tantum malum
credere velint, cum omni detestatione illis
anathema dicimus.
68. Oppone per 5.º Calvino, e dice: ma
voi stessi cattolici non insegnate che Iddio
per il sommo dominio che ha sopra le sue

(1) S. Fulgent. lib. 1. ad Monimum cap. 16.


(2) Calvin. lib. 3. cap. 21. S. 7.
(3) S. Prosp. in libell. ad Capit. Gallor. c. 6.
567
creature, ben può escludere con atto positi
vo alcuni dalla vita eterna, ch'è la ripro
vazione negativa difesa già da'vostri teologi?
Ma rispondiamo che altro è negare ad alcu
mi la vita eterna, altro è condannarli alla
morte eterna; siccome altro è se il principe
esclude alcuni suoi sudditi dalla sua mensa,
altro è se li condanna alla carcere. Oltrechè
non è già che tutti i nostri teologi difendo
no questa sentenza: la maggior parte non
l'approvano. Ed in verità io per me non
so persuadermi come tal'esclusione positi
va dalla vita eterna si uniformi alle Scrittu
re che dicono: Diligis enim omnia quae sunt,
et nihil odisti eorum quae fecisti. Sap. I 1. 25.
Perditio tua, Israel; tantummodo in me au
acilium tuum. Oseae 15. 9. Nunquid voluntatis
meae est mors impii, dicit Dominus Deus, et
non ut convertatur a viis suis, et vivat? Ezech.
18. 25. Ed in altro luogo il Signore giura
che non vuole la morte, ma la vita del pec
catore: Vivo ego, dicit Dominus Deus, nolo
mortem impii, sed ut convertatur impius a
via sua, et vivat. Ez. 55. I 1. Venit enim Fi
lius hominis salvare quod perierat. Matth. 18.
11. Qui omnes homines vult salvos fieri. 1.
Tim. 2. 4. Qui dedit redemptionem semetipsum
pro omnibus. Ibid. vers. 6.
69 Posto dunque che il Signore in tanti
luoghi si dichiara che vuol la salute di tutti
368
ed anche degli empi, come può dirsi che con
decreto positivo escluda molti dalla gloria,
non già per causa del loro demeriti, ma solo
per suo beneplacito, quando che tal positiva
esclusione involve necessariamente, almeno
per necessità di conseguenza, la dannazione
positiva di essi? Giacchè secondo l'ordine da
lui stabilito non vi è mezzo tra l'esclusio
ne dalla vita eterna, e la destinazione all'eter
ma morte. Nè vale il dire che per la colpa
originale già tutti gli uomini sono nella mas
sa dannata, e perciò Iddio per alcuni deter
mina che restino nella lor perdizione, e per
altri che da quella siano liberati. Poichè si
risponde che quantunque tutti nascano figli
d'ira, nondimeno sappiamo che Dio colla
volontà antecedente vuole veramente salvi
tutti per mezzo di Gesù Cristo. Tanto più
ha forza poi questa ragione pei battezzati che
stanno in grazia, ne' quali, come scrive San
Paolo, non si trova alcuna cosa degna di
dannazione: Nihil ergo nunc damnationis est
eis qui sunt in Christo Jesu. Rom. 8. 1.
Quindi insegna il concilio di Trento che in
essi Iddio non trova che odiare : In renatis
enim nihil odit Deus, Sess. 5. decr. de pec
cat. origin.; in modo che quei che muoiono
dopo il battesimo immuni da ogni peccato
attuale, entrano subito nella gloria beata:
Niliil prorsus eos ab ingressu coeli removetur.
569
Ibid. Ora se Dio rimette a battezzati intie
ramente la colpa originale, come possiamo
dire che per quella escluda poi alcuni di loro
dalla vita eterna? Che di quei peccatori poi
che volontariamente han voluta perdere la
grazia battesimale, alcuni voglia Dio libera
re dalla dannazione meritata ed altri no,
ciò dipende dalla mera volontà di Dio e da'
suoi giusti giudizi. Del resto, come scrive
S. Pietro, anche di tali peccatori, mentre
sono in vita, non vuole Iddio che alcuno si
danni, ma che si penta del male fatto, e
si salvi: Patienter agit propter vos, nolens
aliquos perire, sed omnes ad poenitentiam re
verti. 2. Petr. 5. 9. In somma dice S. Pro
spero che coloro i quali sono morti in pec
cato, non ebbero necessità di perdersi, per
non essere stati predestinati; ma intanto non
sono stati predestinati, in quanto sono stati
preveduti di voler morire ostinati nel loro pec
cati: Quod hujusmodi in hac prolapsi mala,
sine correctione poenitentiae defecerunt, non
ex eo necessitatem habuerunt, quia praede
stinati non sunt, sed ideo praedestinati non
sunt, quia tales futuri ex voluntaria praeva
ricatione praesciti sunt (1).
7o. Da tutto ciò che si è detto ne passati
paragrafi si vede in quale confusione dei

(1) S. Prosp. Resp..3. ad Capit. Gallor.


Q 5
37o
dogmi della fede sono tutti gli eretici, e
specialmente i pretesi riformati. Sono essi
tutti uniti a contraddire gli articoli che in
segna a credere la chiesa cattolica; ma poi
tutti si contraddicono in mille punti di cre
denza fra di loro, sì che fra essi difficilmen
te si trova alcuno che creda ciò che crede
l'altro. Esclamano essi che non cercano e
non sieguono altro che la verità. Ma come
posson trovar la verità, se affatto si allon
tanano dalla regola della verità ? Le verità
della fede non erano per se stesse manife
ste a tutti gli uomini; onde se ciascuno fos
se stato obbligato a credere quel che gli pa
resse migliore, secondo il suo proprio giu
dizio, le questioni tra essi sarebbero state
eterne ed irrimediabili. Pertanto il Signore
per toglier la confusione ne' dogmi della fe
de, ha dato il giudice, al quale ha promes
sa l'infallibilità, affinchè così finissero le
dissensioni; e siccome non v'è che un Dio,
così non vi fosse per tutti che una fede,
come scrive l'Apostolo: Unus Dominus, una
fides, unum baptisma. Ephes. 4. 5.
71. Quale poi è questo giudice che toglie
tutte le controversie circa la fede, e stabili
sce le verità che debbono credersi? È la san
ta chiesa, stabilita da Gesù Cristo per colon
ma e firmamento della verità, come scrive lo
stesso Apostolo : Scias quomodo oporteat te
97 i
in domo Dei conversari, quae est ecclesia Dei
vivi, columna et firmamentum veritatis. 1. Tin.
5. 15. Sicchè la voce della chiesa è quella che
c'insegna le verità, e distingue il cattolico
dall' eretico, come disse lo stesso Salvatore,
parlando di colui che disprezza le correzio
mi del prelati: Si autem ecclesiam non audie
rit, sit tibi sicut ethnicus et publicanus. Matth.
18. 17. Ma, dirà taluno, fra tante chiese
che vi sono nel mondo, quale è la vera, a
cui dobbiamo credere? Rispondo in breve,
mentre questo punto l'ho trattato a lungo
nell' opera mia della Verità della Fede, ed
anche nell' opera dogmatica contro i Rifor
mati in fine del libro; rispondo, dico, che
l'unica vera chiesa è la cattolica Romana. E
perchè questa è l'unica vera? Perchè questa
fu la prima fondata da Gesù Cristo. È certo
che il nostro Redentore fondò la chiesa, in
cui doveano i fedeli trovar la salute. Egli fu
il primo capo e maestro delle cose che deb
bono credersi ed osservarsi per conseguirla
salute. Lasciò poi, morendo, gli Apostoli
ed i loro successori a regger questa sua chie
sa ; ed a questa promise di assistere sino
alla fine del secoli: Et ecce ego vobiscum
sum... usque ad consummationem saculi. Matt.
28. 2o. Promise inoltre che le porte dell'in
ferno non mai avrebbero potuto abbatter la
sua chiesa: Tu es Petrus, et super hanc
2-2

petram aedificabo ecclesiam meam, et portae


inferi non praevalebunt adversus eam. Matt. 16.
18. Sappiamo poi che tutti gli eresiarchi che
han fondate le loro chiese, tutti si son sepa
rati da questa prima chiesa fondata da Gesù
Cristo; dunque se questa fu la vera chiesa
del Salvatore, tutte le altre da essa divise ne
cessariamente debbon essere false ed eretiche.
72. Nè vale dire come diceano prima i
Donatisti e poi han detto i protestanti, che
intanto si sono essi separati dalla chiesa cat
tolica, perchè, quantunque a principio ella
fu vera, appresso nondimeno, per colpa di
coloro che l'han governata, si è corrotta
in essa la dottrina insegnata da Gesù Cri
sto. Ciò non vale: perchè il Signore ha
detto, come abbiam veduto, che le porte
dell'inferno non mai avrebbero prevaluto
contro la chiesa da lui fondata. Nè vale
replicare che non è mancata la chiesa invi
sibile, ma la sola visibile per colpa de mali
pastori; neppure vale questa replica: perchè
è stato e sarà sempre necessario che nella
chiesa vi sia un giudice, visibile ed infalli
bile, che decida i dubbi, acciocchè i con
trasti abbiano fine, ed i veri dogmi siano
sempre sicuri e certi. Vorrei che questi bre
vi sentimenti che qui ho notati, fossero con
siderati da ciascun protestante, per intender
poi da lui come mai può egli sperar salute
fuori della chiesa nostra cattolica.
575
S. VI II.
DELL'AUToRITA' DE' coNCILI GENERALI.

75. L. fede non può essere che una; poi


chè essendo ella invisibil compagna della
verità, siccome la verità è una, così non
può essere che una la fede. Da ciò si de
duce, come si è detto, che nelle controver
sie circa i dogmi della fede è stato e sarà
sempre necessario che vi sia un giudice in
fallibile, al giudizio del quale tutti debbono
sottoporsi. La ragione è evidente: perchè
altrimenti, se dovesse aspettarsi il giudizio
di ciascun fedele, secondo vogliono i setta
rj, oltre l'esser ciò difforme dalle sacre Scrit
ture, come vedremo, è contrario anche alla
ragion naturale; mentre l'unire i pareri di
tutti i fedeli, e formarne un giudizio distinto
nelle definizioni del dogmi di fede, sarebbe
una cosa impossibile, ed i contrasti sareb
bero eterni, e non vi potrebbe essere più
l'unità della fede, ma vi sarebbero tante
fedi diverse, quante sono le teste degli uo
mini. Ad accertarci poi delle verità che dob
biamo credere non basta la sola Scrittura,
perchè molte Scritture possono avere diversi
sensi, veri e falsi; onde quelli che vorran
no prendere i testi in senso perverso, la
Scrittura per essi non sarà più regola di
574
fede, ma fonte di errori. Scrive S. Girolamo:
Non putemus in verbis Scripturarum esse evan
gelium, sed in sensu; interpretatione enim
perversa de evangelio Christi fit hominis evan
gelium, aut diaboli. E donde mai ne dubbi
della fede deve aversi il vero senso delle
Scritture? Deve aversi dal giudizio della chie
sa, la quale, come scrisse l'Apostolo, è la
colonna e il firmamento della verità.
74. Che poi fra tutte le chiese la cattolica
Romana sia l'unica vera, e tutte le altre che
da quella si son separate, siano false, è co
sa evidente da ciò che si è detto : perchè
la chiesa Romana, come confessano gli stes
si settari, è stata certamente la prima fon
data da Gesù Cristo; a questa egli promise
la sua assistenza sino alla fine del mondo; e
questa chiesa, come disse a S. Pietro, non
sarà mai abbattuta dalle porte dell'inferno;
per le quali porte, come spiega S. Epifanio,
s'intendono le eresie e gli eresiarchi. Per
tanto in tutti i dubbi di fede noi sottoporci
dobbiamo alle dichiarazioni di questa chiesa,
cattivando al suo giudizio il giudizio nostro,
in ossequio di Cristo, che ci comanda di
ubbidire alla chiesa, come me insegna San
Paolo: Et in captivitatem redigentes omnem
intellectum in obsequium Christi. 2. Cor. 1o. 5.
75. La chiesa poi c'istruisce per mezzo
de concili ecumenici ; e perciò la perpetua
575
tradizione di tutti i fedeli ha tenute sempre
per infallibili le definizioni del concili gene
rali, e per eretici coloro che a quelle non
han voluto sottoporsi. Tali sono stati i Lu
terani e i Calvinisti, dicendo che i concili
generali non sono infallibili. Ecco come par
lava Lutero (1), e nell'articolo 5o fra gli
articoli 41 condannati dal Papa Leone X. :
Via nobis facta est enervandi auctoritatem
conciliorum, et judicandi eorum decreta, et
confidenter confitendi quidquid verum videtur,
sive prolatum fuerit, sive reprobatum a quo
cunque concilio. Lo stesso scrisse Calvino,
e questa falsa opinione è stata poi abbrac
ciata dagli altri Luterani e da Calvinisti; men
tre anche Calvino con Beza, come scrive un
autore (2), dissero che tutti i concili, per santi
che siano, possono errare in ciò che spetta
alla fede. All'incontro la facoltà di Parigi,
censurando l'articolo 5o di Lutero, dichia
rò : Certum est concilium generale legitime
congregatum in fidei et morum determinatio
nibus errare non posse. Ed in verità è trop
pa ingiustizia il negare l'infallibilità del con
cili ecumenici : poichè essi rappresentano la
chiesa universale ; sicchè se potessero erra
re in materia di fede, potrebbe errare tutta
m

(1) Luther. lib. de Concil. art. 28. e 29.


(2) Joan. Vrsembogardi Epist. ad Lud. Colin.
576
la chiesa, ed in tal caso potrebbero dire
gli atei, che Dio non ha provveduto abba
stanza all' unità della fede, alla quale era te
nuto a provvedere, volendo che da tutti una
sola fede si tenesse.
76. Onde dee tenersi di fede che i conci
li generali, per quel che tocca a dogmi ed
a precetti morali, non possono errare. Ciò
si prova per 1.º dalle divine Scritture. Dis
se Gesù Cristo: Ubi sunt duo vel tres con
gregati in nomine meo, ibi sum in medio eo
rum. Matth. 18. 2o. Oppone a ciò Calvino:
dunque anche il concilio di due persone non
può errare, se si congregano in nome di
Dio. Ma, come spiegò già il concilio di Cal
cedonia nella lettera a S. Leone Papa ( Act.
5. in fin. ), e il sinodo VI. ( Act 17. ), le
parole in nomine meo non dinotano già il
congresso di persone private che si unisco
no per risolvere affari spettanti a soli priva
ti interessi, ma l'unione di coloro che con
gregansi per le definizioni de punti che ri
guardano tutta la società cristiana. Si prova
per 2.º dalle parole di S. Giovanni: Spiritus
veritatis docebit vos omnem veritatem. Joan.
16. 15. E prima nel capo 14 verso 16 sta
scritto: Et ego rogabo Patrem, et alium Pa
raclitum dabit vobis, ut maneat vobiscum in
aeternum, spiritum veritatis etc. Colle parole
ut maneat vobiscum in aeternum ben si fa
577
noto che lo Spirito Santo dovea restar nella
chiesa ad ammaestrare nelle verità della fe
de non solo gli Apostoli, che non erano
già eterni in questa vita mortale, ma i ve
scovi ch'erano loro successori. Altrimenti
fuori di tal congregazione de vescovi non
può intendersi dove lo Spirito Santo avreb
be insegnate tali verità.
77. Per 5.º si prova dalle promesse fatte
dal Salvatore di sempre assistere alla sua
chiesa, affinchè non erri: Et ecce ego vobis
cum sum omnibus diebus usque ad consum
mationem saeculi. Matth. 28. 2o. Et ego dico
tibi, quia tu es Petrus, et super hanc petram
cedificabo ecclesiam meam, et portae inferi
non praevalebunt adversus eam. Matth. 16. 18.
Il concilio generale, come si è detto, e co
me dichiarò il sinodo VIII. Act. 5 , rappre
senta la chiesa universale; onde nel conci
lio di Costanza fu ordinato che i sospetti di
eresia s'interrogassero: An non credant con
cilium generale universam ecclesiam reprae
sentare. E lo stesso scrissero S. Atanasio,
S. Epifanio, S. Cipriano, S. Agostino e
. S. Gregorio (1). Se dunque la chiesa, come

(1) S. Athan. Epist. de Synod. Arim. S. Epiph.


Ancorat. in fin. S. Cypr. lib. 4. Epist. 9. S. Aug.
lib. 1. contra Donat. cap. 18. S. Greg. Epist. 24.
ad Patriarch. -
578 -

si è dimostrato, non può errare ; neppu


re può errare il concilio, che rappresenta
la chiesa. Si prova inoltre da quei testi in
cui si comanda a fedeli di ubbidire a prela
ti della chiesa: Obedite praepositis vestris, et
subjacete eis. Hebr. 15. 17. Qui vos audit,
me audit. Luc. 1o. 16. Euntes ergo docete
omnes gentes. Matth. 28. 19. Questi prelati,
stando separati, ben possono errare, e spes
so discordano fra di loro ne punti contro
versi; dunque dobbiamo udirli come Cristo
inſallibili solo quando si trovano congrega
ti ne concilj. E quindi i santi Padri han giu
dicati eretici tutti coloro che han contraddet
to a dogmi definiti da concili generali; così
S. Gregorio Nazianzeno, S. Basilio, S. Ci
rillo, S. Ambrogio, S. Atanasio, S. Agosti
no, S. Leone (1).
78. Alle suddette prove si aggiunge la ra
gione che, se i concili ecumenici potessero
errare, non vi sarebbe nella chiesa alcun
fermo giudizio, col quale terminassero le
discordie circa i punti dogmatici, e si con
servasse l'unità della fede. Si aggiunge di
più che, se i concilj non fossero nel loro

(1) S. Greg. Nazianz. Epist. 1. ad Cledon. S.


Basil. Epist. 78. S. Crrill. de Trinit. S. Ambros.
Epist. 32. S. Athan. Epist. ad Episc. Afric. S.
Aug. lib. 1. de Bapt. cap. 18. S. Leo Epist. 77.
ad Anatal. -
579
giudizio infallibili, niuna eresia potrebbe dir
si condannata e vera eresia. Inoltre non vi
sarebbe certezza di molti libri della Scrittu
ra, come dell'epistola di S. Paolo agli
Ebrei, dell'epistola 2 di Pietro, dell'episto
la 5 di S. Giovanni, delle epistole di San
Giacomo e di S. Giuda e dell'Apocalisse
di S. Giovanni; i quali libri, benchè sie
no stati ricevuti da Calvinisti, nondimeno
da altri sono stati posti in dubbio, finchè
furon dichiarati canonici dal concilio IV. Per
ultimo aggiungesi che, se potessero errare i
concilj, avverrebbe che tutti i medesimi
avrebbero commesso un errore intollerabile
di proporre a credere di fede cose, di cui
non consta se sieno vere o false; e così ca
drebbero a terra anche i simboli del Nice
mo, del Costantinopolitano, dell'Efesino e
del Calcedonese, ove furon dichiarati di fede
più dogmi che prima non eran tenuti per
tali : e pure questi quattro concilj sono sta
ti ricevuti di fede dagli stessi movatori. Ma
veniamo alle loro molte ed importune op
posizioni.
79. Oppone per 1.º Calvino (1) più luo
ghi della Scrittura, dove i profeti, sacerdo
ti e pastori son chiamati bugiardi ed igno
ranti. Propheta usque ad sacerdotem cuncti

(1) calvin. Inst. lib. 4. cap. 9. 5. 3.


38o
faciunt mendacium. Jer. 8. 1o. Speculatores
ejus caeci omnes... et pastores ipsi nihil sciunt.
Isa. 56. 1o. et 1 1. Si risponde che più volte
nella Scrittura per alcuni cattivi si ripren
dono tutti, come avverte S. Agostino (1)
in quel passo: Omnes quaerunt quae sua sunt.
Phil. 2. 21. Il che certamente non fu negli
Apostoli, che cercavano la sola gloria di Dio;
e perciò S. Paolo esorta i Filippesi: Imita
tores mei estote, fratres, et observate eos qui
ita ambulant. Phil 5. 17. Di più si risponde
che ne primi testi citati si parla del sacer
doti e pastori separati tra di loro che ingan
navano la gente, ma non di coloro che par
lano congregati in nome di Dio. Si aggiun
ge che la chiesa del nuovo Testamento ha
ricevute promesse molto più ferme, che non
aveva la Sinagoga, la quale non fu già chia
mata, come la nostra, Ecclesia Dei vivi, co
lumna et firmamentum veritatis. 1. Tim. 5.
15. Replica Calvino (2) che anche nella nuo
va legge vi sono molti falsi profeti e sedut
tori, come si dice in S. Matteo ( 24 4 ) :
Et multi pseudopropheta surgent, et seducent
multos. E ciò anche è vero; ma questo te
sto ben dovea Calvino applicarlo a se stes
so, a Lutero, a Zuinglio, e non già ai

(1) S. August. de Unit. Eccl. cap. 11.


(2) Calvin. loco cit. S. 4.
38 t
concili ecumenici de vescovi, a quali sta pro
messa l'assistenza dello Spirito Santo, onde
ben possono dire: Visum est Spiritui San
cto, et nobis. Act. 15. 28.
8o. Oppone per 2.º Calvino a concilj l'ini
quità del concilio di Caifas, che fu ben ge
nerale di tutti i principi del sacerdoti, ed ivi
fu condannato Gesù Cristo come reo di mor
te. Matth. 26. 66. Dunque ne deduce che
anche i concili ecumenici sono fallibili. Si
risponde che noi diciamo infallibili i soli con
cili generali legittimi, a quali assiste lo Spi
rito Santo; ma come può dirsi legittimo ed
assistito dallo Spirito Santo quel concilio,
ove si condannava come bestemmiatore Ge
sù Cristo, per avere attestato di esser figlio
di Dio, dopo tante prove ch'egli ne avea
date di esser tale ? E dove si procedea con
inganni subornando i testimonj, e si opera
va per invidia, come conobbe lo stesso Pi
lato ? Sciebat enim, quod per invidiam tra
didissent eum. Matth. 27. 18.
81. Oppone per 5.º Lutero ( in art. 29)
che S. Giacomo nel concilio di Gerusalem
me mutò la sentenza data da S. Pietro; giac
chè S. Pietro disse che i gentili non fossero
tenuti ai precetti legali, ma S. Giacomo dis
se che doveano astenersi dalle carni sacrifi
cate agl' idoli, dalla fornicazione, dal san
gue e dagli animali soffocati, il che era un
582.
vero giudaizzare. Si risponde con S. Agosti
no e S. Girolamo (1) che quella proibizione
non fu mutare la sentenza di S. Pietro, nè
fu propriamente imporre l'osservanza della
legge vecchia, ma fu un precetto tempora
le di disciplina, affin di quietare i giudei
che non poteano soffrire in quei principi di
vedere che i gentili si cibassero di sangue
e carni da loro così abborrite; ma questo
fu un semplice precetto che, passato quel
tempo, non ebbe più vigore, come avverte
lo stesso S. Agostino (2).
82. Si oppone per 4 º che nel concilio di
Neocesarea, ricevuto già dal sinodo Niceno
I., come si attesta nel concilio Fiorentino,
trovasi l' errore di proibirsi le seconde noz
ze con queste parole: Presbyterum convivio
secundarum nuptiarum interesse non debere.
Ma, dicono, come potea farsi questa proi
bizione, contro l' epistola di S. Paolo che
dice: Si dormierit vir ejus, liberata est: cui
vult nubat, tantum in Domino. 1. Cor 7.
59. Si risponde che nel concilio Neocesare
se non già si vietarono le seconde nozze,
ma solamente la solenne celebrazione di

(1) S. August. lib. 32. contra Faustum cap. 13.


e S. Hieron. Epist. ad Augustin. quae est 11. in
ter Epist. August.
(2) S. Aug. loco oit.
585
esse ed i conviti che solo nelle prime si usa
vano; e perciò si proibì al prete di assiste
re, non già al matrimonio, ma al convito
che riguardava la solennità. Oppone per 5 º
Lutero che nel concilio di Nicea fu proibita
la milizia, quando il Battista la diede per
lecita, Luc. 5. 14. Si risponde che nel con
cilio non si proibì la milizia, ma il sacrifi
care agl' idoli per ottenere il cingolo milita
re; attesochè, siccome scrive Ruffino (1),
non si dava il cingolo se non ai sacrifi
canti, e solo questi furon condannati dal
concilio nel canone 2. Per 6.º oppone lo
stesso Lutero che nel detto concilio si or
dinò di ribattezzare i Paoliniani; quando
all'incontro in un altro concilio, nominato
Plenario da S. Agostino ( quale si crede il
concilio celebrato da tutta la Francia in Ar
les ) fu proibito di ribattezzare gli eretici,
secondo ordinò S. Stefano Papa contro il
sentimento di S. Cipriano. Si risponde che
intanto si ordinò dal Niceno che i Paolinia
mi si ribattezzassero, perchè questi eretici,
credendo Cristo puro uomo, corrompeano
la forma del battesimo, e non battezzavano
in nome delle tre persone, e perciò il loro
battesimo era affatto nullo; a differenza degli
altri eretici, che battezzavano in nome della

(1) Ruffin. Histor. lib. 1o. cap. 32.


584
Trinità, benchè non credeano essere egual
mente Dio le tre persone. -

85. Oppongono per 7.º li novatori che nel


concilio Cartaginese III. al can. 47 si nume
rano per libri sacri Tobia, Giuditta, Baruch,
la Sapienza, l'Ecclesiastico e i Maccabei;
all'incontro nel concilio di Laodicea al capo
ultimo quei libri si ributtano. Si risponde per
1.º che ambedue questi concilj non furono
ecumenici; il primo non però fu provincia
le di 22 vescovi, ma il Cartaginese fu na
zionale di 44 vescovi; e di più questo ſu
confermato dal Papa Leone IV., come si
legge nel can. de libellis dist. 2o, e fu po
steriore a quello di Laodicea; onde può dir
si che emendasse il primo. Si risponde per
2.º che il concilio di Laodicea non già ri
buttò i mentovati libri, ma solo tralasciò di
annoverarli tra i canonici, perchè allora ciò
era cosa dubbia ; ma nel secondo di Carta
gine, chiarita meglio la verità, furono ret
tamente ammessi per sacri. Oppongono per
8.º che in alcuni canoni del sinodo VI.
furono espressi più errori, come il dover
ribattezzare gli eretici, esser nulle le nozze
de cattolici cogli eretici. Si risponde col
Bellarmino (1) che quei canoni furono sup
posti dagli eretici; onde nel sinodo VII.,

(1) Bellarm. de Concil. lib. 2. cap. 8. vers. 13.


585
nell'azione 4 fu dichiarato che tali canoni
non erano già del sinodo VI., ma che ſu
ron fatti molti anni dopo in un concilio il
legittimo a tempo di Giulio II., che fu
anzi riprovato dal Papa , come attesta il ve
nerabile Beda (1). Oppongono per 9º che
il sinodo VII., cioè il Niceno II., fu oppo
sto al Costantinopolitano celebrato sotto l'im
perator Copronimo intorno al culto delle
immagini, dove tal culto fu proibito. Si ri
sponde che questo Costantinopolitano non
fu legittimo, nè fu generale, ma fu di pochi
vescovi, senza l'intervento de legati ponti
fici e de tre patriarchi, cioè dell'Alessan
drino, Antiocheno e Gerosolimitano, che
doveano intervenirvi secondo la disciplina
di quei tempi.
84. Oppongono per 1oº che il sinodo
Niceno II. fu riprovato dal concilio di
Francfort. Ma si risponde col Bellarmino
nel luogo citato, che ciò avvenne per er
rore; mentre quello di Francfort suppo
se che nel sinodo di Nicea era stabilito
che le sacre immagini dovessero venerar
si con culto di latria, e che quel conci
lio era stato celebrato senza consenso del
Papa: ma ambedue queste cose furono false,
come apparisce dagli stessi atti del Niceno.

(1) Beda lib. de sex aetatib.


LIG. Storia delle Eresie T III. P.
586
Oppongono per 1 1.º che nel concilio Late
ranese IV. fu definita di fede la transostan
ziazione del pane e del vino nel corpo e
sangue di Gesù Cristo, quando che nel con
cilio Efesino si fulminò l'anatema contro chi
proferisse altro simbolo fuori di quello fatto
dal Niceno I. Si risponde per 1.º che il La
teranese non compose già un nuovo simbolo,
ma solo definì la questione che allora si agi
tava. Si risponde per 2.º che l'Efesino ana
tematizzò chi facesse un simbolo contrario a
quello di Nicea, ma non già un simbolo
nuovo, ove si dichiarasse qualche punto pri
ma non dichiarato. Oppongono per 12 º che
ne concili, definendosi i punti colla maggior
parte de voti, facilmente può definirsi un
errore per causa di un voto di più ; e così
può accadere che la miglior parte resti vin
ta dalla maggiore. Si risponde che l'errore
ben può accadere nel congressi puramente
umani, che la parte maggiore vinca la mi
gliore, ma non già nel concili ecumenici,
dove presiede lo Spirito Santo, ed assiste
Gesù Cristo secondo le divine promesse che
ne abbiamo.
85. Si oppone per 15.º che al concilio non
altro spetta che far ricerca della verità, ma
il decidere i dubbi tocca alla Scrittura; onde
le definizioni non dipendono già dalla mag
gioranza de voti, ma da quel giudizio che più
587
alla Scrittura si uniforma ; e perciò dicono
poi che ciascuno ha diritto di esaminare i
decreti del concilio per vedere se uniformansi
alla parola divina; così Lutero, Calvino (1)
ed altri protestanti. Ma noi rispondiamo che
ne concili ecumenici i vescovi son quei che
formano il giudizio infallibile del dogmi, al
quale senza esame debbono tutti ubbidire.
Ciò si prova dal Deuteronomio, ove ordinò
il Signore che i dubbi si decidessero dal sa
cerdote che presiede al concilio, e fu impo
sta la pena di morte a chi non ubbidiva :
Qui autem superbierit, nolens obedire sacer
dotis imperio, morietur homo ille. Deut. 17.
12. Si prova poi maggiormente dal vangelo,
ove sta detto : Si ecclesiam non audierit,
sit tibi sicut ethnicus et publicanus. Matth. 18.
17. Ora il concilio ecumenico, come si è
detto, per sentenza comune rappresenta que
sta chiesa, a cui si deve ubbidire. Si aggiun
ge che nel concilio di Gerusalemme ( Act.
15. et 16. ) si definì la questione de legali,
non già colla Scrittura, ma co' voti degli
Apostoli, ed al loro giudizio restaron tutti
obbligati ad ubbidire. Dunque, replicano i
settari, l'autorità del concilio è maggiore di
quella della Scrittura. Questa è bestemmia,

(1) Luther. de Conc. art. 29. e Calvin. Inst.


lib. 4. cap. 9. S. 8.
588
esclama Calvino (1). Rispondiamo che la
parola di Dio, così la scritta, qual è la
sacra Scrittura, come la non iscritta, qual'è
la tradizione, è certamente preferita a tutti
i concilj : ma i concilj non già formano la
parola di Dio, ma solamente dichiarano
quali sieno le vere Scritture o le vere tra
dizioni, e quale sia il vero lor senso; sic
chè non danno loro l'autorità della infalli
bilità, ma dichiarano quella che già aveano,
deducendola dalle stesse Scritture, e così
definiscono i dogmi, che debbon tenersi
poi da fedeli. In tal modo il Niceno definì
che il Verbo è Dio e non creatura; e il
Tridentino che nell'Eucaristia vi è il vero
corpo, e non la sola figura di Gesù Cristo.
86. Ma dicono gli eretici che questa chie
sa non è composta solamente da vescovi,
ma da tutti i fedeli, ecclesiastici e secolari;
e perchè poi i concilj si han da celebrare
dai soli vescovi? Disse pertanto Lutero che
ne concilj debbono esser giudici tutti i cri
stiani, di qualunque genere si siano. Ciò
pretendeano i protestanti nel tempo del con
cilio di Trento, di avere anch' essi la voce
decisiva de punti dogmatici; e ciò fu quando
furono i medesimi invitati di nuovo a ve
nire al concilio per esporre le loro ragioni

(1) Calvin. Inst. lib. 4. cap. 9. S. 14.


589
sulle materie controverse, avendo il concilio
con un nuovo salvocondotto promessa loro
tutta la sicurezza nel tempo della loro di
mora, e tutta la libertà di conferire coi Pa
dri, e di partirsi da Trento, quando loro
piacesse. Vennero i loro ambasciatori, e sul
principio dissero che la sicurtà loro data
non bastava ; mentre il concilio di Costanza
avea determinato non doversi osservare la
fede pubblica a rei di religione. Ma rispon
deasi a ciò da Padri di Trento che il salvo
condotto dato dal concilio di Costanza a Gio
vanni Hus non gli era stato concesso dal
concilio, a cui spetta il procedere in mate
ria di fede, ma dall'imperator Sigismondo 3
onde ben poteva il concilio sovra di lui eser
citar la sua giurisdizione. Oltrechè, come
riferimmo nella Storia al primo tomo (1),
il salvo condotto dato ad Hus dall'impera
tore era solo per gli altri delitti che gli era
no stati apposti, ma non già per gli errori
contro la fede; e perciò quando Giovanni
Hus fu di ciò avvertito, non seppe che ri
spondere. Rispondeasi pertanto da Padri di
Trento ai protestanti che di altra maggior
sicurezza era il salvo condotto dato loro dal
concilio, di quello che l' Hus aveasi procu
rato. Affacciarono poi gli ambasciatori tre

(1) Storia tom. 1. cap. 1o. art. 5, num. 43.


