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Da Circe a Morgana, scritti di Momolina Marconi
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E-book291 pagine4 ore

Da Circe a Morgana, scritti di Momolina Marconi

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Info su questo ebook

Studiosa tra le più sensibili e colte della koinè religiosa che si estendeva da Gibilterra all'India prima dei Greci e dei Romani, attraverso una serie di saggi che spaziano dalla Teogoniaesiodea alle saghe celtiche della maga Morgana, l'autrice ci restituisce "il perenne fascino emanato dalla grande dea mediterranea, della potnia, che nutre tutti quanti gli esseri presenti sulla terra e delle sue infinite manifestazioni femminee, esperte di arti magiche e salutari, con cui danno morte e vita, infermità e salute nel vasto regno della natura...".
LinguaItaliano
EditoreVenexia
Data di uscita24 set 2012
ISBN9788897688204
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    Anteprima del libro

    Da Circe a Morgana, scritti di Momolina Marconi - Anna De Nardis


    Da Circe a Morgana,

    scritti di Momolina Marconi

    A cura di

    ANNA DE NARDIS

    Venexia ringrazia la rivista Acme. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano per la gentile concessione a riprodurre gli articoli Mito e civiltà (IV, 1951, pp. 327-330) e "Il mito di Gaia nella Teogonia esiodea" (V, 1952, pp. 561-572) e il prof. Natale Spineto per i suoi consigli.

    Per questa riedizione critica di saggi in memoria di Momolina Marconi (1912–2006) Venexia rimane a disposizione per eventuali pendenze circa la liberatoria dai diritti.

    Traduzione dal greco di:

    Stefania Giosa

    Redazione del testo di:

    Giuliana Della Valle

    Immagine di copertina:

    Fanciulle danzanti ritratte su una metopa dell’Heraion

    alla foce del Sele, VI secolo a.C.

    Collana Le Civette – I Saggi

    A cura di Luciana Percovich

    ©2009 Copyright by Venexia

    Viale dei Primati Sportivi 88

    00144 Roma

    www.venexia.it

    INTRODUZIONE

    di Anna De Nardis

    La poetessa Saffo così invoca Afrodite:

    "Vieni, vieni

    (…)

    (perché già da tempo)

    dalla reggia del padre tutta d’oro

    venisti allora.

    Al giogo del tuo carro erano passeri

    belli: sopra la terra bruna ti portavano

    rapidi con un battito fitto d’ali

    – scia nell’aria, dal cielo".

    Questa preghiera, giunta a noi con le parole e le immagini di una grande poetessa, è una voce, solo più lirica di altre, di un ampio coro che possiamo ascoltare se prestiamo attenzione alle invocazioni e ai gesti che per millenni i popoli mediterranei hanno rivolto a una Grande Dea: Afrodite, pur venerata da Saffo come protettrice delle persone innamorate, non è che un aspetto, il più imprevedibile, forse, il più irrazionale di quel potente nume che governa la complessità della vita.

    Uomini e donne l’hanno venerata come Signora della Vita, elargitrice di fertilità e fecondità e guaritrice misericordiosa, Madre dell’umanità e di tutti i viventi, Signora del territorio della morte, Signora del cosmo e delle stagioni, Fonte di sapienza, protettrice di popolazioni e città (anche se il ruolo di dio tribale sembra più consono alle figure maschili).

    Possiamo immaginare che, come nei versi citati, le sue epifanie fossero una realtà nella vita spirituale di quelle genti.

    Esse l’hanno vista ardere nel cielo come pura torcia, (…) maestosa, possente e radiosa, o l’hanno udita come burrasca tonante, che fa tremare i cieli e scuotere la terra; accompagnata dall’urlo dei lupi e dei fieri leoni su monti pieni di echi e di selvose vallate (Inanna e l’omerica Dea Madre); moltiplicarsi di numero e danzare insieme dentro i gorghi profondi e sopra le acque… sul carro dei Tritoni… o intorno all’ampio dorso delle fiere selvagge che alimenta il mare (le cinquanta Nereidi); vestita di fiori e dai seni ricolmi, a cui d’attorno il mondo ben costrutto degli astri/per legge eterna si volve e con ritmo possente (Gaia, in un inno orfico).

    Perché la Dea è artefice perfetta, plasmatrice feconda, augusto nume che in tutto si effonde, ciclica, e mutando forma si rinnova (la Natura, in un inno orfico).

