Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'amante di Lady Chatterley
L'amante di Lady Chatterley
L'amante di Lady Chatterley
E-book444 pagine9 ore

L'amante di Lady Chatterley

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

L’amante di Lady Chatterley, scritto da David Herbert Lawrence nel 1928, narra la storia di Constance, meglio conosciuta come "Connie" nel libro, una donna intellettuale, socialmente progressista e molto passionale della media borghesia scozzese. Sposata in Inghilterra con Clifford Chatterley, un uomo della bassa aristocrazia e molto intelligente, nel corso del romanzo Connie maturerà sia sessualmente che come donna; col tempo arriverà a disprezzare e ad allontanarsi dal debole e impotente marito, a causa della freddezza e dei comportamenti di lui, al punto da iniziare una relazione dapprima con l'incostante irlandese Michaelis, poi con Oliver Mellors, il guardiacaccia della tenuta di famiglia. Così facendo Lady Chatterley si allontana da quel freddo e industriale mondo che la circonda, regno dell'aristocrazia e degli intellettuali, per ritirarsi insieme al suo amante in una vita governata dalla tenerezza, dalla sensualità e dall'appagamento sessuale. I temi del sesso, ed il loro intrecciarsi con i rapporti di classe, sono trattati con un verismo senza precedenti per la letteratura del tempo; il romanzo suscitò un clamoroso scandalo, a tal punto che potè essere pubblicato in Inghilterra in versione integrale solamente nel 1960.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2013
ISBN9788874173068
Autore

David Herbert Lawrence

David Herbert (D. H.) Lawrence was a prolific English novelist, essayist, poet, playwright, literary critic and painter. His most notable works include Lady Chatterley’s Lover, The Rainbow, Sons and Lovers and Women in Love.

Autori correlati

Correlato a L'amante di Lady Chatterley

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Classici per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su L'amante di Lady Chatterley

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'amante di Lady Chatterley - David Herbert Lawrence

    cover.jpg

    L’amante di Lady Chatterley

    David Herbert Lawrence

    In copertina: Jean-Auguste Dominique Ingres, La bagnante di Valpincon

    © 2013 REA Edizioni

    Via S. Agostino 15

    67100 L’Aquila

    www.reamultimedia.it

    [email protected]

    www.facebook.com/reamultimedia

    a cura di Fabrizio Cristallo

    Questo e-book è un’edizione rivista, rielaborata e corretta, basata sulla traduzione del 1945 di M.L. Musti. La casa editrice rimane comunque a disposizione di chiunque avesse a vantare ragioni in proposito.

    Indice

    CAPITOLO I

    CAPITOLO II

    CAPITOLO III

    CAPITOLO IV

    CAPITOLO V

    CAPITOLO VI

    CAPITOLO VII

    CAPITOLO VIII

    CAPITOLO IX

    CAPITOLO X

    CAPITOLO XI

    CAPITOLO XII

    CAPITOLO XIII

    CAPITOLO XIV

    CAPITOLO XV

    CAPITOLO XVI

    CAPITOLO XVII

    CAPITOLO XVIII

    CAPITOLO XIX

    CAPITOLO I

    Viviamo in un’epoca essenzialmente tragica, e ciononostante ci rifiutiamo di prenderla sul tragico. Il cataclisma è compiuto: ora cominciamo a costruire nuovi centri abitati, a fondare nuove tenui speranze. È un lavoro molto duro: oggi non ci sono più strade agevoli verso l’avvenire: noi giriamo intorno agli ostacoli, o ci arrampichiamo faticosamente. E bisogna pur vivere, nonostante la caduta di tanta parte di cielo.

    Era pressappoco questa la condizione di Constance Chatterley. La guerra aveva fatto crollare il tetto sulla sua testa. Ed ella aveva compreso che bisogna vivere e imparare.

    Aveva sposato Clifford Chatterley nel 1917, durante una licenza che questi aveva trascorso a casa. La loro luna di miele era durata un mese: poi egli era ripartito per il fronte delle Fiandre, e sei mesi dopo era stato riportato in Inghilterra ridotto in pezzi. Constance aveva allora ventitré anni; lui ventinove.

    Ma Clifford era dotato di una vitalità sorprendente. Non morì; i suoi frammenti parvero ricomporsi. Per due anni giacque nelle mani dei medici; poi dissero che era guarito e lo rimandarono a casa con la metà inferiore del corpo paralizzata per sempre.

    Correva l’anno 1920. Clifford e Constance tornarono a Wragby Hall, la proprietà di famiglia. Il padre di Clifford era morto, ed egli ne aveva ereditato il titolo; era Sir Clifford, e Constance Lady Chatterley. Iniziarono la loro vita in comune nel castello dei Chatterley, un po’ in abbandono, con una rendita un po’ scarsa. Clifford aveva una sorella, ma era andata via di casa. Non aveva altri parenti stretti. Il fratello maggiore era morto in guerra. Invalido per sempre, sapendo che non avrebbe mai potuto avere figli, Clifford volle stabilirsi nei Midlands per far vivere come poteva il nome dei Chatterley.

