L'ombra del cervo
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Anteprima del libro
L'ombra del cervo - Jean Carlo Bigini
Jean Carlo Bigini
l’ombra del cervo
Romanzo
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ARGALIA EDITORE
ebook
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Ad Asia e Samuel
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Proprietà letteraria riservata
© 2017 Jean Carlo Bigini – Urbino
www.jeancarlobigini.eu
2ª edizione
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I pensieri sono le ombre delle nostre sensazioni:
sempre più oscuri, più vani, più semplici di queste.
(F. Nietzsche)
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1
Il vecchio chiuse il libro con un gesto lento, quasi religioso. Lasciò che i versi risvegliati sprigionassero ancora il loro odore, finendo per farsi voce che i lunghi silenzi avevano reso opaca:
– . .. mirabilmente disposti, come i vetrini colorati di un caleidoscopio, i miei pensieri si fanno passi controvento, giochi della mente nell’impalpabile altrove...
Passò quindi la mano sulla copertina di seta che aveva impresse in oro le lettere MSN, assaporando il caldo senso di rassicurazione che gli infondeva quella carezza. Erano pagine che in un fervore instancabile avevano preso forma lungo i sentieri mai battuti del suo immaginario, vie che dal nulla si aprivano improvvise, e che egli aveva percorso con gli occhi sgranati di un bimbo in un paesaggio di zucchero filato. Ripensò a quando, nel posare la penna, era colto da una dubbiosa esitazione e si chiedeva incredulo chi gli avesse dettato quelle parole, quelle visioni, da quale suolo prodigioso fosse scaturita la poesia che aveva pervaso il suo essere.
Quante volte si era trovato a condividere con la donna amata quel miracolo. Quante volte le aveva espresso profonda riconoscenza per come era riuscita a mutare le terre inaridite della sua percezione.
Perso in tali ricordi ne richiamò le immagini che si ricomposero dai mille frammenti sparsi nella sua memoria. La rivide giovane e bella. La rivide quando gli anni avevano scavato anche il suo viso senza peraltro corromperne la grazia, la delicatezza. E poi nel feretro, come un fiore sull’acqua, con le mani livide incrociate sulla copia del libro che aveva tra le mani… la seconda di due.
Strinse gli occhi e una lacrima scivolò seguendo la piega di un volto che ottant’anni di vita avevano appena segnato. Nel timore di bagnare il suo prezioso diario tornò ad avvolgerlo con il panno di velluto rosso, quindi lo ripose nel primo cassetto dello scrittoio. Esitò nel richiudere, quasi avvertendo una sorta d’indefinita mancanza di riguardo. E prima dello spegnersi del colore nel buio di quell’antro custode, le mandò un bacio e un ti amo
con voce incerta, come a voler dare corpo all’emozione. Si asciugò gli occhi con la punta delle dita e con fare infantile si passò le mani sui pantaloni.
L’elegante rustico in cui abitava Amedeo, così aveva nome il vecchio, rappresentava per lui una specie di santuario poiché esprimeva il senso tardivo della sua esistenza. Era stato ricavato da un’umile baita immersa nel verde ancora incontaminato delle colline fuori città. La sua abilità di architetto lo aveva trasformato in uno splendido nido di legno abbracciato a monte da una folta pineta ombrosa, e dominante verso valle sul dolce digradare di un campo con vigna e frutteto, in buona parte di sua proprietà. In fondo al declivio stava adagiato un modesto ma aggraziato cimitero, ormai quasi abbandonato. Era lì che da alcuni anni riposava Giulia, la sua compagna.
Con il fare pacato che appartiene alle ombre delle periferie della vita, Amedeo spense il grande schermo appeso alla parete e prese il bastone nodoso appoggiato alla sedia, un ramo d’olivo che quel mattino aveva attirato la sua attenzione. Nei bubboni legnosi di un’estremità, che richiamavano in modo curioso una testa di cavallo, aveva colto subito una preziosa impugnatura. Decise che ne avrebbe fatto un bastone da passeggio, appoggio ormai indispensabile nelle consuete camminate lungo i sentieri impervi del posto. Cominciò lentamente a levigarlo con tocchi precisi e senza esitazioni, gli stessi che aveva appreso da piccolo osservando in silenzio suo nonno, uomo pratico e d’ingegno. Quando gli sembrò di essere a buon punto si fermò e alzò gli occhi sulla mensola del camino: la sveglia segnava quasi mezzanotte. Portò quindi la sua attenzione un po’ più a lato, alla fotografia in una cornice d’argento su cui c’erano ormai troppe impronte da pulire. Era il ritratto di lei. Aveva una rosa tra i capelli scuri un po’ scarmigliati, l’aria persa in pensieri che egli aveva cristallizzato e reso eterni.