    Essa, il popolo che le sfila dinanzi, cattura col suo sguardo e assoggetta al suo sacro giogo: (Inanna). E il fedele di Isˇtar recita:

    Il tuo ordine, o I_tar, è luce

    (…)

    Se porto il tuo giogo, tu mi concedi la pace.

    Perché la Dea risolve le contese tra i popoli, dispensa la sua grazia mostrando compassione (dea del Sole di Arinna), di tutte le opere si prende cura per dare a tutti gli uomini vita ed equità, libera dalla guerra le città e tutti i cittadini (Iside).

    In seguito all’affermarsi dell’ordine patriarcale, ridotta a ruoli parcellizzati e subalterni agli dèi tribali, diventati ormai onnipotenti, combattuta dalle religioni monoteiste, impotente di fronte agli sconvolgimenti sociali che i grandi imperi hanno prodotto, la Dea si è progressivamente ritirata in luoghi periferici e impervi, ma ha continuato a parlare attraverso le favole, le leggende, i culti popolari.

    La sua voce non è rimasta inascoltata, se lo gnostico Marco invoca la Madre come Grazia:

    Possa Colei che è prima di ogni cosa,

    l’incomprensibile e indescrivibile Grazia,

    riempirti dentro e accrescere in te la sua propria conoscenza¹.

    se una mistica medievale come Ildegarda di Bingen inneggia alla

    verde nobilissima forza vitale

    che hai radici nel sole

    (…)

    che nessuna altezza terrena contiene,

    tu sei circondata dall’amplesso dei divini misteri²…

    se le streghe hanno strenuamente difeso il culto della loro Signora, se il medico filosofo e mago Paracelso si narra sia andato a cercare la sapienza custodita dalle sacerdotesse della nordica dea Volupsa.

    Neanche il pensiero positivista e scientista ha potuto cancellare la sua memoria e oggi la Dea, che mutando forma si rinnova, sembra riemergere nel bisogno di un principio femminile, espresso attraverso le mille voci della teologia femminista, ma soprattutto nella ricerca di una visione cosmica che aiuti a ritrovare sintonia con i fenomeni naturali e amicizia con tutti gli esseri viventi.

    In Italia la riscoperta del culto della Dea è avvenuta inizialmente nel secondo filone di ricerca, grazie all’apertura che questo ha manifestato verso le culture non industrializzate, e si è a volte intrecciata con l’impegno femminista nella gestione della salute psicofisica delle donne. Solo in epoca più recente gli studi si sono sviluppati autonomamente nell’ambito specifico della storia delle religioni, grazie anche alla diffusione di scoperte archeologiche, in particolare degli studi di Marija Gimbutas.

    Si osserva una cesura rispetto agli studiosi della prima metà del ‘900; tra questi, va ricordato il gruppo che ha lavorato presso l’attuale Università Statale di Milano per le grandi innovazioni che ha portato allo studio delle antiche religioni dell’area mediterranea.

    Per cause che sono ancora da chiarire, sono rimasti in ombra anche i lavori della docente Momolina Marconi, succeduta al maestro Uberto Pestalozza nella cattedra di Storia delle Religioni della suddetta università, che ha ricoperto per numerosi anni continuando e arricchendo l’opera del predecessore che aveva portato alla luce quella che essi hanno chiamato religione mediterranea.

    La mancata pubblicazione, da parte della studiosa, di raccolte dei suoi saggi, la disattenzione, durante alcuni decenni, dell’editoria italiana verso le opere del caposcuola Uberto Pestalozza sono giustificazioni parziali e insufficienti riguardo alla sottovalutazione che la cultura italiana ha mostrato nei confronti di questi pionieri che, in contatto con personalità di rilievo internazionale, come Mircea Eliade, Karl Kerényi e Jane Ellen Harrison, hanno riportato alla luce, soprattutto attraverso scavi di tipo letterario e filologico, la realtà, sepolta sotto la letteratura classica, di un culto millenario che presenta aspetti comuni in tutte le regioni bagnate dal Mediterraneo, nella Mezzaluna Fertile, fino all’Indo.

