Contatto: Percorsi attraverso la musica di un ascoltatore più o meno indipendente
Di Paolo Tosi
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Anteprima del libro
Contatto - Paolo Tosi
Springsteen
INDICE
Introduzione di Ernesto Assante
Oltre ogni possibile schema
Professione: ascoltatore
I Walkin’ Road
La musica per me
Regali dediche e geni
Manie giochi e sorprese
Riccardo
Ascoltare
Central station
Spionaggio
Categorie
I nostalgici
I nostalgici evoluti
Sentire non ascoltare
Papà
Fathers and sons
Connessioni
Arte?
Cultura?
Volta dopo volta
Guardare la musica
Saratoga Springs
Quella particolare volta
Mamma
Un comunissimo uccello
Indipendenti
La libertà di giudizio
Classifiche
Reazioni violente
Dove stanno i Beatles
Raccontarsi
Tutti i gusti son gusti
Chardonnay e Kylie Minogue
Ottanta
Ho capito tutto
Resi 1
Resi 2
Preferiti
Grammy
Che genere di musica ti piace 1
Che genere di musica ti piace 2
Pop orrore
Che genere di musica non mi piace
Dylan
Rapporti completi
Laura
Ale
Si sta bene
Cecilia
Jimmy
Tom Magicwriter
Once
Ti faccio un Cd
Simone
Tom vince il concorso
Tom va alla stazione
Quaranta
Ventinove anni, tre mesi e sei giorni dopo La musica delle parole
Vocoder d’annata
Le parole nella musica
Sorcini
Tom incontra Smile
Inni
Inferno e paradiso
La carne al sangue o ben cotta?
Manolo
Peso
Foglie e fogli
La musica omeopatica
Tom e Smile si cercano
Suggerimenti
Ricky
S.O.S.
La professoressa Sballandi
Paolo
Tom parte per un lungo viaggio
Associazioni
Lonesome day
Ciaccone rap
iPod 1
iPod 2
iPod 3
iPod 4
No woman no cry
Smile chiama Nina
Imagine
Giada
Smile e Nina nella baracca delle chiacchiere
Olivia
Stones 1967
Maria
Dreams
Ovunque
Lilly
This night
Tom torna a casa e chiama Smile
Crying
Aiuto
Voglio dimenticarmi chi sono e dove sono
Mangiamo?
INTRODUZIONE
di Ernesto Assante
Raccontare la musica. Provare a mettere insieme pezzi, ricordi, dischi, immagini, pensieri, passioni, suoni. Mettere in scena una vita, una vita che è stata accompagnata dalla musica, che è stata fatta di musica, che si è svolta al suono della musica. Scrivere un’autobiografia, anche se la vicenda da raccontare ad altri è apparentemente normale, con gli alti e bassi che tutti vivono, con gli aneddoti e le curiosità. Scrivere un blog, ma senza la rete, mettendo insieme pensieri uno dopo l’altro, partendo da spunti lontani, da frasi, personaggi e suoni. Paolo Tosi prova a fare tutto questo. Insieme. In un solo libro che è molti libri in una volta sola, che è un lungo, affascinante diario personale, che è memoria collettiva e storia.
Contatto è davvero, come dice il suo sottotitolo, un percorso attraverso la musica di un ascoltatore, un percorso che è quello dell’autore ma che, a ben guardare, potrebbe essere quello di chiunque di noi. Di chiunque un bel giorno nella vita ha deciso che i dischi sono parte integrante della vita, oggetti senza i quali non si può vivere. Di chiunque non riesce a passare una giornata, ma che dico, un’ora senza musica, senza canzoni, senza suoni che accompagnano sentimenti e sensazioni. Gente strana, davvero, che ama vivere con la colonna sonora sempre accesa, con la musica accanto al cuore, che è disposta a spendere tutti i propri risparmi per dischi, che se fa dei sogni ricorrenti, come scrive Tosi, sogna di entrare nel più grande archivio musicale esistente, pronta a partire e fare chilometri per vedere un concerto.
Contatto è un libro, un diario, un romanzo, una storia, è una mappa di suoni e colori, è una confessione pubblica di un appassionato di musica, una vicenda fatta di nomi, personaggi, luoghi, spesso veri, forse immaginari. Un libro diverso dagli altri. E proprio per questo, da leggere.
