Va tutto bene se vuoi stare con me
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Va tutto bene se vuoi stare con me - Gennj Cappelletto
1
Probabilmente un ragazzo omosessuale non dovrebbe andare a vivere con l’incarnazione del Dio del Kamasutra gay, se non vuole correre il rischio di morire di frustrazione sessuale, ma ormai la frittata era fatta.
Il palazzo era effettivamente in ottime condizioni, con le facciate bianche e le ringhiere in acciaio zincato, di una particolare tonalità di grigio. Ogni terrazzo aveva una grande portafinestra di vetro, nell’insieme il tutto dava l’idea di un luogo pulito e curato, e la cosa mi piacque fin da subito.
Parcheggiai la macchina praticamente davanti al portone d’ingresso – una botta di fortuna che non mi illudevo si sarebbe ripetuta molto spesso – e mi osservai nello specchietto: gli occhi erano neri come l’inchiostro, quasi non si distingueva la pupilla all’interno dell’iride scuro. La carnagione era olivastra e, quando sorridevo, i denti bianchissimi risaltavano nella loro perfezione dovuta ad anni di apparecchio ortodontico. I capelli scuri erano perfettamente spettinati con il gel, cosa che aveva richiesto oltre mezz’ora di accurato lavoro. Quel giorno faceva un freddo cane e forse avrei fatto meglio a indossare un berretto di lana, ma ci tenevo troppo all’immagine per rischiare di sciuparmi l’acconciatura: ero bello e adoravo entrare in un locale e vedere le ragazze spogliarmi con gli occhi e gettare mentalmente i miei vestiti ai quattro angoli della stanza. Anche se le donne non mi interessavano in quel senso, era comunque una vittoria per la mia già tronfia autostima.
Scesi dalla macchina e attraversai il portone aperto del palazzo; l’appartamento era al quarto piano e individuai subito l’ascensore. Mentre la cabina mi portava a destinazione mi resi conto di essere un po’ agitato. Mi ero abituato a coabitare con i tre ragazzi con cui per mesi avevo diviso pasti e spazi vitali, anche se non eravamo riusciti a diventare amici nel senso stretto del termine, perciò l’idea di ricominciare da capo, sperando di ricavare una buona impressione reciproca dai due perfetti sconosciuti che stavo per incontrare, mi metteva addosso un fastidioso senso di ansia.
Incrociai le dita mentre le porte dell’ascensore si aprivano e i miei occhi scansionarono immediatamente il pianerottolo, pulito e ben curato come il resto dell’edificio. Eleonora mi aveva fatto sapere che l’appartamento era quello ad angolo, il numero 13. Nella palazzina c’erano quattro appartamenti per piano, per un totale di venti appartamenti, suddivisi su cinque piani.
Mi avvicinai alla porta e guardai i nomi sul campanello.
Samuele Dal Maso
Stefano Astolfi
Era l’appartamento giusto, così presi un bel respiro e suonai.
Da dietro la porta mi arrivò la voce ovattata di un ragazzo: «Vado io, dev’essere il tipo di cui ha parlato tua sorella.»
Un colpo, come se qualcuno fosse inciampato su qualcosa, un’imprecazione e la porta si aprì mostrandomi un bel ragazzo biondo che saltellava appoggiato allo stipite, massaggiandosi un piede.
«Ciao,» esordì con una smorfia di dolore. «Credo di essermi appena rotto l’alluce contro il tavolo, ma a parte questo è un piacere conoscerti, io sono Stefano.»
Mi porse la mano, riappoggiando il piede per terra. Il mio sguardo seguì il movimento, registrando che era scalzo e che i suoi piedi posavano su un rivestimento di parquet scuro, molto elegante.
«Riscaldamento a pavimento,» precisò lui notando il mio sguardo puntato sui suoi piedi. «Una figata, puoi dire addio ai calzini.»
Mi ritrovai a sorridere mentre gli stringevo la mano. «Io sono Christopher.»
«Ottimo, entra pure Christopher,» mi invitò lui scostandosi dalla porta per permettermi di entrare.