59o
pretensioni, tutte ingiuste, nel caso che i
dottori luterani fossero venuti a Trento (1).
Cercarono per 1.º che le questioni di fede
si fossero decise colla sola Scrittura: il che
non potea concedersi ; mentre il concilio
nella sessione 6 avea già dichiarato che le
tradizioni conservate nella chiesa cattolica
meritavano la stessa venerazione che le sacre
Scritture. Per 2.º richiedeano che si fossero
disputati da capo tutti gli articoli già defi
niti antecedentemente dal concilio: il che
neppure si potea concedere, perchè sarebbe
stato lo stesso che dichiarare non essere in

fallibile il concilio nelle definizioni già fatte;


onde sarebbesi data la vittoria a protestanti
prima della disputa. Per 5.º dimandavano
che i loro dottori sedessero nel concilio co
me giudici egualmente che i vescovi nel de
finire i dogmi.
87. Rispondiamo. S. Paolo scrive che la
chiesa è un corpo in cui il Signore ha di
stribuiti gli offici e le obbligazioni di cia
scuno: Vos autem estis corpus Christi et mem
bra de membro ; et quosdam quidem posuit
Deus in ecclesia primum apostolos, secundo
prophetas, tertio doctores. 1. Cor 12. 27.
et 28. Ed in altro luogo dice : Alios autem
-
(1) Vedi Pallavic. Istor. del Concil. di Trento
tom. 2. cap. 15. num. 9.
591
pastores et doctores. Ephes. 4 1 1. E poi
soggiunge : Nunquid omnes doctores? 1. Cor.
loc. cit. vers. 29 No, altri Dio ha posti nella
chiesa per pastori, che reggano il gregge:
altri per dottori, che insegnino la vera dot
trina: ad altri poi ha imposto che non si
lascino ingannare dalle nuove dottrine: Doc
trinis variis et peregrinis nolite abduci, Hebr.
15. 9 ; ma che ubbidiscano e si sottomet
tano a maestri loro dati : Obedite praeposi
tis vestris, et subjacete eis: ipsi enim pervi
gilant quasi rationem pro animabus vestris
reddituri. Ibid. vers. 17. Ora quali sono quei
maestri, ai quali il Signore promise la sua
assistenza sino alla fine del mondo? Furono
già gli Apostoli in primo luogo, a cui disse:
Et ecce ego vobiscum sum omnibus diebus
usque ad consummationem saeculi; Matth. 28.
2o.; promettendo loro che lo Spirito Santo
sarebbe restato sempre con essi ad ammae
strarli in tutte le verità : Et ego rogabo Pa
trem, et alium paraclitum dabit vobis, ut
maneat vobiscum in aeternum. Joan. 14. 16. E
prima avea già loro detto: Cum autem vene
rit ille spiritus veritatis, docebit vos omnem
veritatem. Joan. 16. 15. Ma gli Apostoli,
essendo mortali, doveano un giorno partirsi
da questo mondo. Come dunque può inten
dersi che lo Spirito Santo dovea restare per
petuamente con essi a fine d'istruirli nelle
592
verità della fede, ed acciocchè essi poi ne
avessero istruiti gli altri? S'intende dunque
che sarebbero lor successori altri, i quali
coll' assistenza divina avrebbero retto ed am
maestrato il popolo cristiano. E questi suc
cessori degli Apostoli sono stati appunto i
vescovi posti da Dio a reggere il gregge di
Cristo, come disse l'Apostolo: Attendite vo
bis et universo gregi, in quo vos Spiritus
Sanctus posuit episcopos regere ecclesiam Dei,
quam acquisivit sanguine suo. Act. 2o. 28.
Scrive Estio (1) sovra detto luogo: Illud = in
quo vos Spiritus Sanctus posuit etc. = de iis
qui proprie episcopi sunt, intellecit. Onde poi
il concilio di Trento nella Sess. 25 al capo
4 dichiarò : Declarat, praeter ceteros eccle
siasticos gradus, episcopos, qui in Apostolo
rum locum successerunt... positos a Spiritu
Sancto regere ecclesiam Dei, eosque preshr
teris superiores esse. Sicchè i vescovi ne' con
cilj sono i testimoni e i giudici della fede,
e dicono , come dissero gli Apostoli nel con
cilio di Gerusalemme : Visum est Spiritui
Sancto et nobis. Act. 15. 18. -

88. Quindi scrisse S. Cipriano (2): Eccle


sia est in episcopo. E S. Ignazio Martire (5)

(1) Estius in cap. 2o. Act. vers. 12.


(2) S. Cypr. Epist. ad Pupinum.
(3) S. Ignat. Epist. ad Trallian.
595
prima disse : Episcopus omnem principatum
et potestatem ultra omnes obtinet. Nel conci
lio Calcedonese (1) si disse: Srnodus episco
porum est, non clericorum; superfluos foras
mittite. E nel concilio di Costanza, sebbene
furono ammessi a dare i loro voti anche i
teologi, i giureconsulti e i ministri del prin
cipi, si dichiarò nondimeno che ciò correva
circa la sola materia dello scisma affin di
estinguerlo, ma non già intorno ai dogmi
di fede. Si sa ancora che nell' assemblea
del clero di Francia dell'anno 1656 i parro
chi di Parigi si protestarono con una pub
blica scrittura, ch'essi non riconosceano per
giudici della fede se non i soli vescovi.
L'arcivescovo di Spalatro, Marcantonio de
Dominis, ch'era poco sano nella fede, scris
se : Consensus totius ecclesiae in aliquo arti
culo non minus intelligitur in laicis, quam
etiam in praelatis; sunt enim etiam laici in
ecclesia, imo majorem partem constituunt.
Questa proposizione dalla facoltà della Sor
bona fu condannata come eretica. Haec pro º.
.
positio est haeretica, quatenus ad fidei pro -.

positiones statuendas consensum laicorum re


quirit.
89. È vero che ne concili ecumenici si am
mettono anche i generali degli ordini e gli

(1) Tom. 4. Conc. pag. 1 1 1.


594 -

abati a dare il voto decisivo; ma ciò è solo


per privilegio e consuetudine. Del resto di
legge ordinaria i soli vescovi sono i giudici,
secondo la tradizione de' Padri, come scri
vono S. Cipriano, S. Ilario, S. Ambrogio,
S. Girolamo, Osio, S. Agostino, S. Leone
Magno (1) ed altri. Ma dicono che nel con
cilio di Gerusalemme intervennero non so
lo gli Apostoli, ma anche i seniori: Con
venerunt Apostoli et seniores, Act. 15. 6, ed
anch'essi diedero il loro parere: Tunc placuit
Apostolis et senioribus etc. Vers. 22. Si ri
sponde da alcuni intendersi per seniori i
vescovi che in quel tempo erano stati già
consacrati dagli Apostoli. Da altri si rispon
de che quei seniori furon chiamati, non co
me giudici, ma consultori per dare il loro
parere, e così quietare maggiormente il po
polo. Nè vale il dire che molti vescovi son
portati da pregiudizi o sono di mali costumi,
a cui manca la divina assistenza, o sono
ignoranti, a cui manca la necessaria dottri
na. Perchè si risponde che, avendo Dio pro
messa l'infallibilità alla sua chiesa, e per
essa al concilio che la rappresenta, Dio stes
so dispone che nel definirsi i dogmi della
(1) S. Cypr. Epist. ad Jubajan. S. Hilar. de
Srnod S. Ambros. Epist. 22. S. Hieron. Apolog.
2. contra Ruffin. Osius ap. S. Athanas. Epist. ad
Solit. S. Leo Magnus Epist. 16.
595
fede vi concorrano tutti i mezzi che vi bi
sognano. Onde, semprechè non apparisce
per certo il difetto di qualche definizione
per mancanza di qualche requisito assoluta
mente necessario, ogni fedele dee sottoporsi
al giudizio fatto dal concilio.
9o. Parlando poi degli altri errori che
professano i settari contro la tradizione,
contro i sacramenti, contro la Messa, con
tro la comunione sotto la sola specie del
pane e contro l'invocazione dei Santi e
venerazione delle loro feste, reliquie ed im
magini e contro il purgatorio, le indulgen
ze e il celibato degli ecclesiastici, lascio qui
di scriverne, perchè già sufficientemente gli
ho confutati nella mia opera dogmatica sul
concilio di Trento contro i Riformati. Vedi
Sess, 25 S 1 e 2. Ma per far concetto del
lo spirito di questi nuovi maestri di fede,
voglio qui notare una bella proposizione di
Lutero, che disse in pubblico in una predi
ca al popolo (1). Stando egli allora sdegnato
contro alcuni tumultuanti, che non aveano
voluto dipendere dal suo consiglio, asseri
per metter loro timore: Io rivocherò quan
to ho scritto ed insegnato, e farò la mia
ritrattazione. Ecco la bella fede che insegna
va questo nuovo riformatore della chiesa,

(1) Luther. Serm. in Abus. tom. 7. pag. 275.


596
pronto a rivocarla, quando non si vedesse
rispettato! E simile è la fede di tutti gli
altri settari, i quali non possono esser mai
stabili nella loro credenza, allorchè si tro
vano usciti dalla vera chiesa, ch'è l'unica
arca di salute.

C O N FUT A Z I O N E XII.

DEGLI ERRORI DI MICHELE BAJO.

P., confutare il falso sistema di Michele


Bajo, bisogna qui trascrivere le sue 79 pro
posizioni dannate; poichè da queste si rica
va qual fosse il suo sistema. Ecco le propo
sizioni condannate dal Papa S. Pio V. nell'
anno 1564 nella sua bolla che comincia :
Ex omnibus afflictionibus etc. 1. Nec angeli,
nec primi hominis adhuc integri merita recte
vocantur gratia. 2. Sicut opus malum ex na
tura sua est mortis ceternae meritorium, sic
bonum opus ex natura sua est vitae aeterna
meritorium. 5. Et bonis angelis et primo ho
mini, si in statu illo permansissent usque ad
ultimum vitae, felicitas esset merces et non
gratia. 4. Vita aeterna homini integro et an
gelo promissa fuit intuitu bonorum operum :
et bona opera ex lege naturae ad illam
597
consequendam per se sufficiunt. 5. In promis
sione facta angelo et primo homini continetur
naturalis justitiæ constitutio , qua pro bonis
operibus, sine alio respectu, vita æterna ju
stis promittitur. 6. Naturali lege constitutum
fuit homini, ut, si in obedientia perseveraret,
ad eam vitam pertransiret , in qua mori non
posset. 7. Primi hominis integri merita fue
runt primæ creationis munera : sed, juxta
modum loquendi Scripturæ sacræ non recte
vocantur gratiæ ; quo fit ut tantum merita ,
non etiam gratiæ debeant nuncupari. 8. In
redemptis per gratiam Christi nullum inveniri
potest bonum meritum , quod non sit gratis
indigno collatum. 9. Dona concessa homini
integro et angelo , forsitan non improbanda
ratione possunt dici gratia , sed quia secun
dum usum Scripturæ, nomine gratiæ tantum
ea munera intelliguntur, quæ per Jesum ma
le merentibus et indignis confèruntur, ideo
neque merita , nec merces quæ illis redditur,
gratia dici debet. 1 o. Solutionem poenae tem
poralis , quæ peccato dimisso sæpe manet ,
et corporis resurrectio » proprie nonnusu me

ritis Christi adscribenda est. 1 1. Quod pie


et juste in hac vita mortali usque in finem.
conversati vitam consequitur æternam , id
non proprie gratiæ Dei, sed ordinationi na-.
turali usque initio creationis constitutæ justo .
Dei judicio, deputandum est. 12. Nec in hac
3g8
retributione bonorum ad Christi meritum re
spicitur, sed tantum ad primam institutionem
generis humani, in qua lege naturali insti
tutum est ut justo Dei judicio obedientiae
mandatorum vita æterna reddatur. 15. Pela
gii sententia est, opus bonum citra gratiam
adoptionis factum, non esse regni coelestis me
ritorium. 14. Opera bona a filiis adoptionis
facta non accipiunt rationem meriti ex eo
quod fiunt per spiritum adoptionis inhabitan
tem corda filiorum Dei, sed tantum ez eo
quod sunt conformia legi, quodque per ea
præstatur obedientia legi. 15. Opera bona
justorum non accipient in die judicii extremi
ampliorem merceden , quam justo Dei judi
cio merentur accipere. 16. Ratio meriti non
consistit in eo quod qui bene operatur, ha
beat gratiam et inhabitantem Spiritum San
ctum, sed in eo solum quod obedit divinæ legi.
17. Non est vera legis obedientia, quæ fit sine
charitate. 18. Sentiunt cum Pelagio , qui di
cunt esse necessarium ad rationem meriti ut
homo per gratiam adoptionis sublimetur ad
statum deificum. 19. Opera catechumenorum ,
ut fides et poenitentia ante remissionem pec
catorum facla, sunt vitæ æternæ merita; quam
ii non consequentur , nisi prius præcedentium
delictorum impedimenta tollantur. 2o. Opera
justitiæ et temperantiæ, quæ Christus fècit ,
ex dignitate personæ operantis non traxerunt
599
majorem valorem. 2 1. Nullum est pecca
tum eae natura sua veniale, sed omne pecca
tum meretur poenam aeternam. 22. Humanæ
naturæ sublimatio et exaltatio in consortium
divinæ naturæ debita fuit integritati primæ con
ditionis, ac proinde naturalis, dicenda est, et
non supernaturalis. 25. Cum Pelagio sentiunt
qui textum Apostoli ad Romanos 2° =
Gentes quæ legem nom habent , naturaliter
quæ legis sunt faciunt = intelligunt de gen
tibus fidem non habentibus. 24. Absurda est
eorum sententia , qui dicunt hominem ab ini
tio dono quodam supernaturali et gratuito
supra conditionem naturæ fuisse eaealtatum ,
ut fide, spe, charitate Deum supernaturaliter
coleret. 25. A vanis et otiosis hominibus se
cundum insipientiam philosophorum eaecogitata
est sententia : hominem ab initio sic constitu
tum, ut per dona naturae superaddita fuerit
largitate conditoris sublimatus , et in Dei fi
lium adoptatus, et ad Pelagianismum reji
cienda est illa sententia. 26. Omnia opera
infidelium sunt peccata , et philosophorum vir
tutes sunt vitia. 27. Integritas primæ creationis
non fuit indebita humanæ naturæ exaltatio ,
sed naturalis ejus conditio. 28. Liberum arbi
trium sine gratiæ Dei adjutorio nonnisi ad
peccandum valet. 29. Pelagianus est error
dicere quod liberum arbitrium valet ad , ul
lum peccatum vitandum. 5o. Non solum fures
4oo
ii sunt et latrones, qui Christum viam et
ostium veritatis et vitæ negant, sed etiam
quicunque aliunde quam per Christum in viam
justitiæ, hoc est, ad aliquam justitiam con
scendi posse dicunt, aut tentationi ulli sine gra
tiæ ipsius adjutorio resistere hominem posse, sic
ut in eam non inducatur, aut ab ea superetur.
31. Charitas perfecta et sincera, quæ est ex
corde puro et conscientia bona et fide non
ficta, tam in catechumenis, quam in paeni
tentibus potest, esse sine remissione peccatorum.
52. Charitas illa, quæ est plenitudo legis, non
est semper conjuncta cum remissione peccato
rum. 55. Catechumenus juste, recte et sancte
vivit, et mandata Dei observat , ac legem
implet per charitatem, ante obtentam remis
sionem peccatorum , quæ in baptismi lavacro
demum percipitur. 54. Distinctio illa duplicis
amoris , naturalis, videlicet, quo Deus amatur
ut auctor naturæ, et gratuiti, quo Deus ama
tur ut beatificator, vana est et commentitia ,
et ad illudendum sacris litteris et plurimis
veterum testimoniis eaecogitata. 55. Omne quod
agit peccator, vel servus peccati, peccatum
est. 56. Amor naturalis , qui eae viribus na
turæ eaeoritur eae sola philosophia per elatio
nem præsumptionis humanæ cum injuria cru
cis Christi defenditur a nonnullis doctoribus.
57. Cum Pelagio sentit qui boni aliquid na
turalis, hoc est, quod eae naturæ solis viribus
4o 1
ortum ducit, agnoscit. 58. Omnis amor crea
turæ naturalis, aut vitiosa est cupiditas, qua
mundus diligitur, quæ a Joanne prohibetur;
aut laudabilis illa charitas, qua per Spiritum
Sanctum in corde diffusa Deus amatur. 59.
Quod voluntarie fit, etiamsi in necessitate fiat,
libere tamen fit. 4o. In omnibus suis actibus
peccator servit dominanti cupiditati. 41. Is li
bertatis modus qui est a necessitate, sub li
bertatis nomine non reperitur in scripturis, sed
solum nomen libertatis a peccato. 42. Justitia
qua justificatur per fidem impius , consistit
formaliter in obedientia mandatorum , quæ
est operum justitia , non autem in gratia ali
qua animæ infusa , qua adoptatur homo in
filium Dei, et secundum interiorem hominem
renovatur, et divinæ naturæ consors efficitur,
ut sic per Spiritum Sanctum renovatus, dein
ceps bene vivere, et Dei mandatis obedire pos
sit. 45. In hominibus poenitentibus ante sa
cramentum absolutionis et in catechumenis
ante baptismum est vera justificatio , sepa
rata tamen a justificatione peccatorum. 44.
Operibus plerisque, quæ a fidelibus fiunt,
ut Dei mandatis pareant, cujusmodi sunt obe
dire parentibus, depositum reddere, ab homi
cidio , a furto , a fornicatione abstinere , ju
stificantur quidem homines , quia sunt legis
obedientiæ et veræ legis justitiae ; non tamen
iis obtinent incrementa virtutum. 45. Sacrificium
4o2
Missæ non alia ratione est sacrificium, quam
generali illa, qua omne opus quod fit ut
sancta societate Deo homo inhæreat. 46. Ad
rationem et definitionem peccati non perti
net volontarium ; nec definitionis quæstio est,
sed caussæ et originis, utrum omne pecca
tum debeat esse voluntarium. 47. Unde pec
catum originis vere habet rationem pecca
ti , sine ulla relatione, ad voluntatem, a
qua originem habuit. 48. Peccatum originis
est habituali parvuli voluntate voluntarium ,
et habitualiter dominatur parvulo , eo quod
non gerit contrarium voluntatis arbitrium. 4g.
Et eae habituali voluntate dominante fit ut
parvulus decedens sine regenerationis sacra
mento, quando usum rationis consecutus erit,
actualiter Deum odio habeat, Deum blasphe
met, et legi Dei repugnet. 5o. Prava deside
ria , quibus ratio non consentit, et quæ ho
mo invitus patitur, sunt prohibita præcepto :
Non concupisces. 5 1. Concupiscentia , sive
leae membrorum, et prava ejus desideria, quæ
inviti sentiunt homines, sunt vera legis inobe
dientia. 52. Omne scelus est ejus conditionis,
ut suum auctorem et omnes posteros eo modo
inficere possit, quo infecit prina transgressio. ,
55. Quantum est eae vi transgressionis , tan
tum meritorum malorum a generatione con
trahunt qui cum minoribus nascuntur vitiis ,
quam qui cum majoribus. 54. Definitiya hæc
4o5
sententia = Deum homini nihil impossibile præ
cepisse= falso tribuitur Augustino, cum Pela
gii sit. 55. Deus non potuisset ab initio talem
creare hominem, qualis nunc nascitur. 56. In
peccato duo sunt : actus et reatus; transeunte
autem actu nihil manet , nisi reatus , sive
obligatio ad poenam. 57. Unde in sacramento
baptismi, aut sacerdotis absolutione proprie
reatus peccati dumtaxat tollitur , et ministe
rium sacerdotum solum liberat a reatu. 58.
Peccator poenitens non vivificatur ministerio
sacerdotis absolventis , sed a solo Deo , qui
poenitentiam suggerens et inspirans vivificat
eum, et resuscitat ; ministerio autem sacerdo
tis solus reatus tollitur. 59. Quando per elee
mosrnas , aliaque pietatis opera Deo satis
facimus pro bonis temporalibus , non dignum
pretium Deo pro peccatis nostris qffèrimus ,
sicut quidam errantes autumant; nam alio
qui essemus, saltem aliqua eae parte, redempto
res : sed aliquid facimus , cujus intuitu Chri
sti satisfactio nobis applicatur et communi
catur. 6o. Per passiones Sanctorum in indul
gentiis communicatas non proprie redimuntur
nostra delicta, sed per communionem charitatis
nobis eorum passiones impartiuntur, ut di
gni simus qui pretio sanguinis Christi a poe
nis pro peccatis debitis liberemur. 61. Celebris
illa doctorum distinctio , divinae legis mandata
bifariam impleri : altero modo quantum ad
4o4
præceptorum operum substantiam tantum, al
tero quantum ad certum quemdam modum,
videlicet secundum quem valeant operantem
perducere ad regnum aeternum, hoc est, ad mo
dum meritorium, commentitia est et exploden
da. 62. Illa quoque distinctio, qua opus dici
tur bifariam bonum , vel quia eae objecto et
omnibws circumstantiis rectum est et bonum,
quod moraliter bonum appellari consuevit : vel
quia est meritorium regni æterni, eo quod sit
a vivo Christi membro per spiritum charitatis,
`rejicienda putatur. 65. Sed et illa distinctio
duplicis justitiæ, alterius quæ fit per spiritum
charitatis inhabitantem, alterius quæ fit eae
inspiratione quidem Spiritus Sancti cor ad
poenitentiam excitantis, sed nondum cor inha
bitantis, et in eo charitatem diffundentis qua
divinæ legis justificatio impleatur, rejicienda
est. 64. Denique et illa distinctio duplicis vi
-vjficationis , alterius qua vivíficatur pecca
tor, dum ei poenitentia et vitæ novæ propo
situm et inchoatio per Dei gratiam inspira
tur, alterius qua vivificatur qui vere justi
ficatur, et palmes vivus in vite Christo effi
citur, commentitia est et Scripturis minime
congruens. 65. Nonnisi Pelagiano errore ad
mitti potest usus aliquis liberi arbitrii bonus ,
sive non malus; et gratiæ Christi injuriam
facit qui ita sentit et docet. 66. Sola violen
' tia , repugnat libertati hominis naturali. 67.
4o5
Homo peccat , etiam damnabiliter, in eo
quod necessario facit. 68. Infidelitas pure ne
gativa in iis, quibus Christus non est præ
dicatus , peccatum est. 69. Justificatio impii
fit formaliter per obedientiam legis, non au
tem per occultam communicationem et inspi
rationem gratiæ, quæ per eam justificatos
faciat implere legem. 7o. Homo eaesistens in
peccato mortali , sive in reatu aeternæ dam
nationis , potest habere veram charitatem ; et
charitas, etiam perfecta, potest consistere cum
reatu aeternæ damnationis. 7 1. Per contritio
nem, etiam cum charitate perfecta et cum
voto suscipiendi sacramentum conjunctam, non
remittitur crimen , eactra casum necessitatis ,
aut martrrii, sine actuali susceptione sacra
menti. 72. Omnes omnino justorum afflictiones
sunt ultiones peccatorum ipsorum; unde Job et
martrres quæ passi sunt, propter peccata sua
passi sunt. 75. Nemo, præter Christum est abs
que peccato originali: hinc beata Kirgo mortua
est propter peccatum eae Adam contractum ;
omnesque ejus afflictiones in hac vita , sicut
et aliorum justorum , fuerunt ultiones peccati

actualis et originalis. 74. Concupiscentia in


renatis relapsis in peccatum mortale, in qui
bus jam dominatur, peccatum est , sicut et
alii habitus pravi. ' 75. Motus pravi concupi
scentiæ sunt, pro statu hominis vitiati, prohi
biti præcepto : Non concupisces; unde homo
4o6
eos sentiens et non consentiens, transgreditur
praeceptum: Non concupisces, quamvis tran
sgressio in peccatum non deputetur. 76. Quam
diu aliquid concupiscentiae carnalis in dili
gente est, non facit praeceptum: Diliges Do
minum Deum tuum ex toto corde tuo. 77.
Satisfactiones laboriosa justificatorum non va
lent expiare de condigno poenam temporalem
restantem post culpam condonatam. 78. Im
mortalitas primi hominis non erat gratiae be
neficium, sed naturalis conditio. 79. Falsa
est doctorum sententia, primum hominem po
tuisse a Deo creari et institui sine justitia
naturali.

I S, avverta qui che delle trascritte pro


posizioni molte sono di Bajo, espresse parola
per parola, alcune altre solamente secondo
il senso, altre poi sono di Esselio suo socio
e di altri fautori di Bajo ; ma perchè quasi
tutte sono da Bajo insegnate, perciò a lui
generalmente si ascrivono. Or da tutte le
scritte proposizioni chiaramente si ricava qual
è il sistema di Bajo. Egli distingue tre stati:
della natura innocente, della natura caduta e
della natura riparata.
2. Ed in primo luogo circa lo stato della
natura innocente, dice per 1.º che Dio per
giustizia e per diritto che ha la creatura,
dovette creare l'angelo e l'uomo per la
4o
beatitudine eterna, come si ha da otto i
dannati nella bolla, cioè 21, 22, 24- 25. 27.
55. 72. e 79. Per 2.º che alla natura inno
cente fu dovuta la grazia santificante; questa
proposizione nasce per conseguenza dalla pri
ma. Per 5.º che i doni fatti agli angeli e ad
Adamo non furono gratuiti, nè soprannatu
rali, ma dovuti e naturali, come si ha dall'
art. 21. e 27. Per 4º che la grazia conces
sa ad Adamo ed agli angeli non producea
meriti soprannaturali e divini, ma naturali
e meramente umani, come si ha dagli arti
coli 1. 7. e 9 Ed in vero se i meriti sie
guono dalla grazia, semprechè i benefici del
la grazia erano dovuti e naturali alla natura
innocente, lo stesso dee dirsi del meriti che
provengono dalla grazia. Per 5.º che la bea
titudine sarebbe stata non grazia, ma pura
e naturale mercede, se avessero perseverato
nell'innocenza, come si ha dagli art. 5. 4.
5 e 6; il che era conseguenza delle propo
sizioni antecedenti: poichè se fosse stato ve
ro che i meriti nello stato dell'innocenza
erano meramente umani e naturali, certa
mente la beatitudine non sarebbe stata affat
to grazia, ma pura mercede.
5. In secondo luogo circa lo stato della
natura caduta vuole Bajo che Adamo, pec
cando, perdette tutti i doni della grazia; onde
restò incapace di ogni bene, anche naturale,
4o8
e solo capace di male. Da ciò ne deduce per
1.º che in coloro che non sono battezzati, o
sono caduti in peccato dopo il battesimo ,
la concupiscenza, o sia il fomite del bene
sensibile, ch'è contrario alla ragione, anche
senza consenso della volontà, è vero e pro
prio peccato, che loro s'imputa per ragion
della volontà degli uomini inclusa in quella
di Adamo, come sta spiegato nella propo
sizione 74. Anzi nella proposizione 75 dice
Bajo che tutti i moti cattivi di senso, ben
chè non acconsentiti, anche a giusti sono
trasgressioni, benchè Dio non ne gl'imputi.
Ne deduce per 2.º che quanto fa il pecca
tore, tutto è intrinsecamente peccato, come
sta nella proposizione 55. Ne deduce per 5 º
che in quanto al meritare e demeritare, la
sola violenza ripugna alla libertà dell'uomo;
in modo che quando fa qualche azione vo
lontaria cattiva, ancorchè la faccia necessa
riamente, anche pecca, come si ha dalle
proposizioni 59 e 67. 4° In terzo luogo
circa lo stato della natura riparata suppone
Bajo che ogni opera buona per sua natura
merita la vita eterna, indipendentemente co
sì dalla disposizione divina, come da meriti
di Gesù Cristo e dalla cognizione di chi
opera, come si ha dalle proposizioni 2. 11.
e 15. E da questo falso supposto ne deduce
Bajo quattro false conseguenze: per iº che
4o
la giustificazione dell'uomo non consiste ir
infusione della grazia, ma nell'ubbidienza
del precetti, come dalle proposizioni 42 e
69. Per 2.º che anche la carità perfetta non
sempre è congiunta colla remissione del pec
cati : proposizione 51 e 52. Per 5.º che coi
sacramenti del battesimo e della penitenza
si rimette il reato della pena, ma non già
quello della colpa, perchè solo Dio toglie la
colpa : proposizione 57 e 58. Per 4.º che
ogni peccato è degno di pena eterna, nè si
danno peccati veniali : proposizione 21. Ecco
dunque che Bajo con tal sistema circa lo
stato della natura innocente insegna gli er
rori di Pelagio; mentre dice con Pelagio che
la grazia non è gratuita, nè sovrannaturale,
ma naturale e dovuta alla natura. Di più cir
ca lo stato della natura caduta Bajo rinnova
gli errori di Lutero e di Calvino, stabilendo
che l'uomo necessariamente è portato a fare
il bene o il male, secondo i moti delle due
dilettazioni, celeste o terrena che riceve.
Circa poi lo stato della natura riparata gli
errori che insegna, specialmente intorno al
la giustificazione, all'efficacia del sacramenti
ed a meriti, si vedono così chiaramente con
dannati dal concilio di Trento, che se non
si leggessero ne libri di Bajo, non si po
trebbe mai credere com'egli avesse potuto
LIG. Storia delle Eresie T. III. S
4to
scriverli dopo essere intervenuto in persona
a quel concilio.
4 Dice nelle proposizioni 42 e 69 che
la giustificazione del peccatore non consiste
nell'infusione della grazia, ma nell'ubbidien
za del precetti. Ma il concilio insegna (Sess.
6 cap. 7 ) che niuno può esser giusto, se
non gli vengono comunicati i meriti di Ge
sù Cristo; mentre per quelli gli s'infonde
la grazia che lo giustifica: Vemo possit esse
justus, nisi cui merita passionis D. V. Jesu
Christi communicantur. E ciò è secondo quel
che scrisse l'Apostolo : Justificati gratis per
gratiam ipsius. Rom. 5. 24 Dice che la carità
perfetta non sempre è congiunta colla remis
sione del peccati; proposizione 51 e 52. Ma
il concilio, parlando specialmente del sacra
mento della penitenza ( Sess. 14 cap. 4. D,
dice che la contrizione quando è unita colla
carità perfetta, giustifica il peccatore prima
che riceva il sacramento. Dice Bajo che col
sacramento del battesimo e della penitenza
si rimette il reato della pena, ma non della
colpa; proposizione 57 e 58. Ma il concilio,
parlando del battesimo (Sess. 5 decr de pecc.
orig. ), insegna che col battesimo si rimette
e si scancella il reato del peccato originale
ed ogni altra cosa che ha ragione di pecca
to: Si quis per Jesu Christi Domini nostri gra
tiam, quae in baptismate confertur, reatum
41 I
originalis peccati remitti negat: aut etiam as
serit, non tolli totum id, quod veram et pro
priam peccati rationem habet; sed illud dicit
tantum radi, aut non imputari; anathema sit.
Parlando poi del sacramento della penitenza,
insegna distesamente nella Sess. 14 cap. 1 es
ser verità di fede che il Signore ha lasciata
a sacerdoti la facoltà di rimettere i peccati in
tal sacramento, e che la chiesa condannò co
me eretici i Novaziani, che tal potestà ne
gavano. Dice Bajo che in coloro che non sono
battezzati, o son caduti dopo il battesimo,
la concupiscenza, o sia ogni moto cattivo di
concupiscenza è vero peccato, perchè allora
già trasgrediscono il precetto Non concupi
sces; prop. 74 e 75. Ma il concilio insegna
che la concupiscenza non è peccato, e che
ella non nuoce a chi non vi consente: Quae
C concupiscentia ) cum ad agonem relicta sit,
nocere non consentientibus... non valet. . .
Hanc concupiscentiam... ecclesiam ... num
quam intellerisse peccatum appellari, quod ve
re . . . peccatum sit, sed quia ea: peccato est,
et ad peccatum inclinat. Sess. 5 decr. de pec. or.
5. In somma tutto ciò che insegnava Bajo
circa i tre stati della natura, sono conse
guenze di un solo suo principio, cioè che non
vi sono se non due amori, cioè o la carità
teologica con cui si ama Dio sopra tutte le
cose come ultimo fine, o la concupiscenza
412
con cui si ama come fine ultimo la crea
tura, e che fra questi due amori non vi
è mezzo. Dice pertanto che Dio, essendo
giusto, non potè contro il diritto che ha la
creatura intelligente, crear l'uomo soggetto
alla sola concupiscenza ; dunque, giacchè
fuori della concupiscenza non vi è altro ret
to amore, se non il soprannaturale, Iddio
creando Adamo dovette dargli nel primo
istante che lo creò quest'amor sopranna
turale, il cui fine essenziale è la visione
di Dio. Sicchè la carità non fu dono sopran
naturale e gratuito, ma naturale e dovuto
alla natura umana; e perciò i meriti della
carità furono naturali, e la beatitudine fu
pura mercede, non grazia. Da ciò poi de
duceva inoltre che il libero arbitrio dopo
il peccato, destituto dalla grazia, la quale
era come un appendice della natura, non
vale ad altro che a peccare. Ma si risponde
che un tal principio evidentemente è falso,
e così vengono ad esser false tutte le con
seguenze. Si prova con evidenza contro il
principio di Bajo, che la creatura intelligen
te non ha diritto ad essere : perciò non ha
diritto innato ad una di questa o quella ma
niera. Di più tanti teologi insigni, che io
sieguo, dicono con ragione che ben Dio po
tea creare l'uomo nello stato della natura
pura, in cui l'uomo nascesse senza alcun
415
dono soprannaturale e senza peccato, ma con
tutte le perfezioni ed imperfezioni che son
conseguenze della stessa natura; sicchè il fi
ne della natura pura fosse naturale, e le
miserie umane, come sono la concupiscenza,
l'ignoranza, la morte e tutti gli altri travagli
dell' uomo, fossero appendici della natura
umana, siccome nello stato, presente della
natura caduta sono effetti e pene del peccato :
e perciò la concupiscenza nel presente stato
inclina al peccato molto più che non avrebbe
inclinato nello stato della natura pura; poi
chè col peccato è restato più oscurato l'in
telletto dell'uomo, e più vulnerata la volontà.
6. Fu già errore certamente di Pelagio
il dire che Iddio ha creato in fatti l'uomo
nello stato della natura pura. All'incontro
fu anche error di Lutero il dire che lo sta
to della natura pura ripugna al diritto che
ha l'uomo alla grazia. Ma quest'errore fu
adottato da Bajo : poichè non era certa
mente per diritto di natura necessario es
ser creato l'uomo nello stato della giustizia
originale, ma ben poteva Iddio crearlo sen
za peccato e senza la giustizia originale, at
teso il diritto della natura umana. Ciò si pro
va primieramente dalle bolle citate di S. Pio
V., di Gregorio XIII. e di Urbano VIII.,
che confermarono la bolla di S. Pio, nella
quale sta condannato il dire che il consorzio
414
della divina matura fu dovuto e naturale
alla natura umana, come dicea Bajo: Hu
manae naturae sublimatio et exaltatio in con
sortium divinae naturae debita fuit integritati
primae conditionis; et proinde naturalis dicen
da est, et non supernaturalis: prop. 22. Lo
stesso disse nella prop. 55. Deus non potuis
set ab initio talem creare hominem, qualis
nunc nascitur; s'intende sempre, escluso il
peccato. Lo stesso disse nella prop. 79. Falsa
est doctorum sententia, primum hominem po
tuisse a Deo creari et instituisine justitia na
turali. Giansenio, benchè fosse molto affe
zionato alla dottrina di Baio, confessa che
queste costituzioni pontificie gli faceano pe.
so: Haereo, fateor, diceva (1). -

7. Ma i discepoli di Bajo e di Giansenio


primieramente mettono in dubbio, se alla
bolla In eminenti di Urbano VIII. vi sia ob
bligo di ubbidire. Risponde loro il Tourne
ly (2) che la bolla essendo una legge dog
matica della Sede Apostolica ( cujus aucto
ritas, come scrive lo stesso Giansenio nel
luogo citato, catholicis omnibus, tanquam obe
dientiae filiis, veneranda est ), ed essendo
stata accettata nel luoghi, ove si agitava la

(i) vansen. lib. 3. de Statu nat. pura cap. ult.


(2) Comp. Theol. tom. 5. part. 1. Disp. 5. art.
3. S. 2.
415
controversia, e nelle chiese più celebri del
mondo, mentre le altre tacitamente vi con
sentirono, deve ella tenersi per un giudizio
infallibile della chiesa, al quale tutti son te.
nuti di stare, attestando che ciò è insegna
to da tutti, anche da Quesnellio.
8. Secondariamente i contrari parlano dell'
intelligenza della bolla di S. Pio, e dico
no per 1.º che non può mai credersi che
la Sede Apostolica abbia voluto condannare
in Bajo la dottrina di S. Agostino, il quale,
come suppongono, ha insegnato essere im
possibile lo stato della natura pura. Ma si
risponde che il loro supposto è falso: men
tre, al parere e giudizio di tanti teologi, il
santo Dottore in più luoghi insegna il con
trario. Specialmente scrivendo contro i Ma
nichei (1) distingue quattro modi, con cui
Dio avrebbe potuto senza biasimo creare le
anime, e dice che il secondo modo fra que
sti sarebbe, se prima di ogni peccato le ani
me create fossero infuse nel loro corpi sog
gette all'ignoranza, alla concupiscenza ed
alle altre miserie di questa vita. Questo mo
do stabilisce certamente la possibilità della
natura pura. Si osservi Tournely (2), do
ve risponde a tutte le opposizioni che fa
Giansenio su questo punto.
(1) S. August. lib. 3. de lib. arb. cap. 2o.
(2) Tourn. Theol. tom. 5. part. 2. cap. 67.
416
9 Dicono per 2 º che nella bolla di San
Pio le proposizioni di Bajo non furono con
dannate nel proprio senso da Bajo inteso.
Le parole della bolla diceano così: Quas
quidem sententias stricto coram nobis exami
ne ponderatas, quanquam nonnulla aliquo
pacto sustineri possent, in rigore et proprio
verborum sensu ab assertoribus intento ha -
reticas, erroneas, temerarias etc., damna
mus etc. Essi asserivano che fra la paro
la possent e le seguenti in rigore et pro
prio verborum sensu non vi era virgola; ma
la virgola la voleano posta dopo le parole
ab assertoribus intento; in modo che restan
do assoluto il senso dalle parole quanquam
nonnulla aliquo pacto sustineri possent in
rigore et proprio verborum sensu ab asser
toribus intento, diceano che le proposizioni
ben poteano sostenersi nel senso proprio ed
inteso, come parlava la stessa bolla. Ma in
questo modo la bolla dunque veniva a con
traddire a se stessa, condannando quelle sen
tenze che nel senso proprio ed inteso dall'
autore, si poteano sostenere? Ma giacchè si
poteano sostenere nel proprio senso, perchè
le condanna? E perchè volle che Bajo espres
samente si ritrattasse? Troppo ingiusta COS3,

sarebbe stato il condannare ed imporre la


ritrattazione di quelle proposizioni che nel
proprio senso poteano difendersi. Inoltre,
4
ancorchè nella bolla di S. Pio fosse i
cata la virgola dopo la parola possent, niu
no poi ha detto o dubitato che manchi
negli esemplari delle due bolle susseguenti
di Gregorio XIII. e di Urbano VIII. Sicchè
a rispetto delle bolle non si può mettere in
dubbio che le opinioni di Bajo furono con
damnate.