    Seguendo il metodo di lavoro del caposcuola Pestalozza, ostinato assertore di quel sostrato che lievitò di sé le antiche civiltà – e dunque le religioni – testimoniate dalla penisola alle rive dell’Indo e del Gange, e che a specchio del Mediterraneo ebbero il massimo fiorire³, indagine che si basava sulla scrupolosa raccolta di ogni possibile documento in qualsiasi campo che abbia diretta o indiretta attinenza con la storia delle religioni⁴, collaborò con lui a dissotterrare le radici arcaiche di miti e culti recepiti dalla cultura indoeuropea, spesso in netto contrasto con la linea andocratica che pervade la loro rielaborazione: l’attenzione maggiore è rivolta ai Greci, ma sono significative anche le ricerche sulle testimonianze lasciate dalle popolazioni italiche.

    L’apporto, a nostro avviso più significativo, di Momolina Marconi, al di là della ricchezza dei contenuti, che esamineremo nel dettaglio dei singoli saggi, è aver restituito luminosità e spessore alla Signora, la cui potenza, unica, tutto il mondo onora sotto varie forme, con diversi riti e differenti nomi, seguendo le tracce della sua presenza nelle terre che hanno assistito alle sue epifanie, fino a renderci partecipi dei sentimenti religiosi delle genti che l’hanno venerata. Possiamo ritrovare nella compagna di ricerca⁵ l’impegno consapevole che lei attribuisce a Pestalozza di ridarci vivi i fatti religiosi – pur nella severità dell’indagine storica – proprio perché vivi nell’animo dei fedeli di qualsiasi tempo o latitudine⁶.

    Rileggendo con attento occhio femminile gli antichi miti, essa ci ha lasciato una chiave interpretativa che ci permette di ristabilire un contatto con quelle radici che la storia patriarcale dell’Europa ha tentato di oscurare.

    La raccolta che presentiamo è stata selezionata seguendo principalmente l’idea di offrire alle lettrici e ai lettori una ricostruzione dei culti arcaici che possa parlare alla sensibilità odierna e possa arricchire il cammino di una rinnovata alleanza con la Madre Universale, dea della Natura e della spiritualità.

    ¹ Ireneo, Adv. Haer., in E. Pagels, I vangeli gnostici, Mondadori,

    Milano 1981, p. 102.

    ² Citazione che fa parte del materiale usato da M. Pereira durante la conferenza Natura e simbolo nelle opere di Ildegarda di Bingen, Liceo Ginnasio Enea Silvio Piccolomini, Siena, a.s. 1999-2000.

    ³ M. Marconi, Ricordo di un maestro: Uberto Pestalozza, in Acme. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, 20, 1967, p. 9.

    Ibidem; risultato importante dell’applicazione di questo metodo si può ritenere una delle prime opere di Momolina Marconi, Riflessi mediterranei nella più antica religione laziale,Principato, Messina-Milano 1939.

    Mitforscherin; U. Pestalozza, I miti della donna-giardino, edizioni Medusa, Milano 2001, p. 130.

    ⁶ M. Marconi, Ricordo di un maestro, cit., p. 13.

    CAPITOLO I

    INTRODUZIONE

    Nell’articolo Ricordo di un Maestro: Uberto Pestalozza (1967), Momolina Marconi manifesta rammarico per non aver potuto ancora concludere il commento alla Teogonia di Esiodo, impegno che allora sentiva come parte del ricambio che gli doveva come allieva.

    Abbiamo scelto di iniziare la nostra rassegna dei lavori della studiosa proprio con alcuni esempi di suoi scritti dedicati alla trattazione della Teogonia: il mito di Gaia, in cui mette in luce la personalità della Genitrice universale, la prima voce oracolare che governa l’avvicendarsi delle generazioni sacre. È un’occasione per inferire, da una storia ben circostanziata, la natura del potere esercitato dalla Signora divina, così come l’ambiente ginecocratico mediterraneo l’ha elaborato.

    A seguire, L’assassinio di Uranos dove, a partire dalla ricerca sull’origine di quel mito, Momolina Marconi offre alcune riflessioni sul potere della sessualità, intesa come espressione della vita che appartiene alla sfera del sacro, perché, come afferma Pestalozza la sessualità è fra i mediterranei (…) una diretta manifestazione del sacro nella vita del mondo⁷ e ha il potere, quando viene esercitata ritualmente, di aprirsi a una dimensione cosmologica: una solidarietà mistica la lega a tutte le altre forze creatrici, che vivificano e rinnovellano il cosmo⁸.

    E il lungo saggio Le spose di Zeus, tratto dalle lezioni tenute durante l’anno accademico 1967–1970, tenendo conto dell’importanza che lei attribuiva a questo lavoro, ma anche per altre ragioni.