OLTRE OGNI POSSIBILE SCHEMA
Questo racconto non è nato e non è stato scritto con la velleità di essere un’autobiografia, e meno che mai un saggio o un romanzo. È piuttosto diventato col tempo un mix disordinato di queste tre cose perdendo così la capacità di assumere una forma definibile, tanto che sono sempre in difficoltà quando gli amici mi chiedono Hai scritto un libro? Che tipo di libro?
Pensandoci bene, questo risultato è solo la naturale conseguenza dello stato di discontinuità in cui brancolo da sempre e di una cronica resistenza a definire, schematizzare qualsiasi genere di argomento. Il racconto parla molto di questo, ed è un tentativo ambizioso di ridisegnare con un tratto un po’ meno visibile le linee troppo nette che segnano il confine fra la realtà e la finzione.
Utilizzando la musica a piene mani ho cercato di immaginare come sceglieremmo di passare il proprio tempo se non fossimo costretti semplicemente ad adattarci a una soffocante successione di schemi precostituiti che troviamo già pronti appena mettiamo la testa fuori dall’utero materno. Questo mondo confezionato in varie forme è quello che chiamiamo realtà, e le alternative a disposizione quando scopriamo di non trovarci bene dove siamo capitati, hanno tutte un’unica matrice: la fuga. Sono certo che quest’aspirazione attraversa seriamente i pensieri di ognuno di noi, almeno una volta.
Si può pensare di fuggire da una confezione all’altra cercando altrove una realtà differente, emigrando in luoghi diversi per culture, religioni, persone: dai condomini agli èremi, dalle città alla campagna, dall’entroterra al mare, dall’occidente all’oriente, o facendo gli stessi percorsi in direzione opposta. Si può pensare di fuggire con la testa, anche rimanendo sempre nello stesso posto, tramite la follia o il silenzio, le droghe o l’alcool. Si può progettare di fuggire senza meta, dubbiosi a ogni bivio, cercando e ricercando fino a che non si riesca a trovare uno stato più soddisfacente. Si può fuggire dalla vita stessa sparandosi un colpo in testa, che è come dire: scusate tanto ma tutte le forme che mi avete proposto non vanno bene per me.
Per far funzionare al meglio gli schemi, gli esseri umani hanno col tempo sempre di più delimitato i propri spazi. Tutto quello che è all’interno è controllabile, visibile, certo. È regolamentabile e più facilmente dominabile. In una parola, reale. Famiglie, società, categorie, cataloghi, generi, classifiche.
Sviluppare creatività diventa facile perché è sufficiente iniziare a fantasticare oltre i limiti segnati, cioè molto presto.
Ciò che è al di fuori degli spazi vigilati è considerato finzione, immaginazione, qualche volta usiamo perfino la parola astrazione.
In questo spazio senza più limiti possono navigare senza troppe regole folli e poeti, musicisti e scrittori, artisti e clown di ogni genere. Se sei lì dentro devi parlare in un certo modo, se sei fuori puoi esprimerti liberamente, puoi dire parolacce, puoi insultare, senza esagerare puoi anche mettere in discussione e criticare.
Superati a fatica alcuni blocchi morali, la censura è divenuta col tempo sempre più benevola di fronte alle opere d’arte, mantenendo il controllo sulla realtà. Dentro devi essere vestito in modo adeguato e devi avere tutto al posto giusto, se no come minimo fai schifo.
Fuori puoi avere un occhio in mezzo alla fronte e le tette dietro la schiena ed è possibile che qualcuno spenda una fortuna per averti appeso al muro di casa conciato così.
La musica è forse la forma più completa e più diretta che abbiamo a disposizione per tentare di ridisegnare i nostri confini dimenticando gli schemi.
Se ascoltiamo la musica scopriamo quasi subito che non ci sono soltanto i suoni. Ci sono i racconti e le emozioni, le poesie e i pensieri, le immagini e le forme, e se facciamo bene attenzione perfino i colori.
Scopriamo presto che quelle uniche sette note che ci sono state messe a disposizione sono in grado di liberare ogni forma possibile di espressione dentro a spazi illimitati.