    Aveva accettato la sua sorte con rassegnazione. Poteva andare e venire in una carrozzella che manovrava da sé, e ne aveva anche un’altra a motore, per passeggiare lentamente nel parco malinconico, di cui era molto orgoglioso, nonostante l’indifferenza con cui ne parlava.

    Aveva sofferto tanto che le sue facoltà di sopportazione erano molto affievolite. Era rimasto stranamente vivace e cordiale, quasi allegro, col suo bel colorito, il suo aspetto sano, i suoi occhi di un azzurro chiaro, splendenti e provocanti. Aveva spalle forti e larghe, mani possenti. Portava abiti costosi e bellissime cravatte di Bond Street. Tuttavia, sul suo volto appariva lo sguardo che spia, l’aria un po’ assente, propria degli invalidi.

    Era stato così prossimo a perdere la vita che ciò che gli restava era per lui straordinariamente prezioso. Si leggeva chiaramente nell’inquieto balenare dei suoi occhi l’orgoglio di essere ancora vivo dopo una simile avventura. Ma era stato colpito in misura tale che qualcosa era morto in lui; alcuni suoi sentimenti erano svaniti; una parte del suo essere era rimasta in qualche modo insensibile.

    Constance era una bella donna sana e fresca, dai capelli morbidi e scuri, dal corpo solido, dalle movenze lente, piene di una energia non comune.

    Aveva grandi occhi attoniti, una voce dolce e melodiosa, e sembrava appena uscita dal suo paese natio. Invece non era così. Suo padre, il vecchio Sir Malcolm Reid, membro dell’Accademia di Pittura, aveva avuto la sua ora di celebrità. Sua madre era stata uno dei più colti membri della «Fabian Society»,{1} in quei bei tempi un po’ preraffaelliti. Fra artisti e socialisti colti, Constance e sua sorella Hilda avevano ricevuto un’educazione che si potrebbe definire «esteticamente senza convenzioni». Erano state condotte a Parigi, a Roma, a Firenze, perché respirassero in un’atmosfera d’arte: ed erano state condotte anche altrove, a L’Aia e a Berlino, ai grandi congressi socialisti in cui gli oratori parlavano tutte le lingue dei popoli civili, e in cui nessuno si meravigliava di nulla.

    Così le due ragazze, fin dalla loro infanzia, erano vissute a loro agio fra le teorie artistiche e speculazioni politiche. Erano allo stesso tempo cosmopolite e provinciali, di quel provincialismo cosmopolita che contraddistingue l’arte quando si allea a un puro ideale sociale.

    A quindici anni erano state inviate a Dresda per studiare, fra le altre cose, la musica. E vi si erano molto divertite. Lì vivevano liberamente fra gli studenti, discutevano di filosofia, sociologia e arte con gli uomini. Esse valevano quanto gli uomini; valevano anzi più di loro, perché erano donne. Andavano a ballare nei boschi con robusti giovanotti che suonavano la chitarra. Cantavano canzoni del Wandervogel; erano libere! Libere! La grande parola! Libere di girare il mondo, di correre nei boschi in compagnia di vigorosi ragazzi dalle voci gradevoli, libere di fare ciò che volevano, e, soprattutto, di dire ciò che volevano. Era la conversazione che contava di più, l’appassionato scambio delle parole! L’amore non era che una specie di accompagnamento musicale.

    Hilda e Constance avevano entrambe conosciuto l’amore prima di compiere i diciott’anni. I giovani coi quali parlavano con tanto piacere e cantavano con tanta allegria e sostavano sotto gli alberi con tanta libertà, desideravano, naturalmente, di spingersi oltre. Le due ragazze esitavano; ma avevano tanto parlato d’amore, giudicandolo una cosa di primaria importanza! Perché negare il dono di se stesse?

    Si erano date, così, ciascuna al giovane col quale le discussioni erano state più sottili, più intime. Discutere era la cosa più importante: l’amore, i rapporti carnali, non erano che una specie di ritorno all’istinto, una specie di reazione. In seguito, cominciarono ad amare un po’ meno il loro amico, ebbero anzi una leggera tendenza a detestarlo, come se avesse profanato un’intimità segreta, una libertà proibita. Perché tutta la dignità di una ragazza, tutto il suo significato nell’esistenza, non consisteva che nella conquista di una libertà pura, nobile, perfetta. Che significato poteva avere la vita di una ragazza senza la ribellione alle antiche e avvilenti relazioni fra i sessi, all’antica e avvilente sottomissione?

