Squilibri
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Anteprima del libro
Squilibri - Milvia Comastri
Newton)
Che cosa hai fatto
È dopo che lei ha pronunciato i quattro nomi che il prete le mette una mano sul braccio e glielo stringe, glielo artiglia con le sue dita secche, che a Lena fanno venire alla mente le zampe di un uccello rapace.
«E tu che cosa hai fatto?» chiede. Poi avvicina la sua faccia alla faccia della ragazza e sibila: «Li avevi provocati, vero». E non è una domanda.
Il fiato del prete ha un odore guasto. Lena sente salirle in bocca un fiotto acre, vorrebbe gridargli che lei non ha fatto niente, aveva solo tredici anni, quella volta. Ma sa che se aprisse la bocca vomiterebbe. Divincola il braccio dalla stretta del prete, gira le spalle all’altare e corre verso l’uscita della chiesa.
Fuori c’è un sole che abbacina. Lena socchiude gli occhi, tira un sospiro lungo, ricaccia la nausea giù, in fondo, da dove era salita.
Io che cosa ho fatto? si chiede mentre attraversa la piazza e come in un sogno sente le grida dei bambini che stanno giocando sul sagrato, il canto dell’acqua della fontana, la risata di una donna.
Io che cosa ho fatto?
Aveva seguito il ragazzo, ecco cosa aveva fatto. Il più bello del paese, il più affascinante, il più figo, come dicevano le sue amiche, che l’aveva avvicinata un pomeriggio mentre lei stava tornando da scuola. «Ehi, ragazzina», le aveva detto, «sai che ti sei fatta proprio bella?». E lei, che bella non si vedeva affatto, si era specchiata in quegli occhi scuri e si era scoperta bellissima.
Era cominciata così, quella storia. C’erano stati altri pomeriggi, altre frasi che le mandavano il cuore a picco nello stomaco, come le succedeva alla sagra di San Michele, quando saliva sulle montagne russe. Lui aveva cominciato a entrare nei suoi sogni, e il pensare al loro appuntamento rendeva interminabili le ore di scuola, e gli odori della primavera si facevano liquidi, e le canzoni che ascoltava, canzoni d’amore, sembravano scritte solo per lei, scritte solo per loro, pensava. Ecco perché l’aveva seguito alle grotte: perché si era trovata ad avere fame di lui, del suo odore, della sua voce che era come una lingua di fuoco sulla pelle, di quello sguardo scuro che la spogliava di tutte le sue insicurezze.
Aveva cancellato ogni cosa, per anni. Aveva cancellato dalla sua mente l’orrore di quel pomeriggio di inizio estate, aveva cancellato l’immagine delle braccia che l’avevano inchiodata sull’umido terreno della grotta, gli ansiti di animale che avevano sfregiato il silenzio, il dolore fisico che le aveva invaso il corpo, e l’altro dolore, più intenso, che aveva ucciso la sua innocenza.
Quando li incontrava, lui e i suoi tre amici, provava un fastidio cui non sapeva attribuire una ragione. Sentiva un freddo improvviso, che le faceva accelerare il passo e affossare la testa nelle spalle.
Si è seduta su una delle panchine che l’amministrazione comunale ha fatto mettere sul belvedere. Da lì, la vallata si mostra in tutta la sua bellezza. In fondo, sfumate di delicato azzurro, altre montagne. Viene sempre qui, quando deve pensare, quando deve prendere una decisione. Guarda le montagne lontane, socchiudendo gli occhi, e cerca di farsi pervadere dalla serenità che il paesaggio trasmette. È stata qui anche ieri. Dopo che ha visto quei quattro uscire dalla grotta, e, dopo poco, Angela, la figlia degli Esposito, uscire anche lei, vacillante, una mano sul ventre, l’altra a mezz’aria, come a cercare un appiglio. È stato in quel momento che tutto le è ritornato in mente. Non era più Angela la ragazzina smarrita che stava dirigendosi verso il paese, ma era lei stessa, sei anni prima. Per un attimo una cortina nera le è scesa davanti agli occhi, si è sentita le gambe molli, ma si è ripresa subito. Ha raggiunto Angela, le ha messo una mano sulla spalla: «Angela», ha detto piano, «cosa ti hanno fatto?».
La ragazzina si è girata, l’ha guardata con occhi da bestia ferita. «Niente», ha ringhiato. «Non mi hanno fatto niente. Lasciami in pace». Poi è corsa via, e di lei sono rimaste solo le impronte degli zoccoli sul terreno polveroso, e il suono di quel ringhio.
Più tardi, seduta sulla panchina del belvedere, Lena ha deciso: domani dirò tutto a Don Luigi, ha pensato.
Gli dirà di sei anni fa, e di Angela, gli dirà. E farà i loro nomi.