Si obbligò a emergere da quei pensieri e prese a rimirare il suo lavoro. Con un tocco leggero lo accarezzò per tutta la sua lunghezza controllando che fosse ben rifinito. Le mani ossute conservavano ancora un vigore delicato e quelle fattezze che Giulia aveva tanto amato. Quando gliele accarezzava finiva sempre per risalire fino ai bicipiti robusti che le sue dita minute non riuscivano a contenere. Era sempre stata affascinata da quella forza virile, lui però le sorrideva pensando a come il bene sapeva trasfigurare ogni giudizio.
Non vi era sera che Amedeo non giocasse con quei ricordi, e non vi era sera che non s’intenerisse al pensiero di un amore che gli aveva risvegliato il corpo assonnato, incidendone la fronte come il rabbino praghese con i suoi golem d’argilla.
Un’alba lunare rendeva opaco il cielo di una notte gelida d’ottobre. Il comignolo della casa vi si stagliava come un dito nero, mentre lingue di fumo bianco tracciavano nell’aria un disegno che si arricciava estroso. Amedeo si tirò su lentamente affinché la schiena ritrovasse il suo equilibrio: era ormai tardi e decise di andare a riposare. Quando il rettangolo illuminato della finestra si abbuiò, da valle sembrò spegnersi una stella, ma il cielo non si fece più scuro. E neppure la mente dell’uomo parve risentire del suo chiudere gli occhi. Anzi, come in uno spettacolo in cui abbassate le luci si accendono i fari di scena, i pensieri ripresero a solcare eccitati le terre dei ricordi. Tornarono a turbinare gli eventi che avevano generato un centro luminoso in sé, eventi che erano giunti inebrianti e untuosi, come il fumo di una candela appena spenta.
Aprì per un attimo gli occhi e vide un bagliore di luna sulle corde metalliche della chitarra. Interpretò quel riflesso come un segnale, come se Giulia lo invitasse a suonare per lei. Si alzò, infilò le ciabatte un po’ lise e sorrise tra sé di quell’idea. Prese lo strumento e tornò davanti al caminetto che emanava ancora un buon calore. Nell’ascoltarlo suonare, più di una volta Giulia non aveva saputo trattenere una lacrima che poi asciugava furtiva poggiando con indifferenza il mento sulla mano aperta: un pudore che non era mai riuscita a vincere.
Dalla sua presenza Amedeo era sempre stato particolarmente ispirato. Anche allora si accorse che si muoveva agile sul manico di palissandro, e senza sforzo faceva suoi i passaggi tecnicamente più arditi. Pochi tocchi e le vibrazioni avevano già pervaso l’aria. L’intreccio magico di note aleggiò nella stanza esaltando le sottili trame di un dio geometra e musico che dell’armonia delle cose aveva colmato i suoi intenti. Una luce sonora piena e chiara che diede forma a un complesso ordito di sensazioni sempre irrisolto per la mente, ma capace di svelare il mistero di una straordinaria congiunzione.
La stanchezza che cominciava a farsi sentire lo convinse ben presto che era tempo di tornare a letto. Posò con attenzione meticolosa la chitarra e rabbrividendo si infilò di nuovo sotto le coperte. Allungò una mano ed ebbe la sensazione di toccare quella di lei. Gliela strinse nel pensiero e bisbigliò: – Buonanotte Fior di Maggio! – Era l’appellativo che aveva sempre usato quando voleva esprimerle tenerezza, scoprendo solo in seguito che in quel modo veniva indicato il narciso selvatico, fiore da lei amato. Una strana coincidenza, una delle tante della loro storia.
Ormai Amedeo era un uomo che camminava obliquo su tappeti di cose morte. Tutto veniva custodito nelle stanze silenziose dei ricordi, cimeli che impreziosivano il museo dei giorni vibranti e ormai lontani. Era un piovere lento di grigia malinconia, pagine di tempo senza più parole, rivoli di sogno inghiottiti dalla pietrosa realtà.
Viandante che nelle peregrinazioni notturne bussava insistente alle porte dell’eternità, avrebbe voluto farsi terra umida e ricoprirsi di muschio, tanto era violento il senso di esilio che avvertiva nel suo orfano esistere. Egli ormai cercava solo la figura che prendendolo per mano lo avesse condotto sui lidi dell’oceano delle anime. Là dove i loro occhi, come lucida nitidezza di specchi che si rimandano l’un l’altro, si sarebbero riflessi senza fine.
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2
Trent’anni prima.
