La felicità è un paese lontano
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Anteprima del libro
La felicità è un paese lontano - Stefano Poggioli
Pascal
Prologo
Adesso che la biologa del laboratorio di endocrinologia mi aveva consegnato il referto dello spermiogramma, non c’era più motivo di pensare che fosse stata troppo precipitosa o avesse usato toni eccessivamente allarmistici quando, quella mattina, mi chiamò per anticiparmi che c’era qualcosa che non andava nelle analisi.
Adesso che anche i successivi spermiogrammi, fatti a distanza di alcuni mesi l’uno dall’altro, avevano confermato che quasi tutti gli spermatozoi erano attempati, deboli e stanchi e se ne stavano fiaccamente seduti a osservare quell’esigua minoranza impegnata in una sorta di bizzarra danza circolare che neppure l’impresario scriteriato di un teatro polveroso del West End londinese avrebbe accettato di scritturare, non era più il caso di nutrire la fatua speranza che si trattasse di un banale incidente di percorso dovuto a una défaillance ormonale passeggera.
Adesso che anche il primario del reparto di urologia, dopo avere costatato che l’intervento al varicocele non aveva dato gli esisti sperati, concordava appieno sulla diagnosi effettuata del ginecologo di mia moglie, il quadro generale cominciava a delinearsi chiaro all’orizzonte.
Era arrivato il momento di fare i conti con la realtà: non potevamo avere figli. Per essere più precisi, era difficile che accadesse. Molto difficile. Tutti gli specialisti che avevamo interpellato erano concordi nell’asserire che la possibilità che mia moglie restasse incinta naturalmente era bassissima.
Potevamo accettare la cosa con serenità e lasciare che fosse il destino a disporre i tasselli del futuro della nostra famiglia.
Potevamo cercare rifugio nella religione, offrire la nostra sofferenza al Signore e trarre sollievo dalla consapevolezza che la tribolazione costituisce una via di favore per guadagnarsi il paradiso.
Potevamo decidere che era meglio per tutti che ognuno andasse per la propria strada.
Già, potevamo…
1 Al Ristorante Con Il Gruppo Adozioni
Quando scesi per fare colazione, Dorotea era visibilmente euforica, pervasa da quel buon umore mattutino che in lei non riscontravo di frequente.
«Questa sera ti aspetto a casa alle diciotto» disse con piglio autoritario, mentre mi sedevo a tavola.
«Buongiorno anche a te, Dorotea.»
«Buongiorno.»
«Perché dovrei tornare a casa così presto? Abbiamo un appuntamento prima di cena?»
«Abbiamo un appuntamento a cena! Andiamo al ristorante con le coppie del corso informativo.»
«Già, dimenticavo. Anche se...»
«Anche se?»
«L’incontro è fissato per le ventuno. Perché dovrei rincasare tre ore prima?»
«Non voglio fare brutte figure con i ragazzi. Meglio arrivare al ristorante cinque minuti prima che cinque minuti dopo.»
Non ebbi la forza di controbattere. Dopo sette anni di matrimonio, avevo capito che era assolutamente inutile tentare di fare cambiare opinione a una donna che aveva già organizzato un programma per la serata.
Tornai a casa all’orario stabilito. Ebbi tutto il tempo di lavarmi, di vestirmi e di dare una rapida scorsa alle prime pagine di un libro che avevo acquistato il giorno prima. Poi presi la chitarra e intonai Hey tomorrow di Jim Croce. Strimpellai soltanto qualche accordo perché il rumore del phon che nel frattempo Dorotea aveva acceso alla potenza massima, m’impedì di continuare. Misi via la chitarra e raggiunsi Dorotea in bagno.
«Cosa ne dici se mi metto la cravatta?»
«Non essere sciocco, non andiamo a teatro. Cerca invece di metterti qualcosa che ti faccia apparire più giovane. Mi sembri mio nonno vestito così. Scusami, ma adesso non ho tempo. Non vedi che mi sto sistemando i capelli?»
«Lo vedo e prima l’ho anche sentito. Ok, messaggio ricevuto. Vado in salotto a guardare la televisione. Fatti viva quando sei pronta.»
Dopo una mezz’ora, la vidi arrivare. Tentai di darle un bacio e di dirle che era splendida.
«Stai attento, mi sciupi il trucco. Dobbiamo andare. Presto che è tardi!» tagliò corto Dorotea.
Arrivammo al ristorante alle venti e trentacinque. Il parcheggio era vuoto. Lasciai l’auto in prossimità della porta d’ingresso, proprio accanto al posto riservato ai portatori di handicap.
