Pioggia - Primo episodio della serie“Alle cinque del mattino”
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Anteprima del libro
Pioggia - Primo episodio della serie“Alle cinque del mattino” - Rita Angelelli
Cover
Alle cinque del mattino
It’s five o’clock
and I walk through the empty streets
thoughts fill my head
but then still
No one speaks to me
My mind takes me back
to the years that have passed me by
(Aphrodite’s Child)
La musica era solo nella sua testa, le parole rimbalzavano stonate, distorte. Non c’era alcuna bellezza in quella melodia.
Alex, disteso sul letto, aprì gli occhi.
Dove sono? si chiese. Né rumori o voci, tranne quella canzone.
Cercò in quello che riusciva a vedere − il soffitto della stanza − qualcosa che lo legasse a quella realtà.
Sapeva di essere vivo, un uomo, ma era come se fosse relegato in una realtà parallela, in un mondo che non aveva a che fare con altri umani. Solo lui e la sua dimensione divergente. Solo lui e quella canzone che si ripeteva in loop nella sua testa.
Strinse i pugni, afferrò le lenzuola come se volesse strapparle. Sul soffitto le ombre creavano figure grottesche. Chiuse gli occhi, si domandò di nuovo dove fosse e come fosse arrivato lì. Sentì lo stomaco contrarsi più volte. Riaprì gli occhi e si sedette sul bordo del letto.
Era nudo. Si guardò i piedi. Mosse le dita fissandole a lungo. Poi alzò la testa e si guardò attorno. La musica si era fermata all’improvviso.
Un’ampia vetrata si apriva su una distesa di luci in movimento. Seguì le lunghe scie che si snodavano tra case e palazzi, distorte dalla pioggia che cadeva incessante e che sembrano convogliare verso un’alta costruzione fortemente illuminata. Troneggiava su tutto come un gigantesco totem, sormontata da un faro che lanciava un fascio tutto intorno.
Scrollò la testa, infastidito da tutti quei bagliori e soprattutto dall’insistenza di quel faro, che spezzava a intermittenza il nero dell’orizzonte.
Sarebbe tornato volentieri nelle tenebre, nel nulla, se un moto di paura non lo avesse scosso al solo pensiero.
Si guardò un’altra volta attorno. La stanza era molto grande, un open space racchiuso da vetrate all’inglese. Fermò lo sguardo sull’ampia terrazza, dove alcune poltrone in vimini e un divano erano in balìa della pioggia.
All’improvviso un’immagine gli tornò alla memoria: un uomo anziano, seduto su una di quelle poltrone, fumava un grosso sigaro e teneva in mano un bicchiere pieno a metà. Fu solo un istante, poi un tuono spezzò il silenzio della stanza e fece tremare le vetrate. Seguì un lampo, un segmento di luce che sfregiò il cielo tetro, illuminandolo a giorno.
«Maledetta pioggia», imprecò.
Il suono della sua stessa voce lo spiazzò e un lungo brivido lo scosse. Si alzò dal letto, mosse qualche passo.
Sulla chaise longue vicino al letto alcuni indumenti: pantaloni, una camicia, slip e dei calzini neri. Afferrò la camicia, la annusò. L’odore era intenso: sudore e profumo. Un profumo che gli ricordava una donna e una parrucca di capelli corvini, ma non un volto o un nome.
Fece qualche passo all’indietro e crollò di nuovo a sedere sul bordo del letto. Si prese il volto fra le mani, coprendosi gli occhi per tornare nel buio.
Eppure doveva sapere dove si trovasse… Sono un uomo, ripeté fra sé più volte. E un uomo, pensò, dovrebbe trovare il coraggio di affrontare qualunque cosa.
Quel posto… Fissò lo sguardo sul pavimento, guardandolo attraverso lo spazio fra le dita. Il parquet, scuro e lucido, era tiepido sotto i piedi nudi. Una sensazione piacevole, la prima da quando aveva aperto gli occhi. Rimase ad ascoltare quell’unica nota di benessere che lo attraversava. Sentiva i muscoli delle gambe rattrappiti, aveva freddo. Distese le braccia, aprì e chiuse le mani più volte per cercare di scaldarle, continuando a fissarsi i piedi. Poi, poco distante, notò qualcosa che si illuminava. Per terra, vicino al comodino, un cellulare che, a intermittenza, segnalava qualcosa emettendo una luce verde.
Si chinò a raccoglierlo, tenendolo in mano senza sapere cosa farne. Sapeva che era un cellulare e a cosa serviva, ma non ricordava come poterlo usare. Ebbe un moto di stizza e lo scagliò attraverso la stanza; atterrò sullo spesso tappeto che si trovava tra due divani Chesterfield. Bianchi. Candidi.
Immediatamente ricordò di quando li aveva comprati. Con lui c’era un uomo anziano, lo stesso che poco prima aveva immaginato seduto in terrazza. Gli diceva che i colori erano importanti e che tutto quel bianco era troppo neutro, impersonale. Lui aveva insistito per quell’acquisto e sul volto dell’uomo si era disegnata un’espressione di rassegnazione.
«La casa è tua», gli aveva detto, «tua la decisione. Io non appoggerò mai il mio deretano lì sopra.»