Era il 18 di marzo, l’alba di un venerdì. Come al solito Amedeo era già desto e attendeva di zittire la sveglia rendendo inutile il trillo delle sei. Si alzò e guardò attraverso i vetri della finestra premendo le gambe sulla ghisa calda del radiatore. Sotto un cielo carico e cupo che lasciava alla notte ancora qualche scampolo di oscurità, un camion della nettezza urbana sferragliava rumorosamente sulla strada. Dall’alone fosco dei lampioni ancora accesi, gli giunse il vociare degli operatori interrotto ogni tanto da sonori scoppi di risa. Invidiò quella capacità di accogliere la vita anche nel gelo denso di un’alba pigra, invece lui aveva negli occhi un sonno che non faceva dormire, nella testa un aspro silenzio del pensiero.
Sulla striscia scura dell’asfalto il vetro rifletteva il letto alle sue spalle, sempre sfatto solo a metà. Non aveva mai compreso davvero la forza del sentimento che l’aveva condotto a un pur convinto matrimonio. Lo aveva chiamato amore, gli era sembrato tale, ma poi si erano consumate le parole, i sorrisi, l’affetto. Un figlio forse avrebbe modificato gli schemi delle reciproche incomprensioni… Sua moglie non glielo aveva mai detto, ma in tante sere taciturne passate a rimestare tristemente nel piatto della cena, egli aveva colto il suo rancore strisciante. Nonostante gli esami effettuati non avessero mai rilevato problemi in grado di impedire un normale concepimento, senza una ragione apparente lei si era convinta che Amedeo fosse incapace di renderla madre. Un disprezzo malato che lo aveva ferito in modo ingiusto e doloroso, che di certo nascondeva altre distanze, forse la difficoltà a delineare semplicemente il presente spogliandolo delle attese. Si era così ritrovato chiuso in una morsa che gli oscurava il viso e pian piano era diventato un’ombra astiosa, la lacera rappresentazione dell’uomo che avrebbe voluto essere. E proprio quando aveva sentito maturarsi il coraggio di porre termine a quell’agonia, un giorno aveva trovato mezzo armadio pieno solo di grucce nude.
Nonostante avesse poco più di cinquant’anni, Amedeo aveva sempre la sconsolata sensazione di vagare in assenze che non concedevano ricordi. Immerso nella sua inquietudine continuava a guardare il mondo con il disincanto che vive chi sente di non esserne parte. Ciò aveva reso vane anche le note della nuova libertà, la tela dove riprovare a tracciare le linee vergini di un disegno più in accordo con la propria natura.
Quella mattina però lo afferrò un indefinibile disagio, giustificato con il riverbero sanguigno che iniziava a filtrare tra nubi di pietra, quello che il suo occhio di fotografo amatore gli suggeriva come favorevole. Sapeva che le condizioni ottimali sarebbero arrivate di lì a poco e poi rapidamente dissolte. Si vestì in fretta, si mise a tracolla la fotocamera e si precipitò alla macchina.
Guidò veloce per la strada dei colli immersa nel parco naturale che per la sua estensione tutti chiamavano la foresta. Voleva arrivare prima che il giorno pieno gli sottraesse i repentini squarci di colore, i chiaroscuri più esaltanti, la sacra rappresentazione degli elementi che non ammette repliche. Provava sempre un penetrante piacere nella serenità che la natura concede in quei momenti, anche se sapeva fin troppo bene cosa nascondeva quella smania: era l’impellente bisogno di erigere paratie che fermassero le onde nervose dell'oceano interiore. Poi, appena da quel confronto serrato prendeva forma la parvenza di una nuova conciliante stabilità, si metteva attento ad ascoltare il lento e naturale emergere dei pensieri non ancora concepiti.
In una luminosità incerta, preso nel groviglio delle sue solitarie riflessioni, Amedeo si accorse solo all’ultimo momento di un grosso cervo immobile in mezzo alla strada. Frenò bruscamente fermandosi a poca distanza da quell’ostacolo inatteso: era un maschio adulto che, senza minimamente scomporsi, girò verso di lui la sua enorme testa fissandolo con impertinenza. Era munito di uno straordinario trofeo e la convessa sporgenza dei suoi occhi neri li rendeva simili a due globi d’ossidiana; da essi emanava una forza tagliente e torva che paralizzò il presente per qualche istante. Infine, come se nulla fosse accaduto, Amedeo lo vide avviarsi calmo e regale verso il fitto degli alberi, quasi lo invitasse a seguirlo. Egli non riuscì a comprendere le ragioni di quel turbamento, dell'inspiegabile ansia per il timore di perderlo. Doveva ritrovarlo.
Parcheggiò in un piccolo spiazzo sterrato e si buttò all’inseguimento addentrandosi nel labirinto di sentieri dell’intricato sottobosco. Doveva ritrovarlo. Ogni tanto si fermava per cogliere il più piccolo rumore che tradisse la posizione dell’animale, ma riusciva a sentire solo i colpi sordi del suo cuore. Vi era una sorta di imbarazzo nella sua corsa a dir poco irrazionale, ma a quella scomoda sensazione si opponeva nitida la consapevolezza che stava riemergendo dalle nebbie dell’inutilità. Si sentì vivo come non gli accadeva da troppo tempo e tra i vapori del suo respiro affannoso, che esaltava i profumi asprigni del bosco, fu sopraffatto da un’insolita euforia.