1o. Dicono per 5.º che le proposizioni


sono state condannate, avendo riguardo alla
divina onnipotenza, secondo cui ben era pos
sibile lo stato nella natura pura, ma non a
riguardo della sapienza e bontà di Dio. Ri
spondono i detti teologi che se così è, la
Sede Apostolica non ha condannato un er
rore vero, ma finto ; giacchè la dottrina di
Bajo in verità a riguardo della sapienza e
bontà di Dio non è condannabile. Ma falso
è il supposto che lo stato della natura pura
è possibile solo secondo la potenza di Dio,
ma non secondo gli altri attributi. Quel che
ripugna, o non conviene ad alcuno degli
attributi divini, è affatto impossibile, per
chè Iddio seipsum negare non potest. 2. Tim.
2. 15. Dice S. Anselmo (1): In Deo quan
tumlibet parvum inconveniens sequitur impos
sibilitas. Oltrechè, se fosse vero il principio
de' contrari, Nullum dari amorem medium

(1) S. Anselm. lib. 1. Cum Deus homo cap. 1.


S 5
418
inter vitiosam cupiditatem et laudabilem cha
ritatem, anche a riguardo dell'onnipotenza
divina sarebbe impossibile lo stato della na
tura pura, secondo che essi lo suppongono;
mentre ripugna affatto a Dio il produrre una
creatura a lui contraria, colla necessità di
peccare, quale sarebbe la creatura, secondo
la loro ipotesi di possibilità.
11. Del resto sembra a me verità troppo
chiara, essere stato possibile lo stato della
natura pura, in cui l'uomo fosse stato crea
to senza la grazia e senza il peccato e sog
getto alle miserie della vita presente, salva
la riverenza che devesi alla scuola Agosti
niana, che sostiene l'opposto. Due sono le
ragioni evidenti, la prima è perchè ben po
teva esser creato l'uomo senz'alcun dono
soprannaturale, ma con quelle sole qualità
che competono alla natura umana. Dunque
la grazia ch'era soprannaturale, e fu data
ad Adamo, non gli fu dovuta, alioquin,
come dice S. Paolo, gratia jam non est gra
tia. Rom. 1 1. 6. Siccome poi poteva esser
creato l'uomo senza la grazia, così poteva
Iddio crearlo senza il peccato; anzi non po
tea crearlo col peccato, altrimenti sarebbe
stato Dio autor del peccato. E così parimen
te potea crearlo sottoposto alla concupiscen
za, ai morbi ed alla morte, perchè ta
li difetti sono, come parla S. Agostino,
4i
connaturali, e come un'appendice alla ie
tuzione dell'uomo; giacchè la concupiscenza
deriva dall'unione dell'anima col corpo, e
perciò l'anima ambisce il bene sensibile con
veniente al corpo. Così anche i morbi e le
altre miserie umane provengono dall' influs
so delle cause naturali, le quali nello stato
della natura pura avrebbero parimente in
fluito. Così anche la morte naturalmente de
riva dalla pugna continua che fanno tra lo
ro gli elementi, de quali è composto il
corpo umano.
12. La seconda ragione è perchè non ri
pugna ad alcuno attributo divino il creare
l'uomo senza la grazia e senza il peccato.
Non ripugna già all'onnipotenza, come am
mette anche Giansenio: neppur ripugna ad
altro attributo ; poichè in tale stato, come
insegna S. Agostino (1), Iddio già darebbe
all'uomo tutto ciò ch' è dovuto alla di lui
natural condizione, cioè la ragione, la li
bertà e le altre facoltà, colle quali potrebbe
conservare se stesso, e conseguire il suo fi
ne. Si aggiunge che tutti i teologi, come
confessa lo stesso Giansenio ne'libri dove
parla dello stato della natura pura, sono uni
formi in ammettere per possibile un tale
stato, atteso il solo diritto della creatura, e

(1) S. August. lib. 3. de lib. arb. cap. 2o, 22. e 23.


42o
fra questi precisamente è il principe degli
scolastici S. Tommaso l'Angelico. Egli (1)
insegna che l'uomo ben poteva esser creato
senza l'ordine alla visione beatifica, dicendo:
Carentia divinae visionis competeret ei, qui in
solis naturalibus esset etiam absque peccato.
Parimente in altro luogo (2) insegna che l'uo
mo poteva esser creato colla concupiscenza
che insorge contro la ragione: Illa subjectio
inferiorum virium ad rationem non erat na
turalis. E così alcuni teologi ammettono la
possibilità dello stato della natura pura, co
me Estio, Silvio, Gaetano, il Ferrarese, i
Salmaticesi, Vega ed altri col Bellarmino, il
quale scrive (5) ch'egli non sa come possa
dubitarsi di questa sentenza. -

15. Veniamo alle obbiezioni del contrari.


La prima obbiezione è per parte della beati
tudine. Dice Giansenio che S. Agostino in
più luoghi insegna che Dio senza ingiustizia
non potea negare all'uomo innocente la glo
ria eterna, dicendo: Qua justitia, quaeso, a
regno Dei alienatur imago Dei in nullo trans
gressa legem Dei ? e cita S. Agostino (4). Si
risponde che S. Agostino nel luogo citato

(1) S. Thom. qu. 4. de Malo art. 1.


(2) Idem in Summa 1. part. qu 95. art. 1.
(3) Bellarm. lib. de Grat. primi hom. cap. 5.
(4) S. August. lib. 3. contra Julian. cap. 12.
42 I
parlava contro i Pelagiani secondo lo stato
presente, supposta l'ordinazione gratuita dell'
uomo al fine soprannaturale; e secondo tal
supposto dicea che ingiustamente sarebbe
stato privato l'uomo del regno di Dio, sen
za aver peccato. Nè osta quel che dice San
Tommaso (1), cioè che naturalmente il desi
derio dell'uomo non trova riposo, se non
nella visione di Dio: Non quiescit naturale
desiderium in ipsis, nisi etiam ipsius Dei sub
stantiam videant. Sicchè essendo un tale ap
petito naturalmente insito nell'uomo, non
può egli essere stato creato senza l'ordina
zione a questo fine. Si risponde che lo stes
SO S. Tommaso in più luoghi, e specialmen

te nel libro delle questioni disputate (2),


insegna che noi per natura non siamo già
inclinati in particolare alla visione di Dio,
ma solamente alla beatitudine in comune:
Homini inditus est appetitus ultimi sui finis
in communi, ut scilicet appetat se esse com
pletum in bonitate: sed in quo ista completio
consistat non est determinatum a natura. Sic-,
chè secondo lo stesso santo Dottore non vi
È nell'uomo l'appetito innato alla visione
beatifica, ma solo alla beatitudine in genere.
Lo stesso conferma il santo Dottore in altro

(1) S. Thom. lib. 4. contra Gentes cap. 5o.


(2) Idem qu 22. de Verit.
422
luogo (1) : Quamvis ex naturali inclinatione
voluntas habeat, ut in beatitudinem feratur,
tainen quod feratur in beatitudinem talem,
vel talem, hoc non est ex inclinatione natu
rae. Neppure osta il dire che nella sola vi
sione di Dio può l'uomo esser fatto appie
no contento, secondo quel che disse Davide:
Satiabor, cum apparuerit gloria tua. Psal. 16.
15. Poichè si risponde che ciò corre per lo
stato presente, in cui è stato creato l'uomo
in quest'ordine, che l'ultimo suo fine sia la
vita eterna; ma non correrebbe in altro or
dine, come nello stato della natura pura.
14. La seconda obbiezione è per parte
della concupiscenza ; onde dicono per 1 º i
contrari che Dio non può essere autore della
concupiscenza, dicendo S. Giovanni ( Epist.
1. c. 2. ) ch'ella Non est ex Patre, sed ex
mundo est. 1. Joan. 2. 16. E S. Paolo: Nunc
autem jam non ego operor illud, sed quod
habitat in me, peccatum, cioè la concupiscenza.
Rom. 7. 17. Si risponde al testo di S. Gio
vanni che la concupiscenza della carne non è
già dal Padre secondo il presente stato, per
chè secondo il presente stato ella deriva dai
peccato, ed inclina al peccato, come parla
il concilio di Trento ( Sess. 5 decr. de pecc.
orig. ) : Quia est a peccato, et ad peccatum

(1) S. Thom. 4. sent. dist. 49 qu. 1. art. 3.


425
inclinat. E nello stato presente inclina molto
più che non avrebbe inclinato nello stato
della natura pura; ma nello stato della natu
ra pura non sarebbe dal Padre formalmente
riguardata come imperfezione, ma ben lo
sarebbe come condizione della natura uma
na. In quanto poi al testo di S. Paolo simil
mente si risponde che la concupiscenza in
tanto si chiama peccato, perchè secondo lo
stato presente deriva dal peccato, giacchè
l'uomo fu creato in grazia; ma nello stato
della natura pura non potrebbe chiamarsi
peccato, perchè non deriverebbe dal pecca
to, ma dalla stessa condizione dell' umana
matura. -

15. Dicono per 2 º che Dio non può crea


re un oggetto ragionevole con una cosa che
inclina al peccato, qual'è la concupiscenza,
con cui sarebbe stato già creato l'uomo nello
stato della natura pura. Si risponde che Dio
non potea già crear l'uomo con quel che
inclina per sè al peccato, come sarebbe sta
to crearlo con un abito vizioso, che da sè
spinge al peccato; ma ben potea crearlo con
quel che inclina al peccato per accidente,
cioè perchè così porta la condizione della
propria natura : altrimenti avrebbe dovuto
Dio crear l'uomo impeccabile, giacchè l'es
ser peccabile anche è difetto. La concupi
scenza non inclina per sè l'uomo al peccato,
424
inclina solo al bene conveniente alla na
tura umana per conservazione della medesi
ma, ch'è composta di anima e di corpo;
onde non per sè, ma solo per accidente e
per difetto della stessa condizione umana in
clina talvolta alla colpa. Forse Dio è obbliga
to nel creare gli oggetti a dar loro maggio
ri perfezioni di quelle che convengono alla
loro natura? Siccome dunque il non aver
dato Iddio alle piante il senso ed a bruti la
ragione, non è stato già difetto di Dio, ma
della stessa loro natura; così nello stato della
natura pura, se non avesse Iddio esentato
l'uomo dalla concupiscenza, che per acci
dente poteva inclinarlo al male, non sareb
be stato gia difetto di Dio, ma della stessa
condizione della natura umana
16. La terza obbiezione è per parte delle
miserie umane. Dicono : S. Agostino contro
i Pelagiani spesso deduce l'esistenza del pec
cato originale dalle miserie di questa vita.
Si risponde in breve che il santo Dottore
parla delle miserie umane nello stato pre
sente, supposta la santità originale in cui
fu creato l'uomo, ed in cui, come consta
dalle Scritture, Adamo fu creato immune dalla
morte e dalle penalità di questa vita. Posto
ciò, non poteva Dio giustamente privarlo
de doni a lui concessi, senza la di lui po
sitiva colpa, e quindi ben inferiva Santo
- 425
Agostino il peccato di Adamo dalle calamità,
colle quali al presente noi siamo afflitti. Ma
altrimenti avrebbe detto il Santo, se avesse
parlato dello stato della natura pura, nel
quale le miserie della vita sarebbero deri
vate dalla stessa condizione della natura uma
na; tanto più che nello stato della natura
caduta le miserie sono assai più grandi di
quelle che sarebbero state nello stato del pu
ri naturali; sicchè da queste miserie presen
ti così grandi ben può provarsi il peccato
originale, il quale non avrebbe potuto pro
varsi dalle miserie più miti, quali avrebbe
patite l'uomo nello stato della natura pura.

co N FUT AzIo N E XIII.


DEGLI ERRORI DI CORNELIO GIANSENIo.

I• P., confutare tutti gli errori di Gian


senio basta confutare il suo sistema, il qua
le in sostanza consiste nel supporre che la
nostra volontà è necessitata ad operare il be
ne o il male, secondo che ella vien mossa e
determinata dalla dilettazione celeste o terrena
superiore di gradi che in noi predomina, sen
za che possiamo resistere; mentre la dilet
tazione, come dicea, previene il nostro con
senso, anzi ci forza a darlo, ancorchè vi
-
426
ripugniamo, abusandosi Giansenio in ciò della
famigerata sentenza di S. Agostino: Quod
amplius delectat, id nos operemur, necessum
est. Ecco come egli parla: Gratia est delec
tatio et suavitas, qua anima in bonum appe
tendum delectabiliter trahitur; ac pariter de
lectationem concupiscentiae esse desiderium il
licitum, quo animus etiam repugnans in pec
catum inhiat (1). E nello stesso libro al ca
po 9 scrive: Utraque delectatio invicem pu
gnat: earumque conflictus sopiri non potest,
nisi alteram altera delectando superaverit, et
eo totum anima pondus vergat; ita ut, vigen
te delectatione carnali, impossibile si tguod
virtutis et honestatis consideratio praevaleat.
2. Dice Giansenio che nello stato della
giustizia, in cui fu creato l'uomo (fecit Deus
hominem rectum, Eccl. 7. 5o. ), stando al
lora inclinato alla rettitudine, ben potea col
suo arbitrio operare il bene col solo aiuto
divino, chiamato sine quo, ch'è la grazia
sufficiente, la quale dà il potere, ma non il
volere; sicchè con quel solo aiuto ordinario
allora potea l'uomo acconsentire e seguirla
grazia: ma dopo che la volontà rimase in
ferma per cagion del peccato ed inclinata
a piaceri vietati, ella non può colla sola gra
zia sufficiente fare il bene, ma le bisogna

(1) Jansen. lib. 4. de Grat. Christ. cap. 11.


427
l'ajuto quo, cioè la grazia efficace, ch'è la
dilettazione vittrice relativa per superiorità
di gradi, che la muova e la determini al be
ne; altrimenti non può resistere alla diletta
zione carnale opposta: Gratia sana volunta
tis in eſus libero relinquebatur arbitrio, ut
eam, si vellet, desereret; aut si vellet uteretur;
gratia vero lapsae aegrotaque voluntatis nullo
modo in eſus relinquitur arbitrio, ut eam de
serat, et arripiat, si voluerit (1). In modo che,
dice Giansenio, nel tempo che domina la di
lettazione carnale, è impossibile che preva
glia la virtù : Vigente delectatione carnali,
impossibile est ut virtutis et honestatis consi
deratio praevaleat (2). Dice di più che la di
lettazione superiore ha tal forza nella volon
tà che la fa necessariamente volere o ripu
gnare, secondo che essa la muove: Delecta
tio, seu delectabilis objecti complacentia est
id quod tantam in liberum arbitrium potesta
tem habet, ut eum faciat velle vel molle, seu
ut, ea praesente, actus volendi sit reipsa in
ejus potestate, absente, non sit (5).
5. Dice in altro luogo che se la dilettazio
ne celeste è minore della terrena, cagione
rà ella nell'anima solamente alcuni desideri
(1) Jansen. de lib. arb. lib. 2. cap. 4.
(2) Idem lib. 7. de Grat. Christ. cap. 3. Vide
etiam cap. 5o.
(3) Idem eod. tit. lib. 7. cap. 3.
428
inefficaci ed impotenti, ma non mai la con
durrà ad abbracciare il bene: Delectatio vic
trix , quae Augustino est efficac adjutorium,
relativa est; tunc enim est victrix, quando
alteram superat. Quod si contingat alteram ar
dentiorem esse, in solis inefficacibus deside
riis ha rebit animus, nec efficaciter unquam
volet quod volendum est (1). In altro luogo
dice che siccome la facoltà visiva non solo
dà il vedere, ma anche il poter vedere, co
sì la dilettazione dominante non solo dà le
opere, ma anche il poter operare: Tantae
necessitatis est, ut sine illa effectus fieri non
possit... dat enim simul et posse et opera
ri (2). Scrive di più che alla dilettazione su
periore è tanto impossibile il resistere, quan
homini cacco ut videat, vel surdo ut audiat,
vel avi ut volet sine alis (5). In somma con
clude che la dilettazione vittrice, sia celeste
o terrena, lega talmente il libero arbitrio,
che questo perde ogni potenza a far l' op
posto: Justitiae vel peccati delectatio est illud
vinculum, quo liberum arbitrium ita firmiter
ligatur, ut quandiu isto stabiliter constringitur,
actus oppositus sit extra eius potestatem (4).

(1) Jansen. de lib, arb. lib. 8. cap. 2.


(2) Ibid. lib. 2. cap. 4.
(3) Ibid. lib. 4. cap. 7. e lib. 7. cap. 3.
(4) Ibid. lib. 7. cap. 5.
42
Stimo che questi luoghi soli siano ben ie
ficienti a far conoscere quanto sia falso il
sistema di Giansenio della sua dilettazione
vittrice relativa, a cui la volontà è sempre
necessitata ad ubbidire. S
4. Da questo sistema poi discendono le sue
cinque proposizioni condannate da Innocenzo
X., come riferimmo nella Storia (1), che
qui bisogna di nuovo trascrivere. La prima
proposizione è questa: Aliqua Dei pracepta
hominibus justis volentibus et conantibus, se
cundum praesentes quas habent vires, sunt
impossibilia; deest quoque illis gratia, qua
possibilia fiant. La censura di questa prima
proposizione fu : Temerariam, impiam, blas
phemam, anathemate damnandam et haereticam
declaramus, et uti talem damnamus. I Gian
senisti alla censura così di questa prima,
come di tutte le altre quattro proposizioni
fecero più opposizioni: ma due furono le
principali: la prima, che nel libro di Gian
senio non vi stavano quelle proposizioni che
eran notate nella bolla d' Innocenzo; la se
conda, che le proposizioni non eran già COn
dannate nel senso intento dal medesimo Gian
senio. Ma queste due obbiezioni furono ab
battute da Alessandro VII. nella sua bolla
dell'anno 1656, ove dichiarò espressamente

(1) Tom. 2 cap. 12. art. 3.


45o
che le cinque proposizioni erano estratte dal
libro di Giansenio, e nel senso da Giansenio
intento: Quinque propositiones ex libro Cor
nelii Giansenii excerptas, ac in sensu ab eo
dem Cornelio intento damnatas fuisse. Ed in
verità così era. Onde per confutare in pri
mo luogo queste due opposizioni più per
niciose e più generali ( poichè alle altre più
particolari risponderemo appresso, secondo
occorrerà , giova qui addurre i passi trascrit
ti dallo stesso libro di Giansenio, nei quali,
benchè non vi siano le stesse parole, non
dimeno vi è la stessa sostanza; e le parole
che vi sono, nel loro senso ovvio e natura
le dimostrano che questo era il vero senso
intento dall'autore.
5. E cominciando dalla detta prima pro
posizione, ella si trova espressa nel libro di
Giansenio quasi colle stesse parole : Haec
igitur omnia plenissime planissimegue demon
strant nihil esse in S. Augustini doctrina cere
tius ac fundatius, quam esse praecepta quae
dam, qua hominibus non tantum infidelibus,
excoecatis, obscuratis, sed fidelibus quoque,
et justis volentibus et conantibus secundum
praesentes quas habent vires, sunt impos
sibilia; deesse quoque gratiam, qua pos
sibilia fiant (1). Immediatamente poi ivi

(1) Jansen. lib. 3. de Grat. Christi cap. 13.


45 1
rapporta l'esempio nella caduta di S. Pietro:
Hoc enim S. Petri exemplo, aliisque multis
quotidie manifestum esse, qui tentantur ultra
quam possint substinere. Gran cosa! S. Paolo
dice che Dio non permette che noi siamo
tentati oltre le nostre forze : Fidelis autem
Deus est, qui non patietur vos tentari supra
id quod potestis, 1. Cor. 1o. 15.: e Giansenio
dice che molti son tentati oltre le loro for
ze! In fine poi dello stesso capo egli si affa
tica a dimostrare che a giusti manca alle
volte la grazia della preghiera, o almeno di
quella preghiera che basta ad impetrare l'aju
to efficace per adempire i precetti, e così
per conseguenza manca loro la potenza di
adempirli. Il senso in somma di questa sua
prima proposizione è che alcuni precetti so
no impossibili anche a giusti, quando le
forze presenti che hanno dalla dilettazione
celeste son minori delle forze della diletta
zione terrena, poichè allora manca la grazia,
per cui tali precetti possono osservarsi. Egli
scrive: Secundum praesentes quas habent vires;
perlochè intende che non sono impossibili i
precetti assolutamente, ma relativamente alla
grazia più robusta che sarebbe lor necessa
ria, e loro manca per poterli osservare.
6. Questa prima proposizione, come di
sopra si è notato, fu condannata per 1.º
come temeraria, essendo ella ripugnante alle
452
Scritture: Mandatum hoc... non est supra
te. Deut. 5o. I 1. Jugum enim meum suave
est, et onus meum leve, Matth. I 1. 5o. E
questa appunto fu la nota di temeraria che
il concilio di Trento ( Sess. 6 cap. 1 1 ) ap
pose alla stessa proposizione prima insegnata
da Lutero e da Calvino, dicendo: Nemo te
meraria illa et a Patribus sub anathemate
prohibita voce uti, Dei praecepta homini ju
stificato ad observandum esse impossibilia. La
medesima fu ancora condannata nella propo
sizione 54 di Bajo, che diceva: Definitiva ha e
sententia = Deum homini nihil impossibile
praecepisse = falso tribuitur Augustino, cum
Pelagii sit. Per 2.º come empia; mentr ella
tratta Dio da tiranno e da iniquo, che obbliga
gli uomini a cose impossibili, e poi li con
danna, se non le adempiscono. Giansenio si
vanta di avere adottate tutte le dottrine di
S. Agostino; ond'ebbe l'ardire di chiamar poi
il suo libro Augustinus; ma meglio l'avreb
be intitolato Anti-Augustinus. Mentre S. Ago
stino nelle sue opere si oppone espressamen
te alle sue empie sentenze. S. Agostino in
segnò: Deus sua gratia semel justificatos non
deserit, nisi ab eis prius deseratur (1): e
Giansenio accusa Dio come privo di pietà,
mentre dice che egli priva i giusti della

(1) S. August. lib. de Nat. et Grat. cap. 26.


455
grazia, senza la quale essi non possono non
peccare, onde li abbandona prima che sia
da loro abbandonato. Inoltre scrisse S. Ago
stino a rispetto di questa prima proposizio
ne di Giansenio: Quis non clamet stultum
esse praecepta dare ei , cui liberum non est
quod praecipitur facere? et iniquum esse eum
damnare, cui non fuit potestas jussa com
plere (1) ? In altro luogo scrisse poi la ce
lebre sentenza adottata dal concilio di Tren

to nel luogo citato (Sess. 6. cap. 1 1.): Deus


impossibilia non jubet, sed jubendo monet et
facere quod possis, et petere quod non pos
sis, et adjuvat ut possis (2). Per 5.º fu con
dannata come bestemmia: giacchè accusa Dio
d'infedele e bugiardo, mentr'egli ci ha pro
messo di non permettere che le tentazioni
avanzino le nostre forze ( non patietur vos
tentari supra id quod potestis; 1. Cor. 1o. 15. );
e poi ci comanda cose che non possiamo
adempire. Ed appunto bestemmia la chiamò
S. Agostino ( da cui falsamente scrive Gian
senio di avere apprese le sue dottrine ):
Execramur blasphemian eorum, qui dicunt,
impossibile aliquid a Deo esse praeceptum (5).
Per 4.º finalmente fu condannata come eretica

(1) S. August. de Fide contra Manich. cap. 1o.


(2) Idem lib. de Nat. et Grat. cap. 43.
(3) Idem Serm. 191. de Temp.
LIG. Storia delle Eresie T III. T
454
essendo ella contraria, secondo abbiam ve
duto, alle divine Scritture ed alle definizio
mi della chiesa.
7. I Giansenisti nulla dimanco non lascia
no di fare altre obbiezioni. Dicono per 1.º
che quel passo di S. Agostino : Deus sua
gratia non deserit, nisi prius deseratur (an
che adottato dal Tridentino Sess. 6 cap. 1 1 )
s'intende che Dio non priva i giustificati
della sua grazia abituale prima del peccato
attuale, ma ben talvolta prima del peccato
li priva della grazia attuale. Ma si risponde
collo stesso S. Agostino che il Signore nel
giustificare il peccatore, non solo gli dona
la grazia della remissione, ma anche gli dà
l'ajuto per evitare i peccati in avvenire, e
questa, dice il Santo, è la virtù della gra
zia di Gesù Cristo: Sanat Deus, non solum
ut deleat quod peccavimus, sed ut praestet
etiam ne peccemus (1). Se Dio prima del
peccato negasse all'uomo l'ajuto sufficiente
a non peccare, non lo sanerebbe, ma l'ab
bandonerebbe prima di peccare. Dicono per
2.º che il testo citato al precedente num. 6:
Fidelis autem Deus non patietur vos tentari
supra id quod potestis, non corre per tutti i
fedeli, ma solo per i predestinati. Ma il te
sto esprime troppo chiaramente che parla

(1) S. August. de Nat. et Grat. cap. 26.


- 455
per tutti i fedeli : ed aggiunge, sed faciet
etiam cum tentatione proventum, ut possitis
sustinere, 1. Cor. 1o. 15. ; viene a dire che
Dio permette che i suoi fedeli siano tentati,
acciocchè le tentazioni riescano loro di mag
gior merito e guadagno. Si aggiunge di più
che S. Paolo scriveva a tutti i fedeli di Co
rinto che certamente non potea supporre tut
ti predestinati. Onde giustamente S. Tom
maso l'intende generalmente per tutti, e
dice che Dio non sarebbe fedele, se non ci
concedesse, in quanto a sè spetta, le gra
zie che ci son necessarie per conseguir la
salute : Non autem videretur esse fidelis, si
nobis denegaret, in quantum in ipso est, ea
per qua pervenire ad eun possemus (1).
8. La seconda proposizione dannata masce
dallo stesso principio di Giansenio della dilet
tazione vittrice, che necessita la volontà al con
senso : Interiori gratiae in statu naturae lapsae
nunquam resistitur. La censura di questa se
conda proposizione fu: Haereticam declaramus,
et uti talem damnamus. Ecco quel che scrive
Giansenio in un luogo: Dominante suavitate
spiritus, voluntas Deum diligit, ut peccare
non possit (2). In altro luogo: Gratiam Dei

(1) S. Thom. lect. 1. in cap. 1. Ep. 1. ad Cor.


(2) Jansen. lib. 4. de Grat. Christi cap. 9.
456
Augustinus ita victricem statuit supra volun
tatis arbitrium, ut non raro dicat, hominem
operanti Deo per gratiam non posse resiste
re (1). Ma S. Agostino in più luoghi dice il
contrario, specialmente in un luogo (2) così
rimprovera il peccatore: Cum per Dei adju
torium in potestate tua sit utrum consentias
diabolo, quare non magis Deo, quam ipsi
obtemperare deliberas ? Onde giustamente la
detta proposizione fu condannata come ereti
ca, essendo affatto opposta alle Scritture -
Vos semper Spiritui Sancto resistitis, Act. 7.
51.: opposta ancora a sacri concili; come al
concilio di Siena celebrato contro i Luterani
nell'anno 1528, part. 1 cap. 15, ed al Tri
dentino, Sess. 6 can. 4, ove sta fulminato
l'anatema a chi dice non potersi dissentire
alla grazia: Si quis dicerit liberum hominis
arbitrium a Deo motum et excitatum ... ne

que posse dissentire, si velit... anathema sit.


9. La terza proposizione fu questa : Ad
merendum et demerendum in statu naturae
lapsae non requiritur in homine libertas a ne
cessitate, sed sufficit libertas a coactione.
La censura fu : Haereticam declaramus, et
uti talem damnamus. In molti luoghi Gian
senio esprime questa sua proposizione. In un

(1) Jansen. lib. 2. de Grat. Christi cap. 24.


(2) S. Aus. Hom. 12. inter. 5o.
457
luogo scrive: Duplex necessitas Augustino:
coactionis et simplex, seu voluntaria; illa, non
haec, repugnat libertati (1). In altro luogo :
Necessitatem simplicem voluntatis non repu
gnare libertati (2). In altro luogo chiama pa
radosso ciò che dicono i nostri teologi, cioè
quod actus voluntatis propterea liber sit, quia
ab illo desistere voluntas, et non agere po
test, ch'è la libertà d' indifferenza da noi
richiesta a meritare e demeritare. Questa
terza proposizione nasce parimente dalla sup
posta dilettazione predominante di Giansenio,
che secondo la sua sentenza necessita la vo
lontà al consenso, e la priva della potenza
di resistere. Egli asserisce che questa è la
sentenza di S. Agostino: ma il Santo (5) me
ga esservi peccato ove non vi è libertà, un
de non est liberum abstinere; ed all'incontro
in altro luogo (4) nega che l'uomo in que
sta vita non possit resistere gratiae. Sicchè
secondo S. Agostino l'uomo può sempre re
sistere alla grazia, e sempre resistere alla
concupiscenza ; e così solamente può meri
tare e demeritare.

(1) S. Aug. lib. 6. de Grat. Chr. cap. 6.


(2) Idem eod. tit. cap. 24.
(3) Idem lib. 3. de lib. arb. cap. 3.
(4) Idem de Nat. et Grat, cap, 67, i
458
1o. La quarta proposizione è questa: Semi
pelagiani admittebant praevenientis gratiae in
terioris necessitatem ad singulos actus etiam
ad initium fidei; et in hoc erant haeretici,
quod vellent eam gratiam talem esse cui pos
set humana voluntas resistere, vel obtempe
rare. Questa proposizione contiene due mem
bri: il primo è falso, il secondo è eretico.
Nel primo dunque Giansenio dice che i Se
mipelagiani ammetteano la necessità della gra
zia interna ed attuale al principio della fede.
Ecco com'egli scrisse: Massiliensium opinio
nibus et Augustini doctrina quan diligentis
sime ponderata, certum esse debere sentio
quod Massilienses praeter praedicationem, at
que naturam, veram etiam et internam et
actualem gratiam ad ipsam etiam fidem, quam
humanae voluntatis ac libertatis adscribunt vi
ribus, necessariam esse fateantur (1). Questa
prima parte è falsa; poichè S. Agostino ben
insegnava questo dogma di esser necessaria
la grazia al principio della fede, ma i Se
mipelagiani, per la più parte, affatto lo me
gavano, come attesta lo stesso santo Dotto
re (2). Il secondo membro poi ove Gianse
nio dice essere stati eretici i Semipelagiani

(1) S. Aug. lib. 2. de Peccator. merit. cap. 17.


(2) Idem de Praedest. SS. cap. 3. in Ep. 227.
ad Vital. num. 9.
459
nel volere che la grazia fosse tale che l'uomo
potesse ributtarla o secondarla, onde li chia
mava gratiae medicinalis destructores et liberi
arbitrii praesumptores, prova che in ciò non
erano eretici i Massiliesi, ma esso Giansenio
che negava ingiustamente al libero arbitrio la
potenza di consentire o dissentire alla grazia,
contro la definizione del concilio di Trento,
Sess. 6 can. 4, ove si disse : Si quis dixerit
liberum hominis arbitrium a Deo motum et
excitatum... neque posse dissentire, si velit...
anathema sit. E pertanto giustamente la detta
proposizione quarta fu dichiarata eretica.
1 1. La quinta proposizione è questa: Semi
pelagianum est dicere Christum pro omnibus
omnino hominibus mortuum esse, aut sangui
nem fudisse. La censura poi di tal proposi
zione fu : Haec propositio falsa, temeraria,
scandalosa, et intellecta eo sensu ut Chri
stus pro salute dumtaxat praedestinatorum
mortuus sit, impia, blasphema, contumelio
sa, divinae pietati derogans et haeretica de
claratur. Sicchè intendendo la proposizione
nel senso che Gesù Cristo sia morto per i
soli predestinati, ella è empia ed eretica 5
ed in tal senso ben si trova scritta in più
luoghi da Giansenio. In un luogo dice: Om
nibus illis pro quibus Christus sanguinem fu
dit etiam sufficiens auxilium donari, quo non
solum possint, sed etiam velint, et faciant id
44o - -

quod ab iis volendum, et faciendum esse de


crevit (1). Adunque, secondo Giansenio, Ge
sù Cristo offerì il suo sangue solamente per
coloro che determinò a volere, ed a fare le
opere buone, intendendo per quel sufficiens
auxilium, l'ajuto quo, come già lo spiega,
cioè la grazia efficace, che secondo lui ne
cessariamente fa loro operare il bene. Ma
appresso lo spiega più chiaro, dicendo: Nullo
modo principiis ejus, cioè di S. Agostino, di
cui parla, consentaneum est ut Christus vel
pro infidelium, vel pro justorum non perse
verantium aeterna salute mortuus esse sentia
tur. Ecco come esprime Giansenio che il
Salvatore non è morto per i giusti non pre
destinati. Giustamente dunque la sua propo
sizione intesa così fu censurata come eretica,
essendo ella opposta alle divine Scritture ed
a sacri concilj, come al concilio Niceno I.,
ove nel simbolo, o sia professione di fede,
che ivi si formò, come notammo nella Sto
ria (2), e poi si confermò da più altri
concili generali, si disse : Credimus in unum
Deum Patrem ... et in unum Dominum Je
sum Christum Filium Dei... Qui propter nos
homines et propter nostram salutem descen
dit, et incarnatus est, et homo factus, pas
sus est, et resurrexit etc. -

(1) Jans. lib. 3. de Grat. Christ. cap. 21.


(2) Stor. tom. 1. cap. 4. art. 1. num. 16.
r 441
12. Intesa poi la proposizione in generale,
che Cristo non è morto per tutti, come
scrisse Giansenio, dicendo essere errore con
tro la fede l'asserire che sia morto per tutti
C Nec enim juxta doctrinam antiquorum pro
omnibus omnino Christus mortuus est, cun
hoc potius tanquam errorem a fide catholica
abhorrentem doceant esse respuendum ) (1), e
soggiungendo che tale opinione è invenzione
de Semipelagiani; intesa così, la proposizione
fu dichiarata falsa e temeraria, come disso
mante alle sacre Scritture ed al sentimento dei
santi Padri. Se poi Gesù Cristo sia morto
per ciascuno degli uomini in particolare, al
tri teologi vogliono ch' egli abbia apparec
chiato il prezzo per la redenzione di tutti,
sicchè si chiami redentore di tutti solo suf.
ficientia pretii; ma altri più comunemente
vogliono che sia stato redentore anche suf
ficientia voluntatis, cioè che abbia voluto
con sincera volontà offerir la sua morte al
Padre, affin di ottenere a tutti gli uomini
gli ajuti sufficienti alla salute. -

15. In ciò siccome a noi non piace la


sentenza di coloro che dicono esser morte
Gesù Cristo con eguale affetto per tutti,
distribuendo a ciascuno la stessa grazia;
mentre par che non possa dubitarsi che il

(1) Jansen. lib. 3. de Grat. Christ cap. 21.