Un cameriere ci accolse con un sorriso di circostanza. Mi bastò fissarlo un istante per capire che tipo era. Nel comportamento affettato con cui mi invitò a porgergli il cappotto, notai un’ostentazione forzata, in netto contrasto con l’espressione distratta e i lineamenti spigolosi del viso. I capelli incolti stirati dalla brillantina, la cravatta annodata alla bella e meglio e quello che restava della piega dei pantaloni lasciavano intendere piuttosto chiaramente che non era una persona ordinata e che non aveva scelto di servire gli altri per vocazione. Pensai che aveva accettato quel lavoro soltanto per sbarcare il lunario. Probabilmente nella vita di tutti giorni era un inguaribile attaccabrighe, un menefreghista, quello che non cederebbe il posto a sedere su un mezzo pubblico per nessuna ragione al mondo.
Ormai da tempo, avevo preso l’abitudine di osservare le persone con l’unico scopo di trovare in ciascuna la menzogna che la teneva in vita, quello strano trucco o messinscena che rendeva la maggior parte di quelli che conoscevo, ma anche gli sconosciuti, migliori di quanto fossero realmente.
Dorotea cercava spesso di convincermi a non avercela con il mondo intero. Avevo la mia idea sulla gente e non era facile persuadermi del contrario. Non vedi, provavo a spiegarle, quanto sono false e ipocrite le persone che ti fermano per strada chiedendo con noncuranza, come stai, e poi, senza attendere una risposta, procedono oltre? Non sai quante volte, continuavo a dirle, ho provato a spiegare a chi mi chiedeva, come stai, che non sto affatto bene, che è un periodo nerissimo perché nulla va per il verso giusto: ma a nulla è servito. Sai cosa penso, domandavo poi a Dorotea: penso che a quella gente che mi chiede come sto, poco importa se, dopo il loro buongiorno, buone ferie, buona Pasqua o buon Natale, io finisca sotto un treno. L’importante è aver compiuto la messinscena quotidiana. Il resto non conta.
«I signori hanno prenotato?»
«Sì» rispose Dorotea.
«A che nome, signora?»
«Non saprei. A dire la verità ha prenotato una nostra amica. So soltanto che dovremmo essere in diciotto.»
«Credo di avere capito» disse il cameriere, indicando un tavolo in fondo alla sala. «La prenotazione è per le ventuno. I signori sono in anticipo.»
«Sì, leggermente…» dissi e guardai di sghimbescio Dorotea con un’espressione vagamente sardonica.
Il cameriere appese il cappotto sull’attaccapanni. Con gesto teatrale, lasciò scivolare il braccio verso il basso e lo fece roteare in direzione del tavolo.
«Da quella parte. Vi prego, seguitemi.»
Presi sottobraccio Dorotea.
«Vieni, tesoro. Speriamo di trovare ancora posto!»
Dorotea fece una smorfia, si strinse nelle spalle e mi seguì senza rispondere. Arrivammo in prossimità di un lungo tavolo su cui c’era un biglietto.
Riservato G.A. 18 persone.
«Sì, è questo, ne sono sicuro. Grazie» dissi tutto di un fiato, con la speranza di liberarmi alla svelta da quell’impiastro, dispensatore di false gentilezze.
Dopo venti minuti, arrivarono Christian e Serena. Poi fu la volta di Anna e Gabriele, Lorenzo e Greta e a seguire tutti gli altri. Gli ultimi furono Federico e Nicole.
Eravamo un gruppo eterogeneo. Vite che fino a poche settimane prima gravitavano attorno a pianeti distanti anni luce erano state improvvisamente risucchiate dal buco nero dell’adozione giuridica.
Un operaio, un architetto, un’insegnante di francese, una segretaria d’azienda, una dipendente comunale, un avvocato, un fumettista, un analista programmatore, un ingegnere, alcune casalinghe, un imprenditore, un’impiegata presso un’agenzia di viaggio, una professoressa d’inglese, un art director, un venditore di camini, una maestra d’asilo discutevano amichevolmente seduti allo stesso tavolo.
Ci conoscevamo da due mesi soltanto, eppure avevamo raggiunto un livello di confidenza inaspettato, da far invidia ai vecchi rapporti di amicizia con le persone che frequentavo da sempre.
«Scommetto che il tavolo è stato prenotato da Gabriele e Anna» disse Christian, dando eccessiva fiducia alla propria perspicacia.
«No, sono stato io» rispose Lorenzo, sorridendo. «G.A. significa Gruppo Adozioni!»
