Il Suonatore
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Anteprima del libro
Il Suonatore - Andrea Vailati
fianco.
Capitolo primo
L’imprevedibile vita autonoma
della curiosità
È il paradosso della vita: aspettare ardentemente ed incondizionatamente quel momento perché poi sfugga nella memoria e viva nel ricordo. Quel momento, o meglio ciò che intendiamo con la parola momento, acquista dunque un tono imponente nel nostro sussurrarlo, quasi con paura che si sgualcisca, quasi a suscitar terrore. Dibattiamo con altri e, in qualche rara occasione, con noi stessi sulla definizione di momento. Lo descriviamo con toni aulici, solenni. Lo narriamo come impercettibile, al di fuori del comprensibile, metafisico oserei dire. Siamo a tal punto succubi del momento da vivere una vita evitandolo, inconsciamente, per paura di toccare, sfiorare, quell’attimo di felicità talmente irreale da trasformar poi, la nostra, in una vita mancante. Ma poi se ci pensate proprio evitandolo (parliamo del momento per intenderci), ci mancherà per tutta la vita e dunque lo aspetteremo vivendone solo i detriti, costruendo castelli su fondamenta del passato, palazzi crollanti.
Ci volle una buona dose di tempo giornaliero perché realizzassi che i due vecchietti con cui discutevo esponendo le mie riflessioni fossero stranieri in attesa di ritornare in patria e che il mio soliloquio fosse fine a sé stesso. Ma non mi amareggiai, ero solito passare del tempo nella stazione centrale di Milano importunando viandanti, quasi sempre finendo a perdermi con me stesso. Luogo curioso la stazione centrale di Milano, ne rappresenta a mio avviso il massimo emblema. È il perfetto luogo dove il rocambolesco dinamismo milanese si concilia con l’armonia dell’attesa. Vive in uno stato di caos perpetuo, uno scambio infinito di volti che quasi si passano il testimone: chi attende viene risucchiato nel vortice della fretta lasciando il posto a nuove attese, il tutto contornato dai mille frastuoni rapsodici di una città viva nel movimento, dove il tempo vuole solo esser rincorso. Eppure come è solito nella vita, era proprio lì che riuscivo maggiormente a pensare. La totale confusione che mi circondava mi risuonava come una perfetta melodia, sempre incalzante eppure ricca di passioni, ricca di micro dettagli per un udito raffinato, con orchestra un’intera umanità. E, sempre per gli strani casi della vita, era proprio lì che attendevo il momento preferito. Avete presente quel momento in cui il sole lascia posto alla notte, quel momento in cui tutto perde la sua luminosità, in cui le tenebre avvolgono tutti noi senza far sconti? Quel momento che dà un nuovo colore al giorno, in cui i volti ancor più divengono indistinguibili, freddi e quel perenne movimento si connota di un non so che di robotico? Proprio quello era il mio momento preferito. Quando il suonatore si recava nel solito posto.