- T 5
442
Salvatore con affetto speciale è morto per
i fedeli, e massimamente per gli eletti, se
condo quel ch' egli disse prima della sua
ascensione: Non pro mundo rogo, sed pro
his quos dedisti mihi, Joan 17. 9.; e secondo
anche quel che scrisse l'Apostolo: Qui est
Salvator omnium hominum, maxime fidelium,
1. Tim. 4- 1 o ; così all'incontro non sappia
mo uniformarci alla sentenza di coloro, i
quali dicono che Gesù Cristo per molti non
ha fatto altro che preparare il prezzo suffi
ciente a redimerli, ma senza offerirlo per la
loro salute. Questa sentenza non sembra che
ben si accordi con quel che dicono le Scrit
“ture: Si unus pro omnibus mortuus est, ergo
omnes mortui sunt ; et pro omnibus mortuus
est Christus etc. 2. Cor. 5. 14 et 15. Dun
que siccome tutti sono morti per il peccato
originale, così Cristo è morto per tutti. Egli
colla sua morte cancellò già il decreto della
morte comune, apportata da Adamo a tutti
gli uomini: Delens quod adversus nos erat
chirographum decreti, quod erat contrarium
nobis; et ipsum tulit de medio, affigens illud
cruci, Coloss. 2. 14.; come già predisse Osea,
parlando in persona di Cristo venturo, che
egli colla sua morte doveva distruggere la
morte cagionata dal peccato di Adamo: Ero
mors tua, o mors. Oseae 15. 14. Onde seris
se poi l'Apostolo a tal proposito: Ubi est
445
mors victoria tua ? 1. Cor. 15. 55. ; signifi
cando appunto che il Salvatore colla sua
morte uccise e distrusse la morte apportata
agli uomini dalla colpa. Inoltre scrive San
Paolo: Christus Jesus, qui dedit redemptionem
semetipsum pro omnibus. 1. Tim. 2. 5. et 6.
E poco appresso soggiunge: Qui est Salvator
omnium hominum, maxime fidelium. Ibid 4.
1o. S. Giovanni poi scrisse: Et ipse est pro
pitiatio pro peccatis nostris; non pro nostris
autem tantum, sed etiam pro totius mundi 1.
Joan. 2. 2. Poste tali Scritture, io non so
come possa dirsi che Gesù Cristo colla sua
morte ha solamente apparecchiato il prezzo
sufficiente alla redenzione di tutti, ma non
, già l'ha offerto al Padre per la redenzione
di tutti. Ma, atteso ciò, potrebbe dirsi che
Cristo anche per i demonj abbia sparso il
sangue, che ben era sufficientissimo a salvarli.
14. Molti santi Padri poi chiaramente si
oppongono alla sentenza contraria riferita di
sopra, scrivendo che il Salvatore non ha
solo preparato il prezzo, ma anche l' ha of
ferto al Padre per la salute di tutti. S. Am
brogio scrive: Si quis autem non credit in
Christum, generali beneficio ipse se fraudat :
ut si quis clausis fenestris solis radios exclu
dat, non ideo sol non est ortus omnibus (1). .

(1) S. Ambros. in Ps. 118. tom. 1. pag. 1o77.


-
444 -

Il sole non prepara solamente la luce a tut


ti, ma l'offerisce a tutti coloro che vogliono
valersene; ed in altro luogo il Santo ciò
più espressamente dice : Ipse pro omnibus
mortem suam obtulit (1). Lo stesso scrive
S. Girolamo: Christus pro nobis mortuus est,
solus inventus est, qui pro omnibus qui erant
in peccatis mortui offerretur (2) S. Prospero
scrive: Salvator noster... dedit pro mundo
sanguinem suum, ( si noti, non dice paravit,
ma dedit ) et mundus redimi noluit, quia lu
cem tenebrae non receperunt (5). Lo stesso
scrive S. Anselmo: Dedit redemptionem se-.
metipsum pro omnibus, nullum eccipiens qui
vellet redini ad salvandum.... et ideo qui
non salvantur, non de Deo, vel mediatore
possent conqueri, sed de seipsis, qui redem
ptionem, quam mediator dedit, noluerunt ac
cipere (4). Lo stesso scrisse S. Agostino su
quelle parole di S. Giovanni: Non enim mi
sit Deus Filium suum, ut judicet mundum,
sed ut salvetur mundus per ipsum ( Joan. 5.
17.); dicendo così: Ergo, quantum in medico
est, sanare venit aegrotum. Ipse se interimit,
qui praecepta medici servare non vult. Sanat
-

(1) S. Ambros. lib. de Joseph. cap. 7.


(2) S. Hier. in Ep. 2. ad Cor. cap. 5.
(3) S. Prosp. ad object. 9. Gallor.
(4) S. Anselm. in cap. 2. Ep. 1. ad Tim.
445
omnino ille, sed non sanat invitum (1). Si
notino le parole quantum in medico est,
sanare venit aegrotum; dunque il Signore non
è venuto a preparar solamente il prezzo, o
sia il rimedio del nostri mali, ma l'ha offer
to a ciascuno infermo che vuol essere guarito.
15. Dunque, dirà alcuno della opposta sen
tenza, Iddio dà agl'infedeli che non lo cre
dono la stessa grazia sufficiente che dona
a fedeli. Io non dico che loro dia la stessa
grazia, ma dico con S. Prospero che almeno
darà loro una grazia più scarsa, o sia ri
mota, dalla quale coloro che corrispondono,
saran sollevati a ricevere una grazia più ab
bondante che li salverà: Adhibita semper est,
son le parole di S. Prospero, universis ho
minibus quaedam superna mensura doctrinae,
quae et si parcioris gratiae fuit, sufficit tamen
quibusdam ad remedium, omnibus ad testi
monium (2). Si noti: quibusdam ad remedium,
se corrispondono; omnibus ad testimonium,
se non corrispondono. Quindi fra le 51 pro
posizioni condannate a parte da Alessandro
VIII. ai 7 di dicembre 169o, la proposizione
quinta fu questa: Pagani, judaei, haretici,
aliique hujus generis nullum omnino accipiunt
a Jesu Christo influxum; adeoque hinc recte

(1) S. Aug. Tract. 12. in Joan. circa fin.


(2) S. Prosp. de Vocat. Gent. cap. 4.
446
inferes in illis esse voluntatem nudam et iner
mem, sine omni gratia sufficienti. In som
ma Iddio non imputa a colpa la sola igno
ranza, ma l'ignoranza colpevole che alme
no in qualche modo sia volontaria; nè ca
stiga tutti gl'infermi, ma solo quegl'infermi
che ricusano di sanarsi. Non tibi deputatur
ad culpam quod invitus ignoras, sed quod
neglgis quaerere quod ignoras; nec quod vul
nerata membra non colligis, sed quod volen
tem sanare contemnis (1). Onde par che non
possa dubitarsi che Gesù Cristo sia morto
per tutti; benchè, siccome insegna il con
cilio di Trento, non a tutti pervenga il be
neficio della redenzione: Verum, etsi ille
pro omnibus mortuus est, non omnes tamen
mortis ejus beneficium recipiunt, sed ii dum
taxat quibus meritum passionis ejus commu
nicatur. Sess. 6. cap. 5. Ciò s'intende detto
solo per gl'infedeli, i quali, essendo privi
della fede, non giungono a partecipare in
effetto de meriti del redentore; poichè in
quanto a fedeli, questi certamente per mez
zo della fede e del sacramenti ricevono il
beneficio della redenzione, benchè non tut
ti i fedeli conseguiscano poi per loro col
pa il beneficio compiuto della salute eter
ma. Del resto scrisse il celebre monsignor

(1) S. August. lib. 3. de lib, arb. cap. 19. num. 53.


447
Bossuet che ciascun fedele è obbligato a
credere con ferma fede che Gesù Cristo è
morto per la sua salute; e soggiunge che
questa è l'antica tradizione della chiesa cat
tolica. Ed in verità se ciascun fedele è tenu
to a credere che Gesù Cristo è morto per
noi e per la nostra salute, secondo il sim
bolo formato dal primo concilio generale,
come notammo nella Storia al tomo I. (1),
dove si disse : Credimus in unum Deum
omnipotentem... et in unum Dominum Jesun
Christum Filium Dei... qui propter nos homi
nes et propter nostram salutem descendit, et
incarnatus est, passus est etc.; posto che Gesù
Cristo è morto per tutti noi che professiamo
la fede cristiana, chi mai può dire che il
Salvatore non sia morto per i fedeli non
predestinati, e che non li voglia salvi?
16. Dobbiamo pertanto credere con fede
ferma che Gesù Cristo è morto per la salute
di tutti i fedeli. Ecco come lo scrisse mon
signor Bossuet: Non vi è fedele che non deb
ba credere con una ferma fede che Dio vuol
salvarlo, e che Gesù Cristo ha sparso tutto il
sangue per la di lui salute (2). Lo stesso fu
scritto prima nel concilio di Valenza, dove

(1) Storia tom. 1. cap. 4. art. 2. num. 16.


(2) Bossuet lib. Justific. des Réflexions etc. S.
16. pag. 1oo. -
448
al can. 4 si disse: Fideliter tenendum juxta
evangelicam et Apostolicam veritatem quod
pro illis hoc datum pretium (Sanguinis Chri
sti ) teneamus, de quibus Dominus noster di
cit : Ita exaltari oportet Filium hominis, ut
omnis qui credit in ipsum, non pereat, sed
habeat vitam aeternam (1). Lo stesso scrisse
la chiesa di Lione nel suo libro che scrisse
della verità che dee tenersi delle Scritture,
dicendo: Fides catholica tenet, et Scripturae
sanctae veritas docet quod pro omnibus cre
dentibus et regeneratis vere Salvator noster
sit passus (2). Lo stesso scrisse Antoine nel
la sua Teologia scolastica e dogmatica (5),
dicendo: Est fidei dogma Christum mortuum
esse pro salute eterna omnium omnino fide
lium. Lo stesso scrisse Tournely (4), il qua
le rapporta che nel corpo dottrinale del car
dinal di Noailles, dato nell'anno 172o e
soscritto da 9o vescovi, si disse: Non vi è
alcuno de fedeli che non debba credere con
ferma fede che Gesù Cristo abbia sparso tutto
il sangue per la di lui salute. Di più rapporta
che nell'assemblea del clero Gallicano del

(1) Syn. Valent. com. Concil. pag. 136.


(2) Eccl. Lugdun. lib. de ten. ver. etc. cap. 5.
(3) Antoine Theolog, univers. tom. 2. de Grat.
caP. 1. art. 6. ad prop. 5.
(4) Tourn. Theol. tom. 1. qu. 8. art. 1o. Concl. a.
449
1714 si disse che tutti i fedeli, o sieno giu
sti o peccatori, sono tenuti a credere che
Gesù Cristo è morto per la loro salute.
17. Ora i Giansenisti col sostenere che
Gesù Cristo non è morto per tutti i fedeli,
ma solo per gli eletti alla gloria, che fan
no ? Ci tolgon l'amore a Gesù Cristo. E
come no? È certo che uno de maggiori
motivi che c'infiammano ad amare il nostro
redentore e l'eterno Padre che ce l'ha do
nato, è la grand'opera della redenzione,
per cui sappiamo che il figlio di Dio, per
l'amore che ci porta, si è sacrificato per
noi sulla Croce : Dilexit nos, et tradidit se
metipsum pro nobis, Ephes. 5. 2. ; e l'eterno
Padre per lo stesso amore ci ha dato il suo
unigenito : Sic Deus dilexit mundum, ut fi
lium suum unigenitum daret. Joan. 5. 16.
Questo era il grande incentivo, di cui va
lcasi S. Agostino per accendere i cristiani
ad amar Gesù Cristo: Ipsum dilige, qui ad
hoc descendit, ut pro tua salute sufferret (1).
Ma i Giansenisti, credendo che Gesù Cristo
è morto per i soli eletti, come possono con
cepire verso lui un ardente affetto per esser
morto per loro amore, se non essendo egli
mo certi di essere annoverati tra il numero
del predestinati; debbono per conseguenza

(1) S. Aug. Tract. 2, in Ep. 1. Joan.


45o
essere anche incerti se Gesù Cristo sia mor
to per loro amore?
18. Inoltre essi col dire che Gesù Cristo
non è morto per tutti i fedeli, ci tolgono la
speranza cristiana. La speranza cristiana, co
me la definisce S. Tommaso, è un'aspetta
tiva certa della vita eterna: Spes est expec
tatio certa beatitudinis (1). Dunque noi fedeli
dobbiamo sperare che certamente Iddio ci
salverà, fidando alla sua promessa fatta di
salvarci per i meriti di Gesù Cristo morto
per la nostra salute, purchè non manchiamo
noi alla grazia. Così appunto insegnò il dot
tissimo monsignor Bossuet nel suo Catechis
mo, che compose per la sua diocesi di Mel.
di, o sia di Meaux, ove si dice: D. Perchè
dite voi che sperate la vita eterna che Dio
ha promessa ? R. Perchè la promessa di Dio
è il fondamento della nostra speranza (2).
19. Un certo autor moderno in un suo li
bro intitolato = La Confidenza Cristiana =
dice che la certezza della nostra speranza
non dobbiamo fondarla sulla promessa ge
nerale fatta da Dio a tutti i credenti di dar
loro la vita eterna, se son fedeli alla gra
zia, benchè tal promessa stia fatta dal Si
gnore in più luoghi : Si quis sermonem meum

(1) S. Thom. 2. 2. qu. 18. art. 4.


(2) Bossuet Catech. Meldens. 3. pag. 161. num. 117,
451
servaverit, non gustabit mortem in aeternum,
Joan. 8. 52.; Si vis ad vitam ingredi, serva
mandata. Matth. 19. 17. Ma questa general
promessa, fatta ad ogni cristiano che osserva
i divini precetti, dice l'autore, non vale a
darci una speranza certa della salute; poichè
questa promessa, come scrive, essendo ella
soggetta alla condizione della nostra corri
spondenza che può mancare, formerebbe
una speranza incerta. Onde scrive che dob
biamo noi collocar la nostra speranza nella
promessa particolare fatta agli eletti di sal
varli, poichè questa promessa, essendo asso
luta, fonda una speranza in tutto certa. Quin
di conchiude che la nostra speranza consiste
nell'appropriarci la promessa fatta agli eletti,
con riguardarci come contenuti nel numero
de predestinati. Ma questa opinione parmi
che non convenga con quel che c'insegna
il concilio di Trento alla Sess. 6 cap. 16,
ove dice : In Dei auxilio firmissimam spem
collocare omnes debent. Deus enim, nisi ipsi
illius gratiae defuerint, sicut coepit opus bo
num, ita perficiet. Sicchè, quantunque noi
dobbiamo temere per parte nostra di non
ottener la salute, perchè possiamo mancare
alla grazia, nondimeno tutti dobbiamo ri
porre una speranza fermissima per parte di
Dio di salvarci nel suo divino aiuto: In Dei
auxilio, parla il concilio, firmissimam spen
452
collocare omnes debent. Dice omnes debent ;
perchè anche i cristiani che stanno in pec
cato, ricevono spesso da Dio il dono della
speranza cristiana, sperando che il Signore
per i meriti di Gesù Cristo usi loro miseri
cordia, come dichiarò lo stesso concilio an
tecedentemente nel capo 6, ove parlando
de' peccatori dice: Ad considerandam Dei
misericordiam se convertendo, in spem eri
guntur, fidentes Deum sibi propter Christum
propitium fore. Parlando poi di coloro che
stanno in grazia, il poter essi mancare alla
grazia per la loro debolezza dice S. Tom
maso che non pregiudica alla certezza del
la speranza, la quale si appoggia alla di
vina potenza e misericordia, che non può
mancare: Dicendum quod hoc quod aliqui
habentes spem deficiant a consecutione bea
titudinis, contingit er defectu liberi arbitrii
ponentis obstaculum peccati, non autem er
defectu potentiae, vel misericordiae, cui spes
innititur; unde hoc non praejudicat certitudini
spei (1). Sicchè la nostra speranza si rende
certa, non già col riguardarci come scritti
nel numero degli eletti, ma col riporla nel
la potenza e misericordia di Dio, nè l'in
certezza della nostra corrispondenza alla gra
zia c'impedisce di avere una speranza certa

(1) S. Thom. 2. 2. qu. 18. ar. 4. ad 3.


455
della salute, fondata nella potenza, nella
misericordia e fedeltà di Dio, che ce l'ha
promessa per i meriti di Gesù Cristo; poi
chè una tal promessa non può mancare, se
non manchiamo noi di corrispondere.
2o. Inoltre, se la nostra speranza dovesse
fondarsi, come dice l'autor predetto, sulla
sola promessa fatta agli eletti, ella sarebbe
incerta a noi non solo per parte nostra,
ma anche per parte di Dio; poichè siccome
noi siamo incerti di essere scritti nel nu
mero de predestinati, così saremmo anche
incerti dell'ajuto divino promesso a conse
guir la salute. E quindi avverrebbe che, es
sendo il numero de reprobi molto maggio
re del numero degli eletti, avremmo molto
maggior fondamento di disperare, che di
sperar la salute. L'autore ben si fa carico
di tal difficoltà, e la chiama gravissima, di
cendo : Il numero degli eletti è senza com
parazione più piccolo anche tra i chiamati.
Dirà taluno a se stesso penetrato da questa
difficoltà: quale apparenza vi è ch'io sia
del minor numero più che del maggiore? All'
incontro il precetto di sperare come mi può
indurre a riguardarmi come separato dal nu
mero de reprobi ne disegni di Dio, quando
egli lo fa a reprobi medesimi, come a me?
Vediamo come si sbriga da questa diffi
coltà. Risponde che questo è mistero, il
454
quale da noi non si può capire. Siccome,
soggiunge, le cose della fede abbiamo da
crederle senza comprenderle, così abbiamo
da sperare, perchè Dio lo comanda, quan
tunque colla nostra ragione non arriviamo a
superar le difficoltà che vi sono. Ma rispon
diamo in breve che l'autore per aggiusta
re il suo sistema si figura esservi nel pre
cetto della speranza un mistero, il quale
non vi è. Nel precetto della fede ben viso
no misteri che si debbon credere senza ca
pirsi, come sono i misteri della Trinità,
dell'Incarnazione ec., mentre essi sono su
periori alla nostra ragione. Ma nel precetto
della speranza non vi entra alcun mistero:
poichè in questo precetto si attende solo a
quel che si aspetta, ch'è la vita eterna, ed
al motivo per cui si aspetta, ch'è la pro
messa di Dio di salvarci per i meriti di Ge
sù Cristo, se noi non manchiamo alla gra
zia; e queste sono cose a noi manifeste, e
non già misteri. All'incontro, se è vero,
come è verissimo, che tutti i fedeli debbo
no avere nell'ajuto di Dio una speranza fer
missima della salute, siccome insegna il con
cilio e S. Tommaso con tutti i teologi; co
me possiamo noi fermissimamente e certis
simamente sperare la salute, collo sperare
di essere nel numero degli eletti, quando
non sappiamo per certo, nè abbiamo nelle
455
Scritture alcun certo argomento di essere in
quel numero compresi ?
21. Sono bensì nelle sacre Scritture grandi
argomenti di sperare la vita eterna la con
fidenza e la preghiera, mentre Dio ci fa sa
pere: Nullus speravit in Domino, et confusus
est, Eccl. 2. I 1. ; e Gesù Cristo ci fa quella
gran promessa: Amen, amen dico vobis: Si
quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit
vobis. Joan. 16. 25. Ma se fosse vero che la
certezza della nostra speranza è nel riguar
darci, secondo dice l'autore, come contenuti
nel numero degli eletti, dimando qual fon
damento certo di salute avremmo noi nelle
Scritture di essere contenuti nel numero de
gli eletti? Quando ivi più presto troviamo
argomenti in contrario, trovando che gli eletti
son molto pochi a rispetto de'reprobi: Multi
sunt vocati, pauci vero electi Matth. 2o. 16.
Nolite timere pusillus grex etc. Luc. 12. 52.
Ma per concludere il punto, ripetiamo le
parole del concilio di Trento. Il concilio dice :
In Dei auxilio firmissimam spem collocare
omnes debent etc. Posto che Dio comanda a
tutti di collocare nel suo ajuto una speranza
certa di salvarci, ha dovuto darci un fonda
mento certo di avere una tale speranza. La
promessa fatta agli eletti è fondamento cer
to per gli eletti, ma non per noi in partico
lare che non sappiamo di essere stati eletti.
456
Dunque il fondamento certo a ciascuno di noi
di sperar la salute non è la promessa parti
colare fatta a soli eletti, ma la promessa
generale del suo aiuto fatta a tutti i fedeli
di salvarli, purchè non manchino alla grazia.
Più in breve: se tutti i fedeli sono obbligati
a sperar certamente la salute nell'ajuto divi
no, dunque un tale aiuto non a soli eletti,
ma è promesso a tutti, ed in questo aiuto
ciascun fedele dee fondare la sua speranza.
22. Ma torniamo a Giansenio. Giansenio
vuol farci credere che Gesù Cristo non è
morto per tutti gli uomini, e neppure per
tutti i fedeli, ma per i soli predestinati. Se
ciò fosse vero, resterebbe distrutta la spe
ranza cristiana. Poichè, siccome dice San
Tommaso, la speranza ha un fondamento
certo per parte di Dio, e questo fondamento
appunto è la promessa fatta da Dio di dar la
vita eterna pei meriti di Gesù Cristo a tutti
i cristiani che osservano la sua legge. Quindi
dicea S. Agostino che tutta la certezza della
sua speranza era nel sangue di Cristo sparso
per la nostra salute: Omnis spes et totius fi
duciae certitudo mihi est in pretioso sanguine
ejus, qui effusus est propter nos et propter no
stram salutem (1). Questa è l'ancora sicura e
ferma della nostra speranza, la morte di Gesù

(1) S. August. Medit. 5o. cap. 14.


457
Cristo, come scrive l'Apostolo : Fortissimum
solatium habeamus, qui confugimus ad tenen
dam propositam spem, quan sicut anchoran
habemus animae tutam ac firmam. Hebr. 6.
18. et 19 E dentro lo stesso capo avea San
Paolo prima già spiegato quale fosse questa
speranza proposta, cioè la promessa fatta
ad Abramo di mandar Gesù Cristo a salvare
gli uomini. Sicchè se Gesù Cristo non fosse
morto, almeno per tutti noi che siamo fe
deli, l'ancora di S. Paolo non sarebbe più
per noi sicura, nè ferma, ma incerta e de
bole, non avendo il suo certo fondamento,
ch'è il sangue di Gesù Cristo sparso per la
nostra salute; ed ecco colla dottrina di Gian
senio affatto distrutta la speranza cristiana. La
sciamo dunque noi a Giansenisti la loro dot
trina, e concepiamo una gran confidenza di
salvarci nella morte di Gesù Cristo; ma non
lasciamo di temere e tremare, come ci esorta
S. Paolo: Cum metu et tremore vestram salutem
operamini. Phil. 2. 12. Mentre con tutta la
morte di Gesù Cristo sofferta per noi, pure
possiamo perderci per nostra colpa. Sicchè in
tutta la nostra vita non dobbiamo far altro
che temere e sperare; ma molto più sperare
che temere, mentre abbiamo in Dio argomen
ti molto maggiori di sperare che di temere.
25. Alcuni poi vogliono spontaneamente
inquietarsi con entrare ad indagare l' ordine
LIG. Storia delle Eresie T. III. V
458
de'divini giudizi e il gran mistero della pre
destinazione. Questi sono misteri ed arcani,
a cui non possono giungere le nostre corte
menti. Lasciamo pertanto di voler intendere
queste cose oscure, che il Signore tiene ri
servate a sè, mentre abbiamo le cose certe
ch'egli vuole che sappiamo. E queste sono
per 1.º ch'esso vuole con vera e sincera
volontà che tutti si salvino, e che niuno si
perda : Omnes homines vult salvos fieri 1.
Tim. 2. 4. Volens aliquos perire, sed omnes
ad poenitentiam reverti 2. Petr. 5. 9. Per 2.º
ci fa sapere che Gesù Cristo è morto per
tutti: Et pro omnibus mortuus est Christus,
ut et qui vivunt, jam non sibi vivant, sed ei
qui pro ipsis mortuus est. 2 Cor. 5. 15. Per
5.º ci fa sapere che chi si perde, solo per
sua colpa si perde, mentr egli tien pronto
a tutti il suo aiuto per salvarli: Perditio
tua, Israel; tantummodo in me auxilium
tuum. Oseae 15. 9. Eh che niente varrà nel
giorno del giudizio ai peccatori la scusa di
non aver potuto resistere alle tentazioni;
poichè insegna l'Apostolo che Dio è fedele,
e non permette che alcuno sia tentato oltre
le sue forze : Fidelis autem Deus est, qui
non patietur vos tentari supra id quod po
testis. 1. Cor. 1o. 15. E quando noi deside
riamo forze più valide per resistere, cer
chiamole a Dio, ch'egli ce le darà; mentre
-
459
ha promesso di dare ad ognuno il suo soc
corso, con cui può vincere tutte le tenta
zioni della carne e dell' inferno: Petite, et
dabitur vobis. Matth. 7. 7. Omnis enim qui
petit, accipit. Luc. 11. Io. E S. Paolo ci fa
sapere che il Signore è molto liberale con
tutti coloro che lo chiamano in ajuto: Di
ves in omnes qui invocant illum; omnis enim
quicunque invocaverit nomen Domini, salvus
erit. Rom. 1o. 12. et 15.
24. Ecco dunque i mezzi sicuri di ottener
la salute. Preghiamo Dio che ci dia luce e
forza di far la sua volontà: ma bisogna pre
garlo con umiltà, confidenza e perseveran
za, che sono i tre requisiti della preghiera,
affinchè sia esaudita. Affatichiamoci a coope
rare per quanto possiamo alla nostra salva
zione, senza aspettare che tutto faccia Dio,
e noi non facciamo niente. Vada come si
voglia l'ordine della predestinazione, e di
cano quel che loro piace gli eretici, il cer
to si è che, se abbiamo a salvarci, senza le
opere buone non ci salveremo, e se abbia
mo a dannarci, solo per le nostre colpe ci
danneremo. Tutta la speranza poi della no
stra salute collochiamola, non già nelle ope
re nostre, ma nella divina misericordia e
ne meriti di Gesù Cristo, e così certamente
ci salveremo. Sicchè se ci salveremo, ci
salveremo solo per la grazia di Dio; poichè
46o
anche le nostre opere buone sono doni della
sua grazia: se poi ci danneremo, solo per
colpa nostra ci danneremo. Queste verità
conviene che spesso dichiarino i predicatori
al popolo, e non già si mettano sul pulpito
a far lezioni sottili di teologia, ponendo
avanti opinioni e sentenze che sono de santi
Padri e Dottori e Maestri nella chiesa, o
dicendole di maniera che non servono ad
altro che ad inquietare la mente degli udi
tori.

CON FU TAZ I O N E XIV.

DELL' ERESIA DI MICHELE MoLINos.

1-D, erano le massime di questo ere


siarca : con una toglieva il bene e coll'altra
ammetteva il male. La prima sua massima era
che l'anima contemplativa dee sfuggire e di
scacciare tutti gli atti sensibili d'intelletto e
di volontà, i quali secondo lui impediscono
la contemplazione, e con ciò privava l'uomo
di tutti quei mezzi che ci ha dati Iddio per
conseguir la salute. Dicea che quando l'ani
ma si è donata tutta a Dio, ed ha annichi
lata la sua volontà, rassegnandola totalmen
te nelle di lui mani, ella resta perfettamente
461
con Dio unita: onde allora di nulla più dee
curare circa la sua salute; dee licenziare da
sè le meditazioni, i ringraziamenti, le pre
ghiere, le divozioni verso le sacre immagi
mi ed anche verso l'umanità santissima di
Gesù Cristo; deve astenersi da tutti gli af
fetti divoti di speranza, di offerta di se
stessa, di amore verso Dio ; in somma di
cea che dee discacciare tutti i pensieri ed
atti buoni, perchè tutti questi son contrari
alla contemplazione ed alla perfezione dell'
aIllIl lae

2. Per conoscere più addentro il veleno


di questa massima, vediamo che cosa sia
meditazione e che cosa sia contemplazione.
Nella meditazione si va cercando Dio colla
fatica del discorso e cogli atti buoni. Nella
contemplazione senza fatica si contempla Dio
già trovato. Nella meditazione opera l'anima
cogli atti delle sue potenze ; nella contem
plazione opera Dio e l'anima patitur, e so
lo riceve i doni infusi dalla grazia. Ond'è
che quando l'anima sta assorta in Dio colla
contemplazione passiva, ella non dee sforzar
si di fare atti e riflessioni, perchè allora lo
stesso Dio la mantiene unita con sè in amo
re. Allora, dicea S. Teresa, Iddio occupa
colla sua luce l'intelletto, e gl'impedisce di
pensare ad altro. Quando Dio, son parole
della Santa, vuol che cessi l' intelletto di
462
discorrere, l'occupa, e gli dà un conoscimen
to superiore a quello, al quale noi possiamo
arrivare, onde lo fa restar sospeso. Ma la
stessa Santa dice poi che questo dono della
contemplazione e sospensione delle potenze,
quando viene da Dio, produce buoni effetti;
ma quando è procurato da noi, non produ
ce effetto alcuno, e l'anima resta più arida
di prima: Alle volte, siegue a dire, nell'ora
zione abbiamo un principio di divozione che
viene da Dio, e vogliamo passar da noi irz
questa quiete di volontà; allorchè ella è pro
curata da noi, non fa effetto, finisce presto,
e lascia aridità. E questo è quel difetto che
notava S. Bernardo in coloro che vogliono
passare dal piede alla bocca, alludendo al
passo del sacri Cantici, dove si parla della
sacra contemplazione: Osculetur me osculo
oris sui Cant. 1. 1. Soggiunge S. Bernardo:
Longus saltus et arduus de pede ad os.
5. Ma opporrà alcuno che il Signore dice
per Davide: Vacate et videte, quoniam ego
sum Deus. Psal. 45. I 1. Ma la parola vaca
te non dinota già che l'anima dee stare in
cantata nell'orazione senza meditare, senza
fare affetti, senza chieder grazie: vacate vie
ne a dire che per conoscere Dio e la sua
immensa bontà bisogna astenersi da vizj,
allontanarsi dalle cure mondane, reprimere
le voglie dell'amor proprio, e staccarsi dai
465
beni terreni. Insegna la maestra di orazione
S. Teresa, e dice: Bisogna che per parte
nostra ci prepariamo all'orazione; quando
Dio ci porterà più alto, a lui solo ne sia la
gloria. Sicchè nell'orazione quando Iddio ci
tira alla contemplazione, e ci fa sentire che
egli vuol parlarci, e non vuole che parliamo
noi, allora noi non dobbiamo porci ad ope
rare, perchè impediremmo l' opera divina;
dobbiamo allora solo applicare un amorosa
attenzione alle voci di Dio, e dire: Loquere,
Domine, quia audit servus tuus. Ma quando
Dio non parla, allora dobbiamo parlar noi
con Dio colle preghiere, con fare atti di con
trizione, atti d'amore, buoni propositi, e non
istare a perdere il tempo senza far niente.
Dice S. Tommaso : Contemplatio diu durare
non potest, licet quantum ad alios contempla
tionis actus possint diu durare (1). Dice che
la vera contemplazione, in cui l'anima as
sorta in Dio nulla può operare, poco dura;
ma posson durare gli effetti di quella, sicchè
ritornata l'anima nello stato attivo, dee ritor
mare ad operare per conservare il frutto del
la contemplazione ricevuta, con leggere, ri
pensare, fare affetti pii e simili atti divoti;
poichè, come confessa S. Agostino, egli
dopo essere stato esaltato a qualche insolito
v

(1) S. Thom. 2. 2. qu. 18o. art. 8. ad 2.


464 -

stringimento con Dio, sentivasi come da un


peso di nuovo tirato alle miserie terrene,
onde bisognava di nuovo si ajutasse cogli
atti dell'intelletto e della volontà per tenersi
unito con Dio : Aliquando, sono le sue pa
role, intromittis me in affectum inusitatum...
sed recido in hac aerumnosis ponderibus, et
resorbeor solitis (1). -

4. Andiamo ora esaminando le perniciose


proposizioni del Molinos, delle quali qui ne
adduco solamente alcune più principali, che
ben dichiarano il suo empio sistema. Nella
proposizione 1 dicea : Oportet hominem suas
potentias annihilare; et haec est via interna.
Nella 2 : Velle operari active est Deum of
fendere, qui vult esse ipse solus agens; et
ideo opus est seipsum in Deo totum et to
taliter derelinquere, et postea permanere, ve
lut corpus exanime. Sicchè volea Molinos
che l'uomo, dopo essersi abbandonato tutto
in Dio, dovesse restare come un corpo mor
to, che non fa nulla; e che allora il voler
fare qualche atto buono d'intelletto o di vo
lontà, era un offendere Dio, che vuole es
ser solo ad operare: e questa chiamava egli
l'annichilazione delle potenze che divinizza
l'anima, e la trasforma in Dio, come diceva
nella proposizione 5 : Nihil operando anima

(1) S. Aug Conf. lib. 1o. cap. 4o.