    Per quanto si cercasse di mobilitarla con una maschera di sentimentalismo, la questione sessuale rimaneva una delle relazioni, una delle soggezioni più antiche e avvilenti. I poeti che l’avevano glorificata erano sopratutto uomini. Le donne avevano sempre saputo che c’era qualcosa di meglio, qualcosa di più alto. E ora lo sapevano con maggior precisione che mai. La bella e fiera libertà della donna era superiore a qualsiasi specie d’amore sessuale. Per sfortuna, il punto dì vista degli uomini era così arretrato! Si ostinavano come cani a pretendere l’atto sessuale.

    E la donna era costretta a cedere. L’uomo era come un fanciullo pieno di appetiti. Se la donna non cedeva, faceva il bambino, si rendeva insopportabile e se ne andava, rovinando un’intimità che avrebbe potuto essere così piacevole. Ma la donna poteva cedere all’uomo senza sacrificare il proprio io, profondo e libero. I poeti, le persone che parlano d’amore, non sembra che ne abbiano tenuto debito conto. Una donna può concedersi a un uomo senza abbandonarsi veramente. Anzi, può compiere l’atto sessuale proprio per conquistarsi un ascendente sull’uomo. E non deve fare altro che trattenersi durante l’atto fisico, lasciare che l’uomo finisca e si abbandoni, senza provare piacere anche lei. Ma può anche prolungare l’amplesso e arrivare fino allo spasimo servendosi di lui come di un semplice strumento.

    Quando scoppiò la guerra e dovettero tornare in patria in fretta e furia, le due sorelle correvano entrambe la loro avventura d’amore. Nessuna aveva mai amato un compagno senza essersi sentita vicina a lui nelle idee: esse avevano bisogno di conversazioni attraenti. Il profondo, straordinario, incredibile interesse che c’era nel discutere appassionatamente — per ore, giorni, mesi — con un giovane veramente intelligente... ecco quel che non avevano mai potuto immaginare prima di provarlo! La promessa paradisiaca: «Tu avrai degli uomini coi quali potrai parlare», non era mai stata formulata; eppure era stata mantenuta prima che avessero potuto capire il suo vero significato.

    Poi, nell’intimità che quelle vive e salutari discussioni avevano ingenerato, bisognava rassegnarsi all’inevitabile atto sessuale, che segnava la fine di un capitolo, ed era anche appassionante in se stesso: una strana, vivida vibrazione nel profondo dell’essere, uno spasimo finale contenente un’ affermazione della propria personalità come l’ultima frase di un’accesa discussione, simile a quelle serie di puntini che si mettono talvolta in fondo a un paragrafo per metterne in rilievo la conclusione, e che indicano una sospensione nella trattazione dell’argomento.

    Quando le due ragazze tornarono a casa nel 1913 per le vacanze estive, il padre si accorse che avevano avuto la loro avventura d’amore, Hilda aveva allora vent’anni e Connie diciotto.

    L’amour avail passé par la,{2} come ha detto qualcuno. Ma poiché anch’egli era incline a correre avventure di tal sorta, lasciò che la vita seguisse il suo corso. La madre, poi, oppressa da una malattia nervosa e prossima alla morte, non desiderava altro che le figlie fossero «libere», potessero «essere se stesse». Lei non aveva mai potuto «essere completamente se stessa»: questo dono le era stato negato. E Dio sa perché, se volontà e fortuna non le erano mancate. Naturalmente, dava la colpa al marito. Ma la causa andava piuttosto cercata in un’antica idea di autorità che gravava sul suo spirito o sulla sua anima, e di cui non era riuscita a liberarsi. Sir Malcolm non c’entrava: egli permetteva alla moglie nervosa, ostile, battagliera, di badare ai fatti suoi, mentre egli badava ai propri.

    Così le due ragazze erano «libere». Ritornarono a Dresda, alla loro musica, alla loro università, ai loro compagni. Ognuna amava ed era amata con tutta la violenza di un’attrazione intellettuale. Tutte le belle cose che i giovani pensavano, esprimevano, scrivevano, le pensavano, le esprimevano e le scrivevano per le loro amiche. Il giovane amante di Connie era musicista: quello di Hilda ingegnere. E non vivevano che per la propria amica, almeno per tutto ciò che riguardava lo spirito e i movimenti dello spirito. Quanto al resto, essi erano persino un po’ sgraditi: ma non se ne accorgevano.

    Anche su di loro (lo si vedeva chiaramente) «era passato l’amore»: o meglio, l’esperienza fisica dell’amore. L’amore fisico opera sul corpo degli uomini e delle donne una curiosa, sottile, ma innegabile trasformazione. La donna fiorisce, ingrassa leggermente, le sue acerbità maturano: assume una espressione di ansietà o di trionfo. L’uomo diventa più tranquillo, più posato: la stessa forma delle spalle e delle reni appare meno angolosa, meno netta.