E invece lo aveva fatto: zio Enry, come lo chiamava lui, si era seduto proprio su uno di quei divani il giorno in cui lì dentro lui aveva organizzato una festa. Una festa con tanta gente, in onore di qualcosa di importante. Donne e uomini che si divertivano, alcolici e cibo a profusione, allegria e voci amiche, una band che suonava.
It’s five o’clock
and I walk through the empty streets
thoughts fill my head
but then still
No one speaks to me
My mind takes me back
to the years that have passed me by
Di nuovo quella canzone!
All’improvviso tutto gli tornò in mente. Si ricordò chi fosse. Alessandro, così si chiamava. Zio Enrico, zia Eufemia... i colleghi, il suo lavoro. Ora era tutto chiaro. La sua vita. La festa, organizzata per festeggiare la sua promozione a vice questore di Genova. E quella pioggia, che da giorni si riversava sulla città.
Ricordò tutto, ma niente che lo riportasse a quella notte. Le ultime ore erano avvolte nelle tenebre e Alex non ricordava come fosse rientrato a casa la sera prima, se ci fosse stato qualcuno con lui o se fosse rincasato da solo. Niente. Nessun ricordo.
Realizzò che gli era successo altre volte, e mai era riuscito a ricordare come aveva trascorso la notte. Imprecò. Prima tra sé, poi a voce alta. Di nuovo lo colpì il suono della sua voce. Era come se stesse rinascendo e stesse ascoltando per la prima volta le vibrazioni della vita.
Una fitta alla vescica gli ricordò la sua condizione umana. Adesso andare in bagno era la sua priorità, se non voleva farla sul parquet. Non sarebbe stato dignitoso. Aggrottò la fronte e pensò al significato di quella parola e alla sua dignitosa vita di vice questore. Irreprensibile. Degno di quell’incarico. Sentiva però che l’ombra che avvolgeva di mistero le sue notti non aveva nulla di dignitoso. Imprecò di nuovo e si diresse verso l’unica porta di quell’appartamento.
La aprì, entrò nel bagno, alzò la tavoletta e si liberò. Decise poi di fare una doccia. Forse questo lo avrebbe aiutato a ricordare.
Girò il rubinetto, attese che l’acqua diventasse calda e si mise sotto il getto della doccia. Lasciò che l’acqua gli scorresse su tutto il corpo, poi si appoggiò con la testa e le mani alle piastrelle. Rimase in quella posizione per alcuni minuti, a occhi chiusi, godendo del calore che gli accarezzava la pelle. Riaprendo gli occhi, si accorse di avere un segno su una coscia. Sembrava l’impronta lasciata da un morso, poi, guardando meglio, ne ebbe la certezza.
Si toccò il livido, e mentre cercava di ricordare, lo raggiunse il suono di uno squillo insistente, sempre più forte.
Chiuse il rubinetto, afferrò un asciugamano e seguì quel suono sfregandosi la testa con il tessuto spugnoso. Raggiunse il cellulare rimasto sul tappeto. Lorusso lo stava chiamando.
«Lorusso, che succede?» chiese mentre continuava ad asciugarsi.
«Buongiorno vice questore, devo venire a prenderla...» il poliziotto parlava in fretta, con chiaro accento pugliese.
«Ho chiesto cosa succede, Lorusso!» intimò alzando il tono.
«Niente, vice questore, solo... una morta. Ammazzata, credo.»
«E lo chiami niente?»
«Mi scusi, vice questore, è successo… hanno trovato questa donna morta.»
L’agente si stava ingarbugliando.
«Questo l’ho capito. Riesci a darmi qualche informazione in più?»
«No, vice questore. Mi hanno detto solo di venire a prenderla. Sarò da lei tra dieci minuti… se la pioggia non porta via anche me.»
«Non fare il drastico, Lorusso. Aspettami di fronte al portone e smettila di fare commenti sulla pioggia.»
«Piove da una settimana e io sono già bagnato fradicio...» replicò l’altro in tono lamentoso.
«Lorusso...»
«Sì, vice questore?»
«Vieni. E senza rompere i coglioni.»
«Subito signore.»
Alex finì di asciugarsi e si vestì in fretta, prendendo a caso qualche indumento dall’armadio. Infilò i calzini della sera prima, quelli che erano rimasti sulla chaise longue, e scelse un paio di Timberland tra le tante, di colore diverso ma tutte dello stesso modello, allineate nella scarpiera. In quel momento trovò buffa quella sua mania per le scarpe, ma lasciò correre e s’affrettò ad uscire.
Prima, però, si fermò di fronte a una consolle dove troneggiavano diverse fotografie. Prese le chiavi che erano appoggiate lì sopra e diede un’occhiata veloce a uno degli scatti: quattro persone guardavano verso l’obiettivo e sembravano sorridergli. Ne riconosceva bene solo due, Zio Enry e zia Eufemia; gli altri invece appartenevano a nebulosi ricordi d’infanzia: i suoi genitori, deceduti in un incidente d’auto quando lui aveva da poco compiuto otto anni.
Infilò il primo giubbotto che gli capitò fra le mani tra quelli sull’appendiabiti, aprì la porta, lasciò che gli si chiudesse alle spalle con un tonfo sordo e si precipitò giù per le scale.
Cinque piani. Almeno cento scalini consumati dal tempo e un ascensore che lamentava la propria vecchiaia, che