465
se annihilat, et ad suum principium redit et
ad suam originem, qua est essentia Dei, in
quem trasformata remanet, ac divinizata...
et tunc non sunt amplius dua res unita',
sed una tantum. Quanti errori in poche pa
role ! - -

5. Quindi proibiva l'aver cura, ed anche


l'aver desiderio della propria salute; e che
perciò non dee l'anima perfetta pensare nè
all'inferno, nè al paradiso: Qui suum libe
rum arbitrium Deo donavit, de nulla re debet
curam habere, nec de inferno, nec de para
diso; nec desiderium propria perfectionis, nec
propria salutis, cujus spem purgare debet.
Si noti spem purgare; dunque è difetto spe
rar la propria salute con far atti di speran
za? Ed è difetto meditare i novissimi? Quan
do il Signore c'insegna che la memoria delle

massime eterne ci manterrà lontani da pec


cati. Memorare novissima tua, et in aeter
num non peccabis. Eccl. 7. 4o. Il perfido
proibiva inoltre di fare atti di amore verso
i Santi, verso la divina Madre ed anche
verso Gesù Cristo, dicendo che dobbiamo
discacciare dal cuore tutti gli oggetti sensi
bili. Ecco come parla nella proposizione 55:
Nec debent elicere actus amoris erga B. Vir
ginem, Sanctos, aut humanitatem Christi;
quia cum ista objecta sensibilia sint, talis
est amor erga illa. Oh Dio ! proibire anche
- V 5
466
gli atti di amore verso Gesù Cristo! E per
chè ? Perchè Gesù Cristo è oggetto sensibi
le, e c'impedisce l'unione con Dio. E quan
do noi andiamo a Gesù Cristo, dice S. Ago
stino, a chi andiamo se non a Dio? Mentre
egli è uomo e Dio. E come, soggiunge il
Santo, possiamo andare a Dio, se non per
mezzo di Gesù Cristo? Quo imus, scrive il
santo Dottore, nisi ad Jesum ? et qua imus,
nisi per ipsum ? - -

6. Questo appunto è quel che dice S. Pao


lo: Quoniam per ipsum (Christum) habemus
accessum ambo in uno spiritu ad Patrem. Eph
2. 18. Dice lo stesso Salvatore in S. Gio
vanni: C cap. 1o vers. 9 ): Ego sum ostium:
per me si quis introierit, salvabitur; et ingre
dietur et egredietur, et pascua inveniet. Io
son la porta : chi entrerà per me, sarà sal
vo: et ingredietur et egredietur; spiega un
autore antico presso Cornelio a Lapide: In
gredietur ad divinitatem meam et egredietur
ad humanitatem, et in utriusque contempla
tione mira pascua inveniet. Sicchè l'anima o
considera Gesù Cristo come Dio o come uo
mo, resta sempre appieno pascolata. Santa
Teresa avendo una volta letto in un libro di
questi falsi mistici che il fermarsi in Gesù
Cristo impediva il passare a Dio, cominciò
a praticare questo mal documento ; ma poi
non cessava di sempre dolersi di averlo
467
seguito, dicendo: Ed è possibile che voi, Si
gnore, mi aveste ad essere d'impedimento a
maggior bene ? E donde mi vennero tutti i
beni, se non da voi? E poi soggiungea: Ho
veduto che per contentare Dio, ed affinchè
ci faccia grazie grandi, egli vuole che passi
ciò per le mani di questa umanità sacratissi
ma, in cui disse di compiacersi.
7. Inoltre Molinos col proibire di pensare
a Gesù Cristo, proibiva per conseguenza di
pensare anche alla di lui passione, quando
tutti i Santi altro non han fatto in tutta la
lor vita, che meditare i patimenti e le igno
minie del nostro amante Salvatore. S. Ago
stino scrisse: Nihil tam salutiferum quam
quotidie cogitare quanta pro nobis pertulit
Deus homo. E S. Bonaventura disse: Nihil
enim in anima ita operatur universalem san
ctificationem, sicut meditatio passionis Christi.
E prima di tutti disse l'Apostolo che egli
non volea sapere altro che Gesù crocifisso :
Non enim judicavi me scire aliquid inter vos
nisi Jesum Christum, et hunc crucifixum. 1.
Cor. 2. 2. E Molinos dice che non si dee
pensare all'umanità di Gesù Cristo!
8. Di più insegna questo empio maestro
che l'anima spirituale non dee chiedere al
cuna cosa a Dio; perchè il chiedere è di
fetto di propria volontà. Ecco nella propo
sizione 14 come parla: Qui divinae voluntati
468
resignatus est non convenit ut a Deo rem
aliquam petat; quia petere est imperfectio,
cum sit actus propria voluntatis. Illud autem
Petite et accipietis non est dictum a Chri
sto pro animabus internis etc. Ecco come to
glie alle anime il mezzo più efficace per ot
tener la perseveranza nella buona vita e per
giungere alla perfezione. Gesù Cristo par che
altro non ci esorti nel vangelj, che a pre
gare e non cessare mai di pregare : Oportet
semper orare et non deficere. Luc. 18. 1. Vi
gilate itaque omni tempore orantes. Luc. 2 I
56. S. Paolo scrive: Sine intermissione orate.
1. Thess. 5. 17. Orationi instate vigilantes in
ea. Coloss. 4. 2. E Molinos vuole che non
si preghi, perchè il pregare è imperfezione!
Dice S. Tommaso (1) che la preghiera con
tinua è necessaria all'uomo sino che sarà
salvo; poichè, quantunque gli siano stati ri
messi i peccati, non lascerà il mondo e l'in
ferno di combatterlo sino alla morte: Licet
remittantur peccata, remanet tamen fomes
peccati nos impugnans interius, et mundus et
daemones, qui impugnant exterius. Ed in que
sto combattimento non possiamo noi vince
re se non coll'ajuto divino, che non si do
ma se non a chi prega; insegnando S. Ago
stino che, tolte le prime grazie, come sono

(1) S. Thom. 3 part. qu, 39 art. 5.


469
la vocazione alla fede o alla penitenza, tutte
le altre grazie, e specialmente la perseveran
za, non si danno se non a coloro che pre
gano : Deus nobis dat aliqua non orantibus,
ut initium fidei; alia nonnisi orantibus prae
paravit, sicut perseverantiam.
9. Ma veniamo alla seconda massima che
ammette il male per cosa innocente, Come

accennammo da principio. Egli dicea che


quando l'anima si è data a Dio, tutto ciò
che avviene nel corpo non s'imputa a col
pa, ancorchè si avverta esser la cosa illeci
ta; perchè allora, come dicea, stando data
la volontà a Dio, quel che accade nella car
me si attribuisce alla violenza del demonio
e della passione; onde la persona in tal ca
so non dee fare altra resistenza che negati
va, e dee permettere che si commuova la
natura, ed operi il demonio. Ecco come parla
nella proposizione 17 : Tradito Deo libero
arbitrio, non est amplius habenda ratio ten
tationum , nec eis alia resistentia fieri debet
nisi negativa, nulla adibita industria; et si
natura commovetur, oportet sinere ut commo
veatur, quia est natura. E nella proposizione
47 dice: Cum hujusmodi violentiae occurrunt,
sinere oportet ut Satanas operetur... etiamsi
sequantur pollutiones et peiora... et non opus
est hac confiteri
1o. Così diceva l'ingannatore; ma non dice
47o
così il Signore. Il Signore dice per S. Gia
como: Resistite autem diabolo, et fugiet a
vobis. Jac. 4. 7. Non basta allora negative se
habere: poichè non possiamo noi allora per
mettere che il demonio operi, e resti sod
disfatta la nostra concupiscenza; vuole Dio
che allora vi resistiamo con tutte le nostre
forze. È falsissimo poi quel che dice nella
proposizione 41 : Deus permittit, et vult ad
nos humiliandos... quod da mon violentiam
inferat corporibus, et actus carnales commit
tere faciat etc. Falso, falsissimo. S. Paolo
ci fa sapere che Dio non mai permette che
noi siamo tentati oltre le nostre forze : Fide
lis autem Deus est, qui non patietur vos ten
tari supra id quod potestis, sed faciet etiam
cum tentatione proventum, ut possitis substi
nere. Viene a dire che il Signore nelle ten
tazioni non manca di darci l'ajuto bastante
a resistere colla nostra volontà; e così allora,
resistendo noi, le tentazioni ci apporteranno
profitto. Iddio poi permette al demonio di
istigarci a peccare, ma non mai che ci faccia
violenza, come dice S. Girolamo: Persua
dere potest, praecipitare non potest. E Sant'
Agostino (1): Latrare potest, solicitare potest,
mordere omnino non potest nisi volentem. E,
siasi la tentazione quanto si voglia forte,

(1) S. August. lib. 5. de Civit. cap. 2o.


47 1
chi si raccomanda a Dio, non mai caderà :
Invoca me... eruam te. Psal 49. 15. Lau
dans invocabo Dominum, et ab inimicis meis
salvus ero. Psal. 17. 4. Onde scrisse poi
S. Bernardo (1): Oratio da monibus omnibus
praevalet. E S. Giovanni Grisostomo diceva:
Nihil potentius homine orante.
11. Molinos nella proposizione 45 oppone
il passo di S. Paolo, dicendo: S. Paulus
hujusmodi da monis violentias in suo corpore
passus est; unde scripsit = Non quod volo
bonum, hoc ago; sed quod nolo malum, hoc
facio = Ma si risponde che per le parole
hoc facio, altro l'Apostolo non intendea di
dire, se non che non potea evitare i moti
disordinati della concupiscenza, e che li pa
tiva involontariamente; onde dopo le citate
parole soggiunge : Nunc autem jam non ego
operor illud, sed quod habitat in me, pecca
tum, cioè la natura corrotta dal peccato.
Rom. 7. 17. Molinos adduce poi nella pro
posizione 49 l'esempio di Giobbe: Job ex
violentia da monis se propriis manibus pollue
bat eodem tempore, quo mundas habebat ad
Deum preces. Oh bravo interprete della Scrit
tura sacra! Il testo di Giobbe dice così: Haec
passus sum absque iniquitate manus mea,
cum haberem mundas ad Deum preces. Job
(1) S. Bern. Serm. 49. de Modo ben viv, ar. 7.
472
16. 18. Dove si nomina qui polluzione nep
pure per ombra? Nella versione Ebraica ed
in quella del Settanta, come scrive il Du-Ha
mel, si volta così: Neque Deum negleari,
neque nocui alteri. Sicchè per le parole: Haec
passus sum absque iniquitate manus meae,
Giobbe intendea dire ch'egli non mai avea
fatto male al prossimo, spiegando le mani
per l'opera, come spiega il Menochio: Cum
manus supplices ad Deum elevarem, quas
neque rapina, negue alio scelere contamina
veram. Di più Molinos nella proposizione 51
porta per sua difesa l'esempio di Sansone :
In sacra Scriptura multa sunt exempla vio
lentiarum ad actus externos peccaminosos, ut
illud Samsonis, qui per violentiam seipsum
occidit, cum Philisthaei etc. Ma si risponde
con S. Agostino che ciò fece Sansone per
puro istinto dello Spirito Santo: e ciò si
raccoglie dall'antica fortezza soprannaturale
restituitagli allora da Dio a questo fine in
castigo de' Filistei; poichè egli, già pentito
del suo peccato, prima di afferrar le colonne,
che sosteneano l'edificio, pregò il Signore a
rendergli il primiero vigore, come dice la
Scrittura: At ille, invocato Domino, ait :
Domine Deus, memento mei, et redde mihi
nunc fortitudinem pristinam. Judic. 16. 28.
Quindi S. Paolo poselo tra il numero de San
ti con Jeſte, Davide, Samuele ed i profeti,
a
475
dicendo : Samson, Jephte, David, Samuel et
prophetis, qui per fidem vicerunt regna, ope
rati sunt justitiam etc. Hebr. 1 1. 52. et 55.
Ecco qual era l'empio sistema di questo soz
zo impostore. Ringrazi egli la misericordia
di Dio che lo fece morir penitente dopo più
anni di carcere, come narrammo nella Sto
ria al capo 12 num. 18o ; altrimenti troppo
penoso sarebbe stato il suo inferno per tan
te sue iniquità commesse e fatte commettere
agli altri.
474
C O N FU TAZ I O N E XV.
DEGLI ERRORI DEL P. BERRUYER

Sommario degli errori.


S I. Che Gesù Cristo fu fatto nel tempo per ope
ra ad extra figlio naturale di Dio, ma da Dio
uno sussistente in tre persone, il quale uni
l'umanità di Cristo con una persona divina.
S II. Che Gesù Cristo ne tre giorni in cui
stette nel sepolcro, cessando di esser uo
mo vivente, cessò per conseguenza di esser
figlio di Dio: e che quando Dio lo risze
scitò, di nuovo lo generò, e fece che di
nuovo fosse figlio di Dio.
S III. Dice il P. Berrurer che la sola uma
nità di Cristo ubbidì, orò e patì ; e che la
sua obblazione, orazione e mediazione non
erano operazioni prodotte dal Verbo, come
da principio fisico ed efficiente, ma che in
tal senso erano azioni della sola umanità.
S IV. Che i miracoli fatti da Gesù Cristo
non furono operati per sua propria virtù,
ma solo furono da esso impetrati dal Pa
dre colle sue preghiere.
S. V. Che lo Spirito Santo non fu mandato
sugli Apostoli da Gesù Cristo, ma dal so
lo Padre per le preghiere di Gesù Cristo.
S. VI. Altri errori del P. Berrurer sopra di
verse materie.

I. Assso io letto nel Bollario del ponte


fice Benedetto XIV. un breve, che comincia:
475
Cum ad Congregationem etc., dato ri ai
17 di aprile 1758, trovai che ivi sta condan
nata e proibita la seconda parte ( mentre la
prima parte era stata già proibita nel 1754)
della Storia del Popolo di Dio scritta dal P.
Isacco Berruyer secondo il nuovo Testamen
to, tradotta in lingua italiana dalla francese
ed in ogni altro idioma, dichiarandosi ivi
che ogni opera proibita prima in un linguag
gio, s'intende vietata in ogni altro idioma.
L'opera dunque del P. Berruyer sta tutta
proibita, insieme colle dissertazioni latine
annesse e colla difesa ivi aggiunta nella ver
sione italiana, per causa, come dicesi nel
breve, che nell'opera e particolarmente nelle
dissertazioni vi sono proposizioni false e te
merarie, scandalose, favorevoli e prossime
all'eresia ed aliene dal senso comune dei
Padri e della chiesa nell'interpretare le san
te Scritture. Questa condanna trovo poi ch'è
stata rinnovata dal pontefice ultimo defunto
Clemente XIII. ai 2 di dicembre 1758, in
sieme colla parafrasi letterale delle epistole
degli Apostoli dopo i comentari del P. Ar
duino, con quest'aggiunta : Quod quidem
opus ob doctrinae fallaciam et contortas sa
crarum literarum interpretationes ... scandali
mensuram implevit. Perlochè io avea deside
rio di legger questo libro ; ma essendosi
fatto raro per cagion della proibizione, a
476
principio non potei averlo, ma appresso già
l'ho ritrovato e letto. Prima non però di aver
l'opera di Berruyer ho letti diversi opusco
li, dove son notati molti errori contro la
medesima, e specialmente ho letta la cen
sura che ne ha fatta un dotto teologo con
sultore della S. C. dell'Indice, ed un al
tro opuscolo col titolo di Saggio d'Istruzio
ne Pastorale sopra gli errori ec. scritto con
molta dottrina. In un altro di questi opusco
li ( col titolo di lettera di Candido da Cos
mopoli) ho letto che quando uscì fuori la
predetta storia si armarono molti letterati
contro la medesima, per molti errori che vi
trovarono sparsi in tutta l'opera, e special
mente nel tomo ottavo delle dissertazioni :
ed ho letto con meraviglia che l'opera fu
riprovata a principio dagli stessi superiori
della religione, dicendosi ch'ella dovea ne
cessariamente esser corretta in mille luoghi,
e dichiarandosi che non l'avrebbero mai la
sciata imprimere senza un gran numero di
necessarie correzioni; tanto che il medesimo
P. Berruyer l'abbandonò, e si sottopose alla
proibizione che l'arcivescovo di Parigi ne
avea fatta con un particolare editto. Non in
tendo poi come, tutto ciò non ostante, l'ope
ra fu stampata in più luoghi ed in diversi
idiomi. Ma presto fu poi condannata così dai
vescovi di Francia, come dal sommo Pontefice
477
con decreto particolare della S. C. dell'In
quisizion generale, e finalmente dal parla
mento di Parigi fu anche bruciata per mano
del boja. Del resto leggo nella Storia lette
raria del P. Zaccaria, ch'egli riprova l'ope
ra di Berruyer, e scrive che il generale
della Compagnia ha dichiarato non ricono
scere il libro di Berruyer per opera della
Compagnia. -

2. Ritrovo di più in detti opuscoli notati


uniformemente gli errori dell' opera mento
vata colle parole trascritte dal libro dello
stesso P. Berruyer : e vedo che gli errori
usciti dalla mente stravolta di questo autore
sono molti e molto perniciosi, specialmente
quelli che si appartengono ai due misteri
della SS. Trinità e dell' Incarnazione del
Verbo eterno; d'intorno a cui l'inferno sem
pre si è affaticato per mezzo di tante ere
sie, vedendo che in tali misteri sta fondata
la fede e la nostra salute, poichè Gesù Cri
sto, Figlio di Dio e Dio fatt'uomo, è per
noi il fonte di tutte le grazie e di tutte le
nostre speranze; onde scrisse S. Pietro che
fuori di Gesù Cristo non vi è salute: Non
est in alio aliquo salus. Act. 4. 12.
5. Io mi trovava in fine di questa mia
opera, allorchè mi sono arrivate le notizie
del libro di Berruyer e degli scritti che l'im
pugnano; e, dico la verità, stava io sollecito
478
di mandar fuori presto il presente libro,
per riposarmi dalla fatica di più anni che
mi costa. Ma considerando che gli errori
del P. Berruyer son troppo chiari, e possono
apportar molto danno a chi legge la sua
opera, non ho potuto dispensarmi di con
futarla nella maniera più succinta che ho
potuto. Avvertasi che l'opera giustamente è
stata condannata prima da Benedetto XIV.,
come ho scritto, e poi da Clemente XIII. :
l'opera, dico, ma non la persona; men
tre egli, come trovo anche notato, totalmen
te si sottomise alla censura della chiesa; in
segnando S. Agostino che non può esser
notato di eresia chi non è pertinace a difen
der la sua perversa sentenza: Qui sententiam
suam, quamvis falsam atque perversam, nul
la pertinaci animositate defendunt... corrigi
parati cum invenerint, neguaquam sunt inter
ha reticos deputandi.
4. Ma prima di cominciare ad esaminar
questi errori del P. Berruyer, per migliore
intelligenza del lettori voglio dare in breve
un saggio del suo sistema. Il suo sistema
principalmente consiste in due falsissime pro
posizioni capitali; dico capitali, perchè dalle
medesime poi dipendono gli altri errori, che
il predetto autore mette in campo. La prima
proposizione capitale e la più capitale è que
sta: che Gesù Cristo è figlio naturale di
479
Dio uno, ma di Dio sussistente in tre per.
sone: viene a dire che Gesù Cristo è figlio,
non già del Padre come principio e prima
persona della SS. Trinità, ma è figlio del
Padre che sussiste nelle tre persone, sicchè
viene ad esser figlio propriamente della Tri
nità. La seconda proposizione, che discen
de dalla prima, ma anche è capitale, è
questa: che tutte le operazioni di Gesù Cri
sto così corporali, come spirituali, non fu
rono prodotte dal Verbo, ma dalla sola uma
nità di lui; e da quest'altra proposizione
ne ricava poi diverse altre tutte false e con
dannabili. La persona del P. Berruyer non
è stata già condannata come gravemente so
spetta di eresia, come di sopra si è dichia
rato. Del resto l'opera del P. Berruyer è
un pozzo profondo, dove quanto più si sca
va, più si trova di stravaganze, d'inezie, di
novità, di confusioni e di errori perniciosi,
che oscurano, come parla il breve di Cle
mente XIII., gli articoli più principali della
fede; in modo che in questo libro ben vi
trovano i loro vantaggi gli Ariani, i Nesto
riani, i Sabelliani, i Sociniani ed i Pelagia
ni, chi più e chi meno, siccome osserverà
l'accorto leggitore. Vi sono per altro den
tro molte espressioni cattoliche, ma queste
più confondono che rischiarano la mente
di chi legge. Osserviamo ora le sue false
48o
dottrine, e specialmente la prima che è
quasi madre di tutte le altre.
S. I.
Dice il P. Berrurer che Gesù Cristo fu fat
to nel tempo per opera ad extra figlio na
turale di Dio uno, sussistente in tre perso
ne, il quale unì l'umanità di Cristo con
una persona divina. -

5. Egli scrive così : Jesus Christus D. N.


vere dici potest et debet naturalis Dei Filius;
Dei, inquan, ut vox illa Deus supponit pro
Deo uno et vero subsistente in tribus perso
nis, agente ad extra, et per actionem tran
seuntem et liberam uniente humanitatem Chri
sti cum persona divina in unitatem personae (1).
Replica lo stesso in breve alla pag. 89 : Fi
lius factus in tempore Deo in tribus personis
subsistenti (2). Ed in altro luogo soggiunge :
Non repugnat Deo in tribus personis subsi
stenti fieri in tempore, et esse patrem filii
naturalis et veri. Dice dunque che Gesù
Cristo dee chiamarsi figlio naturale di Dio,
non già perchè, come dicono i concilj, i
santi Padri ed i teologi tutti, il Verbo as
sunse l'umanità di Cristo in unità di per
sona, e così il nostro Salvatore fu vero

(1) Berrurer tom. 8. pag. 59.


(2) Idem ibid. pag. 6o.
8I
Dio e vero uomo: vero uomo, ra ebbe
anima e corpo umano: e vero Dio, perchè
il Verbo eterno vero figlio di Dio e vero Dio,
ab aeterno dal Padre generato sostenne e ter
minò le due nature di Cristo divina ed uma
na. Ma perchè, secondo parla il P. Berruyer,
Iddio sussistente in tre persone unì al Verbo
l' umanità di Cristo, così Gesù Cristo è
Figlio naturale di Dio: e non già perchè è
il Verbo nato dal Padre, ma perchè è sta
to fatto figlio di Dio nel tempo da Dio sus
sistente in tre persone, uniente, come già
si è detto di sopra, humanitatem Christi cum
persona divina. E ciò lo replica in altro luo
go, cioè alla pag. 27, dove dice : Rigorose
loquendo, per ipsam formaliter actionem unien
tem Jesus Christus constituitur tantum filius
Dei naturalis. Figlio naturale? Ma ideato dal
P. Arduino e dal P. Berruyer: perchè il fi
glio vero naturale di Dio fu il solo figlio
unigenito nato dalla sostanza del Padre; on
de quello che chiama il Berruyer figlio pro
dotto dalle tre persone, non può essere che
figlio di solo nome. Soggiunge poi che a
Dio non ripugna di farsi in tempo Padre,
ed esser Padre di un figlio vero e natura
le, e sempre spiega ciò di Dio sussistente
nelle tre persone divine.
6. Questo errore il P. Berruyer lo prese
da quel che scrisse il P. Giovanni Arduino
LIG. Storia delle Eresie T III. X
482
suo cattivo maestro, il comentario del qua
le nel nuovo Testamento fu condannato an
che da Benedetto XIV. ai 28 di luglio 1745.
Or quest'autore piantò la proposizione che
Gesù Cristo non è figlio di Dio come Ver
bo, ma come uomo unito alla persona del
Verbo. Ecco com'egli, comentando le parole
di S. Giovanni In principio erat Verbum,
scrive : Aliud esse Verbum, aliud esse Fi
lium Dei intelligi voluit evangelista Joan
nes. Verbum est secunda SS. Trinitatis per
sona : Filius Dei, ipsa per se quidem, sedi
tamen ut eidem Verbo ly postatice unita Chri
sti humanitas. Dice dunque Arduino che all'
umanità di Cristo fu unita la persona del
Verbo, ma che Gesù Cristo allora diventò
figlio di Dio, quando al Verbo egli fu ipo
staticamente unito coll' umanità ; e perciò
dice che nel vangelo di S. Giovanni sino
all'incarnazione il Verbo è appellato Verbo,
ma dopo quella non è chiamato più Verbo,
ma unigenito e figlio di Dio: Quamobrem
in hoc Joannis evangelio Verbum appellatur
usque ad incarnationem. Postguam autem ca
ro factum est, non tam Verbum, sed uni
genitus et filius Dei est.
7. Ma questo è quel ch'è totalmente falso;
mentre tutti i Padri coi concilj e colle Scrit
ture, come vedremo, dicono chiaramente
che il medesimo Verbo fu il Figlio unigenito
485
di Dio che s'incarnò. Ciò si prova col te
sto di S. Paolo: Hoc enim sentite in vobis,
quod et in Christo Jesu, qui cum in forma
Dei esset, non rapinam arbitratus est esse se
aequalem Deo; sed semetipsum ecinanivit for
mam servi accipiens etc. Phil. 2. 5. et seqq.
Sicchè dice l'Apostolo che Cristo, essendo
eguale a Dio, si annientò col prender la for
ma di servo. La persona divina ch era uni
ta con Cristo, e ch'era eguale a Dio, non
poteva essere l'unigenito di Dio supposto
dal P. Arduino, ma deve intendersi lo stesso
Verbo; altrimenti non si sarebbe verificato
che quegli il quale era già eguale a Dio si
annientò col farsi servo. Di più S. Giovanni
nella sua epistola I. cap. 5 v. 2o scrive : Et
scimus quoniam Filius Dei venit. Dice venit,
dunque non è vero che questo Figlio di Dio
si fece Figlio, quando venne, mentre era
già Figlio prima di venire. Di più nel con
cilio Calcedonese ( Act. 5. ) si disse par
landosi di Gesù Cristo: Ante sacula quidem
de Patre genitum secundum deitatem, et in
novissimis autem diebus propter nos et propter
nostram salutem ex Maria Virgine Dei ge
nitrice secundum humanitatem... non in duas
personas partitum, sed unum eundemque Fi
lium et unigenitum Deum Verbum. Sicchè ſu
ivi dichiarato che Gesù Cristo secondo la
divinità è stato generato dal Padre prima
464 -

de secoli, e poi si è incarnato negli ultimi


tempi; di più ch' egli è uno, ed è lo stesso
Figlio di Dio e lo stesso Verbo. Di più nel
concilio generale V. nel can. 8 si disse: Si
quis ex duabus naturis deitatis et humanitatis
confitens unitatem factam esse, vel unam na
turam Dei Verbi incarnatan dicens, non sic
ea excipit sicut Patres docuerunt, quod ex
divina natura et humana, unitione secundum
subsistentiam facta, unus Christus effectus
est... talis anathema sit. Sicchè ivi non si
dubitò che il Verbo si fosse incarnato e fosse
divenuto Cristo, ma si proibì il dire assoluta
mente che la natura incarnata del Verbo fos
se uma. Abbiamo di più nel simbolo della
Messa: Credo in unum Dominum Jesum Chri
stum filium Dei unigenitum et ex Patre na
-
tum ante omnia saecula. Dunque Gesù Cristo
non è figlio di Dio, solo perchè è stato fatto
figlio nel tempo, e per essere stata unita al
Verbo la sua umanità, come dice Arduino ;
ma perchè la sua umanità è stata assunta
dal Verbo, ch'era già figlio di Dio, nato
dal Padre prima di tutti i secoli.
8. Tutti i santi Padri poi dicono che il
Figlio di Dio che si è fatt'uomo è la stes
sa persona del Verbo. S. Ireneo (1) scrive:
Unus et idem et ipse Deus Christus Verbum

(1) S. Irenaus lib. 17. adv. Haeres,


485
est Dei. S. Atanasio (1) rimprovera, coloro
che dicono: Alium Christum , alium rursum
esse Dei Verbum, quod ante Mariam et sa
cula erat Filius Patris. S. Cirillo (2) scrive:
Licet ( Nestorius ) duas naturas esse dicat
carnis et Verbi Dei, differentiam significans...
attamen unionem non confitetur. Nos enim
illas adunantes unum Christum, unum eun
dem Filium dicimus. S. Gio. Grisostomo (5)
rimproverando la bestemmia di Nestorio che
dava due figli in Gesù Cristo, scrive : Non
alterum et alterum, absit, sed unum et eun
dem Dominum Jesum Deum Verbum carne
nostra amictum etc. S. Basilio (4) scrive:
Verbum hoc, quod erat in principio, nec hu
manum erat, nec angelorum, sed ipse uni
genitus qui dicitur Verbum; quia impassibili
ter natus et generantis imago est. S. Grego
rio Taumaturgo (5) scrive: Unus est Deus
Pater Verbi viventis... perfectus perfecti ge
nitor, Pater Filii unigeniti S. Agostino (6):
Et Verbum Dei, forma quaedam non forma
ta, sed forma onnium formarum eacistens in

-. (1) S. Athan. Epist. ad Epictetum.


(2) S. Cyrill. in Commonitor. ad Eulogium.
(3) S. Joan. Chrysost. Hom. 3. ad cap. 1. Ep. ad
Caesar.
(4) S. Basil. Hom. in Princ. Joan.
(5) S. Greg. Thaumat. in Vita S. Greg. Nrss.
(6) S. August. Serm. 38. de Verb. Dom.
486
omnibus. Quaerunt vero, quomodo nasci po
tuerit Filius coaevus Patri: nonne si ignis aeter
nus esset coavus esset splendor? Ed in altro
luogo (1) lo stesso S. Agostino scrisse: Chri
stus Jesus Dei Filius est, et Deus et horno ;
Deus ante omnia saecula, homo in nostro sa -
culo. Deus, quia Dei Verbum: homo autern
quia in unitatem personae accessit Verbo ani
ma rationalis et caro. Eusebio Cesariense (2)
scrive: Non cum apparuit, tunc et Filius,
come voleva Arduino ; non cum nobisctarra ,
tunc et apud Deum, sed quemadmodum ira
principio erat Verbum, in principio erat etc....
in principio erat Verbum , de Filio dicit.
Eusebio par che direttamente risponda ad
Arduino, col dire che il Verbo, non già
quando apparve incarnato ed abitò con noi,
allora fu Figlio e fu presso Dio; ma sic
come in principio era Verbo, così in prin
cipio era anche Figlio; onde dicendo San
Giovanni: in principio erat Verbum, intese
dirlo del Figlio. E così l'intendono tutti i
Padri e le scuole, come confessa lo stesso
P. Arduino; ma con tutto ciò non arros
sisce di sostenere che non si deve inten
dere essere il Verbo il Figlio di Dio che
s'incarnò, benchè i Padri e le scuole così

(1) S. August. in Enchirid. cap. 35.


(2) Euseb. Ces. lib. 1. de Fide.
487
l' intendano. Ecco come dice : Non Filius
stilo quidem Scripturarum sacrarum, quam
quam in scriptis Patrum et in schola etiam
Filius.

9. Or questa dottrina è stata poi fortemen


te adottata dal P. Berruyer, ed egli l'ha più
diffusamente spiegata; anzi per fermare la
sua proposizione, che Gesù Cristo è figlio,
non del Padre, come prima persona della
Trinità, ma di Dio uno, come sussistente nelle
tre divine persone, stabilisce una regola gene
rale, con cui dice che tutte le Scritture del
muovo Testamento, dove Dio si nomina Pa
dre di Cristo e il Figlio si nomina figlio di
Dio, si debbono intendere del Padre come
sussistente nelle tre persone, e del figlio di
Dio sussistente in tre persone. Ecco le sue
parole: Omnes novi Testamenti tectus, in
quibus aut Deus dicitur Pater Christi, aut
Filius dicitur filius Dei, vel inducitur Deus
Christum sub nomine Filii, aut Christus Deum
sub nomine Patris interpretans: vel aliquid
de Deo ut Christi Patre, aut de Christo ut
Dei filio narratur, intelligendi sunt de Filio
facto in tempore secundum carnem, Deo uni
et vero in tribus personis subsistenti. E soggiun
ge che questa notizia è affatto necessaria per
l'intelligenza letterale e retta del Testamento
nuovo: Haec notio prorsus necessaria est ad
litteralem et germanam intelligentian librorum
488
novi Testamenti (1). E prima avea già scrit
to così doversi intendere tutti gli scrittori
del Testamento vecchio, che hanno profeta
to del Messia: Cum et idem omnino censen
dum est de omnibus veteris Testamenti scrip
toribus, quoties de futuro Messia Jesu Chri
sto prophetant (2). Aggiunge che quando Dio
Padre, o sia la prima persona, si dice Pa
dre di Gesù Cristo, s'intende detto non già
realmente, ma per appropriazione, per ra
gione dell'onnipotenza che si attribuisce alla
persona del Padre: Recte quidem, sed per
appropriationem Deus Pater, sive persona
prima, dicitur Pater Jesu Christi, quia actio
uniens, sicut et actio creans, actio est omni
potentiae, cujus attributi actiones Patri, sive
prima personae, per appropriationem tribuun
tur (5).
1o. Il P. Berruyer specialmente fonda la
sua ſalsa figliazione di Gesù Cristo sul testo
di S. Paolo: De Filio suo, qui factus est ei
ex semine David secundum carnem, qui prae
destinatus est Filius Dei in virtute etc. Rom.
1. 5. et 4. Ecco dunque, dice, dalle parole
de Filio suoqui factus est ei secundam car
nem, si vede che Gesù Cristo fu figlio di

(1) P. Berruyer tom. 8. pag. 89 e 98.


(2) Idem tom: 8. pag. 8.
(3) Idem pag. 83.
489
Dio fatto nel tempo secondo la carne. Ma
si risponde che qui parla S. Paolo di Gesù
Cristo, non come figliuolo di Dio, ma come,
figliuolo dell' uomo ; non dice che Gesù
Cristo factus est filius suus secundum carnem,
ma dice de filio suo qui factus est secundum
carnem , cioè il Verbo ch'era suo figlio, si
fece secondo la carne, cioè si fece carne, si
fece uomo, come già avea scritto S. Giovan
mi: Et Verbum caro factum est. Onde non
s'intende, secondo Berruyer, che Cristo co
me uomo è stato fatto figlio di Dio: per
chè siccome non può dirsi che Cristo, essendo
uomo, è stato fatto Dio, così non può dirsi
che sia stato fatto figlio Dio; ma s'intende
che il Verbo, essendo l'unico figlio di Dio,
si è fattº uomo dalla stirpe di Davide. Quan
do si dice poi che l'umanità di Gesù Cristo
fu elevata alla dignità di figliuolo di Dio,
ciò s'intende avvenuto per la comunicazione
degl'idiomi, fondata sull'unità di persona;
poichè avendo il Verbo unita alla sua per
sona la natura umana, ed essendo una la
persona che sostiene le due nature, divina
ed umana, giustamente si affermano dell'uo
mo le proprietà della natura divina, e di
Dio le proprietà della natura umana assunta.
Ma come s'intendono quelle altre parole:
Qui praedestinatus est Filius Dei in virtute -
etc. ? Il P. Berruyer le applica a spiegare
X 5
49o
un'altra sua falsissima supposizione, di cui
parleremo appresso: dice che s'intendono
della nuova filiazione che fece Dio nella
risurrezione di Gesù Cristo; mentr egli scri
ve che quando morì il Signore, essendosi
divisa l'anima dal corpo, cessò di esser
uomo vivente, ed allora cessò insieme di
esser ſiglio di Dio, onde quando poi risor
se, Iddio lo fece di nuovo suo figlio : e di
questa nuova filiazione dice che parla San
Paolo con quelle parole: Qui praedestinatus
est Filius Dei in virtute secundum spiritura
sanctificationis ex resurrectione mortuorum Je
su Christi Domini nostri. Rom. 1. 4. A questo
testo i santi Padri ed i comentatori danno
diverse interpretazioni ; ma la più accettata
è quella di S. Agostino, S. Anselmo, Estio
e di altri, cioè che Cristo è stato ab aeterno
predestinato ad esser nel tempo unito secon
do la carne al Figlio di Dio, per opera dello
.Spirito Santo che unì quest'uomo al Verbo,
il quale poi operò miracoli, e lo risuscitò
dopo la morte insieme con altri.
I 1. Torniamo al P. Berruyer, che, secon
do il suo sistema, tiene per certo che Gesù
Cristo è figlio naturale di Dio uno sussi
stente in tre persone. Dunque Gesù Cristo è
figlio della SS. Trinità ? Cosa che fa orrore
a S. Fulgenzio, dicendo il Santo che il no
stro Salvatore secondo la carne ben si dice
491
opera di tutta la Trinità, ma secondo la
nascita, così eterna, come temporale, è fi
glio del solo Dio Padre : Quis unquam tantae
reperiri possit insania, qui auderet Jesum
Christum totius Trinitatis filium praedica
re?... Jesus Christus secundum carnem qui
dem opus est totius Trinitatis; secundum vero
utramque nativitatem solius Dei Patris est fi
lius (1). Ma, diranno, il P. Berruyer non
vuole che si dica esser Gesù Cristo figlio
della Trinità. Ma posto ch'egli assegna due
filiazioni, l'una eterna, qual fu quella del
Verbo, e l'altra fatta nel tempo quando
Cristo fu fatto figlio di Dio sussistente in
tre persone, necessariamente ha da concede
re che sia Figlio della Trinità questo figlio
fatto nel tempo. Esso vuole che Gesù Cristo
non sia già il Verbo, cioè il Figlio generato
ab aeterno dal Padre, qual prima persona
della Trinità. Se dunque non è figlio di tal
padre, questo figlio di Dio da Berruyer
ideato di chi è figlio se non della Trinità ?
O forse è un figlio che non ha avuto pa
dre ? Ma senza perder più parole, in sostan
za ognuno intende esser lo stesso dirlo fi
glio di Dio uno sussistente in tre persone,
che dirlo figlio della Trinità. Ma questo è
quello che non può dirsi ; perchè l'esser

(1) S. Fulgent. Fragm. 32. lib. 9.