    Nel turbamento prodotto nel profondo del loro corpo dall’atto fisico, le due sorelle corsero il rischio di soccombere alla strana possanza del maschio: ma si ripresero in tempo, attribuirono all’atto fisico il valore di una semplice sensazione, e salvarono la loro libertà. Mentre gli uomini, per gratitudine verso l’esperienza fisica loro concessa, donarono una particella della loro anima: dopo di che essi somigliarono un po’ a quel tale che perde uno scellino e trova sei pence. L’amico di Connie aveva una spiccata tendenza alla musoneria, quello di Hilda al sarcasmo. Ma gli uomini sono così: ingrati e sempre insoddisfatti! Quando le donne si lasciano prendere, le criticano perché si lasciano prendere: quando poi le donne li lasciano, le criticano ugualmente per qualche altra ragione, o anche senza ragione alcuna. Sono dei bambini scontenti che nulla può soddisfare, qualunque cosa la donna tenti di fare.

    Così stando le cose, scoppiò la guerra. Hilda e Connie tornarono presto a casa loro, dove erano apparse anche a maggio per i funerali della madre. Prima del Natale del 1914 i loro due amici tedeschi erano già morti: esse li piansero con sincero dolore, ma li dimenticarono presto, come se non fossero mai esistiti.

    Le due sorelle vissero nella casa del padre, o, più esattamente, della madre, a Kensington. Frequentarono i giovani circoli di Cambridge, quelli che ostentavano la «libertà», i pantaloni di flanella, le camicie dal collo aperto, e una specie di superiore anarchia dei sentimenti, una voce che mormora e sussurra, un’artificiosa maniera di essere ipersensibili. Hilda sposò ben presto un uomo di dieci anni maggiore di lei, un membro più anziano dello stesso circolo, un uomo piuttosto ricco, in possesso di una tradizionale carica di famiglia ben retribuita dal governo, e che scriveva anche saggi filosofici. Hilda andò ad abitare con lui in una piccola casa di Westminster e frequentò quel ristretto ambiente governativo che non è proprio in cima alla scala sociale, ma è, o vorrebbe essere, la vera forza intellettuale della nazione: gente che sa quello che dice, o si comporta come se lo sapesse.

    Connie trovò una comoda occupazione di guerra e frequentò gli intransigenti portatori di pantaloni di flanella di Cambridge, i quali fino a nuovo ordine ridevano di tutto. Il suo «amico» era Clifford Chatterley, un giovane di ventidue anni, rientrato in fretta da Bonn, dove era studente di ingegneria mineraria. Prima aveva frequentato Cambridge per due anni. Allora era tenente in un reggimento elegante, per potere, in divisa, beffarsi meglio di tutto.

    Clifford Chatterley era, nella scala sociale, superiore a Connie. Connie apparteneva alla ricca borghesia intellettuale: lui all’aristocrazia, non alla grande aristocrazia, ma sempre aristocrazia. Suo padre era baronetto; sua madre, figlia di un visconte.

    Ma Clifford, pur essendo meglio educato e più «uomo di mondo», appariva però più provinciale e più timido di Connie. Nel «gran mondo» ristretto dell’aristocrazia terriera si trovava a suo agio; ma era timido di fronte a quell’altro vasto mondo che comprende la massa della borghesia, del popolo e degli stranieri. Era anzi un po’ intimorito dalla media e bassa umanità, e da tutti gli stranieri che non fossero del suo rango: come paralizzato dalla consapevolezza di essere indifeso, benché potesse disporre della salvaguardia del privilegio di casta. Fenomeno curioso, caratteristico del nostro tempo.

    Ecco perché la sicura padronanza di una ragazza come Constance Reid gli faceva impressione: in quel caotico mondo estraneo ella poteva vivere molto più agevolmente di lui.

    Eppure, anche lui era un ribelle, perfino contro la sua stessa classe. Forse, però, «ribelle» è una parola troppo forte. Egli condivideva solamente quella generale repulsione, voluta dalla moda, per ogni sorta di convinzione e di vera autorità. I padri erano ridicoli: il suo, così ostinato, lo era al massimo grado. I governi erano ridicoli: il governo inglese, col suo opportunismo, lo era in modo particolare. Gli eserciti erano ridicoli, e particolarmente i vecchi generali, insulsi — e sopra ogni altro quel Kitchener così rosso in viso. Anche la guerra era ridicola, benché uccidesse non pochi uomini.

    Insomma, tutto era un po’ ridicolo, o molto ridicolo; e in ogni caso, tutto ciò che aveva attinenza con l’autorità costituita, sia nell’esercito che nel governo come nell’università, era ridicolo al massimo grado. Le classi dirigenti, poi, erano ridicole per il solo fatto che pretendevano di dirigere. Sir Geoffrey, padre di Clifford, era intensamente ridicolo nello zelo con cui faceva abbattere gli alberi e sradicare come erbe maligne gli uomini dalla sua miniera, per mandarli in guerra; ridicolo, in quanto era egli stesso così patriottico e lontano da ogni pericolo, benché per la patria spendesse oltre le sue possibilità.

