Pia e l'orologio della morte edizione illustrata
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Recensioni su Pia e l'orologio della morte edizione illustrata
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Anteprima del libro
Pia e l'orologio della morte edizione illustrata - Daniele Brunello
Ringraziamenti
Prefazione dell'autore
Questa mia seconda opera doveva essere, nelle mie intenzioni, un racconto per bambini, coloro che hanno avuto la pazienza di leggere la bozza, però, ne hanno dato una collocazione diversa, ciò all'inizio mi ha spiazzato lasciandomi a lungo nel dubbio. In una successiva analisi mi sono trovato in parte d'accordo con il giudizio di chi non la riteneva un'opera per l'infanzia, a causa dell'uso di vocaboli di difficile comprensione per un bambino, ma altresì convinto della bontà della trama. Ecco dunque l'idea di sviluppare un progetto più complesso (per questo il sottotitolo 'una favola per piccoli e grandi') articolato in due edizioni: una di solo testo 'per adulti' e una per bambini, illustrata con i disegni di Luigi Piva e con note didascaliche, la cui consultazione risulterà particolarmente comoda nell'edizione ebook. I bambini potranno così, con la conoscenza di nuove parole, ampliare il proprio vocabolario, mentre gli adulti potranno godere di un racconto, per certi aspetti, kafkiano.
Buona lettura.
Daniele Brunello
I° Pia
«Uffa! Ma quando arriviamo?»
«Pia siamo partiti da dieci minuti, non cominciare con la solita lagna; stai tranquilla ché quando arriviamo in campagna ti avvisiamo.»
Pia sbuffando si adagiò, sprofondando, sullo schienale dell’automobile e aprì il libro illustrato che teneva al suo fianco; ne sfogliò qualche pagina sorvolando sulle scritte e degnando solo di qualche sguardo i bei disegni a colori, mentre era continuamente distratta da ciò che sfilava nel palcoscenico dei finestrini. In realtà nemmeno quelle apparizioni fugaci la interessavano veramente, facevano parte della solita noia di tutti i viaggi in automobile, come le leve che ai due lati consentivano di aprire le portiere della macchina, o i due pulsanti per alzare o abbassare i finestrini. Li osservò e allungò il braccino fino a sfiorarli, non le era consentito toccarli, ma per un momento fu tentata di trasgredire quella regola rigorosa; poi pensò che non valesse la pena di scatenare una tempesta perché voleva cominciare bene quella giornata, senza far arrabbiare i suoi genitori. Rivolse allora lo sguardo dinanzi a sé, ma la sua visuale era completamente occupata dalla sagoma scura dei sedili anteriori, sovrastati dall’imponenza dei due poggiatesta dai quali spuntavano le cucuzze dei suoi genitori: quasi calva sulla sommità quella di babbo, fulva, soffice e schiacciata dal sedile, fino ad assumere la buffa forma di un nido di cicogna, quella di mamma. Pia cominciò a ridere, tentò di allungare le mani per zampettare con le dita su quel soffice nido, ma la cintura di sicurezza la tratteneva e riuscì solamente a picchiettare l’aria davanti a sé, come un pianista su una tastiera invisibile. Mamma si voltò cogliendo l’espressione divertita di Pia e il riso la contagiò, illuminandole il viso nel sorriso che creava tre piccole rughe ai lati degli occhi, come due leggere pennellate di polvere d’oro. Poi scosse leggermente la testa e le chiese: «Cos'è che ti diverte tanto?» Pia non rispondeva, continuava a ridere immaginando una cicogna appollaiata sul capo della mamma, fino a quando la sua attenzione fu attirata da un’immagine apparsa in quel momento nel finestrino; era una grande macchia verde di alberi altissimi, allora esplose in un grido: «Guardate la campagna, siamo arrivati.»