Feci qualche passo all’interno dell’appartamento e mi guardai attorno con curiosità, ritrovandomi subito in un soggiorno. Le pareti erano bianche e facevano risaltare moltissimo sia il pavimento che i pochi mobili moderni e scuri che arredavano la stanza: un tavolo con quattro sedie, un grande mobile a parete stipato di libri, DVD e cd, un ottimo impianto stereo in un angolo, una grande TV al led e due divani da tre posti piazzati strategicamente di fronte al televisore. Niente tende, niente ninnoli, niente quadri a esclusione di due grandi foto in cornice stampate in bianco e nero, raffiguranti una spiaggia in tempesta sopra cui un fulmine si scagliava verso la superficie increspata dell’acqua, e un parco cittadino di sera, con la luna che si stagliava rotonda dietro un’altalena.
L’impressione generale che mi diede quel posto fu piacevole e quello era già un buon segno. Mia madre mi aveva insegnato a fidarmi delle sensazioni e in quel momento, in quell’appartamento sconosciuto di fronte a un tizio che non avevo mai visto prima, percepii solo vibrazioni positive. Sorrisi come uno sciocco.
«Ti conviene toglierti il giaccone o tra cinque minuti sarai in un bagno di sudore,» mi consigliò Stefano porgendomi una mano per sollecitarmi a dargli la giacca. In effetti faceva piuttosto caldo lì dentro, tanto che lui indossava una semplice maglia di cotone e dei pantaloni di una tuta un po’ scoloriti.
Seguendo il suo consiglio mi sfilai il giaccone e glielo porsi. Stefano lo appoggiò sullo schienale del divano e mi fece cenno di sedermi.
«Così conosci Eleonora,» esordì, studiandomi attentamente.
«Sono un cliente abituale del locale in cui lavora, ho consumato lì così tanti pasti che dovrebbero farmi socio ad honorem,» ironizzai e mi misi comodo sul divano che sembrava fatto apposta per far gioire il mio culo.
Stefano ridacchiò e annuì. «In effetti i loro tramezzini non li batte nessuno.»
«E vogliamo parlare della crostata?» aggiunsi io con un gran sorriso. Lui chiuse gli occhi e si stampò in faccia un’espressione estatica.
«Quella ai frutti di bosco. Dio, ogni volta che ne mangio una fetta le mie papille gustative si mettono a ballare la Samba.»
Risi. Stefano era buffo e molto bravo a farti sentire a tuo agio.
Stavo per ribattere sui gusti musicali di merda delle sue papille gustative, quando un altro ragazzo fece la sua comparsa dalla stanza accanto e io persi il fiato, la capacità di parlare, le funzioni cognitive, qualche triliardo di neuroni e con ogni probabilità almeno tre anni di vita. Era bellissimo, cazzo!
Era alto almeno dieci centimetri più di me – che ero già un metro e ottanta – con capelli neri scompigliati a regola d’arte, quasi quanto i miei. Le sopracciglia leggermente appuntite formavano due archi perfetti a cornice di un paio d’occhi che sembravano smeraldi, di un verde prodigioso in contrasto con la carnagione abbronzata. Indossava un pullover bianco con lo scollo a V che lasciava intravedere le ossa un po’ sporgenti delle clavicole ed evidenziava le spalle larghe. Le maniche erano arrotolate fino al gomito e mostravano le braccia toniche e le gambe erano fasciate da dei jeans scuciti sulle ginocchia. Era snello ma perfettamente scolpito, come un ballerino. E non so perché mi fosse venuto in mente proprio quel paragone, che ne sapevo io di ballerini?
Riuscii a ricompormi e a richiudere la bocca prima di iniziare a sbavare sul parquet. Eleonora aveva detto che il fratello era fico, ma non aveva specificato a che livello.
«Ciao,» esordì la divinità, avvicinandosi e porgendomi la mano. «Io sono Samuele.»
«Christopher,» mi presentai. Schizzai in piedi come se avessi avuto una molla sotto il sedere e gli strinsi la mano con fin troppo entusiasmo. Fortuna che lui non sembrò far caso al mio sorriso da squilibrato e si limitò a sedersi sul divano accanto a Stefano, quindi esattamente di fronte a me. Ottimo.
«Eleonora ha detto che sei alla disperata ricerca di un posto in cui vivere,» disse Samuele osservandomi con un’espressione divertita e io annuii abbozzando un sorriso che speravo fosse almeno un po’ seducente.