    Quando Miss Chatterley, Emma, giunse a Londra dai Midlands per fare l’infermiera, prese bonariamente in giro Sir Geoffrey e il suo ostinato patriottismo. Herbert, il fratello maggiore, erede del titolo, ne rideva sinceramente, benché fossero i propri alberi che cadevano per fare pali nelle trincee. Clifford invece, un po’ a disagio, si limitava a sorridere. Certamente, tutto era ridicolo. Ma se, in definitiva, anche lui fosse colpito dal ridicolo…? Almeno, le persone di una classe diversa, come Connie, potevano essere serie in qualche cosa; credevano almeno a qualche cosa.

    Per esempio, prendevano sul serio i «Tommies»,{3} la minaccia della chiamata alle armi, il razionamento dello zucchero e delle caramelle per i bambini. Certo, in tutte quelle cose le autorità commettevano errori su errori. Ma Clifford non poteva preoccuparsene. Per lui te autorità erano ridicole in se stesse, e non per le varie questioni dei «Tommies» e dello zucchero.

    Le autorità si sentivano ridicole e si comportavano ridicolmente, e tutto sembrava, per un momento, in preda a una specie di follia. E poi, laggiù le cose andavano male, e la situazione era stata ristabilita per intervento di Lloyd George e i giovani che ridevano di tutto smisero di ridere.

    Nel 1916 Herbert Chatterley cadde e Clifford diventò l’erede. Questo fatto lo atterriva. Era così profondamente compreso della sua importanza di essere figlio di Sir Geoffrey e padrone di Wragby, che non poteva prescindere della sua nuova qualità. Eppure, sapeva che anche questo, agli occhi del vasto mondo vivente, era ridicolo. Ora egli era l’erede e il responsabile di Wragby. Non era terribile? Non era magnifico, e insieme, forse, perfettamente assurdo?

    Sir Geoffrey si rifiutava di riconoscere qualsiasi assurdità. Era pallido e magro, piegato su se  stesso e ostinatamente deciso a salvare il suo paese e la sua posizione personale, con Lloyd George o qualsiasi altro. Era così lontano, così separato da quell’Inghilterra che era la vera Inghilterra, così perfettamente incapace che approvava anche Horatio Bottomley, Sir Geoffrey parteggiava per l’Inghilterra e Lloyd George come i suoi antenati avevano parteggiato per l’Inghilterra e San Giorgio, e non capì mai che c’era una certa differenza. Così, Sir Geoffrey faceva abbattere alberi e viveva per Lloyd George e l’Inghilterra, per l’Inghilterra e Lloyd George.

    E voleva che Clifford si ammogliasse e gli desse un erede. Clifford capiva che suo padre era disperatamente anacronistico. Ma in che cosa egli stesso era più evoluto, fuorché in quel sentimento del ridicolo di tutte le cose e del ridicolo supremo della propria posizione? Perché volente o nolente, egli prendeva il suo titolo e Wragby molto sul serio.

    La guerra aveva perduto la sua allegra attrattiva, eliminata da tanti massacri e tanti orrori. Era necessario essere sostenuti e riconfortati, era necessario avere un’ancora in una terra solida; era necessaria una donna.

    I Chatterley, due fratelli e una sorella, chiusi insieme a Wragby, avevano vissuto singolarmente isolati nonostante la loro vita in comune. I vincoli familiari erano stretti, fra loro, perché tutti e tre sentivano la propria solitudine e la debolezza della loro posizione, ad onta del titolo e dei terreni o forse proprio per questo. Si sentivano estraniati dai Midlands industriali in cui vivevano. E si sentivano divisi dalla loro stessa classe sociale per il carattere difficile, ostinato e chiuso di Sir Geoffrey, di cui essi ridevano, ma di cui non ammettevano che altri ridessero.

    Avevano dichiarato che avrebbero sempre vissuto tutti e tre insieme. Ma ora Herbert era morto, e Sir Geoffrey voleva che Clifford si sposasse. Sir Geoffrey aveva appena formulato tale desiderio: parlava così poco! Eppure era difficile resistere all’insistenza muta e silenziosa di quella volontà.