492
Cristo Figlio delle tre persone, è lo stesso
che l'esser pura creatura, come vedremo
da qui a poco; all'incontro l'esser figlio
importa esser prodotto dalla sostanza del
Padre, o sia essere della stessa essenza del
Padre, come scrive S. Atanasio (1): Omnis
filius ejusdem essentiae est propri parentis,
alioquin impossibile est, ipsum verum esse fi
lium. Dice S. Agostino che Gesù Cristo non
può dirsi figlio dello Spirito Santo, quan
tunque per opera di lui siasi fatta l'incarna
zione, or come poi potrà dirsi figlio delle
tre persone ? Insegna S. Tommaso (2) che
Cristo non può chiamarsi figlio di Dio se
non per la generazione eterna, secondo cui
egli è generato dal solo Padre; ma Berruyer
non lo fa figlio generato dal Padre, ma fatto
da Dio uno sussistente in tre persone.
12. Secondo questa proposizione, se egli
-

intende che Gesù Cristo è figlio consostan


ziale al Padre che sussiste in tre persone,
eSSO viene ad ammettere in Dio quattro per

sone, cioè tre nelle quali Iddio sussiste, e


la quarta ch'è Gesù Cristo fatto figliuolo
della SS. Trinità, o sia di Dio sussistente
in tre persone. Se all'incontro ha considera
to il Padre di Gesù Cristo come una sola

(1) S. Athan. Epist. 2. ad Serapion.


(2) S. Thom. 3. part. qu. 32. art. 3.
495
persona, in tal caso si dimostra Sabelliano,
riconoscendo in Dio, non già tre persone
distinte, ma una sola sotto tre nomi diversi.
Altri lo tacciano di arianismo. Del resto in
quanto al mio sentimento, io non so come
il P. Berruyer possa scusare la sua proposi
zione, che non sia prossima all'errore di
Nestorio. Egli stabilisce il principio che in
Dio vi sono due generazioni: una eterna,
l'altra fatta nel tempo: l'una necessaria ad
intra, l'altra libera ad extra, e sin qui dice
bene; ma parlando poi della generazione -
temporale, dice che Gesù Cristo non fu fi
glio naturale di Dio Padre come prima per
sona della Trinità, ma figlio di Dio come
sussistente in tre persone. -

15. Ma dicendo così , abbiamo da dire che


Gesù Cristo ebbe due padri, e che in Gesù
Cristo vi furono due figli, uno, figlio di
Dio come Padre e prima persona della Tri
nità, che lo generò ab aeterno: l'altro, fi
glio fatto in tempo da Dio, ma da Dio sus
sistente in tre persone, il quale, unendo l'uma
nità di Gesù Cristo ( o, come propriamente
scrive Berruyer, hominem illum ) al Ver
bo divino, lo fece suo figlio naturale. Ma
parlando così, non potremmo chiamar Gesù
Cristo vero Dio, ma vera creatura: e ciò
per due ragioni; la prima perchè secondo
la fede noi non abbiamo in Dio che sole
494
due operazioni ad intra, la generazione del
Verbo e la spirazione dello Spirito Santo,
ogni altra operazione in Dio è opera ad
extra, la quale non produce persone divine,
ma solamente creature; la seconda ragione
è perchè, se Gesù Cristo fosse figlio natu
rale di Dio sussistente in tre persone, sa
rebbe figlio della Trinità, come abbiam det
to di sopra. E da ciò ne verrebbero due
grandi assurdi. Il primo che in tal modo la
Trinità, cioè tutte le tre divine persone,
verrebbero a produrre figli di Dio; ma la
Trinità, come abbiam considerato di sopra,
fuori delle due produzioni ad intra, del
Verbo e dello Spirito Santo, non produce
che creature, non già figli di Dio. L'altro
assurdo è che se Gesù Cristo fosse stato
fatto figlio di Dio naturale dalla Trinità;
egli, se non vogliamo escludere il Figlio
dal numero delle tre persone divine, sareb
be venuto a generare, o sia produrre se
stesso, errore troppo insoffribile che fu già
rinfacciato da Tertulliano a Prassea, che di
ceva : Ipse se Filium sibi fecit (1). E così
secondo il sistema del P. Berruyer Gesù
Cristo per tutte le ragioni non sarebbe vero
Dio, ma vera creatura; e la B. Vergine
Maria sarebbe madre di Cristo, come la

(1) Tertull adv. Praxeam num. 5o.


495
chiamava Nestorio, e non madre di Dio,
come la chiama il concilio, e c'insegna la
fede; mentre Gesù Cristo è vero Dio, es
sendo che la sua umanità non ebbe che la
sola persona del Verbo, il quale la terminò,
sostentando egli solo le due nature divina
ed umana del nostro Salvatore.
14 Ma dirà qualche avvocato che il P.
Berruyer non ammette già due figli naturali
di Dio, l'uno eterno e l'altro temporale.
Ma, rispondo, giacchè egli non ammette
due figli di Dio, che serviva ad imbrogliarci
la mente con mettere in campo questa per
niciosa chimera della seconda filiazione di
Gesù Cristo, fatto nel tempo figlio naturale
di Dio sussistente in tre persone ? Dovea
dirci, come insegna la chiesa e come sentono
tutti i cattolici, che questo stesso Verbo,
il quale è stato ab aeterno figlio naturale di
Dio, generato dalla sostanza del Padre, egli
è quello che ha unita a sè la natura umana,
e così ha redenti gli uomini. Ma no, signor
avvocato mio, il pensiero del P. Berruyer
è stato di far questo beneficio alla chiesa di
darci a conoscere questo nuovo figlio natu
rale di Dio, del quale niuno di noi prima
avea cognizione, insegnandoci che questo
figlio fu fatto nel tempo, non dal Padre,
ma da tutte le tre persone divine, per cau
sa di essere stato unito, o sia di aver avuto
496
l'onore del consorzio ( termine usato dal
P. Berruyer ) del Verbo, che era figlio
di Dio ab aeterno. Sicchè se il P. Berruyer
col P. Arduino suo maestro non ci avessero
illuminati, saremmo restati privi di queste
belle notizie. - -

15. Ma erra enormemente il P. Berruyer


in proferire che Gesù Cristo è figlio natu
rale di Dio uno sussistente in tre persone.
A questa falsa proposizione ostano tutti i
teologi, i catechismi, i Padri, i concilj e
le Scritture. Non si nega che l'incarnazione
del Verbo fu opera di tutte le tre divine
persone; ma non si può negare all'incon
tro che la persona che s'incarnò fu quella
del solo Figliuolo, seconda persona della
SS. Trinità, il quale certamente fu lo stesso
Verbo generato ab aeterno dal Padre, che, as
sumendo l'umanità, ed unendola a se stesso
in unità di persona, volle in tal modo redi
mere il genere umano. Udiamo i catechismi
ed i simboli della chiesa, i quali c'insegnano
che Gesù Cristo non è il Figlio di Dio fatto
nel tempo dalla Trinità, come se l'ha figu
rato il P. Berruyer, ma è il Verbo eterno,
nato dal Padre, principio e prima persona
della SS. Triade. Nel Catechismo Romano (1)
dicesi che si dee credere Filium Dei esse

(1) Catech. Rom, cap. 3. art. 2. num. 8.


497
( Jesum ) et verum Deum, sicut Pater est,
qui eum ab æterno genuit. Ed al num. g
s' impugna direttamente I' opinione di Berru
yer, dicendosi : Et quamquam duplicem ejus
nativitatem agnoscamus, unum tamen filium.
esse credimus ; una enim persona est , in
quam divina et humana natura convenit. Nel
simbolo di S. Atanasio si legge prima : Pater
a nullo est factus... Filius a Patre solo est,
non factus , non creatus , sed genitus. E poi
parlandosi' di Gesù Cristo si dice : Deus eae
substantia Patris ante sæcula genitus, et ho
mo est eae substantia matris in saeculo na
tus ... Qui licet Deus sit et homo, non duo
tamen , sed unus est Christus. Unus autem
non conversione divinitatis in carnem , sed
assumptione humanitatis in Deum. Siccome
dunque Gesù Cristo ricevette l'umanità dalla
sostanza della sola madre , così ebbe la di
vinità dalla sostanza del solo Padre.
16. Abbiamo poi nel Simbolo Apostolico :
Credo in Deum Patrem omnipotentem . . . et
in Jesum Christum Filium ejus unicum ... na
tus eae Maria /irgine, passus etc. Si noti in
Jesum Christum Filium ejus, del Padre, pri
ma persona, che prima è stato nominato ,
non già di tutte le tre persone : unicum,
um figlio non due. Nel simbolo poi del
concilio Fiorentino , che si recita nella Mes
sa, e che comprende tutti gli altri simboli
498
formati prima dagli altri concili ecumenici,
abbiamo più cose notabili. Ivi si dice : Credo
in unum Deum Patrem omnipotentem ... et
in unum Dominum Jesum Christum Filium
Dei unigenitum, et ex Patre natum ante om
mia saecula ( sicchè questo Figlio unigenito
è quello stesso ch'è stato generato ab aeter
no dal Padre ), consubstantialem Patri, per
quem omnia facta sunt : qui propter nos ho
mines etc. descendit de coelis, et incarnatus est.
Il figlio dunque di Dio che operò la reden
zione, non è quello supposto dal P. Berruyer
fatto in tempo sulla terra, ma il Figlio di
Dio eterno, per cui sono state fatte tutte
le cose; ed egli fu quello che discese dai
cieli, e che nacque e morì per la nostra
salute. Dunque falsamente si ammettono dal
P. Berruyer due figli naturali di Dio, uno
nato nel tempo da Dio sussistente in tre
persone, ed un altro generato da Dio dall'
eternità.
17. Nè a ciò varrebbe al P. Berruyer
l'opporre e dire: dunque Gesù Cristo, in
quanto è stato fatto uomo nel tempo, non
è vero figlio naturale di Dio, ma è figlio
adottivo ; come diceano Felice ed Elipando,
che perciò furono condannati. No, diciamo
noi, e lo teniamo per certo, che Gesù Cri
sto anche come uomo è vero figlio di Dio,
siccome scrivemmo nella confutazione VII.
499
al num. 18. Ma da ciò non si ricava già
che vi siano due figli naturali di Dio, uno
eterno e l'altro fatto in tempo; perchè,
siccome provammo nel luogo citato, intanto
Gesù Cristo anche come uomo si dice Figlio
naturale di Dio, in quanto Iddio Padre con
tinuamente ab aeterno genera il Verbo, se
condo scrisse Davide: Dixit ad me: Filius
meus es tu, ego hodie genui te. Psalm. 2. 7.
E da ciò avviene che siccome il Figliuolo
prima dell'incarnazione fu generato ab aeter
no senza la carne, così poi dal tempo che
assunse l'umanità, è stato generato dal Pa
dre, e sarà sempre generato unito ipostati
camente all'umanità. Ma bisogna qui inten
dere che quest'uomo, figlio naturale di Dio,
creato nel tempo è la stessa persona del Fi
glio generato dall'eternità, cioè il Verbo,
mentre il Verbo assunse l' umanità di Gesù
Cristo, ed a sè l'unì ; onde non può dirsi
che vi siano due figli naturali di Dio, uno
come uomo fatto nel tempo, e l'altro come
Dio prodotto dall'eternità, perchè non vi è
altro che un solo figlio naturale di Dio, cioè
il Verbo, il quale nel tempo unendo a sè
l'umanità si rende Dio ed uomo; il quale è
un solo Cristo, come si dice nel simbolo
nominato di S. Atanasio: Sicut anima ratio
nalis et caro unus est homo, ita Deus et ho
mo unus est Christus. E siccome ogni uomo,
5oo
benchè siavi in esso l'anima e il corpo, si
dice ch'è un solo uomo ed una sola perso
ma ; così in Gesù Cristo, benchè vi sia il
Verbo e l'umanità, diciamo che vi è una sola
persona ed un solo figlio naturale di Dio.
18. È contrario ancora a quel che scrive
il P. Berruyer, ciò che scrisse S. Giovanni
nel suo primo capo: In principio erat Ver
bum, et Verbum erat apud Deum, et Deus
erat Verbum. Or di questo Verbo si dice
poi che si fece carne: Et Verbum caro fac
tum est. L'essersi fatto carne mon significa
essersi unito il Verbo alla persona umana
di Gesù Cristo già esistente, ma dimota ave
re il Verbo assunta l'umanità nello stesso
punto ch'ella fu creata, in modo che da
quel punto stesso l'anima di Gesù e la car
ne umana divennero sua propria anima e sua
propria carne, sostenute e governate da una
sola persona divina, qual era esso Verbo,
il quale terminava e sostenea le due nature
divina ed umana, e così il Verbo si fece
uomo. Ma gran cosa! S. Giovanni afferma
che il Verbo, il Figlio generato ab aeterno
dal Padre si è fatt uomo ; e il P. Berruyer
dice che quest'uomo non è il Verbo Figlio
di Dio eterno, ma è un altro Figlio di Dio
fatto in tempo da tutte le tre persone ! Ma
dopo che il Vangelista ha detto : Verbum
caro factum est, il voler dire ed intendere
5o i
che il Verbo non si è fatto carne, non è lo
stesso che dire quel che diceano i Sacramen
tari sull'Eucaristia delle parole: Hoc est cor
pus meum, cioè che il corpo di Gesù Cristo
non era suo corpo, ma solo figura, segno
o virtù del suo corpo? Questo è quel detor
quere sacra verba ad proprium sensum, tan
to detestato dal concilio di Trento negli ere
tici. Ma seguiamo il vangelo di S. Giovanni: -

Et habitavit in nobis. Questo Verbo eterno


è quello che si è fatt' uomo, ed ha operata
la redenzione umana; onde l'Apostolo dopo
aver detto ei Verbum caro factum est, sog:
giunge: Et vidimus gloriam eius, gloriam quasi
unigeniti a Patre etc. Sicchè questo Verbo
fatto uomo nel tempo è l'unigenito, e per
conseguenza l'unico figliuolo naturale di Dio
generato ab aeterno dal Padre. Ciò si confer
ma dallo stesso S. Giovanni in altro luogo
( Ep. 1. cap. 4. vers. 9 ), dove si legge:
In hoc apparuit charitas Dei in nobis, quo
miam Filium suum unigenitum misit Deus in
mundum, ut vivamus per eum. Nel quale testo
deve inoltre notarsi la parola misit. E falso
dunque ciò che dice Berruyer, che Gesù
Cristo è figliuolo di Dio fatto nel tempo;
giacchè S. Giovanni asserisce che questo fi
glio già vi era prima di esser mandato: co
me in fatti questi era il Figlio eterno del
Padre che fu mandato da Dio, discese dal
5o2
cielo, ed apportò la salute al mondo. Oltre
chè, da quel che dice S. Tommaso (1), in
Dio quando si dice una persona messa dall'
altra, intanto si dice messa in quanto da
quella procede; sicchè intanto dicesi il Figlio
messo dal Padre a prender carne umana,
in quanto procede dalla sola persona del Pa
dre. E ciò lo dichiarò Gesù Cristo nella ri
surrezione di Lazaro; dove potendo risusci
tarlo da sè, volle pregarne il Padre, per
far credere al popolo ch' egli era vero suo
Figlio: Ut credant quia tu me misisti. Luc.
11. 42. Onde scrisse poi S. Ilario (2) : Non
prece eguit; pro nobis oravit, ne Filius igno
raretur. -

19. A ciò si aggiunge la tradizione dei


santi Padri, che comunemente si oppongono
al falso sistema del Berruyer. S. Gregorio
Nazianzeno (5) scrive : Id quod non erat
assumpsit, non duo factus, sed unum ex duo
bus fieri substinens. Deus enim ambo sunt,
id quod assumpsit, et quod est assumptum;
naturae dua in unum concurrentes, non duo
Filii. S. Giovan Grisostomo (4) scrive: Unum

(1) S. Thom. pag. 1. qu. 4. art. 1.


(2) S. Hilar. lib. 1o. de Trinit.
(3) S. Greg. Nazianz. Orat. 31.
(4) S. Joan. Chrysost. Ep. ad Caesar. et Hom.
3. ad cap. 1. -
5o5
Filium unigenitum, non dividendum in Filio
rum dualitatem, portantem tamen in semet
ipso indivisarum duarum naturarum inconver
tibiliter proprietates. E poi soggiunge : Etsi
enim ( in Christo ) duplex natura, verunta
men indivisibilis unio in una filiationis confi
tenda persona et una subsistentia. E S. Giro
lamo (1) dice: Anima et caro Christi cumn
Verbo Dei una persona est, unus Christus.
E S. Dionisio Alessandrino in una lettera
sinodica confuta Paolo Samosateno, che di
ceva: Duas esse personas unius et solius Chri
sti; et duos filios, unum natura filium Dei,
qui fuit ante saecula, et unum homonrma
Christum filium David. E S. Agostino (2)
scrive : Christus Jesus Dei filius est Deus
et homo : Deus, quia Dei Verbum : homo
auten, quia in unitatem personae accessit Ver
bo anima rationalis et caro. Lascio le altre
autorità del Padri che possono leggersi pres
so il P. Gonet nel suo Clipeo, nel P. Peta
vio, nel cardinal Gotti ed altri.
2o. Io poi rifletto che, oltre gli altri er
rori espressi dal Berruyer, che discendono
dalla sua falsa opinione, e che insieme con
futeremo da qui a poco, riſletto, dico, che
dal suo sconvolto sistema , dichiarato di

(1) S. Hieron. Tract. 49. in Joan.


(2) S. August. in Enchirid. cap. 35.
5o4
sopra al numero 9 colle stesse sue parole,
nasce lo sconvolgimento della credenza del
battesimo insegnata da tutti i catechismi e
concilj. Il suo sistema è questo, cioè che
tutte le divine Scritture del nuovo Testamen
to, ove si chiama Dio Padre di Cristo, o
il Figlio si chiama figlio di Dio, oppure
ove si narra alcuna cosa di Dio, come Pa
dre di Cristo, come figlio di Dio, si deve
intendere del Figlio fatto nel tempo secondo
la carne, e fatto da quel Dio che sussiste
in tre persone. All'incontro è certo che il
battesimo si dà dalla chiesa in nome delle
tre divine persone, espressamente e singo
larmente nominate, secondo ordinò Gesù Cri
sto agli Apostoli: Euntes ergo docete omnes
gentes, baptizantes eos in nomine Patris et
Filii et Spiritus Sancti Matth. 28. 19. Ma se
dovesse attendersi la regola generale posta
dal P. Berruyer spiegata di sopra, ecco che
il battesimo non sarebbe più quello che si
amministra dalla chiesa, secondo il senso
che si amministra; poichè il Padre che si
nomina non sarebbe la prima persona della
Trinità, come comunemente s'intende, ma
sarebbe il Padre inteso da Berruyer, Padre
sussistente in tre persone, viene a dire tut
ta la Trinità. Il Figlio poi non sarebbe il
Verbo generato ab aeterno dal Padre princi
pio della Trinità, ma sarebbe quel figlio
- 5o5
fatto in tempo da tutte le tre persone: il
quale figlio, essendo opera ad extra di Dio,
sarebbe pura creatura, come di sopra ab
biamo già considerato. Lo Spirito Santo fi
malmente non sarebbe la terza persona, qua
le noi la crediamo, cioè procedente dal Pa
dre ch'è la prima persona della Trinità, e
dal Figliuolo ch'è la seconda persona, ch'è
il Verbo generato ab aeterno dal Padre. In
somma, secondo il P. Berruyer, il Padre,
il Figlio e lo Spirito Santo non sarebbero
quali in fatti sono, e quali li crede tutta la
chiesa, vero Padre, vero Figlio e vero Spi
rito Santo; contro quel che dice il gran teo
logo S. Gregorio Nazianzeno: Quis catholi
corum ignorat Patrem vere esse Patrem, Fi
lium vere esse Filium, et Spiritum Sanctum
vere esse Spiritum Sanctum, sicut ipse Do
minus ad Apostolos dicit: Euntes docete etc.
Haec est perfecta Trinitas etc. (1). Ma leg
gasi la confutazione del terzo errore nel
S III., dove si troverà più a lungo e più
chiaramente confutato questo primo errore.
Or passiamo ad esaminare gli altri errori
che discendono da questo primo già osser
vato del nostro autore.

(1) S. Greg. Naz. in Orat. de Fide post init.


LIG. Storia delle Eresie T. III. Y
5o6

S II.
Dice il P. Berrurer che Gesù Cristo ne tre
giorni in cui stette nel sepolcro, cessando
di esser uomo vivente, cessò per conseguen
za di esser figlio di Dio; e che quando
poi Iddio lo risuscitò, di nuovo lo generò,
e fece che di nuovo fosse figlio di Dio.
2 I-S, armi di pazienza il mio lettore in
sentire altre dottrine più ſalse e più strava
ganti del P. Berruyer. Egli dice che Gesù
Cristo nei tre giorni, in cui stette nel se
polcro, cessò di esser figlio naturale di Dio :
Factum est morte Christi ut homo Christus
Jesus, cum jam non esset homo vivens, at
que adeo pro triduo quo corpus ab anima
separatum jacuit in sepulcro, fieret Christus
incapaac illius appellationis, Filius Dei (1). E
lo replica nello stesso luogo con altri termi
ni: Actione Dei unius, filium suum Jesum
suscitantis, factum est ut Jesus, qui desierat
esse homo vivens, et consequenter Filius Dei,
iterum viveret deinceps non moriturus. Questo
errore nasce dal suo falso supposto esami
nato nel paragrafo antecedente; giacchè po
sto che Gesù Cristo fu figlio di Dio sus
sistente in tre persone, cioè figlio della

(1) Berruyer tom. 8. pag. 65.


5o7
Trinità, come opera ad extra, secondo ab
biam veduto prima, fu puro uomo; ed es
sendo cessato d'essere uomo vivente colla
morte, cessò anche di esser figlio di Dio
sussistente in tre persone; perchè se era
figlio di Dio come prima persona della Tri
mità, in Gesù Cristo vi era il Verbo eterno,
il quale essendosi unito all'anima ed al cor
po di lui ipostaticamente, ancorchè colla
morte l'anima si fosse divisa dal corpo, non
avrebbe potuto nè dall'una, nè dall'altro
mai separarsi.
22. Posto dunque che Gesù Cristo mo
rendo cessò di esser figlio di Dio, ha da
dire il P. Berruyer che in quei tre giorni in
cui il corpo del Signore fu diviso dall'ani
ma, si separò la divinità dalla di lui anima
e carne. Restringiamo la proposizione di Ber
ruyer. Egli dice che Cristo fu fatto figlio di
Dio, non già perchè il Verbo assunse la di
lui umanità, ma perchè all'umanità si unì
il Verbo , e da ciò ne deduce che nel se
polcro, avendo cessato di essere uomo vi
vente per essersi divisa l'anima dal corpo,
egli non fu allora più figlio di Dio, e per
ciò il Verbo lasciò di stare unito colla di
lui umanità. Ma ciò è falsissimo: perchè il
Verbo assunse, ed unì ipostaticamente ed in
separabilmente a sè in unione di persona
l'anima e la carne di Gesù Cristo; onde
5o8
quando il Salvatore morì e il suo corpo sa
crosanto fu sepolto non potè nè dal corpo,
nè dall'anima dividersi la divinità del Ver
bo. Questa è verità insegnata da tutti i san
ti Padri. S. Atanasio (1) scrisse: Cum Deitas
neque corpus in sepulchro desereret, neque
ab anima in inferno separaretur. S. Gregorio
Nisseno (2) scrisse: Deus, qui totum hominem
per suam cum illo conjunctionem in naturam
divinam mutaverat, mortis tempore a neutra
illius, quam semel assumpserat, parte recessit.
S. Agostino (5) disse: Cum credimus Dei Fi
lium, qui sepultus est, profecto Filium Dei
dicimus et carnem, quae sola sepulta est.
25. S. Giovan Damasceno poi ne adduce
la ragione, dicendo che l'anima di Cristo
non ebbe sussistenza diversa da quella ch'eb
be la carne: una sola fu la persona che so
stenne l'una e l'altra : Neque enim unquam
aut anima, aut corpus peculiarem atque a
Verbi subsistentia diversam subsistentiam ha
buit (4). E perciò dice che, essendo una la
persona che sostentava l'anima e il corpo
di Cristo, benchè l'anima dal corpo si di
videsse, non potè dividersi da loro la per
sona del Verbo; onde seguì a sostenere l'una
(1) S. Athan. contra Apollinar. lib. 1. num. 15.
(2) S. Greg. Nyss. Orat. 1. in Christ. Resur.
(3) S. Aug. Tract. 78. in Joan. num. 2.
(4) S. Joan. Damasc. lib. 3. de Fide cap. 27,
e

5o9
e l'altra, come siegue a dire: Corpus et ani
ma simul ab initio in Verbi persona existen
tiam habuerant, ac licet in morte divulsa
fuerint, utrumque tamen eorum unam Verbi
personam, qua subsisteret, semper habuit. Sic
come dunque, allorchè Gesù Cristo discese
all'inferno, il Verbo discese insieme coll'ani
ma ; così restando il corpo nel sepolcro, vi
restò anche il Verbo : e così la carne di
Cristo nella sepoltura fu immune dalla cor
ruzione, come predisse Davide : Non dabis
sanctum tuum videre corruptionem. Psal. 15.
io. E da S. Pietro ( Act. 2. 27. ) appunto
questo testo fu attribuito al Salvatore gia
cente nel sepolcro. Ma S. Ilario (1) scrive
che in tempo della morte la carne di Gesù
Cristo fu lasciata dalla divinità; ma S. Am
brogio (2) spiega la mente di S. Ilario, e
dice che il Santo non ha voluto dir altro
con quel suo detto, se non che siccome in
tempo della passione la divinità abbandonò
l'umanità di Cristo a quella gran desolazione,
che fece esclamare al nostro Salvatore: Deus
meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me?
Matth. 27. 26. ; così il Verbo nella morte
abbandonò il di lui corpo in quanto all'in
flusso di conservargli la vita, ma non lo

(1) S. Hilar. cap. 33. in Matth.


(2) S. Ambros. lib. Io, in Luc. cap. 13.
51 o
abbandonò in quanto all'unione ipostatica ,
onde non potè cessar mai Gesù Cristo di
esser figlio di Dio, come vuole il P. Ber
ruyer esser avvenuto nel sepolcro, essendo
assioma comune nelle scuole cattoliche (1):
Quod semel Verbum assumpsit, nunquam ami
sit. Ma se il P. Berruyer concede che il Ver
bo fu unito prima in unità di persona coll'
anima e corpo di Gesù, come poi può dire
che, separandosi l'anima dal corpo, il Ver
bo lasciò di stare unito col corpo 2 Queste
sono dottrine che egli solo intende , o,
per meglio dire, che neppure esso intende.
24 Dicendo poi il P. Berruyer che Gesù
Cristo morendo cessò di esser figlio naturale
di Dio, perchè cessò di esser uomo viven
te, per conseguenza ha da tenere che l'uma
nità prima della morte non era sostenuta
dalla persona del Verbo, ma che avea la
propria sussistenza umana, ed era persona
distinta dalla persona del Verbo; e posto ciò
come può sfuggire di non esser incorso nell'
eresia di Nestorio, che ammettea due per
sone distinte in Gesù Cristo? Del resto è
contrario espressamente a Nestorio ed al P.
Berruyer il simbolo di fede Costantinopolita
mo, in cui sta definito che dobbiamo credere

3) Cont. Tournely de Incarn. tom. 4. part. 2.


pa3 487.
5t I
in un solo Dio Padre onnipotente, ed in un
solo figlio di Dio unigenito nato dal Padre pri
ma di tutti i secoli, e consostanziale al Padre,
il quale per la nostra salute discese da cieli,
s'incarnò da Maria Vergine, patì, fu sepol
to e risorse nel terzo giorno. Dunque quello
stesso unico figlio unigenito di Dio Padre,
generato ab aeterno dal Padre, è disceso dal
cielo, si è fattº uomo, è morto ed è stato
sepolto. Ma come poteva un Dio morire ed
esser sepolto? Sì, ben lo poteva; e l'ha fatto,
dice il concilio, con assumere carne umana.
Quegli stesso, parla un altro concilio gene
rale (1), il Lateranese IV., che come Dio
non potea morire, nè patire, facendosi uo
mo si è fatto mortale e passibile: Qui cum
secundum divinitatem sit immortalis et impas
sibilis, idem ipse secundum humanitatem fac
tus est mortalis et passibilis.
25. In conseguenza poi dell'errore mento
vato che Gesù Cristo nel sepolcro cessò di es
ser figlio naturale di Dio, il P. Berruyer ag
giunge un altro errore, e dice che quando Dio
risuscitò Cristo uomo, di nuovo lo generò e
lo formò uomo Dio; poichè col risuscitarlo
fece che fosse figlio quegli che morendo avea
lasciato di esser figlio. Quest'altra sua nuova

(1) Conc. Lat. IV, in cap. Firmiter , de Summ.


Trin. etc. - -
512 -

e falsa invenzione già l'abbiamo riferita


al num. 18. Egli dice : Actione Dei unius,
Filium suum Jesum suscitantis, factum est
ut Jesus, qui desierat esse homo vivens et
consequenter filius Dei, iterum viveret dein
ceps non moriturus. Ciò poi lo replica con
altri termini in altro luogo : Deus Christum
hominem resuscitans, hominem Deum itera
to generat, dun facit resuscitando ut filius
sit, qui moriendo filius esse desierat (1).
Godiamo d' intendere questo nuovo dogma
ignoto a tutti i fedeli, che il figlio di Dio
si è incarnato e fattº uomo due volte : una
quando fu conceputo nell'utero sacrosanto
di Maria, e l'altra quando risorse dal se
polcro; e ringraziamo il P. Berruyer che ci
ha fatte sapere cose sinora neppur nominate
nella chiesa. Inoltre dalla sua bella dottrina
ne nasce che Maria santissima due volte fu
fatta madre di Dio, giacchè in quel tempo,
nel quale Gesù Cristo stando nel sepolcro
cessò di esser figlio di Dio, cessò anch'ella
di esser madre di Dio; e poi di nuovo le
fu restituita la divina maternità, quando Ge
sù Cristo risorse. Ma passiamo ad esaminare
nel paragrafo seguente un altro errore forse
a mio parere il più pernicioso di quest'au
tore così guasto di cervello; dico di cervello,

(1) Berruyer tom. 8. pag. 66.


5 15
perchè non voglio riputarlo guasto di co
scienza. Uno degli scrittori che confuta il P.
Berruyer saggiamente riflette ch' egli è ca
duto in tanti errori, per non aver voluto
seguir la tradizione de santi Padri e il me
todo ch' essi hanno tenuto nell'interpretare
le divine Scritture, e nel dichiarare la parola
di Dio non iscritta, che si è conservata nel
le opere di questi santi dottori e pastori. E
perciò si vede, come nota il prelato auto
re del Saggio, che il P. Berruyer in tutta
la sua opera non cita alcuna autorità, nè di
Padri, nè di teologi ; quando che il concilio
di Trento ( Sess. 6 decr. de Script. Sanct. D
proibisce espressamente d'interpretare i sa
cri libri in senso contrario a quello che è
comune de santi Padri. Esaminiamo ora l'er
rore seguente, ch è troppo enorme e per
nicioso. -

S III.
Dice il P. Berrurer che la sola umanità di
Cristo ubbidì, orò e pati; e che la sua
obblazione, orazione e mediazione non
erano operazioni prodotte dal Verbo come
da principio fisico ed efficiente, ma che in
tal senso erano azioni della sola umanità.

26. De il P. Berruyer che le operazio


ni di Gesù Cristo non furono prodotte dal
Y 5
514
Verbo, ma dalla sola umanità ; e soggiunge
che l'unione ipostatica niente conferì a ren
dere la natura umana di Cristo un princi
pio compito delle di lei azioni fisicamente
o soprannaturalmente prodotte. Ecco le sue
parole : Non sunt operationes a Verbo elici
tae... sunt operationes totius humanitatis (1).
E prima (2) avea scritto : Ad complemen
tum autem naturae Christi humanae, in ra
tione principii agentis, et actiones suas phr
sice sive supernaturaliter producentis, unio
hypostatica nihil omnino contulit. In altro
luogo poi dice che tutte le proposizioni che
si trovano di Gesù Cristo nelle Scritture,
specialmente del nuovo Testamento, sempre
si verificano direttamente e primariamente
nell'uomo Dio, o sia nell'umanità di Cristo
unita alla divinità, e dal Verbo compiuta
nell'unità di persona: e dice che questo è
il metodo naturale d'interpretarle Scritture:
Dico insuper omnes et singulas ejusdem pro
positiones quae sunt de Christo Jesu in Scrip
turis sanctis, praesertim novi Testamenti, sem
per et ubique verificari directe et primo in
homine Deo, sive in humanitate Christi di
vinitati unita et Verbo, completa in unitate
personae... Atgue hac est simplex, obvia

(1) Berruyer tom. 8. pag. 53.


(2) Idem pag. 22.
5 15
et naturalis Scripturas interpretandi methodus
etc. (1).
27. E quindi in somma ne deduce che la
sola umanità di Cristo fu quella che ubbidi,
che orò, che patì ; ella sola fu dotata di
tutti i doni necessari ad operar liberamente
e meritoriamente per il concorso divino na
turale e soprannaturale: Humanitas sola obe
divit Patri, sola oravit, sola passa est, sola
ornata fuit donis et dotibus omnibus necessa
riis ad agendum libere et meritorie (2). Jesu
Christi oblatio, oratio et mediatio non sunt
operationes a Verbo elicita tamquam a prin
cipio phrsico et efficiente, sed in eo sensu
sunt operationes solius humanitatis Christi in
agendo et merendo per concursum Dei natu
ralem et supernaturalem completa (5). Ed ec
co che il P. Berruyer con ciò priva Dio
dell' onore infinito che ha ricevuto da Gesù
Cristo, il quale, essendo Dio al Padre egua
le, gli si è fatto servo, e gli ha sacrificato
se stesso. Di più toglie ai meriti di Gesù
Cristo il valore infinito che hanno , mentre
vuole che le operazioni di Cristo non furon
fatte dalla persona del Verbo, ma dalla sola
umanità. Distrugge anche per conseguenza

(1) Berruyer tom. 8. pag. 18. e 19.


(2) Idem ibid. pag. 2o. 21. e 23.
(3) Idem pag. 53.
5 16 -

la speranza che noi abbiamo ne' meriti infi


niti di Gesù Cristo. Inoltre ci toglie il mo
tivo più forte dell'amore che dobbiamo ave
re verso del nostro Redentore, nel pensare
ch'egli, essendo Dio, e non potendo patire
come Dio, ha voluto assumere carne umana,
affin di patire e morire per noi, e così sod
disfare la divina giustizia per le nostre col
pe, ed ottenerci la grazia e la vita eterna.
Ma quel che più importa, dice il censore
di Roma, se la sola umanità di Cristo fu
quella che ubbidì, orò e pati, e se l'obbla
zione, orazione e mediazione di Cristo non
furono operazioni prodotte dal Verbo, ma
dalla sola umanità, ne siegue che l'umanità
di Cristo ebbe da sè la propria sussistenza.
Dunque la persona umana di Cristo fu di
stinta da quella del Verbo, e furono due
persone?
28. Soggiunge poi il P. Berruyer al passo
ultimamente citato, Humanitas sola obedivit
etc. queste altre parole: Ille, inquam, ho
mo, qui ha comnia egit, et passus est libere
et sancte, et cujus humanitas in Verbo sub
sistebat, objectum est in recto immediatum
omnium, qua de Christo sunt, narratio
num (1). Sicchè l'uomo, non già il Verbo,
era quegli che in Cristo operava: Ille homo

(1) Berrurer tom. 8. pag. 53. e 95.