«Sarò sincero, o mi prendete a vivere con voi oppure dovrò trasferirmi a vivere in macchina e dormire nello scatolone dei cd. In questo caso avreste sulla coscienza la mia prematura dipartita, perché non sopravvivrei nemmeno un giorno senza un bagno, uno spazzolino da denti e la possibilità di controllare che i miei capelli siano in ordine,» ammisi facendoli ridacchiare, ma Samuele tornò serio fin troppo velocemente.
«Senti, non vogliamo sapere cos’hai fatto per ritrovarti per strada da un giorno all’altro,» mi disse con un tono molto diverso. «Però se vuoi vivere con noi dovrai rispettare delle regole e preferisco metterle in chiaro subito, a costo di passare per il guastafeste di turno,» aggiunse guardando di sottecchi Stefano che sembrava si stesse trattenendo a fatica dall’alzare gli occhi al cielo.
Io mi limitai ad annuire di nuovo.
«Niente sostanze illegali in casa, niente feste di alcun tipo, il primo del mese i soldi dell’affitto devono essere pronti, le bollette si dividono per tre così come tutte le spese comuni. Siamo abituati a condividere anche il cibo, ma se la cosa non ti sta bene puoi avere il tuo reparto sia in frigo che sulle mensole della cucina e nessuno toccherà la tua roba. In casa non deve sparire nulla, non siamo abituati a tenere le nostre stanze sottochiave e non vogliamo cominciare adesso. Non si fuma all’interno dell’appartamento, se devi farlo abbiamo un bellissimo terrazzo che aspetta te e la tua nicotina. La cucina, anche se ha le dimensioni di uno sgabuzzino, è di tutti e, anche se generalmente cucino io, puoi sentirti libero di spignattare quanto vuoi, basta che poi rimetti tutto in ordine. Chi sporca pulisce.» Si fermò un attimo per guardarmi con aria severa. «Sicuramente c’è altro, ma in questo momento mi sembra di aver delineato le regole principali.»
Lo fissai con un’espressione che probabilmente appariva un po’ colpita e un po’ inorridita. Diciamo un venti per cento di incredulità contro un ottanta per cento di raccapriccio.
«Rimpiangerai i tempi in cui vivevi con i tuoi e tua madre ti rimproverava di lasciare aperto il tubetto del dentifricio,» sbuffò Stefano, passandosi una mano sulla faccia con aria rassegnata. «Qui abbiamo la signorina Rottermeier che ci sta con il fiato sul collo.»
Mi morsi l’interno della guancia per non mettermi a ridere e decisi di iniziare a guadagnare qualche punto. «Non ho mai lasciato il dentifricio aperto, è disdicevole.»
Stefano mi guardò come se fossi un traditore della peggior specie e la cosa mi fece venir voglia di ridere ancora di più. Mi morsi di nuovo le guance e osservai Samuele che fissava il suo amico con fare compiaciuto. «Vedi? Sei tu il selvaggio.»
«Oh, fottiti!» replicò Stefano mettendo un broncio degno di un ragazzino.
Erano divertenti. Forse Samuele si sarebbe rivelato un po’ una pigna in culo con tutte le sue regole, ma non dubitavo che sarei riuscito a adattarmi se me ne avessero dato la possibilità, e sperai con tutte le forze che mi avrebbero concesso un’occasione.
A quel punto feci la domanda che mi era balzata in mente quando il fratello di Eleonora aveva sciorinato il suo elenco di norme per una convivenza civile.
«Il ragazzo che viveva con voi fino a una settimana fa ha infranto una di queste regole? È per questo che se n’è andato?»
Samuele e Stefano si scambiarono uno sguardo colpevole, Stefano iniziò anche a muoversi sul divano come se fosse in imbarazzo, mentre Samuele si alzò direttamente e si avviò in cucina, annunciando che stava andando a prendere qualcosa da bere.
«Cos’è, l’avete ucciso? Per questo siete così a disagio?» chiesi cercando di smorzare la tensione con una delle mie classiche battute infelici. «Perché se è così mi spiace ma non se ne fa niente, cerco un’altra sistemazione.»