Oh che personaggio bizzarro, ma di quel bizzarro che si accosta all’intrigo, che era il suonatore. Aveva un’aria trasandata, sporca ma mai ostile. Si dissociava da qualsivoglia idea voi vi stiate facendo di ciò che oggigiorno definiamo barbone. Lui era molto elegante nella sua povertà, incuteva dolcezza nella sua temperanza perenne. Passavo ore ad osservarlo, come d’altronde a parlar da solo s’intende, ore a costruire ipotesi sulla sua figura. Aveva dei capelli grigi, sporchi ma sempre pettinati, una barba di quelle sagge ed un corpo di quelle ossature che mostrano forza anche se malcurate. Il tutto avvolto in un frac che quasi mi faceva pensare a quella meravigliosa poesia cantata di Modugno. Ma ciò che più era oggetto delle mie ipotesi era il suo sassofono. Quale strumento più affascinante del sassofono possa esister vi domando, un suono così caldo, rauco, quasi fuoriuscisse da una vita di difficoltà, da una necessità di esternare passione, cruda e vera passione. Mi ricordo mio nonno quando penso al sassofono. Che omone che era mio nonno, di quel genere alla gigante buono. Un grande amante della musica, in particolare della musica come la chiamava lui, il jazz. Non era stato un musicista lui, ai suoi tempi il lavoro non aveva rivali in quanto ad importanza, ai suoi tempi i sogni erano destinati ai più facoltosi. Forse i sogni sono sempre destinati ai più facoltosi, ma io ho scelto di credere che siano destinati ai più sognatori. Sì, mi piace definirmi un sognatore, uno di quelli che, come avrete potuto notare facilmente, si fa trasportare da flussi di pensieri, giungendo a costruire grandi castelli fluttuanti, fatti di storie che non esistono, ma che in qualche modo vivono in quei luoghi della mente che talvolta scegliamo di visitare, altre di sigillare in nome della realtà
. Il suo eclettismo musicale era ammirevole, stavamo parlando di mio nonno giusto? Lui mi spronava sempre a non lasciarmi influenzare da culture migliori o peggiori in favore alla musica, ma piuttosto di navigare in ognuna di esse, libero da limitazioni, cittadino di ogni musica, di ogni mondo. Avevo scelto di far mia quella filosofia, di applicarla a qualunque ambito, che fosse sociale, culturale o sessuale! Amo, per lo meno ci provo, immergermi in ogni luogo della vita, discutere con un professore di economia sul perché oggi siamo capitalisti e magari prendermi una sbronza con Giovanni, che tutto è tranne che una persona concreta.
Ma eccolo arrivato, il momento del Suonatore per intenderci. Andavo di fretta quel giorno, dovevo tornare a casa per cena: io ed il mio coinquilino avevamo ospiti, due ragazze conosciute sui navigli il giorno prima, ma di questo parleremo dopo, il suonatore stava cominciando. La routine era la solita, molto ben congegnata: giungeva dinnanzi l’entrata principale della stazione, difronte all’ingresso della metro, e dopo aver osservato l’umanità in quei paraggi, talvolta passava veri e propri momenti di contemplazione, momenti lunghi di contemplazione, d’un tratto riesumava lo strumento, il sassofono. Quella era una delle mie parti preferite, non era semplicemente un uomo che prende un oggetto, non era nemmeno un uomo che prendeva il suo oggetto preferito, era un vero e proprio incontro tra vecchi amici, tra vecchi compagni di avventure. Si guardavano lui ed il sassofono, sorridevano ed iniziavano infine a fare musica. Eccoci, la stazione, i palazzi, Milano, presero colore. Sottile era la melodia, non aveva tanto fiato quel giorno ma era meravigliosamente viva ogni nota soffiata. Avrei voluto avvicinarmi, parlargli. Avrei voluto capire se ogni mia ipotesi su di lui, sul suo passato, sul suo essere, o magari esser stato qualcuno di più che un uomo di strada, avessero nel reale qualcosa di vero, ma anche quel giorno non trovai il tempo di farlo.
Presi la metro e mi diressi a Porta Genova per poi andare a casa. Salite le scale, ascensore rotto, arrivai a destinazione. Lì trovai Ernesto nel suo solito momento di contemplazione, accompagnato da un buon J Dilla. Su di lui non mi dilungherò, vi basti sapere che era uno molto in gamba, sveglio, simpatico, un po’ pazzo, ma lui non era consapevole di nulla di tutto ciò, forse solo di essere un po’ pazzo.
- Ehi amico! - esordì lui - Le due tipe staranno arrivando, io inizierei con un paio di birre di preparazione, che ne pensi? -
Eravamo entrambi un po’ tesi, la sera prima eravamo stati molto abili con due dolci donzelle, ma terribile è la paura in un uomo (forse ancor più in un ragazzo) di non riuscir a ripetere una buona performance!
- Anche 4! - risposi ridendo.