La serata si preannunciava elettrizzante. Le discussioni s’intrecciavano da una parte all’altra del tavolo. Si conversava sugli argomenti più disparati, ma poi si finiva inevitabilmente a parlare della questione che più ci stava a cuore: l’adozione. Quella sera il tema dell’adozione fu declinato in tutte le sue possibili sfaccettature in una sorta di viaggio introspettivo collettivo. Quella che doveva essere una semplice e disinvolta cena al ristorante divenne una vera e propria seduta di psicoterapia di gruppo.
La prima a parlare di adozione in modo schietto e diretto fu Monica. Con la gonna corta, i lunghi capelli vaporosi, fece pochi, studiati gesti per attirare su di sé l’interesse del gruppo. Poi, con il tono sicuro che ostentava spesso, iniziò il suo discorso.
«Ho fatto una ricerca in internet e ho scoperto con sommo dispiacere che il mercato delle adozioni in Russia ha subito una battuta d’arresto, a differenza di quelli in Africa e Asia che vanno fortissimo. Questo proprio non ci voleva, accidenti!»
Mercato, mi chiesi. Come era possibile parlare dei bambini come di oggetti che si scelgono su un catalogo?
«Molto spesso mi chiedo come sarà il mio bambino...» disse di rimando Anna. «Sarà alto o basso? Magro o paffuto? Biondo come me o castano come il papà?»
«Già, e se poi fosse bruttino?» domandò Greta.
«Il mio bambino me lo immagino vietnamita da piccolo e africano da grande» disse Nicole.
Mi resi conto che molti di loro avevano un’idea alquanto vaga dell’adozione.
Nessuno si poneva il problema di quanto avesse sofferto il bambino nella sua condizione di creatura abbandonata, quali torti, maltrattamenti, soprusi e violenze avesse subito, se un giorno sarebbe stato felice con i suoi nuovi genitori e, soprattutto, se noi, nei panni di genitori adottivi, saremmo stati all’altezza del difficile compito che ci attendeva. Nessuno si chiedeva quale sarebbe stata la condotta migliore da tenere e quali gli atteggiamenti da evitare per restituire al più presto a ogni bambino la serenità che gli era stata saccheggiata. Nessuno si domandava se saremmo stati capaci di amare un figlio adottivo allo stesso modo di come avremmo amato un figlio biologico.
Per molti genitori, valevano di più le proprie aspettative sul bambino che non il bambino stesso. Imperava la teoria strampalata che l’ente si sarebbe adoperato per abbinare a ogni coppia il bambino che meglio corrispondesse al profilo tracciato dagli aspiranti genitori.
Stavamo ragionando come dei figli che ancora esigono e non come dei genitori pronti a donare.
«E dei nonni adottivi non ne vogliamo parlare?» domandò Anna, che aveva un gran bisogno di togliersi un sassolino dalla scarpa.
«Mio padre non capisce come mai Gabriele e io siamo tanto dispiaciuti poiché non possiamo avere un figlio. Dice che dovremmo imparare a valorizzare maggiormente le cose positive che abbiamo.»
«A parte che siamo disperati e non dispiaciuti, tuo padre crede che tutto si possa risolvere con il denaro» puntualizzò Gabriele.
«I soldi non fanno la felicità» disse Christian, con disappunto.
«Suo padre è convinto che la imitino benissimo!»
«Roba da matti» disse Greta, aggrottando le sopracciglia.
«Se solo mia madre fosse ancora viva...» sospirò Anna e abbassò lo sguardo. «Sono certa che lei saprebbe comprendere. Lo sa il cielo quanto mi manca.»
«È vero» asserì Nicole. «Le mamme hanno una marcia in più. Io ho un ottimo rapporto con la mia. Mi è stata sempre vicino in tutti questi anni. Ciononostante, alle volte, ho l’impressione che pure lei non comprenda completamente il vuoto che sento dentro per la mancata gravidanza. Dopotutto, lei è rimasta incinta al primo tentativo.» Fece un lungo respiro. «Purtroppo ha capito meno, molto meno di quel tanto che crede di avere capito!»
«Mio padre dice di condividere il nostro progetto adottivo» aggiunse Monica. «Per lui, si tratta di una decisione che dobbiamo prendere io e mio marito, in assoluta libertà. Al tempo stesso, però, mi dice che dovrei valutare bene le conseguenze di questa nostra scelta, in considerazione del fatto che un domani il nostro figlio biologico dovrà spartirsi l’eredità con il fratello adottivo. Ti sembra normale, Lorenzo?»
«Normale non mi sembra la parola più indicata…» le rispose Lorenzo, fregandosi il mento. «Due pesi e due misure! Mi pare evidente che per tuo padre venga prima, molto prima, il nipote biologico e dopo, molto dopo, quello adottivo. Buona fortuna!»