Stefano sbuffò e scosse la testa in un gesto che voleva essere dispiaciuto ma non lo sembrava granché. «Sono andato a letto con la sua ragazza,» ammise poi e un mezzo sorriso orgoglioso gli spuntò sulle labbra. Per quanto si sforzasse di trattenere la soddisfazione e fingere di sentirsi almeno un po’ in colpa, si vedeva lontano un miglio che era fiero di sé.
«Ti sei scopato la ragazza del tuo coinquilino?» domandai allibito.
«Non stupirti troppo, si porterebbe a letto anche tua madre se la trovasse esteticamente intrigante.» La voce di Samuele arrivò un attimo prima di lui, che fece la sua comparsa con un vassoio con sopra tre tazze, una zuccheriera e una teiera fumante.
Del tè? Davvero? Di solito i miei amici mi offrivano una birra, o al massimo un caffè.
Lo osservai mentre appoggiava il vassoio sul tavolino basso tra i divani.
«Che ti avevo detto? La signorina Rottermeier.» Stefano sorrise allungandosi per prenderne una tazza. Samuele gli diede uno schiaffo sulla nuca che lo fece gemere e ridacchiare tutto insieme, e per un pelo non si rovesciò il tè addosso.
«Non posso credere che nel tuo lunghissimo regolamento condominiale non ci sia nulla riguardo al tenersi l’uccello nei pantaloni,» buttai lì, solo per il gusto di punzecchiare un po’ Samuele, e lui infatti mi ricompensò con una smorfia indignata.
«Non mi ritengo responsabile dell’incapacità dei miei coinquilini di comportarsi in maniera rispettosa, ma in ogni caso pure la ragazza in questione avrebbe potuto dimostrarsi meno disponibile.»
A quell’uscita non potei evitare di ridere di gusto. «Okay, te ne do atto, la responsabilità è equamente ripartita.»
«Ehi, mi hai visto? Non avrebbe potuto resistermi nemmeno se ci avesse provato,» se ne uscì fuori Stefano quasi indignato, ma Samuele lo liquidò con un gesto annoiato della mano e un’occhiataccia.
«Tornando a te, Christopher.» Tornò serio e bevve un paio di sorsi del suo tè prima di proseguire: «Mia sorella mi ha detto che le hai sempre fatto una buona impressione, che sei gentile e simpatico e che garantisce lei per te.»
«Quindi per noi è okay, puoi trasferirti qui anche subito,» concluse Stefano al posto suo, sorridendomi con calore.
«Wow, credo di dover portare Eleonora a cena fuori per sdebitarmi. E probabilmente comprarle anche un mazzo di fiori.» Sorrisi prendendo a mia volta una tazza fumante.
Stefano si appoggiò allo schienale del divano in una posa molto sbracata. «Che lavoro fai per mantenerti?» chiese a bruciapelo. «Sempre se lavori, ovvio, magari gli studi te li stanno pagando i tuoi…»
«No, no, lavoro. Ho frequentato un corso un anno fa, prendendo un diploma riconosciuto a livello nazionale, e adesso faccio il massaggiatore a Villa Zara.»
Stefano e Samuele mi fissarono entrambi.
«Veramente? Fai massaggi?»
«Aspetta, Villa Zara non è quella Spa di tendenza che hanno aperto in centro un paio d’anni fa? Dicono che ci vadano solo i ricconi.»
«Ricconi di una certa età,» confermai sconsolato. «Credo di non aver mai massaggiato nessuno che avesse meno di sessant’anni. Lo stipendio è ottimo, ma ammetto che mi ero figurato qualcos’altro quando ho accettato il posto.»
I due ragazzi ridacchiarono nei loro tè.
«Voi invece cosa fate per vivere?» chiesi a mia volta, sinceramente interessato.
«Io faccio il modello,» affermò Stefano con orgoglio e Samuele quasi si strozzò con la bevanda. L’amico lo fulminò seduta stante.
«Davvero? Ti ho mai visto in qualche catalogo di moda?» domandai cercando di fare mente locale per capire se la sua faccia mi fosse anche solo vagamente familiare, ma non mi pareva di averlo mai visto da nessuna parte.
Samuele fu più veloce di lui a rispondere. «Dipende, se ti è capitato tra le mani il dépliant dell’Emporio della mutanda,» rise.