    Ma Emma si oppose. Aveva dieci anni più di Clifford e sentiva che quel matrimonio sarebbe stato un tradimento verso tutto ciò che da ragazzi si erano ripromessi. Nondimeno, Clifford sposò Connie e trascorse con lei una luna di miele di un mese. Era il terribile 1917. La loro intimità fu simile a quella di due naufraghi su una nave che affonda. Clifford si era sposato ancora vergine; l’aspetto fisico del matrimonio non aveva grande importanza per lui. Erano così vicini per tanti altri motivi! E Connie era molto orgogliosa di tale intimità all’infuori del sesso, all’infuori della «soddisfazione» del maschio. Dal canto suo, Clifford teneva meno di tanti altri uomini a questa «soddisfazione». No, l’intimità era più profonda, più personale. L’atto fisico non era che un incidente, o un’aggiunta: una di quelle curiose funzioni organiche, le quali seguitano a sussistere volgarmente, pur avendo perduto il loro carattere di necessità ineluttabile. Nondimeno, Connie voleva dei bambini: non foss’altro per rafforzare la sua posizione verso la cognata Emma.

    Ma all’inizio del 1918 Clifford tornò dal fronte completamente distrutto. E nessun bambino era nato. E Sir Geoffrey morì di dolore.

    CAPITOLO II

    Connie e Clifford rientrarono a Wragby nell’autunno del 1920. Miss Chatterley, che ancora serbava rancore al fratello per la sua defezione, era andata a vivere a Londra in un piccolo appartamento.

    Wragby era una vecchia casa lunga e bassa, in pietra scura, iniziata intorno alla metà del diciottesimo secolo ma ampliata a successive riprese fino a diventare una costruzione senza stile. Era situata sopra un’altura, in mezzo a un bel parco circondato da antiche querce. Ma a breve distanza appariva la ciminiera di Tevershall con le sue nuvole di vapore e di fumo e, nello sfondo umido e brumoso della collina, il villaggio dì Tevershall, che iniziava quasi alla cancellata del parco e trascinava per un buon miglio la sua linea disordinata e volgare, di una bruttezza senza speranze: case, file di piccole case di mattoni misere e sporche, con tetti di ardesia per coperchio, angoli acuti, e una volontà di tristezza e di rinuncia.

    Connie era abituata a Kensington o ai monti della Scozia o alle dune del Sussex: quella era la sua Inghilterra. Con lo stoicismo proprio della gioventù ella misurò con uno sguardo la bruttezza assoluta, senz’anima, di quei Midlands di carbone e di ferro, e la allontanò da sé come una cosa incredibile, alla quale non si doveva pensare. Dalle tetre stanze di Wragby ella sentiva il rumore delle perforatrici e degli argani, lo stridore dei carrelli, il roco fischio delle locomotive. La miniera di carbone di Tevershall bruciava, bruciava da anni; ci sarebbero volute le migliaia per spegnerla: e perciò la lasciavano bruciare. E quando il vento soffiava da quella parte — il che accadeva spesso — la casa era piena del puzzo che quella sulfurea combustione degli escrementi della terra esalava. Ma anche nei giorni calmi l’aria aveva un vago sentore di sotterraneo: zolfo, ferro, carbone. E anche sulle rose di Natale il carbone ricadeva in piccolissimi fiocchi neri, manna di quei cieli maledetti.

    Tutto ciò non era piacevole, ma era fatale, come il resto! Non vi si poteva porre un riparo immediato. Era la vita, come tutto il resto! Sul basso soffitto delle nuvole notturne, delle macchie rosse bruciavano e oscillavano tumefacendosi come scottature dolorose: erano gli altiforni. Al principio Connie era stata attirata come da una specie di orrore: poi si era abituata. E, la mattina, pioveva.

    Clifford ostentava di preferire Wragby a Londra. Il paese aveva una specie di cupa ostinazione, e gli abitanti un forte appetito. Connie si chiedeva se avessero qualche altra cosa; ma, in ogni caso, né occhi né spirito. Gli abitanti erano selvaggi, informi e privi di attrattiva come il paese; e non avevano maggiore sensibilità. Solamente, nella durezza e nella confusione del loro dialetto, nel rumore delle loro scarpe chiodate che battevano sull’asfalto quando tornavano in gruppo dai pozzi, c’era qualcosa di terribile e un po’ misterioso.

    Nessuno era andato a ricevere il giovane padrone al suo ritorno. Niente feste, nessuna rappresentanza, nemmeno un fiore; nient’altro che una corsa umida in automobile attraverso gli alberi tristi, nel parco in pendio dove pecore grige pascolavano, fino alla collina su cui la casa stendeva la sua facciata scura, e dove la governante e il marito aspettavano, pronti a balbettare il loro benvenuto.

    Tra Wragby Hall e il villaggio di Tevershall non c’era nessuna coesione; né saluti né riverenze. I minatori si limitavano a guardare fissamente; i negozianti si levavano il berretto davanti a Connie come davanti a una conoscenza qualunque; salutavano Clifford col capo, con l’aria imbarazzata: ed era tutto. Un abisso insormontabile; e, da entrambe le parti, una specie di sordo rancore. All’inizio Connie aveva sofferto molto per quel continuo e freddo senso di ostilità che proveniva dal villaggio. Poi si era abituata; vi aveva anzi trovato una specie di tonico, qualcosa che dava un certo sapore alla vita. Non si poteva dire che lei e Clifford non fossero popolari; soltanto, erano di una razza ben diversa da quella dei minatori. Abisso incolmabile, divisione recisissima, quale non esiste forse a sud del Trent: ma nei Midlands e nel Nord industriale, abisso incolmabile, senza possibilità di passaggio dall’uno all’altro ciglio. Resta dalla parte tua, e io resterò dalla mia! Strana negazione della comune origine dell’umanità.