5I
qui hoc omnia egit, dice il P. Berruyer. si
facciasi caso delle parole che aggiunge : Cu
jus humanitas in Verbo subsistebat; perchè
egli non lascia mai il suo sistema, e lo re
plica sempre nel libro delle sue dissertazioni,
dove parla con modi e frasi così oscure e
stravaganti, che chi avesse genio di diven
tar pazzo, legga queste dissertazioni, che
conseguirà l'intento. Il suo sistema, come
abbiamo detto più volte, è che Cristo non
sia il Verbo eterno, figliuolo nato da Dio
Padre, ma il Figlio fatto nel tempo da Dio
uno, sussistente in tre persone, che l'ha
fatto figlio suo con unirlo con una persona
divina, come scrive in altro luogo (pag. 27)
ove dice che, parlando con rigore, Gesù Cri
sto formalmente fu costituito figlio di Dio,
solo per l'azione che l'uni con una persona
divina: Rigorose loquendo, per ipsam forma
liter actionem unientem cum persona divina ;
così spiegò nella pag. 59. Egli dice dunque
che Dio per l'azione con cui unì l'umanità
di Cristo col Verbo, formò la seconda filia
zione, ed operò che Cristo uomo fosse fatto
figlio di Dio; onde secondo Berruyer, l'esser
unito il Verbo coll'umanità di Cristo fu come
un mezzo per far diventare Cristo figliuolo
di Dio. Ma tutto è falso; perchè, parlando
si di Gesù Cristo, non si ha da dire che
quell'uomo, per essere stato unito con una
518
persona divina, è stato fatto in tempo dalla
Trinità figlio di Dio, ma si ha da dire che
quel Dio, quel Verbo eterno, figlio nato
dal Padre ab aeterno, nato dalla sostanza del
Padre ( come parla il simbolo di S. Atanasio,
Deus est ea substantia Patris ante saecula
genitus ), altrimenti non può mai dirsi fi
glio naturale di Dio, quello è che, unen
do a sè l'umanità in unità di persona, l'ha
sempre sostenuta, ed egli è quello che ha
operato il tutto, e, non ostante che fosse
eguale a Dio, si è esinanito ed umiliato sino
a morir crocifisso nella sua carne assunta.
29. Tutto l'errore del P. Berruyer consi
ste nel riguardare l'umanità di Cristo come
un soggetto sussistente in sè, al quale si
fosse unito poi il Verbo. Secondo la fede e
la ragione dee dirsi che l'umanità di Cristo
fu accessoria al Verbo che l'assunse ; sic
come insegna S. Agostino : Homo autem ,
quia in unitatem personae accessit Verbo ani
ma et caro (1). Il P. Berruyer dice tutto il
contrario. Egli fa la divinità del Verbo acces
soria all'umanità. Ma bisogna persuaderci,
secondo c'insegnano i concilj ed i Padri,
che l'umanità di Gesù Cristo non fu prima
che venisse il Verbo ad incarnarsi. Il conci
lio VI. ( Act. I 1. ) ciò appunto rimproverò

(1) S. August. in Enchirid. cap. 35.


519
a Paolo Samosateno, che con Nestorio vo
leva esistente l'umanità di Cristo prima
dell'incarnazione; onde il concilio dichiarò:
Simul enim caro, simul Dei Verbicaro fuit;
simul animata rationabiliter, simul Dei Verbi
caro animata rationabiliter. S. Cirillo (1) nella
sua lettera a Nestorio, approvata dal sinodo
Efesino, scrisse: Non enim primum vulgaris
quispiam homo ex Virgine ortus est, in quem
Dei Verbum deinde se dimiserit; sed in ipso
utero carni unitum secundum carnem progeni
tum dicitur, utpote suae carnis generationem
sibi ut propriam vindicans. S. Leone Ma
gno (2), riprovando il detto di Eutiche, che
Gesù Cristo solo prima dell'incarnazione fu
in due mature, dice : Sed hoc catholicae men
tes auresque non tolerant... natura quippe
nostra non sic assumpta est, ut prius creata
postea sumeretur, sed ut ipsa assumptione
crearetur S. Agostino, parlando del benefi
cio fatto all'umanità di Cristo di esser unita
alla divinità, scrisse : Ex quo esse homo
coepit, non aliud coepit esse homo, quam Dei
filius (5). S. Giovan Damasceno (4) scrisse:
Non quemadmodum quidam falso pradicant,

(1) S. Cyrill. Ep. 2. ad Nestor.


(2) S. Leo Ep. ad Julian.
(3) S. August. in Enchirid. cap. 36.
(4) S. Joan Dam. lib. 4 Fide orthod. cap. 6.
I

52 o

mens ante carnem ex Virgine assumptam Deo


Verbo copulata est, et tum Christi nomen
accepit.
5o. Ma a questo che dicono i concilj ed
i Padri, non si accorda ciò che scrive il
P. Berruyer, dicendo che tutte le Scritture
che parlano di Gesù Cristo, si verificano
direttamente nell'umanità di Cristo unita alla
divinità : Dico insuper omnes propositiones
quae sunt de Cristo in Scripturis... verifica
ri directe et primo in homine Deo, sire in
humanitate Christi divinitati unita etc. (1)-
Onde poco dopo soggiunge che l'oggetto
primario di tutto ciò che dicesi di Cristo,
è l'uomo Dio, non Dio uomo: Homo Deus,
non similiter Deus homo objectum primarium
etc. ( pag. 24 ). Ed in altro luogo (pag. 27)
come abbiam riferito di sopra, dice che Ge
sù Cristo fu costituito formalmente figlio
naturale di Dio, solo per l'azione che l'uni
al Verbo: Per ipsam formaliter actionem
unientem Jesus Christus constituitur tantum
filius Dei naturalis. Ma questo è falso; per
chè Gesù Cristo è figlio naturale di Dio,
non già per l'azione che l'uni al Verbo,
ma perchè il Verbo, ch'è figlio naturale
di Dio, come quegli che dal Padre è stato
generato ab aeterno, assumendo l'umanità di

(1) Berruyer tom. 8. pag. 18.


52 I
Cristo, l'uni a sè in unità di persona. Sic
chè Berruyer ci rappresenta come l'umanità
fosse l'oggetto primario in recto e per sè
sussistente, a cui si fosse unito il Verbo ,
e che per questa unione Cristo uomo è stato
poi fatto figlio di Dio nel tempo. E quindi
dice che la sola umanità ubbidì, orò e patì;
e poi soggiunge che quell'uomo ha fatto
tutte queste cose: Ille ( inquam ) homo qui
ha c omnia egit... objectum est in recto im
mediatum eorum quae de Christo sunt etc.
Ma no: secondo la fede noi dobbiamo ri
guardare come oggetto primario il Verbo
eterno, che assunse l'umanità di Cristo, e
l'unì ipostaticamente a se stesso in una per
sona; e con ciò l'anima e il corpo di Gesù
Cristo divennero anima propria e corpo pro
prio del Verbo. Avendo il Verbo assunto
un corpo umano, dice S. Cirillo, non era
già quel corpo alieno dal Verbo, ma fatto
suo proprio: Non est alienum a Verbo corpus
suum (1). Questo dinotano le parole del sim
bolo : Descendit de coelis, et incarnatus, et
homo factus est. Quindi diciamo col simbolo
che Dio si è fatt uomo, e non già, come
dice Berruyer, che l'uomo è divenuto Dio;
perchè un tal parlare ci fa concepire, come
l'uomo sussistente si fosse unito con Dio, e

(1) S. Crr. Epist. ad Nestor.


522
così vengono a supporsi due persone, come
volea Nestorio. Ma la fede c'insegna che
Dio si è fatt'uomo con prendere carne uma
na; e così in Cristo una fu la persona, la
quale fu Dio ed uomo. Neppure può dirsi,
come insegna S. Tommaso (1), quel che di
cea Nestorio, che Cristo era stato assunto
da Dio, come un istromento per operar
l'umana salute; mentre, come scrisse S. Ci
rillo riferito dallo stesso S. Tommaso, la
Scrittura vuole che crediamo Gesù Cristo,
non come un istromento di Dio, ma come
un vero Dio fattº uomo : Christum non tan
quam instrumenti officio assumptum dicit
Scriptura, sed tanquam Deum vere huma
naturm.

5 1. Non si dubita che in Gesù Cristo vi


sono due mature distinte, delle quali ciascu
ma ha la sua propria volontà e le proprie
operazioni, contro i Monoteliti che voleano
in Gesù Cristo una sola volontà ed una ope
razione. Ma è certo all'incontro che le ope
razioni della natura umana in Gesù Cristo
non erano meramente umane, ma erano ,
come parlano le scuole, teandriche, cioè
divine e umane e principalmente divine; poi
chè quantunque in ogni operazione di Cristo
vi concorrea la natura umana, nondimeno

(1) S. Thom. 3. part. qu. 2. art. 6. ad 4.


525
questa era tutta subordinata alla persona del
Verbo, ch'era l'unico capo che determinava
e dirigea tutte le operazioni dell'umanità:
il Verbo, scrisse monsignor Bossuet, presie
de a tutto, il Verbo governa il tutto, e
l' uomo sottomesso alla direzione del Ver
bo non ha altri movimenti che divini; tutto
quanto vuole e fa è guidato dal Verbo (1).
S. Agostino dice che siccome in noi l'anima
regge il corpo, così in Gesù Cristo il Verbo
reggea l'umanità. Quid est homo ? scrive il
Santo : anima habens corpus. Quid est Chri
stus ? Verbum Dei habens hominem. E San
Tommaso scrisse : Ubicumque sunt plura agen
tia ordinata, inferius movetur a superiori...
Sicut autem in homine puro corpus movetur
ab anima... ita in Domino Jesu Christo hu
mana natura movebatur et regebatur a divi
na (2). Ond'è ch'è tutto falso quel che dice
il P. Berruyer : Humanitas sola obedivit Pa
tri, sola oravit, sola passa est ( pag. 2o ).
Jesu Christi oblatio, oratio et mediatio non
sunt operationes a Verbo elicita tanquam a
principio phrsico et efficiente ( pag. 55 ). E
nella pag. 22 dice : Ad complementum na
turae Christi humanae in ratione principii
producentis, et actiones suas sive plursicesive

(1) Bossuet Diss. istor. pag. 2.


(2) S. Thom. pag. 3. qu. 19. art. 1.
524
supernaturaliter agentis, nihil omnino contulit
unio hypostatica. Se la sola umanità di Cri
sto, dice il censore Romano, ha ubbidito,
orato e patito ; e se l'obblazione, orazione
e mediazione di Cristo non sono operazioni
elicite dal Verbo, ma dalla sola umanità, in
modo che l'unione ipostatica niente affatto
ha conferito all' umanità, acciocchè il prin
cipio delle sue operazioni fosse compiuto; ne
siegue che l'umanità di Cristo operava da sè,
ed operando da sè, dovrebbe dirsi che avea
la propria sussistenza e la propria persona
distinta dalla persona del Verbo; ed ecco due
persone in Gesù Cristo, come volea Nestorio.
52. Ma no, quanto operò Gesù Cristo,
tutto lo fece il Verbo, il quale sostenea am
bedue le nature, e non potendo, come Dio,
patire e morire per la salute degli uomini,
prese carne umana, e così si rese passibi
le e mortale, come si disse nel sinodo La
teranese : Qui cum secundum divinitatem sit
immortalis et impassibilis, idem ipse secundum
humanitatem factus est mortalis et passibilis.
Ed in tal modo il Verbo eterno nella carne
assunta sacrificò a Dio il suo sangue e la
sua vita, e si fece mediatore presso Dio,
egualmente grande che Dio, come scrive
S. Paolo parlando di Gesù Cristo: In quo
habemus redemptionem per sanguinem eius...
qui est imago Dei invisibilis... quoniam in
- 525
ipso condita sunt universa in coelis et in ter
ra... quia in ipso complacuit omnem pleni
tudinem inhabitare. Coloss. 1. 14. et seqq.
Sicchè, secondo l'Apostolo, Gesù Cristo è
quegli stesso che ha creato il mondo, ed
in cui risiede la pienezza della divinità.
55. Ma dice il difensore di Berruyer nella
sua apologia che il suo autore, dicendo che
la sola umanità di Cristo ubbidì, orò e patì,
parla dell'umanità come principio quo fisico,
cioè medio quo fit operatio, il quale princi
pio fisico competeva alla sola umanità e
non al Verbo, giacchè per mezzo dell'uma
nità Cristo patì e morì. Ma si risponde che
l'umanità, qual principio quo, non potea
da sè operare in Cristo, se non l'avesse
mossa il principio quod, qual era il Verbo;
il quale essendo l'unica persona che sosten
tava le due nature, egli era quello che prin
cipalmente operava tutto nell'umanità assunta,
benchè per mezzo di quella poi orò, pati,
morì. Posto ciò, come può difendersi quel
che dicea Berruyer , che humanitas sola ora
vit, passa est? E come potea dire: Christi
oblatio, oratio, mediatio non sunt operatio
nes a Verbo elicita ? E, quel che più fa peso,
come potea dire che intorno alle azioni di
Cristo nihil omnino contulit unio hypostati
ca? Ho detto di sopra che il Verbo era il
principale agente che operava tutto. A ciò
526
non vale opporre e dire: dunque l'umanità
di Cristo nulla operava ? Si risponde che il
Verbo operava tutto; perchè, quantunque
l'umanità anche operasse, nondimeno essen
do il Verbo l'unica persona che sosteneva
e compiva questa umanità, egli tutto opera
va così nell'anima, come nel corpo, poichè
l'anima e il corpo coll'unità della sua per
sona erano divenuti suoi propri. Onde quanto
si faceva in Gesù Cristo, tutti erano voleri,
azioni e patimenti del Verbo; mentre egli
era quello che determinava il tutto, e l'uma
nità ubbidiente consentiva ed eseguiva. Quin
di è che tutte le operazioni di Gesù Cristo
furono sante e di prezzo infinito, valevoli
ad ottenerci ogni grazia; che perciò dobbia
mo di tutto sempre ringraziarlo.
54. Bisogna dunque toglierci dalla mente
la falsa e guasta idea che il Padre Berruyer,
come scrive l'autore del Saggio, volea farci
fare di Gesù Cristo, cioè che la sua umani
tà sia stata un ente da sè esistente, al quale
Iddio unì uno de suoi figli naturali: giac
chè, come considerammo nel paragrafo ante
cedente al num. 1 1 , due figli naturali di
Dio vi sono stati, secondo il P. Berruyer,
cioè uno generato ab aeterno dal Padre, e
l'altro nel tempo da tutta la Trinità; ma
come vuole Berruyer, Gesù Cristo propria
mente non fu il Verbo che s'incarnò, secondo
527
scrive S. Giovanni : Et }'erbum caro factum
est, ma fu quell'altro figlio di Dio fatto
mel tempo. Ma non dicono così i santi Padri:
questi dicono che fu il Verbo. S. Girola
mo (1) scrive : Anima et caro Christi cum
J^erbo Dei una persona est , unus Christus.
S. Ambrogio (2), spiegando che Gesù Cristo
parlava talvolta secondo la matura divina
e talvolta secondo l' umana , scrive : Quasi
Deus sequitur divina, quia J^erbum est, quasi
homo dicit humana. S. Leone Papa (5) scrisse:
Idem est qui mortem subiit, et sempiternus
esse non desiit. S. Agostino (4) scrisse : Jesus
Christus Dei filius est et Deus et homo. Deus
ante omnia sæcula , homo in nostro sæculo.
Deus quia Dei /erbum ; Deus enim erat
J^erbum : homo autem, quia in unitatem per
sonæ accessit /erbo anima et caro... Non
duo filii, Deus et homo, sed unus Dei fi
lius. Ed in altro luogo , cioè nel capo 56 :
Ex quo homo esse cœpit, non aliud cœpit
esse homo , quam Dei filius, et hoc unicus »

et propter Deum /erbum, quod, illo suscepto,


caro factum est, utique Deus... ut sit Chri
stus una persona , /erbum et homo. E così

(1) S. Hieron. Tract. 49. in Joan.


(a) S. Ambr. ap. S. Leon. in Ep. 134.
(3) S. Leo Serm. 66.
(4) S. August. in Enchirid. cap. 35.
528
parlano uniformemente gli altri santi Padri,
che lascio qui per brevità.
55. Con molta ragione dunque dalla santa
Sede è stato condannato con tanto rigore e
più volte il libro del P. Berruyer; giacchè è
un'opera che non solo contiene più errori
contro la dottrina della chiesa, ma è nolto
perniciosa, mentre ci fa perdere il giusto
concetto che dobbiamo avere di Gesù Cristo.
La chiesa c'insegna che il Verbo eterno,
ch' è l' unico figlio naturale di Dio ( poichè
Dio non ha che un solo figlio naturale, e
perciò si chiama unigenito nato dalla sostan
za di Dio Padre prima persona della Trini
tà ) si è fattº uomo, ed è morto per la mostra
salute. All'incontro il P. Berruyer vuole far
ci credere che Gesù Cristo non è il Verbo,
figlio nato dal Padre ab aeterno, ma un figlio
non conosciuto da altri, fuorchè da lui e
dal P. Arduino, o, per meglio dire, da essi
ideato : il quale in verità, se fosse vera la
loro idea, non avrebbe che il solo nome ed
onore di esser chiamato figlio di Dio, giac
chè per esser Gesù Cristo vero figlio naturale
di Dio, bisognava che fosse nato dalla so
stanza del Padre; ma Cristo, secondo parla
il Berruyer, è stato fatto in tempo da tutta
la Trinità. Ed ecco sconvolto tutto il concetto
che sinora abbiamo avuto del nostro Salva
tore, cioè di un Dio che per nostro amore
529
si è abbassato a prender carne umana, per
patire e morire con quella; mentre il P. Ber
ruyer ci rappresenta Gesù Cristo, non già
qual è un Dio fattº uomo, ma un uomo fatto
figlio di Dio per causa dell'unione fatta del
Verbo colla sua umanità. Gesù Cristo croci
fisso è la prova più grande dell'amore che
Dio ci porta, ed è il motivo più forte che
c'induce, o, come parla S. Paolo, ci for
za ad amarlo ( charitas Christi urget nos ),
nell'intendere che il Verbo eterno eguale al
Padre da cui è nato, ha voluto annientarsi
ed umiliarsi sino a prender carne umana e
morire per noi su di una croce. Ma secon
do parla Berruyer, va a terra questa prova
dell'amor divino e questo motivo sì forte di
amarlo. Ecco, per concludere, la differenza
che vi è tra la verità che c'insegna la chiesa
e l'errore che ci propone il P. Berruyer:
la chiesa ci propone a credere in Gesù Cri
sto un Dio fatt'uomo, che per noi patisce
e muore nella carne assunta, ed assunta
unicamente a questo fine di poter patire per
nostro amore: il P. Berruyer poi in Gesù
Cristo altro non ci fa credere che un uomo,
il quale, per essere stato da Dio unito ad una
persona divina, è stato fatto dalla Trinità fi
glio naturale di Dio, ed è morto per la sa
lute umana. Ma secondo Berruyer non è
morto un Dio, ma è morto un uomo, il
LIG. Storia delle Eresie T. III. Z
55o
quale non ha potuto esser figlio di Dio,
secondo si figura quest'autore: poichè per
esser figlio naturale di Dio, avrebbe dovuto
nascere dalla sostanza del Padre, ma secon
do suppone Berruyer, è stata opera ad ex
tra prodotta da tutta la Trinità ; e se Gesù
Cristo è opera ad extra, non può essere
figlio naturale di Dio, ma non è che una
pura creatura: ed in tal modo ecco ammes
so per conseguenza che in Gesù Cristo vi
sono due persone distinte, una umana e
l'altra divina. In somma secondo Berruyer
non potremmo noi dire che un Dio dilexit
nos, et tradidit semetipsum pro nobis C Ephes.
5. 2. ); poichè secondo lui non è stato il
Verbo, che tradidit semetipsum, ma è stata
l'umanità di Cristo, onorata per altro dell'
unione col Verbo, quae sola passa est, e si
è soggettata alla morte. Ma l'errore del P.
Berruyer resti seco, e ciascuno di noi dica
con gioia, come dicea S. Paolo: In fide vivo
filii Dei, qui dilerit me, et tradidit semet
ipsum pro me, Gal. 2. 2o, e ringrazi ed ami
con tutto il suo cuore quel Dio, che, essen
do Dio, ha voluto farsi uomo per patire e
morire per ognuno di noi.
56. È una compassione il veder poi lo
strapazzo che fa il P. Berruyer in tutta la
sua opera, e specialmente nelle dissertazio
ni, delle sacre Scritture, per accomodarle
53 I
al suo falso sistema di Gesù Cristo figlio
di Dio uno sussistente in tre persone. Di
sovra al num. 7 rapportammo il testo di
S. Paolo ( Phil. 2. 5. et seqq. ) : Hoc enim
sentite in vobis, quod et in Christo Jesu,
qui, cum in forma Dei esset, non rapinam
arbitratus est esse se aequalem Deo, sed se
metipsum exinanivit formam servi accipiens
etc. Questo testo prova ad evidenza che il
Verbo, eguale al Padre, si annichilò in
prender la forma di servo con farsi uomo.
Ma il P. Berruyer (1) dice che non è il Ver
bo, non la natura divina che si umiliò,
ma fu la natura umana congiunta alla divina
che si abbassò: Humiliat sese natura humana
naturae divinae plursice conjuncta. Scrive egli
che il voler supporre il Verbo umiliato ad
incarnarsi e morire in croce, è un degradare
la divinità; onde dice che ciò deve intendersi
secondo la comunicazione degl'idiomi, e per
conseguenza di quel che ha fatto Gesù Cri
sto dopo l'unione ipostatica, e perciò dice
che l'umanità è quella che si è abbassata.
Ma, io dico, qual maraviglia sarebbe il sa
pere che l'umanità si annichilasse avanti a
Dio? Il prodigio di pietà e di amore che
dimostrò Iddio nell'incarnazione, e che fece
stupire il cielo e la natura, fu il vedere il

(1) Berruyer Disser. 1. pag. 26.


552
Verbo, figlio nato da Dio ed eguale al Padre
annichilarsi, come significa la parola erina
nivit, in farsi uomo, e da Dio farsi servo
di Dio secondo la carne. Così l'intendono
tutti i santi Padri e tutti i dottori cattolici,
fuori del P. Arduino e del P. Berruyer: e
così l'intese anche il concilio di Calcedonia
nell'azione 5, ove dichiarò che quel figlio
di Dio, che fu generato dal Padre prima
di tutti i secoli, negli ultimi giorni ( novis
simis diebus ) s'incarnò e pati per la nostra
salute.
57. Passiamo ad altri testi. L'Apostolo
( Hebr. 1. 2. ) scrive: Diebus istis locutus est
nobis in filio... per quem fecit et saecula.
Tutti i Padri intendono ciò del Verbo, per
cui sono state create tutte le cose, e che
poi si è fatto uomo; ma il P. Berruyer spie
ga le parole per quem fecit et sacula così:
in considerazione di cui Dio ha fatti i secoli.
E così parimente spiega il testo di S. Gio
vanni ( 1. 5. ): Omnia per ipsum facta sunt,
a riguardo del quale sono state fatte tutte
le cose; sicchè ricusa di dare al Verbo il
titolo di creatore. Quando all'incontro San
Paolo scrive che Iddio ad filium autem
( dixit ) : Thronus tuus Deus in saeculum
saeculi... et tu in principio, Domine, terram
fundasti , et opera manuum tuarum sunt
coeli. Hebr. 1. 8. ad 1o. Sicchè Iddio non
555

dice di aver creati esso la terra e i cieli in


considerazione o a riguardo del figlio, ma
dice che li ha creati il figlio; onde comen
ta S. Gio. Grisostomo: Nunquam profecto
id asserimus, nisi conditorem filium, non
ministrum arbitraretur, ac Patri et Filio pa
res esse intelligeret dignitates.
58. Il testo di Davide: Dominus dixit ad
me: Filius meus es tu ; ego hodie genui te.
Psal 2. 7. Dice Berruyer che quell' hodie
genui te, s'intende non già della generazio
ne eterna, come l'intendono tutti, ma della
generazione temporale da lui inventata, allor
chè Gesù Cristo fu fatto nel tempo figlio
di Dio uno sussistente in tre persone. Ego
hodie genui te, egli lo spiega così: io sarò
il tuo Padre, e tu sarai il mio figliuolo;
parlando già della seconda filiazione fatta da
Dio uno in tre persone da lui sognata.
59. Il testo di S. Luca: Ideoque et quod
nascetur ex te Sanctum, vocabitur Filius
Dei. Luc. 1. 55. Dice il P. Berruyer che tali
parole non si riferiscono a Gesù Cristo come
Verbo, ma come uomo ; mentre il nome di
Santo dice non convenire al Verbo, ma più
presto all'umanità. Ma tutti i dottori per la
parola Sanctum intendono il Verbo, il figlio
di Dio nato dal Padre ab aeterno. Saggia
mente scrive monsignor Bossuet che la pa
rola Sanctum, quando è nome aggettivo,
554
conviene più presto alla creatura, ma quando
è sostantivo e neutro, significa la stessa san
tita per essenza, la quale è propria solamen
te di Dio. -

4o. Circa il testo di S. Matteo (28. 19 ):


Euntes ergo docete omnes gentes, baptizantes
eos in nomine Patris et Filii et Spiritus San
cti, dice Berruyer che sotto il nome di Pa
dre, non s'intende la prima persona della
Trinità, ma il Dio degli Ebrei, cioè Dio
uno sussistente in tre persone: sotto nome
poi di figlio, non s'intende il Verbo, ma
Cristo come uomo fatto figlio di Dio, per
quell'azione con cui l'unì Iddio col Verbo.
Lo Spirito Santo poi non dice che cosa debba
intendersi. Ecco in somma secondo Berruyer
sconvolto, e, per dir meglio, abolito il sacra
mento del battesimo, perchè secondo lui
primieramente non saremmo noi battezzati
in nome del Padre, ma in nome della Tri
nità, e secondo questa forma il battesimo
sarebbe nullo, come dicono tutti con San
Tommaso (1). Secondariamente non sarem
mo battezzati in nome del vero figlio di
Dio, quale fu il Verbo che s'incarnò, ma
in nome del figlio, inventato dal P. Berruyer
fatto nel tempo dalla Trinità, figlio che non
ci è stato mai, nè mai ci sarà , poichè non

(1) S. Thom, 3. part. qu, 6o. art. 8. -


555
vi è stato, nè vi sarà altro figlio naturale
di Dio, che quell'unico ch è stato generato
ab aeterno dalla sostanza del Padre, principio
e prima persona della Trinità. La seconda
generazione fatta nel tempo, o per meglio
dire l'incarnazione del Verbo, non fece Cri
sto figlio di Dio, ma l'uni in una persona
col vero figlio di Dio; nè gli diede padre,
ma solamente la madre che lo generò dalla
sua sostanza. E, a parlar con rigore, questa
non può dirsi generazione: poichè la gene
razione del figlio di Dio è stata quella sola
ch'è stata eterna; l'umanità poi di Cristo
non fu generata da Dio, ma fu creata, e
solo da Maria fu generata. Dice il P. Ber
ruyer che Maria santissima è madre di Dio
per due titoli, 1.º per aver generato il Ver
bo, 2.º per aver data a Cristo l' umanità,
mentre, come dice, l'unione fatta poi di
questa umanità col Verbo ha operato che
Gesù Cristo fosse fatto figlio di Dio. L'uno
e l'altro detto è falso: giacchè per primo
non può dirsi che Maria ha generato il Ver
bo: il Verbo non ha avuta madre, ma so
lamente Padre ch'è stato Dio; Maria ha ge
nerato solamente l'uomo, il quale fu unito in
una persona col Verbo; e perciò, essendo ella
madre dell'uomo, fu, e giustamente si chia
ma vera madre di Dio. È falso per secondo
quel che dice Berruyer, cioè che la santissima
556 -

Vergine ha contribuito colla sua sostanza a


far divenire Gesù Cristo figlio di Dio uno
sussistente in tre persone, mentre questa sup
posizione, come abbiam veduto, è tutta fal
sa; sicchè Berruyer assegnando a Maria
queste due maternità, distrugge l'una e l'al
tra. Vi sono altri testi stroppiati da Ber
ruyer; ma li tralascio per togliere a let
tori ed a me il tedio che sento in dover
rispondere a tante inezie e falsità non an
cora intese.

S IV.
Dice che i miracoli fatti da Gesù Cristo non
furono operati per sua virtù, ma solo fu
ron da esso impetrati dal Padre colle sue
preghiere.

41. Der il P. Berruyer che Gesù Cristo


operò i miracoli in questo solo senso, per
chè gli operò con una potenza impetrativa
per mezzo delle sue preghiere: Miracula
Christus efficit, non precatio... prece tamen
et postulatione... eo unice sensu dicitur Chri
stus miraculorum effector. Pag. 15 et 14. In
altro luogo, 1 o5 pag. 27, scrive che Gesù Cri
sto come figlio di Dio ( ma, secondo il suo
senso, di Dio uno sussistente in tre persone )
per la sua divinità ebbe diritto che fosse
ro esaudite, si noti l'espressione, le sue
es

557
preghiere. Sicchè secondo il P. Berruyer il
Salvatore non per sua propria virtù, ma solo
per via di suppliche ottenea da Dio i mira
coli, come gli ottengono gli uomini santi.
Ma con ciò il P. Berruyer veniva a suppor
re, come dicea Nestorio, che Cristo era una
persona pura umana, distinta dalla persona
del Verbo, il quale, essendo Dio eguale al
Padre, non avea bisogno d'impetrare dal
Padre la potestà di far miracoli, potendoli fa
re esso per la sola sua propria virtù. Questo
errore di Berruyer discende da primi suoi
errori capitali già esaminati, cioè dal primo
con cui suppone che Cristo non è il Verbo,
ma è quel figlio di Dio da lui ideato, fi
glio di puro nome, fatto nel tempo da Dio
sussistente in tre persone ; e discende ancora
dal terzo errore, col quale suppone che in
Cristo non operava il Verbo, come abbiam
dimostrato, ma operava la sola umanità: So
la humanitas obedivit, sola passa est etc.
42. Ma siccome egli errava in quelle sue
prime proposizioni, così erra ancora in que
sta, che Cristo operò i miracoli solo per
via di preghiere e d'impetrazione. S. Tom
maso, il maestro de teologi, insegna che Ge
sù Cristo Ex propria potestate miracula fa
ciebat, non autem orando, sicut alii (1); e

(1) S. Thom. 3. part. qu. 43. art. 4.


Z 5
558
S. Cirillo scrisse che il Signore appunto coi
miracoli che faceva, dimostrò, qual egli era,
vero figlio di Dio; mentre non della virtù
altrui, ma della propria si valeva: Non ac
cipiebat alienam virtutem. Una sola volta, di
ce S. Tommaso (1), Cristo dimostrò di ot
tenere dal Padre la facoltà di far miracoli,
e ciò fu nel risorgimento di Lazaro, ove,
implorando la potenza del Padre, disse: Ego
autem sciebam quia semper me audis, sed
propter populum qui circumstat dixi: ut cre
dant quia tu me misisti Joan. 1 1. 42. Ma
dice l'Angelico Dottore che ciò fece per
nostra istruzione, affinchè nelle nostre neces
sità ricorriamo a Dio, secondo egli faceva.
Onde ci avverte S. Ambrogio a non pensa
re in questo fatto di Lazaro che il Reden
tore pregò il Padre a fare il miracolo, come
egli non potesse farlo, e che fece quella pre
ghiera solo per dare a noi esempio : Noli
insidiatrices aperire aures, ut putes filium
Dei quasi infirmum rogare ut impetret quod
implere non possit... Ad praecepta virtutis
suo nos informat exemplo (2). Lo stesso scris
se S. Ilario, ma assegnò un'altra ragione
della preghiera di Cristo, dicendo che egli
non avea bisogno di pregare, ma che pregò

(1) S. Thom. 3. part. qu. 21. art. 1. ad 1.


(2) S. Ambros. in Luc. -
559
per far credere a noi ch' esso era vero fi
glio di Dio: Non prece eguit, pro nobis ora
vit, ne filius ignoraretur (1).
45. Del resto dice S. Ambrogio (2) che
quando Gesù Cristo voleva, non pregava,
ma comandava, e tutte le creature l'ubbi
divano, i venti, i mari, i morbi. Comandò
al mare che si quietasse: Tace, obmute
sce, Marc. 4. 59 : ed il mare ubbidì ; co
mandava alle malattie che si partissero dagli
infermi: e gl'infermi restavano sani: Virtus
de illo exibat, et sanabat omnes. Luc. 6. 19.
Gesù medesimo ci manifestò ch' egli potea
fare, e facea tutto quel che faceva il suo
divin Padre : Quaecunque enim ille fecerit,
hac et Filius similiter facit... Sicut enim
Pater suscitat mortuos et vivificat ; sic et
Filius, quos vult, vivificat. Joan. 5. 19.
et 21. Scrive S. Tommaso (5) che i soli mi
racoli che Gesù Cristo operava bastavano a
manifestar la divina potestà che possedea:
Ex hoc ostendebatur quod haberet virtuten
coaequalem Deo Patri. E ciò disse il nostro
Salvatore a giudei, quando voleano lapidarlo:
Multa bona opera ostendi vobis ex Patre
meo; propter quod eorum opus me lapidatis?

(1) S. Hilar. lib. 1o. de Trinit.


(2) S. Ambros. lib. 3. de Fide cap. 4.
(3) S. Thom. 3. part. qu. 43. art. 4.
54o
Joan. 1o. 52. I giudei risposero: De bono
opere non lapidamus te, sed de blasphemia,
et quia tu, homo cum sis, facis te ipsum Deum.
Ed allora rispose Gesù Cristo: Vos dicitis
quia blasphemas, quia dixi Filius Dei sum ?
Si non facio opera Patris mei, nolite credere
mihi. Si autem facio; et si mihi non vultis
credere, operibus credite etc. Joan. 1o. 56.
et seqq. Passiamo ad altri errori.
S. V.
Dice Berrurer che lo Spirito Santo non va
mandato sugli Apostoli da Gesù Cristo,
ma dal solo Padre per le preghiere di
Gesù Cristo.