    La prima è fornire un documento della sua attività didattica, che testimonia il rigore e la passione che hanno guidato tutti i momenti della sua attività. (Interessante è la materia, era solita ripetere, quando manifestavo apprezzamento per i suoi studi.)

    La sua introduzione metodologica a Le spose di Zeus è una sintesi esemplare di teoria e vita vissuta, di modelli interpretativi e contenuti. È infatti sempre presente la connessione tra il mito e l’ambito da cui scaturisce, tra il tempo del mito e il presente. In particolare, nella descrizione dei miti agiti, sono mostrati i riflessi che tali miti hanno avuto nell’operare quotidiano; in tal modo, questo acquista senso in relazione a loro e viceversa.

    La seconda ragione della scelta è la ricchezza di temi che il saggio presenta, che verranno ampliati in articoli specifici. Così possiamo già vedere una caratterizzazione della Potnia, la Signora che i mediterranei hanno conosciuto con nomi diversi, ma a cui hanno attribuito analoghe prerogative: innanzitutto l’autonomia generativa, che trova una successiva espressione nel potere di donare fecondità anche di dee considerate vergini in epoca più tarda; poi, il dominio sul mondo vegetale e animale, per cui quasi tutte le dee sono pharmakides e molte hanno il potere di assumere forme non umane o di trasformare gli umani in animali o piante; infine, l’unione consanguinea che, aborrita dai Greci, trova un posto primario nei racconti più antichi, ma è presente anche nella loro mitologia.

    Quando l’autrice scrive che il mito è carico di passato e pregno di futuro, è bene riflettere che la materia da lei indagata si riferisce al nostro passato, a quello più remoto e ai passaggi successivi, di cui vengono messi in rilievo sia gli elementi di rottura che quelli di continuità. Così, nella Teogonia si può vedere uno Zeus che deve raggiungere la pienezza del potere mentre intorno a lui grandeggiano dee immortali che hanno un regno loro proprio, di cui appropriarsi in qualche modo: un aspetto dell’affermazione patriarcale su un precedente sistema di valori espressi da una società matrifocale e matrilineare.

    IL MITO DI GAIA NELLA TEOGONIA ESIODEA

    da Acme. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano,vol. V, fasc. 3, 1952

    Rileggere un testo di mitologia significa, oggi come allora, rifare attuale il mito. E in tal senso appare specialmente preziosa la Teogonia di Esiodo, che di miti è tutta intessuta.

    Senza la parola evocatrice, senza il gesto creatore di un dio, fu il Chaos, e poi fu Gaia: gli dèi ancora non erano nati. L’alternanza protista prima, epeita dopo percorre le ere, o l’attimo atemporale, nel brevissimo giro d’un verso e mezzo.

    Chaos appare senza contorni; Gaia è già eurysternos dal largo seno, intesa come salda sede, hedos asphales, degli dèi immortali, che del resto verran fuori da lei. Terzo Eros, l’amore che non ama, forza terribile che smarrisce le pene, ma anche gli accorti consigli (vv. 120-123).

    Cahos, dopo avere espresso da sé due creature, Erebos e la Notte negra, resterà, inimmaginabile, senza più storia. Quanto invece sia ricca e complessa quella di Gaia, Esiodo ha messo in luminoso rilievo.

    Genitrice per eccellenza, essa dà vita innanzitutto a Uranos gremito di stelle¹ (v. 126 ss.), simile a sé, ison heautei, perché tutta la coprisse, sede anche lui, dopo sua madre, degli dèi immortali; poi dà la vita agli alti monti e a Pontos, ater philotetos ephimeru senza l’aiuto del tenero amore (v. 132). Non segno questo di androginismo, ma di autonomia generativa: altra cosa è l’androginia, cioè la pienezza in sé, che non patisce di carenze o di eccessi, e quindi non soffre alternanze, ma è per sempre compiuta, proprio perché inesauribilmente satolla; altra è l’autonomia generativa, che non assomma per sempre gli aidoia le pudenda, ma esalta la matrice isolata. L’Androgine perpetua un incontro felice e quindi ignora il divenire della generazione; invece l’autonomia feconda non sa il valore del germe, e quindi il presupposto d’ogni pregnanza. Le quali due concezioni riflettono forse lo stesso stato culturale e, su per giù, si possono anche considerar coeve, sempre nell’espressione più pura del mito, in quanto è egualmente di primitivi e l’assillo della bisessualità e la incerta, svagata attribuzione della fecondità umana. Facciamo protagonisti di queste due esperienze personaggi divini, e noi avremo l’Androgine fermo in se stesso, e una qualsiasi Meter che, ater philotetos ephimeru senza l’aiuto del tenero amore, ha portato alla luce la sua creatura.