Quei nomi, i nomi dei quattro stupratori, sono molto conosciuti, in paese. Le loro famiglie, in paese, fanno il buono e cattivo tempo. Famiglie di rispetto, sono, quelle cui appartengono i quattro bastardi. Famiglie che, in paese, tengono in pugno il destino di molti, di tutti. E i loro figli vengono, da tutti, considerati dei bravi ragazzi. Ma a Lena non importa. Racconterà tutto a don Luigi. Lui saprà quello che c’è da fare, si è detta ieri.
Ma non è stato così, pensa ora Lena. E quasi le viene da ridere, pensando alla fiducia che riponeva nel prete. Bisogna trovare un’altra soluzione.
L’azzurro delle montagne si è stemperato in un colore di oro antico. È il tramonto, quando Lena si alza dalla panchina e si avvia verso la caserma dei carabinieri.
Il carabiniere che prende la sua testimonianza è uno del nord, avrà più o meno l’età di Lena. A mano a mano che lei racconta, lo sguardo del ragazzo si incupisce. Che brutta storia, pensa. Povera ragazza. Le crede, crede in tutto quello che lei dice: quegli occhi, così duri, pensa, non possono mentire. Li andrà a prendere lui stesso, quegli animali.
La voce si sparge in fretta. Arriva anche una televisione locale che riprende i quattro mentre escono dalla caserma, riprende il loro atteggiamento strafottente, l’abbraccio delle loro madri, gli applausi di molti, gli occhi bassi di altri. Una telecamera inquadra Angela mentre dice che quella Lena è matta, che si è inventata tutto, che quei ragazzi sono dei bravissimi ragazzi, e che lei sono mesi che non passa davanti alle grotte.
La madre di Lena son due giorni che piange e ripete: «Cosa hai fatto cosa hai fatto cosa hai fatto». Come una litania, come i misteri del rosario.
«Ci fosse ancora tuo padre», dice, «saprebbe lui come raddrizzarti».
Lena esce di casa. Non sente niente, dentro. Né indignazione, né scoramento, né rabbia. È come se fosse morta. Cammina senza sapere dove sta andando. Si accorge di essere davanti al bar del paese solo perché sente una voce d’uomo che le grida puttana, seguita da risate e fischi. Non si ferma, non risponde, tiene la testa alta. Sente qualcosa di bagnato che le arriva in mezzo alla schiena. Uno sputo, pensa, ma non avverte neppure una briciola di schifo.
Va ancora avanti, fino al negozio del tabaccaio. Poi le viene addosso una gran stanchezza e decide di rientrare.
Le quattro donne l’aspettano vicino a casa, là dove si apre una breve galleria che porta alla scuola elementare. La trascinano dentro, e la volta della galleria amplifica le loro voci: «Puttana», gridano. E intanto l’hanno buttata a terra, e arrivano colpi sulla testa, sul viso, e calci nella pancia, e gridano: «Che cosa hai fatto che cosa hai fatto, che cosa hai fatto, volevi rovinare i nostri figli, puttana, puttana». Gridano e graffiano, gridano e calciano.
Fino a quando lei non sente più niente.
Si è trascinata fino al portone di casa, ha salito le scale. Le ci è voluto un secolo, ogni gradino una freccia che le si pianta nel corpo, ogni respiro un rantolo.
La madre apre la porta nell’istante in cui lei sta per suonare il campanello.
«Lena!», grida. E poi, mentre tende le braccia per accoglierla:
«Che cosa ti hanno fatto, figlia mia?», bisbiglia.
Sulla spiaggia
Il vestito era rosso e le lasciava scoperte le caviglie sottili. Sottili come quelle di una gazzella, pensò il ragazzo. La caviglia sinistra era circondata da una catenella d’argento, intervallata da pietruzze azzurre che brillavano alla luce del sole. Una gazzella con la cavigliera, lui pensò. E gli salì un sorriso alle labbra.
I piedi erano nudi, le unghie ben curate, ricoperte da uno smalto di un tenue rosa opaco. Al terzo dito del piede destro la ragazza portava un anellino di legno nero laccato, o forse di plastica.
Un cormorano si buttò in picchiata nell’acqua e ne emerse stringendo un piccolo pesce fra il becco.
Da lontano venne il suono della sirena del traghetto che stava entrando in porto.
Non c’era nessun altro sulla spiaggia.
Il vestito rosso, di un rosso come il sangue fresco, abbracciava morbido i fianchi della ragazza, poi la stoffa saliva a stringerle la vita, che era snella e che dava un senso di eleganza, di armonia, a guardarla.
I seni erano piccoli, ma tesi e ben distanziati. Sotto il tessuto leggero il ragazzo riusciva a scorgere la consistenza dei capezzoli.
Un piccolo granchio corridore uscì dalla sua tana e si allontanò veloce verso la riva.
Un pesce saltò fuori dall’acqua, fece una sorta di capriola e si rituffò nel mare.
Le braccia erano sottili, ma tornite. Sull’omero sinistro un geco tatuato sembrava crogiolarsi al sole.