I musicisti si allineano e disallineano a piacere, è solo una questione di talento. Possono scopiazzare o inventare, ispirarsi o interpretare, e sempre più raramente qualcuno riesce ancora miracolosamente a creare del nuovo, dopo che quelle sette note sono state per quasi un millennio eseguite sotto ogni forma di combinazione matematica possibile, probabilmente estraendo ormai tutti i suoni naturali e artificiali a disposizione. Forse nessun pennello, nessuno scalpello, nessuna penna o macchina da presa riuscirebbe a spaziare tanto liberamente, e la prova è che altre forme d’arte chiedono soccorso alla musica per estendere i limiti della propria espressione e rendersi più forti o più fruibili. Per chiamare con una parola le musiche da film gli anglosassoni hanno scelto soundtrack, accompagnamento sonoro. Gli italiani hanno invece optato per colonna sonora, tanto per essere chiari sul sostegno che la musica può regalare all’immagine. Provate a togliere le colonne sonore dai film e avvertirete una sensazione di vuoto, se non proprio quella di un crollo.
Ma la musica può fare ancora di più, può perfino aiutarci a rendere più emozionante la nostra corsa sulla terra se siamo capaci a entrare in questa galassia navigando senza gravità e certezze.
Possiamo provare a considerare la musica qualcosa di più di un sottofondo o di un’astrazione; ascoltandola bene sorprenderci di possedere sensibilità e immaginazione sufficienti a trascinare dentro di noi una parte della finzione trasformandola in realtà.
Questo racconto o questo percorso parla di questo, di come sia possibile innamorarsi della musica allineando l’ascolto all’ispirazione di chi l’ha scritta e suonata. Di come possa consentirci di rivoltare qualcuno dei tanti schemi e delle tante regole che ci siamo dati diventando adulti. Riuscendo forse a risolvere qualche dubbio e a sentirci un po’ meno sottomessi, magari anche a essere più felici.
PROFESSIONE: ASCOLTATORE
Non sono un musicista. Non ho mai progettato di imparare a leggere la musica perché non ho pensato un solo momento di possedere la necessaria pazienza per imparare a suonare in maniera decente. Avrei potuto saltare questo complicato passaggio e imparare comunque a suonare uno strumento a orecchio come fanno in tanti, ma non ho mai avuto pazienza in niente, se ci penso bene.
Se una cosa mi riesce facilmente dall’inizio vado avanti perché credo che imparerò a farla - e in questo caso riesco anche a dedicargli molto impegno - se invece mi sembra troppo complicata lascio perdere. La testardaggine fa parte di altre persone e mi dicono anche di altri segni zodiacali, non è una mia caratteristica e non sembra esserlo di quelli nati sotto il segno dei gemelli. Ho sensibilità e allenamento all’ascolto ma non ho un grande orecchio.
Sono abbastanza intonato ma non potrei dire di saper cantare o di avere una bella voce.
L’altro giorno non avevo nulla da fare e così ho fatto un rapido calcolo approssimativo di quante ore potrei avere ascoltato musica con attenzione e dedizione da quando sono nato. Utilizzando parametri di nessun valore statistico, ho calcolato a spanne che il totale è una cifra che può tranquillamente stare fra le trentamila e le quarantamila ore. Considerando che fino ad adesso di ore ne ho vissute più o meno cinquecentomila, di cui quasi un terzo dormendo, trovo che questo sia un numero importante, inteso come relativo o come assoluto.
Tutta quest’abitudine all’ascolto ha fatto sì che se conosco bene un autore spesso lo individuo anche se ha scritto per qualcun altro, e qualche volta per miracolo mi capita di riconoscerlo anche dentro arrangiamenti diversi dal suo stile abituale. Nella musica questo non è mai facile date le contaminazioni e le imitazioni che ci sono in giro.
Ho comunque imparato verso i diciotto anni gli accordi base per suonare un po’ la chitarra perché ero totalmente stregato dalla musica di Bob Dylan e perché provavo un certo gusto nel sentire me stesso cantare e suonare A hard rain’s a-gonna fall o Desolation row. Prima di abbandonare ogni velleità e fermarmi del tutto, ho anche imparato un complicatissimo giro (per me) di Hasta siempre comandante, che in una notte di agosto di mille anni fa suonai esitante e piuttosto ubriaco in un bar di Lipari. Accompagnavo alla chitarra la mia fidanzata Angela impegnata a cantare questa canzone - ancora più sbronza di me - davanti ad almeno venti/ventidue persone incredule ed entusiaste (di lei). E questa rimane a tutt’oggi la mia performance live di più alto spessore artistico.