Io lo guardai divertito e affascinato allo stesso tempo, quando rideva era ancora più bello. E io ci avrei dovuto convivere? Bella merda, entro la fine della settimana gli avrei chiesto di scoparmi.
«Intanto non è L’emporio della mutanda ma La boutique dell’intimo,» protestò Stefano arrossendo furiosamente. «E poi che importa, resta il fatto che io poso e qualcuno mi fotografa e mi paga per le foto, quindi sono un modello.»
Samuele annuì solidale. «Giusto, hai ragione, solo non volevo che Christopher si illudesse di poter assistere a qualche sfilata di Dolce&Gabbana o di Versace grazie ai tuoi agganci. Al massimo potresti portargli a casa uno stock di mutande sottocosto.»
«Quanto sei stronzo!»
A quel punto non riuscii più a resistere nemmeno io e scoppiai a ridere, sotto lo sguardo seccato di Stefano.
«Certo, certo, preso in giro dal massaggiatore ufficiale del centro anziani,» sbuffò e io mi ritrovai a ridere ancora di più, così come Samuele. Anche Stefano non riuscì più a trattenersi.
«Tu invece che fai?» chiesi a Samuele quando ci fummo calmati.
«Il fotografo,» rispose lui quasi timidamente, con lo sguardo incollato alla tazza di tè che reggeva tra le mani. «Lavoro per lo studio ArtColor, quello che c’è in piazza Duomo. Mi mandano a fare servizi per le occasioni più disparate anche se io in realtà sogno di diventare il tipo di professionista che realizza scatti artistici, capaci di immortalare l’essenza delle cose. Il mio desiderio più grande sarebbe esibire un giorno le mie foto in una mostra.»
Parlò di slancio, senza pause, come se il suo desiderio fosse la cosa più bella ma anche la più imbarazzante che potesse rivelare.
«E mentre aspetti di allestire la tua mostra fotografica, scatti foto ai matrimoni per mantenerti,» lo prese in giro Stefano, di certo per vendicarsi dello sfottò di prima.
«Touché,» ammise Samuele con una scrollata di spalle. «Colpito e affondato.»
In quel momento mi ricordai delle due foto appese alla parete, quelle che avevo notato quand’ero entrato nell’appartamento. Le cercai con gli occhi e chiesi se le avesse scattate lui, che in risposta annuì con un sorriso modesto.
«Sono fantastiche, hai molto talento.»
«Grazie,» disse contento e le orecchie gli presero fuoco. Era arrossito per il complimento e io mi ritrovai a provare nei suoi confronti uno slancio di tenerezza così impetuoso che mi lasciò addirittura stranito. Dovevo darmi una regolata prima di subito.
«Allora,» cominciò a dire Stefano interrompendo il mio sproloquio mentale su quanto il mio nuovo quasi coinquilino fosse sexy in un modo adorabile. «Dato che abbiamo appurato che per noi va bene se resti a vivere qui e tu sembri così disperato da accettare la convivenza forzata con la signorina Rottermeier e con me che, in qualità di uomo più desiderabile del pianeta, infliggerò danni irreparabili alla tua autostima, direi che possiamo cominciare il giro turistico della casa.» Si alzò in piedi facendomi cenno di seguirlo. Io lanciai uno sguardo perplesso a Samuele che in risposta sospirò alzando gli occhi al cielo.
«La cosa grave è che ne è fermamente convinto.»
«Che tu sia la signorina Rottermeier?» chiesi con un ghigno.
«Certo, proprio a quello mi riferivo,» scherzò lui stando al gioco.
Ci alzammo tutti e due sorridendo e seguimmo Stefano fino alla cucina che era uno sgabuzzino esattamente come mi avevano annunciato.
«Come vedi qui dentro ci si sta uno alla volta, due se ci si riesce a incastrare tipo tasselli del Tetris, però in questo spazio angusto c’è tutto quello che serve.»
Io mi limitai ad annuire perplesso perché, in realtà, da quel poco che vedevo c’erano solo il frigo, il forno, il piano cottura e un paio di stipetti. Non esattamente la cucina di Gordon Ramsey. A ben vedere c’era anche un microonde sull’angolo di un ripiano. Okay, quello metteva tutto sotto un’altra prospettiva.