    In astratto, il villaggio simpatizzava per Clifford e Connie; ma nel fondo, tanto l’una quanto l’altra parte aspiravano a essere «lasciate tranquille».

    Il parroco era un simpatico vecchio di circa sessant’anni, ligio al suo dovere e personalmente quasi annientato dal silenzioso «Lasciateci tranquilli!» del villaggio. Le mogli dei minatori erano quasi tutte metodiste. I minatori non erano nulla di nulla; ma quell’uniforme ufficiale portata da lui bastava a renderli completamente ciechi davanti al fatto che era un uomo come tutti gli altri. No, lui era il «Reverendo Ashby», una specie di automa per predicare e pregare.

    Questa maniera ostinata, istintiva, di pensare sempre: «Se voi siete Lady Chatterley, noi riteniamo di valere quanto voi!» sorprendeva Connie e le procurava un certo turbamento; la strana amabilità, sospettosa e falsa, con cui le mogli dei minatori rispondevano ai suoi approcci; quella strana ostilità, quella nota che lei sentiva vibrare sempre nelle voci un po’ servili delle donne, quell’aria di dire: «Oh mio Dio, sono un personaggio importante; Lady Chatterley parla con me! Ma non è una buona ragione perché lei pensi che io valga di meno!» — tutto ciò era insopportabile. Non ci si poteva passare sopra. Era enormemente, terribilmente contrario alle regole.

    Clifford non se ne preoccupava affatto; e lei imparò presto a fare altrettanto: passava davanti ai paesani senza nemmeno degnarli di un’occhiata, e quelli restavano a guardarlo imbambolati come una statua di cera. Quando aveva a che fare con loro, Clifford assumeva modi un po’ altezzosi e sdegnosi; l’affabilità è una virtù di altri tempi. In realtà egli guardava sempre dall’alto in basso chi non era del suo rango. E manteneva le sue posizioni senza nessun tentativo di conciliazione. Non era né amato né odiato; faceva parte di un ordine di cose, come la miniera, o come Wragby stesso.

    Ma in realtà, da quando giaceva paralizzato, Clifford era divenuto molto timido; contrario a vedere la gente, salvo i suoi domestici personali, costretto com’era a restarsene seduto su una poltrona a rotelle o in una carrozzella. Tuttavia, i suoi sarti di grido lo vestivano sempre con la stessa cura; portava, come nel passato, le belle cravatte di Bond Street, e la sua persona conservava la perfetta eleganza di una volta. Non era mai stato uno di quei giovani effeminati che sono così frequenti al giorno d’oggi; era piuttosto un tipo di signore provinciale, con il bel colorito e le sue larghe spalle. Ma la sua voce calma ed esitante, e i suoi occhi audaci e allo stesso tempo timorosi, sottomessi ed incerti, rivelavano la sua vera natura. I suoi modi erano spesso ostili e arroganti: poi ridiventavano modesti, misurati, quasi timorosi.

    Connie e Clifford erano legati l’uno all’altra alla maniera moderna, mantenendo cioè le distanze. Profondamente abbattuto dal colpo che lo aveva reso invalido, egli aveva perduto la sua leggerezza e la sua disinvoltura. Era una cosa che soffriva. E perciò era molto caro a Connie.

    Ma lei non poteva non sentire quanto poco egli comunicasse con gli altri. I minatori, in un certo senso, erano persone a lui fedeli; ma lui li vedeva come degli oggetti piuttosto che come degli esseri, come parte dei pozzi piuttosto che della vita, come dei fenomeni volgari anziché come degli uomini simili a lui. In certo modo, ne aveva anche paura, e non poteva tollerare di essere visto da loro ora che era paralizzato. E la loro curiosa e volgare esistenza gli sembrava ben poco naturale, come quella dei ricci.

    Si interessava di loro ma da lontano, come se li vedesse con un microscopio o un telescopio. Non aveva nessun contatto con loro. Non aveva veri contatti con nulla o nessuno, salvo, per tradizione, con Wragby, e, per i legami di famiglia, con Emma. All’infuori di Wragby e di Emma, nulla lo interessava veramente: neppure Connie; e lei lo capiva. Forse, in fondo a lui, non c’era che la negazione di qualsiasi contatto umano.