«È doloroso doverlo ammettere, ma è proprio così. Mio padre pensa, come molti, che la gravidanza biologica sia una cosa naturale, a differenza di quella adottiva che giudica una forzatura.»
«Credo che la nostra situazione sia ancora più complicata» disse Magda che fino a quel momento si era limitata ad ascoltare le altre voci narranti. «Mio marito sta per diventare nonno. Abbiamo appena saputo che la figlia che ha avuto con la prima moglie è incinta. E così mi ritrovo a essere nonna senza mai essere stata mamma. Non è paradossale? E pensare che non ho ancora trovato l’occasione giusta per rivelare ai miei genitori che abbiamo scelto di adottare un bambino. Temo che non accoglieranno di buon grado la notizia.»
Sentivamo tutti un gran bisogno di condividere lo sconforto, le ansie e le speranze con i nostri genitori e gli amici più intimi, perché quelle sensazioni ingombranti pesavano come macigni. Tuttavia non era semplice farsi capire da chi non aveva vissuto questa esperienza sulla propria pelle. Mentre vagavo con la mente, perso tra preoccupazioni e speranze, mi ritrovai a canticchiare le parole di una vecchia canzone di Rino Gaetano.
Ma come fare non so,
sì devo dirlo, ma a chi?
Se mai qualcuno capirà
sarà senz’altro un altro come me.
Poi Daniele fece uno dei suoi soliti discorsi elegantemente vacui.
«Con tutta probabilità, Monica e io sceglieremo un ente che opera nei paesi dell’Est, nonostante il blocco imposto da molti stati del blocco Sovietico renda tutto più incerto. Avremmo voluto anche noi adottare un bambino africano, ma abbiamo il timore che la nostra società non sia pronta ad accogliere un bambino di colore.»
«Scusami, Daniele» intervenne prontamente Lorenzo. «Credo che questa sia una solenne fesseria. Con tutto il rispetto per le vostre decisioni, a me sembra che il problema sia più vostro che della società.»
Ero completamente d’accordo con Lorenzo. Lorenzo mi era simpatico perché aveva il dono di dire le cose con franchezza e, anche se a volte risultava impulsivo e sgarbato, lo preferivo a tanti altri che facevano lunghi discorsi badando più alle singole parole che alla sostanza di quello che dicevano.
«La società è quella che è: non la possiamo cambiare, a cominciare dai bambini che sono spietati. A loro basta un pretesto qualsiasi per deridere un coetaneo: un paio di occhiali, un naso un po’ storto, un difetto di pronuncia, un modo goffo di correre, un occhio strabico.»
«Parole sagge!» esclamò Anna. «Mi ricordo che all’asilo c’erano alcuni bambini che si divertivano a prendere in giro un nostro compagno soltanto perché era un po’ grassottello. Lo chiamavano Bisco Panza e lui, ovviamente, soffriva moltissimo.»
«A scuola, tutti mi chiamavano Quattrocchi» disse Gabriele, che ora faceva l’avvocato penalista.
«E con gli adulti come la mettiamo, Lorenzo?» domandò Daniele. Ormai, era evidente, si sentiva con le spalle contro il muro.
«Che si fottano. Un imbecille, anche se fosse sperduto nel deserto, troverebbe sempre un modo per soddisfare la sua sete d’idiozia. Invece di preoccuparci della collettività, sarebbe meglio vedere le cose dal punto di vista del bambino. Non dimentichiamo che al centro dell’adozione gravitano una creatura in stato di abbandono e una famiglia che sceglie di accoglierla, non la società. Quale probabilità di riscatto avrebbe un bambino che ha vissuto fino a ieri in orfanotrofio se i suoi nuovi genitori si facessero condizionare da quello che pensa la gente?»
«Già, la gente...» disse Anna mentre mandava giù un boccone di pizza. «La nostra vicina di casa, che è così perfida che potrebbe impartire lezioni di cattiveria anche all’inferno, se ne andava in giro a dire che mio marito le rubava la legna dal garage. Lo sa il diavolo le meschinità che s’inventerà quando arriveranno i nostri bambini, indipendentemente dal colore della loro pelle.»
«Ha ragione Lorenzo» sentenziò Federico con un tono perentorio che non gli era proprio. «Dobbiamo essere innanzitutto coerenti con la scelta che abbiamo fatto. La società viene dopo. E poi non possiamo prevedere a priori quel che sarà. Non mancheranno piacevoli sorprese e anche cocenti delusioni: qualche amicizia si sfilaccerà, qualche altra si rafforzerà. Anche con i parenti più stretti ne vedremo delle belle. Sono pronto a scommetterci tutto il guardaroba di mia moglie!»