Modus Operandi
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Intellettuali omosessuali cadono uno dopo l’altro, con la suggestione di un trauma infantile che aleggia sulle indagini condotte da un commissario di polizia, Paolo Gigli, conflittuato e nevrotico, appassionato d’arte.
Tra Caravaggio e gli splendori epopeici della città partenopea, Gigli sarà costretto a confrontarsi con il suo dolore per arrivare a cogliere una sfumatura di verità.
Modus Operandi è il quarto libro pubblicato da Mario Campanella, giornalista ed editorialista.
È la sintesi di una nemesi che analizza la grandezza di una città conosciuta in tutto il mondo e la sua tragedia quotidiana, metaforizzata da un sangue che ne coglie le suggestioni di catarsi e la voglia di abbandonarsi a se stessa.
Un giallo psicologico a metà fra la rievocazione e la decadenza che mette di fronte l’ambiguità dei confini divisori tra bene e male, tra devianza e “normalità”.
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Anteprima del libro
Modus Operandi - Mario Campanella
Pontiggia
Prefazione
Senza l’incentivo delle immagini e della quarta di copertina (di solito è quello che ci convince all’acquisto di un nuovo libro) ma con un titolo e un file di Word sul Vaio, ho cominciato a leggere senza troppo entusiasmo, per un compito al quale mi accingevo per spirito di amicizia. Bene, vi dico che arrivati all’ultima pagina del libro che avrete acquistato, alla fine sarete contenti di come avrete speso alcune ore di concentrata lettura.
Come ogni partenza che si rispetti, l’avvio ha le sue incertezze: qualche accenno di indecisione tra forma e contenuto, la tentazione di una sceneggiatura che abbia come quinte il Vesuvio e il molo Beverello e come colonna sonora una Napoli piena di frastuono, di gente e di musiche. E poi invece la scelta di allontanarsi anche dalla fine descrizione psicologica della commedia pirandelliana. Poi l’Autore trova la sua strada (si ri-trova, potremmo dire), il ritmo diventa incalzante, sulla scia della pressione dei media sulle indagini e la loro apparente inconcludenza. I personaggi prendono vita, una vita propria della quale l’Autore diventa sempre più un semplice testimone di cronaca, cronaca nera è vero, e sempre meno appare come l’artefice dei caratteri e delle loro vicende. Il racconto acquista quindi un sapore di verità che trascende la verosimiglianza della trama, dei dettagli che sorreggono il profilo del protagonista (il suo profumo preferito, le sue storie di sesso, il suo vagabondare nelle sue fantasie da intellettuale), la plausibilità e la coerenza degli indizi e delle prove dell’indagine, indagine psicologica prima che indagine di polizia. Il racconto diventa notizia a proposito di una serie di fatti raccontati senza infingimenti né pudori per la crudezza delle immagini, per il disgusto che alcune descrizioni suscitano in chi non è avvezzo alla frequentazione delle sale anatomiche. La notizia fedelmente esplora e dà testimonianza degli itinerari mentali che portano investigatori e profilers all’inseguimento dell’obiettivo ultimo: lo smascheramento del serial killer nel dipanarsi di un groviglio di perversioni mentali agite che analizziamo come crimine, anzi come una serie coerente di delitti.
Il rimando è alla letteratura russa di dostoijevskiana memoria, in un immaginario gioco degli specchi su un doppio registro ci troviamo a leggere e a riconoscere alcuni degli stessi meccanismi che armano la mano dei cattivi
nella mente di chi sta dalla parte dei buoni
: registro per fortuna fatto solo di emozioni e pensieri. Depositari questi ultimi, i buoni, degli elementi del giudizio e della necessaria punizione. Eppure in ciascuno di loro la consapevolezza di un certo grado di condivisione della banalità del male, seppure su ben altro registro, questo solo fatto di sguardi e di parole, magari taglienti come le lame dei coltelli affondati nelle carni delle vittime, ma pur sempre parole di un dialogo serrato dove si rincorrono le verità e le crudeltà di ciascuno.