Le mani avevano dita lunghe, le unghie erano ricoperte dallo stesso smalto usato per le unghie dei piedi. Un unico anello, sormontato da una pietra di luna, infilato nell’anulare destro.
La ragazza non portava braccialetti, e neppure un orologio.
Il ragazzo si sistemò sotto un braccio il quotidiano che teneva stretto fra le mani, poi da una tasca dei jeans prese un pacchetto di Camel e un accendino. Aspirò con gusto la prima boccata di fumo.
Distolse lo sguardo dalla ragazza e lo portò sul mare. Il blu lucente gli ferì per un attimo gli occhi, e gli fece socchiudere le palpebre. Poi lasciò che i suoi pensieri venissero assorbiti da quello spazio infinito. Pensò come sarebbe stato bello se la ragazza lo avesse potuto prendere per mano, intrecciando le dita alle sue, pensò come sarebbe stato bello se avessero iniziato a camminare affiancati su quella distesa d’acqua, e ancora andare e andare, e inabissarsi poi, e fare l’amore nella pancia del mare, con lentezza, con dolcezza, fino a raggiungere insieme il culmine del piacere. Pensò come sarebbe stato bello avere le gambe della ragazza strette intorno ai fianchi, e spingere dentro di lei il suo seme. Pensò, il ragazzo, che sarebbe stato un atto d’amore come mai ne aveva vissuti, nella sua vita. Come nessuno al mondo ne aveva mai vissuti. Gli parve di sentire l’odore della ragazza, del suo sesso. Odore di muschio e menta, gli parve di avvertire.
La sigaretta gli si era consumata fra le dita. Ripose il mozzicone nella tasca dei jeans, dopo aver spento la brace contro la sabbia.
La testa della ragazza stava a circa tre metri dal corpo troncato, rivestito dall’abito rosso. Una metà del viso schiacciata contro la sabbia, nascosta. Un orecchino d’argento a forma di spirale pendeva dal lobo dell’orecchio, che era piccolo, una graziosa conchiglia rosata. L’occhio, dall’azzurro intenso, fissava, spalancato, il cielo, che era privo di nubi, quel giorno. I capelli, lunghi e neri, erano mossi dalla brezza marina, si posavano sul viso e poi se ne allontanavano, e, in quell’apparire e scomparire, nel gioco del vento, l’occhio della ragazza sembrava acquistare vita. Sembra l’occhio di Dio rappresentato da certi pittori, pensò il ragazzo.
Aprì il giornale e lo distese sul viso della ragazza.
Tornò vicino al corpo. Fece scendere la cerniera dei jeans, si abbassò di poco gli slip. Divaricò le gambe e prese a masturbarsi, gli occhi fissati sul seno della ragazza.
Quando ebbe finito aspettò che l’affanno del respiro si calmasse, poi si chinò e si sfregò le mani nella sabbia, lentamente. Notò che qualche goccia di sperma aveva bagnato il vestito della ragazza. Provò un senso di orgoglio, ma anche di dispiacere.
Andò a bagnarsi le mani nell’acqua, per ripulirle dai granelli di sabbia.
Si strofinò le mani sui jeans, per asciugarle.
Tornò accanto alla testa della ragazza, si chinò, prese il giornale e lo ripiegò con cura.
Si accese una sigaretta.
Poi iniziò ad attraversare la spiaggia, dirigendosi verso la pineta.
Il sole era giunto allo zenit e sembrava assorbire ogni cosa.
Solitudini
La donna indossa un vestito nero, di seta, a lui sembra di capire. Ai piedi porta sandali di vernice nera, dal tacco alto e sottile.
Troppo elegante, stonata per questo posto, pensa l’uomo.
La donna si siede al tavolo vicino alla finestra, appoggia la borsa sulla sedia accanto.
Nel locale non c’è nessun altro, solo lui e quella donna e, dietro il banco, il barista che sta svuotando, indolente, la lavatazzine.
L’uomo immagina di alzarsi, di avvicinarsi alla donna e dirle una frase qualsiasi, giusto per capire, nella risposta, se anche la sua voce è fuori posto.
Lei ha preso un libro dalla borsa, e lo appoggia sul tavolino.
Lui cerca di leggerne il titolo, ma non ci riesce. Il suo tavolo è troppo lontano.
Sarà una di passaggio, forse una giornalista venuta in paese per scrivere di quel caso, quello del ragazzino ucciso dal cane, pensa l’uomo.
Potrei avvicinarmi e chiederle:
«È una giornalista, lei? ».
E poi sedermi al suo tavolo e sentire il suo odore.
Dalla tasca della giacca tira fuori un fazzoletto, bianco, grande, e si asciuga il sudore che gli bagna la fronte. La giacca è abbottonata e gli stringe sul petto e a volte ha l’impressione che gli stringa anche i pensieri.
Una mosca si è posata sul tavolino al quale lui sta seduto e con le zampette sembra voler pulire l’alone lasciato da un bicchiere sul ripiano