In precedenza, quando io e mia sorella Resi eravamo molto piccoli, mio padre aveva tentato di farci imparare a suonare la fisarmonica, ma il professore che veniva a casa si capì quasi subito che aveva pulsioni neanche troppo vagamente pedofile sul lato etero, per dirla tutta ci provava con lei e ignorava me. Quasi subito disse che la bambina aveva un talento naturale per la musica, mentre il fratellino forse era meglio che si dedicasse ad altre attività (così sperava di rimanere da solo con Resi). Dopo la terza lezione venne cacciato di casa. Visto il soggetto, l’età e le circostanze, dal mio punto di vista posso dire che quella volta mi andò bene. Inoltre la fisarmonica non mi attraeva per niente e pensavo che per fare tre cose insieme con due mani bisognava essere mentalmente dissociati. Più tardi per casa deve essere transitata senza successo anche una tastiera, che a quell’epoca si usava chiamare pianola. Poi a un certo punto mio padre si è messo l’anima in pace e nessuno ha chiesto più a nessuno di imparare a suonare.
Ancora adesso una delle domande che sento spesso rivolgermi è: Visto che ti piace così tanto la musica, perché non ti compri un pianoforte? Il problema è che provo dolore quando sento qualcuno suonare male, figuriamoci se fossi proprio io stesso a farlo. Sarebbe come guardarsi allo specchio e prenderlo a testate. S’instaurerebbe un circolo vizioso di annullamento di autostima che mi porterebbe verso disturbi mentali incurabili. Ma no dai che ce la fai. No, non ce la faccio.
In effetti però non mi sarebbe dispiaciuto esibirmi se avessi avuto un minimo di talento musicale, la cui persistente assenza ha alimentato rammarichi sempre più impossibili da gestire. Con una certa soddisfazione all’asilo e durante i primi anni delle elementari a ogni martedì grasso mi facevano salire in piedi sul banco e, mascherato da Arlecchino o da Lucifero, cantavo i miei cavalli di battaglia Nel blu dipinto di blu e Vola Colomba Vola, facendo le mosse giuste davanti a una discreta platea di compagni di scuola, professori e genitori. Non deve essere stato male vedere un Lucifero alto un metro e venti che cantava ispirato rivolgendo suppliche a una colomba come Dille che non sarà più sola, diglielo tu che tornerò. Non so perché cantassi sempre solo io, ma ripensandoci adesso credo che gli altri compagni avessero un po’ più di dignità, o di vergogna. Nel mio caso invece l’ego già straripante consentiva di superare abbastanza agevolmente la paura da palcoscenico ed eseguire performance inascoltabili.
I WALKIN' ROAD
D’altra parte negli anni sessanta e settanta in ogni gruppo di amici c’era sempre qualcuno che sapesse suonare la chitarra. Le occasioni per cantare, almeno imbucati dentro a un coro, non mancavano mai. Dei nostri il più talentuoso fu senza dubbio Stefano, fondatore, chitarrista, cantante e indiscusso leader carismatico dei mitici e misconosciuti Walkin’ Road, nome ispirato a un tratto di lungotevere frequentatissimo da prostitute a basso prezzo dove era attraccato un barcone lercio e pieno di topi da trenta centimetri in cui i nostri inumiditi eroi provavano prima di sera.
Anche per tutti noi che andavamo sul barcone a sentirli suonare era molto più alto il rischio di prendersi una leptospirosi che un raffreddore.
In realtà io ci andavo spesso perché sapevo che ci avrei trovato Valeria. Qualche volta, specialmente durante l’inverno, dopo un paio d’ore che eravamo lì, l’umidità iniziava a frullarci le ossa e allora proponevo a Valeria di accompagnarla a casa. Quando ci salutavamo mi domandavo sempre se le piacessi o no, e se era il caso di farle capire in qualche modo che a me piaceva da morire.
Magari saltandole addosso. Fu quella un’ottima occasione per cominciare a capire che riflettere troppo sulle cose non è mai una