44. Der il P. Berruyer che lo Spirito


Santo non fu mandato da Gesù Cristo sovra
gli Apostoli, ma dal Padre per le preghiere
di Gesù Cristo: Ad orationem Jesu Christi,
quae voluntatis ejus efficacis signum erit, mit
tet Pater Spiritum Sanctum. Pag. 15. Qua
quasi raptim delibavimus de Jesu Christo mis
suro Spiritum Sanctum, quatenus homo Deus,
est Patrem rogaturus. Pag. 16.
45. Questo errore discende anche dagli
errori precedenti, cioè che in Gesù Cristo
non operava il Verbo, ma la sola umanità,
o sia il solo uomo fatto figlio da Dio uno
sussistente in tre 'persone, per causa della
54t
unione della persona del Verbo coll'umanità,
e da questo suo falso sistema ne deduce poi
quest'altra falsa proposizione, che lo Spirito
Santo non fu mandato da Gesù Cristo, ma
dal Padre per le preghiere di Gesù Cristo.
Il P. Berruyer in quest'altra sua falsa pro
posizione, se egli disse che lo Spirito Santo
non procede dal Verbo, ma dal solo Padre,
incorrerebbe nell'eresia de greci, già da noi
confutata nella confutazione IV. ; ma Ber
ruyer non dà indizio di aderire a questa
eresia. Più presto dimostra di aderire all'
eresia di Nestorio, il quale, ammettendo due
persone in Gesù Cristo, una divina e l'al
tra umana, dicea per conseguenza che la
persona divina abitante in Gesù Cristo in
sieme col Padre mandò lo Spirito Santo, e
la persona umana coll'orazione impetrò dal
Padre che si mandasse. Ciò non dice espres
samente il P. Berruyer, ma, asserendo che
lo Spirito Santo non fu mandato da Cristo
se non colle sue preghiere, da a vedere di
credere, o che in Gesù Cristo non vi è una
persona divina, o che vi siano due persone,
l'una divina che manda da sè, l'altra uma
ma che colle preghiere ottiene che si mandi
lo Spirito Santo. E ciò dimostra di tenere
il Berruyer, mentre dice che in Gesù Cristo
la sola umanità operava e pativa, cioè il
solo uomo fatto figlio di Dio in tempo da
542
tutte le tre persone, che non era certamen
te il Verbo nato dal solo Padre ab aeterno.
Ma egli dice che il Verbo fu unito già all'
umanità di Cristo in unità di persona; ma
riflettasi che, secondo esso parla, il Verbo
non ebbe officio di operare, nè mai Berru
yer dice che il Verbo era quello che opera
va in Cristo, ma dice che operava la sola
umanità. Ma posto ciò a che serviva l'unio
ne del Verbo in unità di persona coll'uma
nità ? Servì solamente, secondo il suo par
lare, acciocchè per causa della sua unione
ipostatica fosse fatto Cristo figliuolo di Dio
da tutte le tre persone; e perciò disse ,
come notammo al num. 25, che le operazioni
di Cristo, non sunt operationes a Verbo eli
cita, sunt operationes totius humanitatis; e
nel passo che ivi siegue disse che in quanto
alle azioni di Cristo l'unione ipostatica nulla
affatto conferiva: in ratione principii agentis...
unio hº postatica nihil omnino contulit.
46. Ma come il P. Berruyer può asserire
che lo Spirito Santo non fu mandato da Ge
sù Cristo, quando Gesù Cristo medesimo
più volte affermò ch'egli avrebbe mandato
agli Apostoli lo Spirito Santo? Cum autem
venerit Paraclitus, quem ego mittam vobis a
Patre, spiritum veritatis. Joan. 15. 26. Si enin
non abiero, Paraclitus non veniet ad vos; si
autern abiero, tuitta'n eum ad vos. Joan. 16. 7.
545
Gran cosa ! Gesù Cristo disse che mandava
lo Spirito Santo; e il P. Berruyer dice che
lo Spirito Santo non fu mandato da Gesù
Cristo, ma per le preghiere di Gesù Cri
sto! Ma dirà forse alcuno che Gesù disse
ancora: Et ego rogabo Patrem, et alium
Paraclitum dabit vobis. Joan. 14. 16. Si ri
sponde con S. Agostino che allora Cristo
parlò come uomo : ma quando parlò come
Dio, più volte replicò : quem ego mittam
vobis = mittam eum ad vos. Ed in altro luo
go disse lo stesso: Paraclitus autem Spiritus
Sanctus, quem mittet Pater in nomine meo,
ille vos docebit omnia. Joan. 14. 26. Spiega
S. Cirillo quelle parole In nomine meo :
cioè Per me, quia a me quoque procedit. È
certo che lo Spirito Santo non poteva esser
mandato se non da quelle sole persone di
vine, ch'erano il suo principio, quali erano
il Padre ed il Verbo. Se dunque lo Spirito
Santo fu mandato da Gesù Cristo, non può
dubitarsi che fu mandato dal Verbo, che in
Gesù Cristo operava; e questo Verbo, es
sendo eguale al Padre e comprincipio del
lo Spirito Santo col Padre, contro di quel
che dice il P. Berruyer, non ebbe bisogno
di pregare il Padre per la missione dello
Spirito Santo; come lo mandò il Padre, co
sì parimente lo mandò esso ancora.
S. VI.
Altri errori del P. Berrurer
sovra diverse materie.

- 47. G., scrittori che han confutata l'opera


del P. Berruyer, vi notano molti altri erro
ri, i quali, secondo il mio sentimento, se
non sono opposti chiaramente alla fede, al
meno son certe opinioni o proposizioni stra
vaganti che non si accordano colle sentenze
de' Padri e col sentimento comune de teo

logi. Io qui ne noterò alla rinfusa quelle che


mi sembrano più strane e più reprensibili,
facendovi alcune brevi riflessioni, e lascian
do a miei leggitori di farvi le altre che vi
competono. -

48. In un luogo egli dice: Revelatione de


ficiente, cum nempe Deus ob latentes causas
eam nobis denegare vult, non est cur non
teneamur salem objecta credere quibus religio ,
naturalis fundatur. Pag. 56. et 58. Parlando
dunque egli della rivelazione del misteri della
fede, dice che mancando questa, almeno
siamo tenuti a credere quegli oggetti, in
cui si fonda la religion naturale. Di questa
sua sentenza in altro luogo poi, pag. 245,
accenna la ragione, dicendo: Religio pu
re naturalis, si Deus ea sola contentus esse
voluisset, propriam fidein, ac revelationem
545
suo habuisset modo, quibus Deus ipse in fi
delium cordibus et animo inalienabilia jura
sua exercuisset. Si noti la stravaganza di
questo cervello e la maniera insieme confusa
con cui si spiega. Del resto sembra ch' egli
conceda potersi trovare veri fedeli nella re
ligione mera naturale, la quale, secondo lui,
ha in certo modo la sua fede e la sua ri
velazione. Dunque nella religione puramente
naturale ci sarebbe una fede ed una rivela
zione, di cui potrebbe Dio chiamarsi con
tento? Dirà forse alcuno che l'autore parla
qui in ipotesi. Ma questa ipotesi è cosa
scandalosa a farla sentire, perchè può far
credere che senza la fede nei meriti di Ge

sù Cristo potrebbe Dio contentarsi di una


religione puramente naturale, e così salvare
chi la professasse. Ma S. Paolo rispondereb
be a chi ciò credesse : Ergo gratis Christus
mortuus est. Galat. 2. 21. Se può bastare la
religion naturale a salvare chi non crede e
spera di salvarsi per Gesù Cristo, ch'è
l'unica via della salute, dunque invano è
morto Gesù Cristo per la salute degli uo
mini. Ma S. Pietro all'incontro insegna che
la salute non si trova in alcun altro se non
in Gesù Cristo: Non est in alio aliquo salus.
Nec enim aliud nomen est sub coelo datum
hominibus, in quo oporteat nos salvos fieri.
Act. 4. 12. Se mai alcuno infedele così nella
5 16
antica, come nella nuova legge si è salvato,
non per altra via si è salvato, se non col
conoscere la grazia del Redentore ; onde di
ce S. Agostino doversi credere che a niuno
è stato concesso il vivere secondo Dio, e
salvarsi, se non a chi è stato rivelato Gesù
Cristo o venuto o venturo : Divinitus autern
provisum fuisse non dubito ut ear hoc uno
sciremus etiam per alias gentes esse potuisse,
qui secundum Deum virerunt, eigue placue
runt. pertinentes ad spiritualem Jerusalem ;
quod nemini concessum fuisse credendum est,
nisi cui divinitus revelatus est unus mediator
Dei et hominum homo Christus Jesus, qui
venturus in carne sic antiquis Sanctis praenun
ciabatur, quemadmodum nobis venisse nun
tiatus est (1).
49. E questa è quella fede ch'è stata
sempre necessaria a giusti per vivere uniti
a Dio. Justus ex fide vivit, scrive l'Apo
stolo: Quoniam autem in lege nemo justifi
catur apud Deum, manifestum est, quia ju
stus ex fide vivit. Gal. 5. I 1. Niuno, dice
S. Paolo, rendesi giusto presso Dio per la
sola legge, che c'impone i precetti da osser
varsi, ma non ci dà la forza di adempirli.
Nè questi possiamo noi dopo il peccato di

(1) S. August. lib. 18. de C. D. cap. 47.


547
Adamo adempire colla sola libertà dell'arbi
trio; vi bisogna l'ajuto della grazia, che dob
biamo chiedere a Dio, e sperare per la me
diazione del Redentore. Ea quippe fides,
scrive S. Agostino (1), justos sanavit antiquos,
quae sanat et nos, idest Jesu Christi fides
mortis ejus. Ed in altro luogo (2) ne adduce
la ragione dicendo : Quia sicut credimus nos
Christum venisse, sic illi venturum; sicut nos
mortuum, ita illi moriturum. L'inganno degli
Ebrei era che presumeano, senza pregare, e
senza la fede nel mediatore che dovea ve
nire, poter osservare la legge loro imposta.
Quando il Signore da Mosè fece loro chie
dere se voleano sottoporsi alla legge che
volea lor palesare, essi risposero: Cuncta
quae locutus est Dominus faciemus. Ecod.
19 8. Ma il Signore dopo questa loro pro
messa disse: Bene omnia sunt locuti: quis
det talem eos habere mentem, ut timeant me,
et custodiam universa mandata mea in omni
tempore? Deuter. 5. 29. Han detto bene che
vogliono osservare tutti i miei comandamen
ti ; ma chi darà loro la virtù di osservar
li? Volendo con ciò significare che se pre
sumeano di adempirli senza impetrare il
soccorso divino colle preghiere, non gli

(1) S. August. de Nat. et Grat. pag. 149.


(2) Idem de Nupt. et concup. lib. 2. pag. 113.
-

548 -

avrebbero mai adempiti. E quindi avvenne


che poco appresso voltarono le spalle a Dio,
e adorarono il vitello d'oro.
5o. Nella stessa cecità, anzi maggiore era
no tutti i gentili che presumeano di rendersi
giusti colla sola forza della propria volontà.
Che cosa di più ha Giove, dicea Seneca,
dell'uomo dabbene, se non che una vita
più lunga ? Jupiter quo antecedit virum bo
num? Diutius bonus est. Sapiens nihilo semi
noris aestimat, quod virtutes ejus spatio bre
viore clauduntur (1). Aggiungeva che Giove
disprezzava i beni temporali, perchè non
poteva valersi di quelli; ma che il savio li
disprezza per sua volontà : Jupiter uti illis
non potest, sapiens non vult (2). Seneca, fuo
ri della mortalità, rendeva il savio simile a
Dio: Sapiens, excepta mortalitate, similis
Deo (5). Giungea quest'uomo superbo a pre
ferire la sapienza del savio a quella di Dio,
dicendo che Iddio è tenuto della sua sapien
za alla sua natura, ma il savio n' è debito
re al suo studio : Est aliquid, quo sapiens
antecedat Deum; ille naturae beneficio, non
suo sapiens est (4). Cicerone dicea che non

(1) Seneca Epist. 73.


(2) Idem ead. Epist. 73.
(3) Idem de Constantia Sap. cap. 8.
(4) Idem Epist. 53.
549
potremmo noi gloriarci della virtù, se la
virtù ci fosse donata da Dio: De virtute rec
te gloriamur; quod non contingeret, si id do
num a Deo, non a nobis, haberemus (1). Ed
in altro luogo scrisse: Jovem optimum ma
acimum appellant, non quod nos justos, sa
pientes efficiat, sed quod incolumes, opulen
tos etc. Ecco dove giungeva la superbia di
questi sapienti del mondo, sino a dire che
la virtù e la sapienza era loro propria, non
già data da Dio.
51. E per tal presunzione le loro tenebr
si rendeano sempre più dense. I più dotti
fra di essi, quali erano i filosofi, perchè era
no i più superbi, erano ancora i più ciechi;
e benchè sfolgorasse nelle loro menti il lu
me della natura, che facea lor conoscere la
verità di un Dio creatore e signore del tut
to, nondimeno, come scrive l'Apostolo, di
tal luce non sapeano valersene per ringra
ziarne Iddio ed onorarlo siccome doveano:
Quia, cum cognovissent Deum, non sicut Deum
glorificaverunt, aut gratias egerunt. Rom. 1.
21. E crescendo in essi la presunzione di
esser savj, crebbe la stoltezza: Dicentes enim
se esse sapientes, stulti facti sunt. Ibid. vers.
22. E giunse a tal segno la loro cecità, che
si applicarono a venerare per Dei gli uomini

(1) Cicero de Nat. Deor. pag. 253.


55o -

mortali e le bestie : El mutaverunt gloriam


incorruptibilis Dei in similitudinem imaginis
corruptibilis hominis et volucrum et quadru
pedum et serpentium. Vers. 25. Onde me
ritarono poi che restassero da Dio abbando
nati ai loro pravi desideri, e fatti schiavi
della concupiscenza ubbidissero alle passioni
più brutali e detestabili: Propter quod tra
didit illos Deus in desideria cordis eorum in
immunditiam etc. Ibid. v. 24. Vien celebrato
tra gli antichi sapienti Socrate, che narrasi
essere stato perseguitato da gentili, perchè
riconosceva un solo Dio supremo, Signore
del mondo; eppure egli trattò da calunnia
tori coloro che l' accusarono di non adorare
gli Dei del paese, ed in morte non ebbe ri
tegno di ordinare a Senofonte suo discepo
lo , che sacrificasse in suo nome ad Escula
pio un gallo che teneva in sua casa. Platone,
come scrive S. Agostino (1), volle che si
fossero offerti sacrifici a più Dei. Il gran
Cicerone, che tra gentili fu uno de più il
luminati, riconosceva bensì un Dio supremo,
ma con tutto ciò volea che si adorassero gli
Dei già ricevuti in Roma. Ecco la sapienza
de savj della gentilità; ed ecco la fede e
la religion naturale de gentili, esaltata dal
P. Berruyer sino a poter produrre, senza

(1) S. August. de Civit. Dei lib. 8. cap. 12.


55 I
cognizione di Gesù Cristo, anime rette ed
innocenti e figli adottivi di Dio.
52. Seguitiamo ora ad esaminare le altre
inezie di Berruyer già riferite di sopra. Egli
dice: Relate ad cognitiones explicitas, aut
media necessaria, quae deficere possent ut
eveherentur ad adoptionem filiorum, dignique
fierent coelorum remuneratione, praesumere
debemus, quod viarum ordinariarum defectu
in animabus rectis ac innocentibus bonus Do
minus cui deservimus, attenta filii sui media
tione, opus suum perficeret quibusdam omni
potentiae rationibus, quas liberum ipsi est
nobis haud detegere. Pag. 58 tom. 1. Di
ce dunque che mancando la cognizione de'
mezzi necessari alla salute, dobbiamo presu
mere che Dio per la mediazione di Gesù
Cristo salverà le anime rette ed innocenti
con certe ragioni della sua onnipotenza, che
non è tenuto a palesarci. Molte inezie in
poche parole. Sicchè chiama rette ed inno
centi quelle anime che non han cognizione
de mezzi necessari per la salute, e per con
seguenza neppure della mediazione del Re
dentore, la di cui notizia, come di sopra
abbiam veduto, è stata sempre necessaria
per i figli di Adamo. Forse queste anime
sue rette ed innocenti saranno state create
prima di nascere Adamo. Ma se elle so
no state create dopo la caduta di Adamo,
552
necessariamente sono figlie d'ira; onde in
qual modo elleno possono essere sollevate all'
adozione de figli di Dio, e quindi senza cre
dere in Gesù Cristo, fuori di cui non vi è
salute, e senza battesimo andare in cielo a
goder Dio? Noi credevamo e crediamo che
non vi è altra via per ottener la salute, che
la mediazione di Gesù Cristo. Ego sum via et
veritas et vita, disse Gesù Cristo. Joan. 14. 6.
Ed in altro luogo disse: Ego sum ostium. Per
me si quis introierit, salvabitur. Joan. Io. 9.
S. Paolo scrisse: Per ipsum habemus acces
sum... ad Patrem. Ephes. 2. 18. Ma il P.
Berruyer ci addita che vi è un'altra via
occulta, per cui Dio salva queste anime
rette che vivono nella religion naturale: via
non però della quale non abbiamo noi veru
mo indizio nè dalle Scritture, nè da santi
Padri, nè dagli scrittori ecclesiastici. Quanto
di grazia e di speranza per la salute è stato
promesso da Dio agli uomini, tutto è stato
promesso loro per la mediazione di Gesù
Cristo. Si legga il nostro Selvaggi nelle no
te in Mosheim (1), ove fa vedere che tutte
le profezie del vecchio Testamento, ed anche
i fatti storici han parlato di ciò in senso
profetico, secondo quel che scrive l'Aposto
lo: Haec omnia in figura facta sunt 1. Cor.

(1) Selvaggi in Mosheim Vol. 1. Nota 68.


555
1o. 6. Il medesimo nostro Salvatore dimo
strò ai due suoi discepoli che andavano in
Emaus che tutte le Scritture dell'antica leg
ge di lui parlavano: Et incipiens a Morse
et omnibus prophetis interpretabatur illis in
omnibus Scripturis, quae de ipso erant. Luc.
24 27. E il P. Berruyer dice che nella leg
ge naturale vi sono state anime che hanno
avuta l'adozione de figli di Dio, senza aver
avuta alcuna cognizione della mediazione di
Gesù Cristo l -

55. Ma come queste anime senza Gesù


Cristo hanno ottenuta l'adozione de figli di
Dio, quando Gesù Cristo è stato quegli il
quale ha dato a suoi fedeli potestatem filios
Dei fieri? Il P. Berruyer dice così : Quod
adoptio prima, eaque gratuito, cujus virtute
ab Adamo usque ad Christum, intuitu Christi
venturi, fideles omnes sive ex Israel, sive ex
gentibus facti sunt filii Dei, non dederit
Deo nisi filios minores semper et parvulos
usque ad tempus praefinitum a Patre. Pag.
219 Vetus haec itaque adoptio praeparabat
aliam, et novam quasi parturiebat adoptio
nem superioris ordinis. Ibid. et seqq. Dun
que il P. Berruyer ammette due adozio
ni: la prima e la seconda. La seconda è
quella che vi è nella legge nuova: la prima
dice ch'era quella, per cui tutti coloro che
han ricevuta la fede tra giudei o tra gentili,
LIG. Storia delle Eresie T III. AA
554
a riguardo di Cristo venturo, non ha dato a
Dio che figli minori e piccoli. Soggiunge che
questa vecchia adozione ne preparava, e quasi
ne partoriva una nuova di ordine superiore;
ma con questa vecchia adozione dice che i fe
deli via filiorum nomen obtinerent. Pag. 227.
Per notare ed esaminare tutte le stravaganze
di questo autore così ferace di opinioni stor
te e non ancora intese nella teologia, bi
sognerebbero più volumi. L'adozione dei
figli di Dio, come dice S. Tommaso (1),
dà loro il diritto di aver parte nell'eredità,
cioè nella gloria de beati. Or, posto ciò che
dice Berruyer, che l'adozione antica era di
ordine inferiore, se gli dimanda se quell'
adozione avrebbe dato il diritto alla beatitu
dine intiera, oppur dimezzata, di ordine in
feriore, qual era quell'adozione. Tali para
dossi basta riferirli per confutarli. La verità
si è, che una sola è stata sempre la vera re
ligione, la quale non ha avuto per oggetto
altro che Dio, e non ha dimostrata altra
via per andare a Dio, che Gesù Cristo. Il
sangue dunque di Gesù Cristo è quello che
ha tolti i peccati dal mondo, ed ha salvati
tutti coloro che si son salvati; e la sola gra
zia di Gesù Cristo ha dati figliuoli a Dio.
Dice Berruyer, pagina 299, che la legge

(1) S. Thom. 3. part. qu. 23. art. 1.


555
naturale ispirava la fede, la speranza e la
carità. Che inezia! Queste tre virtù son doni
infusi da Dio; e questi poteano essere ispi
rati dalla legge naturale ? Ciò non l' ha
detto neppure Pelagio.
54. In altro luogo dice: Per annos quatuor
mille quotguot fuerunt primogeniti, et sibi
successerunt in hareditate nominis illius =
Filius hominis = debitum nascendo contra
acerunt Pag. 2o2. In altro luogo dice: Per
Adami hominum parentis et primogeniti lap
sum oneratum est nomen illud sancto qui
dem, sed poenali debito satisfaciendi Deo in
rigore justitiae, et peccata hominum expian
di Pag. 21o. Dice dunque il P. Berruyer
che tutti i primogeniti per quattromila anni
hanno avuto l'obbligo di soddisfare i pec
cati degli uomini. Questa opinione, secondo
egli parla, se fosse vera, mi sarebbe di
molto peso, mentre mi ritrovo primogenito;
onde avrei l' obbligo di soddisfare non solo
per i peccati miei, che son molti, ma anche
per quelli degli altri. Ma vorrei sapere da
lui dove si fonda quest'obbligo 2 Sembra
ch'esso voglia dire che sia naturale: Erat
praeceptum illud quantum ad substantiam na
turale. Pag. 2o5. Ma non troverà alcuno di
cervello sano, che voglia accordargli esservi
quest'obbligo naturale; giacchè non si vede
indicato da niuna Scrittura o canone della
a
556
chiesa. Non è dunque naturale: e neppure
è imposto da Dio per precetto positivo; at
tesochè per il peccato di Adamo tutti i suoi
figli nascono rei : onde non solo i primoge
niti, ma tutti gli uomini han contratta la
colpa originale ( fuori di Gesù e della sua
madre ), e tutti son tenuti a purgarsi da
quella macchia.
55. Indi il P. Berruyer lascia i primogeni
ti, e passa ad applicare questa nuova dot
trina inventata al N. S. Gesù Cristo, e dice
che tutti quelli da quali è nato Gesù Cristo,
sono stati primogeniti sino a S. Giuseppe.
Quindi dice che in Gesù Cristo per la suc
cessione ereditata da S. Giuseppe si sono
uniti tutti i diritti e debiti del primogeniti
antecessori, ma che, non avendo potuto niu
no di loro soddisfare la divina giustizia per
il peccato, ha bisognato che il Salvatore, il
quale solo potea soddisfare, restasse obbli
gato a pagare per tutti, mentr egli ha avuta
la principal primogenitura: e perciò dice
Berruyer che si è chiamato figliuolo dell'uo
mo ( ma titolo fu questo, dice Si Agostino,
di umiltà, non già di maggioranza, nè di
debito ). Pertanto soggiunge che come figlio
dell'uomo e primogenito degli uomini, ed
ancora come figlio di Dio contrasse in rigor
di giustizia il debito di sacrificarsi a Dio
per la di lui gloria e per la salute umana :
557
Debitum contracerat in rigore justitiae fun
datum qui natus erat filius hominis, homo
primogenitus simul Dei unigenitus, ut se pon
tifex idem et hostia, ad gloriam Dei resti
tuendam , salutemque hominum redimendam
Deo Patri suo echiberet. Pag. 2o5. Quindi
soggiunge, pag. 2o9, che Cristo per pre
cetto naturale era obbligato ex condigno colla
sua passione a soddisfare la divina giustizia
per il peccato dell'uomo : Offerre se tamen
ad satisfaciendum Deo ex condigno, et ad
expiandum hominis peccatum, quo satis erat
passione sua, Jesus Christus filius hominis
et filius Dei praecepto naturali obligabatur.
Dice dunque che Gesù Cristo, come figlio
dell'uomo e primogenito degli uomini, avea
contratto un debito fondato in rigor di giu
stizia di soddisfare a Dio colla sua passione
per il peccato dell'uomo. Ma rispondiamo
che il nostro Salvatore nè come figlio dell'
uomo, nè come primogenito degli uomini
potea contrarre quest'obbligo stretto di sod
disfare per l'uomo. Non come figlio dell'
uomo; poichè sarebbe bestemmia il dire che
Cristo avesse contratta la colpa originale:
Accepit enim hominem, scrive S. Tomma
so (1), absque peccato. Neppure era a ciò
tenuto come primogenito degli uomini. È

(1) S. Thom. 3. part. qu. 14. art. 3.


AA 5
558
vero che S. Paolo lo chiama primogenito in
molti fratelli; ma bisogna intendere in qual
senso l'Apostolo dà a Gesù Cristo tal nome.
Il testo è questo: Nam quos praescivit et prae
destinavit conformes fieri imaginis filii sui,
ut sit ipse primogenitus in multis fratribus.
Rom. 8. 29. Qui S. Paolo ci dà ad intendere
che coloro che Dio ha preveduti doversi
salvare, li ha predestinati ad esser fatti si
mili a Gesù Cristo nella santità e nella pa
zienza della sua vita disprezzata, povera e
tribolata ch'egli fece su questa terra.
56. Ma replica Berruyer che Gesù Cristo
secondo la stretta giustizia non poteva esser
mediatore di tutti gli uomini, se non era
insieme uomo Dio e figlio di Dio, pag. 189,
e così soddisfacesse appieno per il peccato
dell'uomo. Ma scrive S. Tommaso (1) che
in due modi Iddio potea chiamarsi soddisfatto
a riguardo del peccato dell' uomo, perfetta
mente ed imperfettamente: perfettamente colla
soddisfazione datagli da una persona divina,
come fu quella già datagli da Gesù Cristo;
imperfettamente poi con accettare la soddisfa
zione datagli dall'uomo, la quale, se fosse
stata accettata da Dio, ben sarebbe stata
sufficiente a placarlo. S. Agostino chiama
pazzi coloro che dicono non avere potuto

(1) S. Thom. part. 3. art. 1. ad a.


559
Iddio salvare gli uomini senza farsi uomo,
e patire tutto quel che ha patito. Ben lo po
tea; ma se altrimenti avesse fatto, sarebbe
ciò, dice, dispiaciuto alla loro stoltezza:
Sunt stulti qui dicunt: Non poterat aliter sa
pientia Dei homines liberare, nisi susciperet
hominem, et a peccatoribus omnia illa pate
retur. Quibus dicimus, poterat omnino; sed
si aliter faceret, similiter vestrae stultitiae dis
pliceret (1).
57. Atteso ciò, sembra cosa insoffribile
l'asserire col P. Berruyer che Gesù Cristo
come figlio dell'uomo e primogenito degli
uomini avea contratto in rigor di giustizia il
debito di sacrificarsi a Dio colla morte, affin
di soddisfare per il peccato dell'uomo, ed
ottenergli la salute. È vero che Berruyer in
altro luogo, pag. 189, dice che l'incarnazio
ne del figlio di Dio non fu di necessità, ma
di convenienza; ma in ciò si contraddice,
per quel che scrisse in altri luoghi da noi
riferiti di sovra al num. 55. Del resto, l'in
tenda esso come vuole, è certo che Gesù
Cristo quanto patì per noi, non lo patì per
necessità, nè per obbligo, ma per mera e
spontanea sua volontà, essendosi egli stesso
volontariamente offerto a patire e morire

(1) S. Aug. lib. de Agone Christiano cap. 11.


AA 7
56o

per la salute degli uomini: Oblatus est quia


ipse voluit, scrisse Isaia 55. 7. Ed egli me
desimo disse: Ego pono animam meam ...
nemo tollit eam a me, sed ego pono eam a
me ipso. Joan. 1o. 17. et 18. Ed in ciò, come
scrisse poi lo stesso Apostolo S. Giovanni,
fece Gesù Cristo conoscere a noi il grande
amore che ci dimostrò, nel sacrificare per
noi la propria vita: In hoc cognovimus cha
ritatem Dei, quoniam ille animam suam pro
nobis posuit. 1. Joan. 5. 16. Sacrificio d'amo
re, che nel monte Taborre fu chiamato da
Mosè e da Elia eccesso : Et dicebant eacces
sum ejus, quem completurus erat in Jerusa
lem. Luc. 9 51- -

58. Tralascio di parlare di altri errori che


notansi nell'opera del P. Berruyer, tra quali
stimo senza dubbio essere i più chiari e
perniciosi quelli che a principio ho confutati,
specialmente nel S I. e III, dove quest'au
tore fanatico par che siasi affaticato a scon
volgere la credenza e la giusta idea che ci
viene insegnata dalle Scritture e da concilj
del gran mistero dell'incarnazione del Verbo
eterno, nella quale sta fondata tutta la no
stra religion cristiana e tutta la nostra salu
te. Finisco protestandomi sempre che quanto
ho scritto in quest'opera, e particolarmente
nelle confutazioni delle eresie, tutto lo sot
tometto al giudizio della chiesa, di cui mi
- 561
vanto esser figlio, ubbidiente, e tale spero
vivere e morire.

Tutto sia a gloria di Gesù Cristo nostro amore


e della divina Madre Maria nostra speranza.

FINE DEL TERZO ED ULTIMO TOMO.


565

I N D I C E

D EL L E C O N FU TAZ I O N I

D E L T E R Z O T O M O.

Cannes, I. Eresia di Sabellio,


che negava nella Trinità la distinzio
ne delle persone. . . . . . Pag.
S. I. Si prova la distinzione reale delle
tre persone divine . . . . . . »
S II. Si risponde alle obbiezioni . . »
Conf. II. Eresia di Ario che negava la
divinità del Verbo . . . . . . »
S I. Si prova la divinità del Verbo col
le sacre Scritture . . . b)

S II. Si prova la divinità del Verbo colle


autorità de santi Padri e del concili»
S III. Si risponde alle obbiezioni . »
Conf. III. Eresia di Macedonio, che ne
gava la divinità dello Spirito Santo »
S I. Si prova la divinità dello Spirito
Santo dalle Scritture, dalla tradizione
de Padri e da concili generali . »
564
S II. Si risponde alle obbiezioni . Pag. 95
Conf IV. Eresia de' Greci, i quali dico
no che lo Spirito Santo procede dal
solo Padre, non dal Figlio . . » 99
S. I. Si prova che lo Spirito Santo pro
IO I
cede dal Padre e dal Figlio . . »
S II. Si risponde alle obbiezioni . . » I 15
Conf. V. Eresia di Pelagio, che negava
I 22
la necessità e la gratuità della grazia »
S I. Della necessità della grazia. . » 125

S II. Della gratuità della grazia. . » 128


S III. Si prova la necessità e la gratui
tà della grazia colla tradizione confer
mata da concili e da sommi Ponte
fici . . . . . . . . . . . »
S. IV. Si risponde alle obbiezioni . »
Conf VI. Eresia de' Semipelagiani . »
S. I. Il principio della fede e d'ogni buo
na volontà non è da noi, ma da Dio»
S II. Si risponde alle obbiezioni. . »
Conf. VII. Eresia di Nestorio, che co
stituiva in Cristo due persone . . »
S. I. In Gesù Cristo non vi è che la so
la persona del Verbo, la quale ter
mina le due nature divina ed umana,
le quali nella stessa persona del Ver
bo sussistono; e perciò questa unica
persona è insieme vero Dio e vero
llOlllO - - - - - - - - - - 2 156
Si risponde alle obbiezioni . . . . » 168
565
S II. Maria è vera e propria madre di
Dio . . . . . . . . . . Pag. 175
Si risponde alle obbiezioni de Nesto
riani . . . . . . . . . . . » 18o
Conf. VIII. Eresia di Eutiche, che co
stituiva in Cristo una sola natura » 182
S. I. In Cristo vi sono le due nature di
vina ed umana distinte, impermiste,
inconfuse ed intiere, sussistenti inse
parabilmente nella stessa ipostasi o sia
persona del Verbo . . . . . . »
S II. Si risponde alle obbiezioni . . »
Conf IX. Eresia de' Monoteliti, che da
vano a Cristo una sola natura ed una
operazione. . . . . . . . . » 2o7
S. I. Si prova che in Cristo vi sono due
volontà distinte, la divina e l'umana
secondo le due nature, e due opera
zioni secondo le due volontà . . » 2o9
S II. Si risponde alle obbiezioni . . » 2 15
Conf. X. Eresia di Berengario e del pre
tesi riformati a rispetto del sacramen
to dell' Eucaristia . . . . . . » 222

S I. Della presenza reale del corpo e


sangue di Gesù Cristo nell' Eucari
stia . . . . . . . . . . . » 226

Si risponde alle obbiezioni contro la


presenza reale . . . . . . . » 24o
S II. Della transostanziazione, cioè del
la conversione della sostanza del pane
566
e del vino nella sostanza del corpo e
del sangue di Gesù Cristo . . Pag. 247
S III. Del modo come sta Gesù Cristo
nell'Eucaristia; e qui si risponde alle
difficoltà filosofiche del Sacramentari» 258
S-IV. Della materia e forma del sacra
mento dell' Eucaristia . . . . . » 27 r
Conf. XI. Degli errori di Lutero e Calvino» 285
S. I. Del libero arbitrio . . . » ivi
S II. Che la divina legge non è impos
sibile ad osservarsi. . . . . . » 289
S III. Che le opere buone son necessa
rie alla salute, né basta la sola fede» 298
S. IV. Che colla sola fede non resta il
peccatore giustificato . . . . . » 515
S. V. Che la sola fede non può renderci
sicuri della giustizia, nè della perse
veranza, nè della vita eterna . . » 522
S. VI. Che Dio non può essere autor del
peccato . . . . . . » 556
S. VII. Che Dio non ha mai predestina
to alcun uomo alla dannazione senza
riguardo alla sua colpa . . . . » 549
S. VIII. Dell'autorità del concili generali» 575
Conf. XII. Degli errori di Michele Bajo » 596
Conf. XIII. Degli errori di Cornelio Gian
senio . . . . . . . . . . » 425
Conf. XIV. Dell'eresia di Michele Mo
linos. . . . . . . . . . . » 46o
Conf. XV. Errori del P. Berrurer . » 474
567
S. I. Dice il P. Berrurer che Gesù Cristo
fu fatto nel tempo per opera ad extra
figlio naturale di Dio uno sussistente
in tre persone, il quale unì l'umanità
di Cristo con una persona divina Pag. 48o
S II. Dice che Gesù Cristo ne tre giorni
in cui stette nel sepolcro, cessando di
esser uomo vivente, cessò per conse
guenza di esser figlio di Dio. E che
quando poi Iddio lo risuscitò, di nuo
vo lo generò, e fece che di nuovo
fosse figlio di Dio . . . . . . » 5o6
S III. Dice che la sola umanità di Cri
sto ubbidì, orò e patì; e che la sua
obblazione, orazione e mediazione non
erano operazioni prodotte dal Verbo
come da principio fisico ed efficiente,
ma che in tal senso erano azioni della
sola umanità . . . . . . . . » 515
S. IV. Dice che i miracoli fatti da Gesù
Cristo non furono operati per sua vir
tù, ma solo furono da esso impetrati
dal Padre colle sue preghiere . . » 556
S. V. Dice che lo Spirito Santo non fu
mandato sugli Apostoli da Gesù Cri
sto, ma dal solo Padre per le pre
ghiere di Gesù Cristo . . . . . » 54o
S. VI. Altri errori del P. Berrurer so
vra diverse materie. . . . . . »
544
• •••
· · · - - -, , , !
… *****
|-
~~
·
Di questa Collezione finora si sono
pubblicati i seguenti Volumi
Vita del detto Beato, scritta dal
P. Giattini, con ritratto lir 2 a 2
Pratica d'amar Gesù Cristo i 92
La Messa e l' officio strapaz
zati . . . . » Go
E ai sulla Passione di
Gesù Cristo, con rame » 2. 56
o gran mezzo della Preghie
ra . . . . . . » r. 5o
Condotta ammirabile della divi
ma Provvidenza ec. . . » I. 44
Opere Spirituali, con rame 2 o
Istruzione al Popolo sopra i -

Precetti del Decalogo e so


pra i Sacramenti » I 5o
Verità della Fede, volumi a
con rame . . . . » 4 5a
E Vittorie de Martiri, con rame » 2. 84
l Novene e Settenari, ec. ec. » 2. 2a
e Storia delle Eresie ec., volu
mi 5 con rame -
66

i Le associazioni si ricevono in Mon


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