E l’autore? Quanto vi è di autobiografico nel protagonista? Nel commissario Gigli l’autore vive la sua solitudine pur affollata di interlocutori che gli rimangono di fatto estranei e distaccati anche nella frenesia degli amplessi. Neppure il sesso lo distoglie dalla persistente solipsistica contemplazione di sé e del proprio mondo interiore. Un intellettuale, semplicemente modesto, prestato alla operatività pragmatica dell’investigazione criminale che tuttavia interloquisce alla pari, addirittura con qualche pretesa di superiorità con la psico-profiler e le sue teorie psicologiche.
Un intellettuale che, avendo dimestichezza con il teatro della crudeltà
di Artaud e con le sue follie numerologiche e non, sostenute dalla genetica delle malattie mentali e dall’effetto delle droghe, indugia con chirurgica precisione ad analizzare lo scempio sanguinolento del killer sulle sue vittime allo stesso modo con il quale noi lo immaginiamo indugiare nella descrizione degli intestini esposti nel rituale suicida del poeta giapponese.
E al lettore rimane l’amara sensazione di non potersi esimere dall’umana pietà per le vittime, ma anche per i colpevoli a loro volta vittime del male che li accomuna. La conclusione, inevitabile ma non scontata nella sua irrimediabilità che ha origini lontane nella storia dei protagonisti, ci fa tirare un sospiro di sollievo, come se in questo sospiro potessimo liberarci dell’angoscia che abbiamo condiviso. Pronti tutti per un’altra storia, un altro incubo del quotidiano.
Laura Bellodi
Preside Facoltà di Psicologia - Università Vita Salute
,
San Raffaele - Milano
Una grappa, solo una grappa secca, magari con un contorno di odori forti a delinearne la calma, piccola introduzione nello stomaco e a seguirne il flutto progressivo. Sì, ricordo che ogni qual volta c’era da prendere una decisione difficile bastava bere un solo bicchierino, di colpo o a strappo coito rubato a far tornare il coraggio…immaginavo allora che quel liquido defluisse lentamente nello stomaco attraversando dapprima la massa toracica, poi lo sterno e arrivando quindi nella gola dell’intestino e mi capitava di bere di proposito anche quando mi rilassavo fumando un Montecristo e leggendo Capote o Kerouac, quando ingurgitavo piccoli sorsi di erba aromatizzata nell’alcool.
Nulla è più rilassante che accompagnare le serate noiose con una buona lettura, divaricati come un loto maturo su uno schienale di stoffa, specie quando l’aria è così silente da godere del torpore altrui: appartengo, infatti, a quella genia rara che sa sconfinare nel turbinio delle sue emozioni senza averne particolare timore ed ho imparato a conoscere più che l’invidia il gusto della punizione. Sì, la punizione come conseguenza: tu sbagli ti punisco, io sbaglio mi castri, causa-effetto-causa.
Sono una sorta di oscillante temperamentale, non certo un ciclotimico nel senso stretto, più che altro un uomo che conosce il dolore e che quando si affaccia il profilo di una piccola gioia è portato ad ingigantirne gli effetti.
Se dovessi compilare un questionario, direi che non sopporto i gatti, le unghie laccate e il cubismo: se sembra un ossimoro mi spiegherò facilmente. I gatti mi danno ai nervi perché sono infidi e attirano la polvere. Li trovo spaventosamente feroci, come leoni abortiti e mi fanno anche inorridire quando rimangono sospesi nell’aria come rami sottili ed immobili.
Le unghie laccate sono una brutta pagina di modernità revanscista. Oggi vedo donne con unghie finte, alcune azzurre o gialle, che non sanno di essere vetuste con quelle enormità mostruose, che inducono a pensare cose poco seducenti.
Il cubismo mi inquieta e non lo trovo affatto interessante ed anzi mi piacerebbe conoscere dalla critica il senso di alcune posture artistiche incomprensibili, ermetiche perché non hanno nulla da dire.
Napoli mi piace perché ha una sua connotazione barocca e sanfedistica così distante da questa modernità declamata è una città, ma soprattutto mi pare l’ultimo rifugio sicuro.