    Tuttavia, Clifford dipendeva interamente da lei: aveva bisogno di lei in ogni momento. Per quanto fosse grosso e robusto, non poteva fare nulla da solo. Poteva andare e venite in una poltrona a ruote, e possedeva una carrozzella a motore per fare il giro del parco; ma da solo era perduto. Aveva bisogno della presenza di Constance per persuadersi di essere ancora vivo.

    Eppure, era ambizioso. Si era messo a scrivere novelle; novelle sulle persone che aveva conosciuto, ingegnose, strane, ciniche, personalissime e tuttavia misteriosamente prive di significato. Uno spirito di osservazione particolarissimo, straordinario; e tuttavia nulla che si potesse toccare, che avesse consistenza; tutto sembrava cadere nel vuoto. Come, ai nostri giorni, la vita è una scena illuminata artificialmente, così le sue novelle rispecchiavano lo spirito della vita moderna, o, piuttosto, della psicologia moderna.

    Come scrittore, Clifford era di una suscettibilità quasi morbosa. Avrebbe voluto che tutti trovassero buone, eccellenti, incomparabili, le sue novelle. Le riviste più moderne le pubblicavano: e, come accade, non mancavano né lodi né critiche. Ma per Clifford le critiche erano una tortura, pugnalate nella carne viva. Sembrava che tutto il suo essere fosse trasfuso in quei racconti.

    Connie lo aiutava come poteva. All’inizio si era molto interessata. Clifford le esponeva la trama con monotonia, con insistenza, con pedanteria; e lei metteva lutto il suo impegno nel rispondere, nel capire: come se tutta la sua anima, tutto il suo corpo, la sua stessa sessualità, si destassero ed entrassero nei racconti di Clifford. Il suo intelletto era completamente assorbito da quel processo creativo.

    La loro vita materiale contava ben poco. Lei sorvegliava l’andamento della casa. Ma la governante aveva servito Sir Geoffrey per lunghissimo tempo; quella creatura asciutta, di età indefinibile, estremamente corretta... che sì e no si poteva dire una cameriera, e forse nemmeno una donna... e che serviva a tavola, era in quella casa da quarant’anni.

    E anche le altre domestiche non erano più giovani. Una cosa insopportabile! Ma che fare, se non lasciar correre? Quella fila di camere di cui nessuno si serviva, tutto l’andazzo dei Midlands, quell’ordine meccanico, quella convenzionale pulizia! Clifford aveva insistito per avere una nuova cuoca, una donna esperta che lo aveva servito nel suo appartamento a Londra. Per il resto, la casa sembrava in preda a una metodica anarchia. Tutto era regolato da un ordine ineccepibile, da una rigida precisione, da una stretta puntualità, e anche da una rigorosa onestà. Eppure Connie giudicava tutto quell’ordine un’anarchia organizzata. Nessun calore di sentimento interveniva a conferire una profonda unità a quell’organismo. La casa sembrava triste come una strada solitaria.

    Che fare, se non lasciar correre? E Connie lasciò correre. Miss Chatterley veniva qualche volta, col suo viso magro e aristocratico, ed esultava perché nulla era cambiato. Mai avrebbe perdonato a Connie di averla esclusa dalla sua intima unione col fratello. Era lei, Emma, che avrebbe dovuto aiutarlo a scrivere i suoi racconti, i suoi libri: i «racconti Chatterley», qualcosa di completamente nuovo nel mondo, creato da loro, dai Chatterley. Fra tutto questo e il pensiero, l’espressione precedente, non c’era nulla di comune, nessun legame organico. C’era semplicemente qualcosa di nuovo nel mondo: i libri Chatterley, assolutamente personali.

    Il padre di Connie, quando veniva a fare qualche breve visita a Wragby, diceva alla figlia: «Quanto alla letteratura di Clifford, non si può negare che non sia sagace; ma, in sostanza, non c’è proprio nulla: non durerà molto...». Connie guardava il corpulento «Knight»{4} scozzese, che aveva saputo vivere così bene la sua vita, e gli occhi, i suoi grandi occhi azzurri attoniti, esprimevano la sua incertezza. «Non c’è proprio nulla!» Che voleva dire con quel «Non c’è proprio nulla?» Se i critici lodavano l’opera di Clifford, se il nome di Clifford era quasi celebre, se i suoi scritti gli fruttavano anche del denaro... Che voleva dire suo padre affermando che nella letteratura di Clifford non c’era nulla? Che voleva che ci fosse?

    Perché Connie aveva adottato l’opinione dei giovani: il presente è tutto, e la vita non è che una successione di momenti indipendenti l’uno dall’altro.

    Durante il suo secondo inverno a Wragby il padre le disse:

    «Io spero, Connie, che non consentirai alle circostanze di obbligarti a restare una demi-vierge».{5}

    «Demi-vierge?» rispose Connie vagamente. «Perché? Perché no?»

    «A meno che ciò non ti vada a

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1