    Ma Gaia opera per sé codesta genitura: Uranos e Pontos saranno, dopo che figli, i suoi due paredri, secondo quella concezione mediterranea che vede nel figlio o nel fratello il compagno prediletto della dea. È appena il caso di rammentare qui la vicenda travagliata di Geshtin, sorella di Tamuz, o di Innini, la madre, che piangono, accomunate nelle lamentazioni² in morte del dio, l’amante perduto; o quella di Iside e di Osiride che le è fratello, e Horos, che le è figlio³ ; o quello di Ashtaru madre e sposa di Adon⁴ ; o di Anat moglie e sorella di Baal⁵ ; o finalmente di Kybele che è madre, se anche per interposta persona⁶, di Attis. Si tratta di esperienza primitiva? Certo sì, tenuto però conto che è altrettanto dei primitivi l’orrore per l’incesto; e le leggi esogamiche di quei grezzissimi popoli che sono gli australiani⁷ stanno a salvarli da venture deprecabili fra consanguinei (anche se i legami di sangue sian più lati e diversi, non rifacendosi alla famiglia ma al gruppo). D’altra parte gioca in queste mixeis che riuniscono gli opposti quella tendenza a esprimere il divino proprio attraverso una coincidentia oppositorum: la madre che accoglie come amante il proprio figlio, o la sorella che si lega d’amore al fratello saranno la rottura iniziale, rappresentata dalla istintiva divergenza che esiste appunto tra madre e figlio su piani digradanti o, sul medesimo piano, tra sorella e fratello⁸. È insomma, in forma più drammatica e intollerabile, la stessa coincidentia oppositorum che opera ogni coppia umana unita en philoteti in amore, «estremo sforzo per raggiungere un’unità originaria, perfetta»⁹. Unita in eterno divenire, e quindi feconda, e quindi solare, in netto contrasto con quella aprioristica e senza ansia e senza luce dell’Androgine, come una mixis eterna.

    Gaia dunque si unisce, e l’atto è paradigmatico, al figlio Uranos: (v. 132 autar epeita, Uranoi eunetheisa quindi appresso, unitasi a Urano: evidentemente è la sua iniziativa) e ne nascono Okeanos, Koios, Krios, Hyperion, Japetos, Theia, Rheia, Themis, Mnemosyne, Foibe, Tethys e Kronos; seguono i Ciclopi, poi i Centimani, crescendo pauroso di smisurate creature.

    A questo punto prende l’avvio la storia sacra, aggroppata e greve, che impegna la triade Gaia-Uranos-Kronos. Ne è davvero Kronos il protagonista, come vuole la tradizione? Vediamo.

    È nota la violenza bruta del padre che costringeva i figli nei penetrali di Gaia; la madre consumata di passione (v. 154 ss.) meditò l’inganno: dolien de kaken t’ephrassato tekhnen e così meditò un disegno astuto e malvagio. Lei dunque, e non Kronos, che porta tuttavia dalla nascita l’epiteto di ankylometes astuto (v. 137), tanto discorde dal suo mito, quanto gli è invece aderente il deinotatos paidon il più terribile dei figli, che subito segue; lei medita l’inganno; lei prepara l’arma esprimendo da sé, scoprendo quindi la massa di grigio ferro: aipsa de poiesasa ghenos poliu adamantos, teuxe mega drepanon in un baleno ella creò l’elemento del bianco diamante, fece una grande roncola (vv. 161-162); lei la prima carpentiera che il mito ricordi, anche se pochi versi prima (vv. 140-141) si è parlato dei Ciclopi forgiatori del fulmine per Zeus (che del resto ha ancora da nascere), anche se la storia sacra ambienta altre sue creature, Telchines, Dactyloi, Korybantes, in fucine ipogee.

    Le parole ch’essa rivolge ai figli sono di una brevità estrema (vv. 164-166), la concinnitas è tipica nel parlare divino, alternanti audacia e afflizione (eipe de tharsynusa, philon tetiemene etor e così disse prendendo coraggio, con l’animo affranto); la vendetta spicca dalla stessa crudeltà spietata del padre: proteros gar aeikea mesato erga per primo aveva infatti macchinato delle opere infami.