…Eppure ho girato il mondo e conosco l’acre confusione di Hong Kong, l’ordine di Stoccolma, le asprezze di Madrid o di Istanbul, la bellezza profonda di Cartagena, una poesia d’amore mi rammenta la foresta nera alberata, con in mezzo i dirupi che superavo a 30 anni, quando il raptus della Germania mi colse d’estate. Avrei quasi preferito viverci in quella dimensione eterna, ricordando il dio Wotan e Wagner, l’aria nibelunga e la vacuità inferiore del mondo circostante.
Poi ho ripreso a vivere normalmente e oggi l’unica cosa che aborro profondamente sono gli auguri di circostanza. Mi fanno vomitare.
Per il resto sono un uomo abbastanza normale. Un uomo qualunque, che si lascia attrarre dal bene, come dal male, come da chi mi è stato sbattuto in faccia dal destino, spiegazione incarnata della vita, dirupo in cui si scivola via volendo sopra ogni cosa essere amati. Amati a ogni costo. E se non si può essere amati, essere ammirati. E se questo non accade, essere temuti. E se non si può essere temuti, essere odiati e disprezzati. Perché il cuore rabbrividisce di fronte al vuoto.
Paolo Gigli
Meditazione della vittima
Ora sto per intraprendere un viaggio. Un viaggio che attraversa il mondo per scovare il mio canto del cigno. Un viaggio che attraversa ogni stato e ogni forma della mia vita. Un viaggio che mi condurrà verso gli occhi del carnefice… allontano la scena del nostro incontro e posso vedere infine il mio io, fino alle porte della sua dissolvenza.
Giovanna Scerbanenco
INCIPIT
La brezza che taglia via Partenope è sulfurea e antica come una mandorla imbalsamata. D’estate c’è il sole, come a rintuzzare gli assalti dei turisti, ma la visione d’insieme che restituisce calore è proprio quando a Santa Lucia giunge il trionfo del tramonto e si aprono le candeline del promontorio, con il mare reso calmo dal porticciolo.
A Natale sembra veramente un Presepe illuminato, con il chiasso dei pescatori in dialetto e l’argine che si fa sempre più sottile con il lungomare imbandito che sta lì sospeso da una vita ad aspettare chissà cosa. Un concerto in movimento in un contorno di bella époque. Di fronte si ergono gli alberghi lussuosi, dove hanno dormito tutti i più importanti personaggi venuti a visitare la capitale nei secoli e finanche l’ultimo soggiorno di Enrico Caruso e la vigilia della Marcia su Roma, scandita, non a caso, dai ritmi di un soggiorno napoletano.
Paolo Gigli viveva lontano da quella bellezza, così che ogni tanto vi si sporgeva a prendere il sole, anche se l’attico di 40 metri dava le spalle a via Caracciolo e l’unica cosa ben curata era il terrazzo, grande il doppio della sua camera da letto con cucina. Era arrivato a Napoli da appena due mesi, un sogno che si avverava dopo sei anni di onorata carriera iniziata con il concorso di commissario vinto per meriti effettivi. Appena due anni a Pescara e quattro a Siena, dove aveva vissuto abbastanza bene, circondato dalle colline di San Gimignano, dal buon vino e dalla compagnia di Sara, un pezzo di donna notevole di 10 anni più grande, che lo aveva di fatto iniziato al piacere.
Dirigere la squadra mobile di un posto così importante era un tagliando decisivo per le sue ambizioni, che pure nascondeva dietro l’incedere di una vita ancora piuttosto disordinata, senza amori stabili e senza grandi sogni. La sua vita l’aveva vissuta adattandosi; figlio di emigranti siciliani, si era appropriato della tranquillità padana e aveva convissuto con quella sensazione perenne di amarezza che la vita gli aveva riservato facendogli perdere la mamma a quindici anni, uccisa senza un movente, senza una scena del delitto, senza una premeditazione, senza prove a carico o sospettati da braccare con il fiuto di un cane da caccia. Era successo senza alcun clamore, a Varese, una vita risucchiata in un attimo complice un pirata della strada che non era mai stato trovato.
Il padre non volle