«Non è la campagna», rispose papà paziente, «è il parco grande della nostra città; non siamo ancora entrati in autostrada!» Pia, delusa, ricadde sul sedile e con gesto di stizza sbatté il libro sulle ginocchia poi, rassegnata, riprese a sfogliarlo. Passarono pochi attimi e non poté trattenersi dal porre ai genitori la solita domanda, la stessa che ripeteva da giorni e per la quale, secondo lei, non riceveva una risposta esauriente: «Perché dobbiamo proprio trasferirci in campagna?» Per l’ennesima volta mamma rispose con la solita pazienza: «Abbiamo deciso di andare a vivere in campagna perché lì si sta meglio che in città.»
«Non è vero!» Rispose Pia stizzita. «Come fai a dirlo se non ci sei mai stata?»
«Neppure voi!»
«Pia, dimentichi che io ci sono nato», intervenne papà, «e poi la casa della nonna è grandissima; sono sicuro che ti piacerà moltissimo!»
«A me piaceva la mia cameretta!»
«Ne avrai una tutta per te anche lì.»
«E tutti i miei pupazzi ci staranno?»
«Sicuro, sarà molto più grande. Poi farai la conoscenza di Chica, la gatta, e del cane Poldo.»
«E troverò anche i miei compagni di scuola?»
«Purtroppo no, inizierai la seconda classe nella scuola del paese, ma sono sicuro che farai presto amicizia con gli altri bambini.»
Avvenne allora ciò che i genitori di Pia temevano maggiormente e che puntualmente si presentò. Iniziò con una nota acuta, partita con un leggero quasi impercettibile singhiozzo, che andò crescendo fino a terminare in una tonalità che perforava le orecchie. Ma il peggio, sapevano, non era ancora arrivato; ancora pochi attimi e la sofferenza dei timpani avrebbe raggiunto il suo apice[1] per lo scroscio di un urlo disperato, che era anche un pianto e quanto fosse sincero lo si poteva capire dai goccioloni che scendevano copiosi sulle guance di Pia. «Tesoro…». Mamma si slacciò la cintura e si rovesciò sul sedile posteriore per cercare di consolarla, ma sembrava un’impresa impossibile e, come sempre, un senso di colpa s’impadronì dei genitori. Papà orientò lo specchietto retrovisore inquadrando la bambina e, incontrando il suo sguardo, cercò di spiegare ulteriormente le ragioni del trasferimento: «Devi sapere, Pia, che la nonna sta diventando molto vecchia e non possiamo più lasciarla vivere lì da sola e neppure vuole saperne di trasferirsi in città, ne morirebbe, sarebbe come voler sradicare una vecchia quercia dal bosco dove ha sempre vissuto e trapiantarla sul terrazzo di un palazzo in città.» Pia si calmò, ascoltava con attenzione papà fissandolo attraverso lo specchietto con gli occhioni arrossati. «Tu invece sei come una piantina giovane che può attecchire[2] ovunque la si metta a dimora e ti garantisco che in quel luogo crescerai rigogliosa; in campagna scoprirai un sacco di cose nuove che ti piaceranno, ma certamente dovrai rinunciare ad altre, anche noi rinunciamo a qualcosa. Alla fine peseremo le cose lasciate e quelle trovate e, se queste ultime saranno di più, vorrà dire che avremo guadagnato qualcosa.» Pia si zittì ripensando al concetto di guadagnare, ricevere più di quanto si è dato doveva necessariamente essere bello, tuttavia conservava un dubbio: quello che le cose che piacciono ai grandi raramente piacciono ai bambini. Di papà però si fidava, dunque, non le rimaneva altro da fare che pazientare. «Accidenti e adesso che cosa succede?» Papà lanciò quell’imprecazione e rallentò la corsa della macchina fino quasi a fermarla; una lunga coda di automobili si era formata a causa di un camion che, nella corsia opposta, era sbandato finendo con le ruote anteriori oltre il ciglio erboso della strada; mettendosi così di traverso ostruiva anche parte dell’altra corsia e il traffico procedeva lentamente a senso alternato. Quando giunsero ad affiancarlo con l’automobile una puzza tremenda invase l’interno dell’abitacolo. «Puah, mi viene da vomitare!» Esclamò Pia. Era un carro bestiame. «Guardate è pieno di vitellini! Dove li portano?» Chiese Pia. «Li portano in città», rispose papà, pentendosi quasi subito per quella risposta spontanea. «Perché li portano