    Sull’idea della vendetta nel mondo mediterraneo il Patroni ha scritto pagine fondamentali¹⁰. Anche qui il bisogno, che nasce con l’offesa, di dare una giustificazione all’istintivo reagire. Quindi io non so se il proteros gar, con quel che segue, debba attribuirsi a uno scrupolo tutto esiodeo, o non sia già immaginabile sulla bocca di Gaia. Esiodo è qui il più spregiudicato e imparziale dei poeti, se ritma per i Greci e gli incesti divini e le gagliarde lotte senza quartiere di figli contro i loro stessi padri e le promiscuità umano-bestiali che trovano in Hera un’inaspettata protagonista¹¹.

    Lasciamo dunque a Gaia, che ordisce la vendetta, la naturale urgenza di giustificarla; il figlio farà sue quelle parole: proteros gar aeikea mesato erga per primo aveva infatti macchinato delle opere infami (v. 172), che lo svincolano di qualunque legame di sangue col padre. Così Gaia per prima pensa quella giustizia che sconta colpo con colpo.

    Le sue parole suonano grevi per i figli che rispondono col loro silenzio (v. 167). Soltanto Kronos, tharsesas, avendo cioè vinto la paura, promette di compier l’impresa; l’ultimo si distingue d’improvviso dai maggiori, la tradizione favolistica fino ai nostri giorni giocherà su questo scarto inatteso, e si impone per volontà di coraggio, tharsesas, da cui misuriamo, se pure c’è n’è bisogno in questo patente incalzare di dramma, la portata dei fatti divini. Kronos dunque si fa avanti e s’impegna; eppure non è ancora protagonista.

    Gaia ormai solo lieta, ghethese de mega phresi Gaia pelore e Gaia sconfinata gioì grandemente nell’animo (v. 173), nasconde lei stessa nell’agguato il figlio e gli pone in mano l’arma dagli acuti denti: dolon d’hupethekato panta e gli rivelò tutto il piano (v. 175). Il quale verso suggella l’opera della madre, colta a plasmare un’altra volta il figlio, solo per luce materna ankylometes. Scende bramoso d’amore Uranos, nykt’epagon ogni notte lo stesso incontro. Ma Kronos è in agguato e assassina, come la madre gli ha appreso, il padre immortale. Perché la Teogonia ignora la morte degli dèi; athanatoi son dette ad ogni momento queste creature divine che nascono «per sempre». Mentre la mitologia babilonese segna di morte gli dèi che han fatto il loro tempo¹², qui è un giocare di espedienti ingegnosi per mettere un fine a esseri che sono destinati a non morire. E Kronos uccide il padre immortale sopprimendone la virilità possente: la sua storia finisce in una gran chiazza di sangue¹³.

    Dopo il mito di Gaia, dramma greve, di corto affannoso respiro, quello di Rhea. Il tema è il medesimo: la maternità perseguitata, che salva con l’insidia la prole.

    La troppo facile critica, che vede in codesta ripresa un ricalco, cancella a mio parere il pathos dominante e l’uno e l’altro momento mitico. Vicenda dunque non imitata, ma ripetuta da capo, cioè rivissuta, cioè rifatta vera: ed ecco da capo l’ansia della madre, e la torbida usura del padre e l’inattesa vendetta dell’ultimo nato. Rhea patisce a suo modo l’esperienza di Gaia, così come questa aveva a suo modo presentito quella della figlia. Un fatto se mai merita d’esser rilevato: la presenza tuttora di Gaia, quanto istintiva e provvidenziale vedremo nel corso della storia divina.

    Certo nel mito di Rhea muove più sciolta e vivace; Gaia nel primo tempo della sua storia, lo vedemmo, prigioniera delle sue vastità (eurysternos) e gravata dal peso d’un paredro incombente, ha più voce che volto, ha più agilità di pensiero che di gesto; di Rhea seguiamo non i pensieri soltanto ma i passi di fuggiasca fino a Creta, Kretes es piona demon il ferace paese di Creta (v. 477), e più precisamente a Litto, dove una natura colorita è, più che fondale, diretta complice dell’azione; non l’anfratto senza nome, e quindi senza storia, senza sacertà di una parola, dove Gaia celò Kronos

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