Dopo il tour della cucina, Stefano mi fece strada lungo il corridoio fino a quella che sarebbe stata la mia camera: era abbastanza spaziosa, con un letto matrimoniale, una scrivania per studiare, mensole per riporre i libri che mi servivano per l’università e un armadio abbastanza capiente.
«C’è un letto matrimoniale in ogni stanza?» domandai incuriosito.
«Ovviamente, è una mossa strategica. Sai che scomodo passare la notte con qualcuno in un lettino a una piazza?» rispose Stefano passandosi una mano tra i capelli biondissimi. Doveva essere tinto, non potevano essere naturali. Anche se pure le sopracciglia erano bionde, e aveva gli occhi azzurri. Uno stereotipo ambulante di bellezza da copertina patinata. Però era simpatico.
«Quindi si può portare gente in casa?» mi informai lasciando intendere tutto quello che c’era da intendere.
«Purché si rimanga nei limiti del decoro,» replicò piccato Samuele.
Stefano lo fissò con un sopracciglio alzato (oddio, solo io non ero capace?).
«L’hai detto sul serio? Nel ventunesimo secolo tu hai usato il termine decoro?»
Ricominciai a mordermi l’interno della guancia per non ridere. Quei due erano divertenti, non c’entravano niente uno con l’altro, eppure si vedeva che andavano d’accordo.
«Vi conoscete da tanto?» Mi venne spontaneo indagare.
«Dalla scuola materna,» rispose Samuele con un sorriso gentile, come se avesse letto i miei pensieri. «Da allora non me lo sono più scrollato di dosso.»
«Siamo passati dal condividere i biscotti con le gocce di cioccolato della merenda, al sorreggerci la fronte mentre vomitavamo l’anima dopo la prima sbronza,» confermò Stefano dando una pacca cameratesca sulla spalla dell’amico. «E adesso, all’età di ventitré anni, condividiamo pure le spese dell’affitto. Un’amicizia indissolubile.»
Doveva essere bello avere qualcuno su cui contare sempre. Io purtroppo non ero mai riuscito a crearmi certi tipi di legame, a trovare dei punti fermi a cui rivolgermi in caso di bisogno, o anche solo per una chiacchierata; negli anni mi ero impegnato così tanto a essere quello sempre divertente, quello che non si fa problemi, quello che trascina gli altri nei casini solo per il gusto di trasgredire le regole, che alla fine nessuno era mai riuscito a prendermi sul serio. Finivo per diventare la barzelletta del gruppo, il tipo da chiamare ogni volta che c’era da organizzare una cazzata, ma che veniva ignorato per tutte le questioni importanti. E mi ritrovavo sempre solo, era la costante della mia vita. Probabilmente quella era la ragione per cui avevo deciso di cambiare un po’ quand’ero andato a vivere da solo, peccato che il buonsenso fosse durato poco e fosse finito tutto con l’ennesimo capolavoro di scempiaggine.
«E questo è il bagno padronale,» mi illustrò Stefano con un gesto teatrale per mostrarmi la stanza luminosa con doppio lavello, doccia e vasca da bagno.
«Wow!» esclamai piacevolmente colpito.
«Sì, sì, wow e tutto il resto, ma ti avviso che per quanto riguarda il bagno vigono delle regole ferree,» iniziò a spiegare Samuele puntandomi un dito contro con fare intimidatorio. «C’è il doppio lavello, quindi se per caso devi entrare a lavarti i denti mentre uno di noi si fa la barba o si lava la faccia è okay, ma è assolutamente vietato entrare mentre uno sta sulla tazza, ci siamo capiti?»
Lo guardai inorridito. «Perché mai dovrei entrare mentre uno di voi due sta seduto sul cesso?» gli feci notare e sentii Stefano ridere dietro di me e mormorare qualcosa che suonava come beato buonsenso. Di certo c’erano stati dei trascorsi, magari con qualche ex coinquilino, ma preferii non indagare.
Quando tornammo nel salotto Samuele mi chiese quando avessi intenzione di trasferirmi e alla mia risposta: «Ho gli scatoloni in macchina, tempo di portarli su» i due ragazzi si infilarono