Intanto il giorno spandeva con maggior convinzione la sua luce rendendo più agevole la caccia. Nella concitazione di quei momenti, Amedeo non diede però troppo peso ai fiocchi che avevano preso a penetrare tra le fronde di pini e abeti. Anzi, il leggero velo bianco che andava formandosi sul terreno gli sembrò che giocasse a suo favore: era convinto che avrebbe trovato più facilmente qualche traccia utile. D’improvviso, come apparso dal nulla, vide finalmente il cervo che sgranocchiava placidamente degli arbusti. Amedeo mise lentamente le mani sulla macchina fotografica, ma non ebbe neanche il tempo di muoverla che con uno slancio elegante il cervo sparì tra le ramaglie. Egli si avvicinò al luogo dove si era fermato l’animale e rimase allibito: la neve era intatta. Nessuna orma, neanche il più piccolo segno... solo le nitide impronte dei suoi scarponi.
Le ore passate nella ricerca gli sembrarono un tempo assai più breve. A riportarlo alla realtà fu la fame violenta che cominciò a mordergli lo stomaco, tanto che alla fine decise di desistere. Si incamminò nella direzione che lasciava intravedere una maggior luminosità, ma al diradare del bosco trovò il terreno completamente coperto da un’abbondante nevicata. Un vento impetuoso piegava le cime degli alberi in lamentosi scricchiolii, e i sentieri erano ormai completamente cancellati. Privo di ogni punto di riferimento, senza la minima cognizione di dove stesse andando, Amedeo marciò senza sosta proseguendo per inerzia, magari ripassando più volte nello stesso posto, ma ne buttava giù così tanta che ricopriva quasi subito ogni traccia del suo passaggio.
Cominciò a scendere inesorabile la sera. Le raffiche di tramontana sputavano in faccia un nevischio che faceva male come rena. A occhi quasi chiusi per l’accanirsi della tormenta, egli pensò che in fondo quella fosse la perfetta rappresentazione della sua esistenza: un estenuante e indefinito avanzare nel labirinto indecifrabile della vita. Per una strana associazione si sentì un po’ il capitano Achab nella sua ossessiva caccia alla balena bianca, anche se confidava che il mare di neve sarebbe stato più clemente. Cadde più volte goffamente sprofondando in buche improvvise, ma ogni volta si rialzava e riprendeva il suo passo incerto cercando di proteggere come poteva la fotocamera sotto il giaccone. Pur in balia della furia degli elementi ostili, con i piedi dolenti e prossimi al congelamento, lo pervadeva la certezza che nulla gli sarebbe accaduto. Ma senza ombra di protervia, solo con la maturata capacità di ascoltare le voci depositarie di ciò che alla ragione è oscuro. Già una volta aveva provato quella calma incosciente. Fu quando sfondò il parapetto in una curva scendendo i tornanti di montagna. Mentre l’auto volava nel vuoto in un silenzio surreale, lui era rimasto aggrappato al volante come in attesa di riprendere la corsa dopo il salto. Anche allora si era sentito un po’ stupido nella sua stasi emotiva, nella sua illogica aspettativa di accadimenti risolutori. Era planato sulla pineta sottostante in un frastuono di rami spezzati e cristalli esplosi, ritrovandosi sdraiato su un letto di aghi di pino e neanche un graffio.
A un tratto, confuso tra i sibili delle correnti che sferzavano il bosco, Amedeo udì un nervoso abbaiare. Seguì trepidante quella traccia di vita, finché intravide il riquadro luminoso di una finestra e il vorticare frenetico di faville che uscivano dal comignolo. Il vago chiarore che si diffondeva dall’interno gli permise di scorgere anche l’origine di tanta eccitazione: era un cane robusto che da sotto la loggia di una piccola baita difendeva con vigore la sua proprietà. L’avvicinarsi di Amedeo accentuò il furore della bestia, uno splendido Labrador color miele che avanzò minaccioso di qualche passo, ma il tono rassicurante con il quale egli cercava di calmarlo, un po’ alla volta ne spense l’impeto. Il cane accennò ancora a un vago ringhio, come fosse incerto sul da farsi. Poi, per la misteriosa empatia che negli animali attinge a chissà quali strani segnali, prese a scodinzolare chinando il capo con sottomissione. Amedeo lo accarezzò pulendolo dai fiocchi che lo ricoprivano, mentre qualcuno dietro i vetri della finestra stava tenendo le mani ai lati della testa per cercare di capire cosa stesse succedendo fuori.
La porta si aprì proiettando sul bianco un