- La bionda è più filosofa, la lascio a te se preferisci, - proseguì lui divertito - alla bruna piace il cinema, forse ho qualche speranza di farla dormire qui stasera con la scusa del concludere la serata con un bel film, magari poco sobrio! - concluse. Passarono 4 birre e poche chiacchiere prima che il citofono suonasse. Eccole giunte a destinazione. Si potrebbe definire una bella serata quella che si sviluppò, accompagnata dalla benedizione di Bacco e da una vincente gamma di storie ed argomenti divertenti, piacevoli e talvolta anche un po’, giusto un po’ per intenderci, filosofici. Come predetto dal saggio Ernesto la mossa del film risultò vincente e quella notte poco tempo fu speso per dormire.
Il momento più interessante, però, fu la mattinata seguente, preparavo due caffè al fine di tramutare il risveglio della dolce ragazza dormiente in un dolce risveglio. Si chiamava Laura ed era affascinante, molti fattori la rendevano tale ma quello che avevo scelto di prediligere era la sua voce, così curiosa, sempre con un sottofondo di ironia ma allo stesso tempo quasi ingenua, un po’ acuta e dotata di una risata incontenibile, buffa ma paradossalmente sensuale. Proprio quella voce si rivolse a me, ancora un po’ addormentata, dolce ma imbarazzata:
- Faresti mai qualcosa che non ti rende felice? -
Rimasi interdetto da un tale esordio mattutino.
- Beh suppongo che prima ancora io debba capire cosa sia per me essere felice! - risposi.
- Sai, mi domandavo se fosse stato giusto venire a letto con te sin da subito… Non prenderlo come un discorso banale ti prego! - continuò lei - E mi rendevo conto che in qualche modo la mia scelta fosse stata orientata ad una felicità. Ero stata bene ieri con te, mi erano piaciute le nostre conversazioni e dunque mi è sembrata la cosa più giusta da fare. Ma poi mi sono chiesta se a questo punto io fossi felice, se le mie scelte, la mia vita io la imposti verso la mia felicità. -
Mi resi conto di essere impreparato alla faccenda, troppo poco spontaneo per rispondere, troppo poco spontaneo per pensare.
- Anche io sono stato bene, e stamattina posso definirmi felice, o per lo meno non triste. -
Il suo sguardo si fece un po’ deluso.
- Perdonami se non ho reso l’idea. - proseguii io - Ritengo che la felicità venga troppo spesso divinizzata. Si tende a creare un’enorme aspettativa di cosa questa sia e di fondo non si fa altro che venirne surclassati, non raggiungendola mai. Penso invece che la felicità si ponga più come una prospettiva, un affermarsi con sé stessi e con il mondo secondo ciò che noi riteniamo essere bello, secondo ciò in cui noi riteniamo di trovare la poesia della vita, trovare serenità. -
Non riuscivo ad esprimere cosa davvero volessi dire.
- E dell’amore cosa pensi dunque? - riprese lei - Anche io credo che la felicità sia qualcosa di accessibile ma cosi tu la schematizzi, troppo pragmatico per la felicità, manca quel tono emotivo… -
Ero davvero stupito da come si stesse delineando la prima conversazione della giornata, ero stupito da lei.
- Intendevo dire che penso si possa sempre, in ogni contesto e storia che la vita ci riserva, trovare la via della felicità. Non si fonda solo in modo empirico, alcune cose persistono al tempo, rimangono immutate, la felicità vive nel presente, riesuma dal passato e sogna nel futuro. - conclusi con un tocco arrogante, forse fin troppo.
Lei mi baciò e, senza che più nulla fosse detto, prese le sue cose ed andò via. Nel vento sentii la sua voce sussurar qualcosa, ma fui incapace di catturarla.
Da quel momento ebbe inizio la giornata. Ernesto aveva appena iniziato a farsi la doccia. Mi bevvi un altro caffè, un’altra sigaretta, una di quelle contemplative. Avevo lezione all’università quel giorno, così dopo aver atteso la bramata liberazione del bagno, mi apprestai a subentrare nel dinamismo quotidiano.