Tre uomini in barca "per non parlare del cane": Ediz. integrale
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Jerome K. Jerome
Jerome Klapka Jerome (1859–1927) was an English writer, essayist and humorist. His most famous work is the comic travelogue Three Men in a Boat.
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Anteprima del libro
Tre uomini in barca "per non parlare del cane" - Jerome K. Jerome
brindisi.
LA MAPPA
CAPITOLO 1
Tre invalidi - Le infermità di George e di Harris - Una vittima di centosette morbi fatali - Ricette utili - La cura per il mal di fegato nei bambini - Conveniamo che siamo esauriti dal lavoro e che necessitiamo di riposo - Una settimana in mare? - George suggerisce il fiume - Montmorency avanza un'obiezione - La prima proposta vince con una maggioranza di tre a uno.
Eravamo in quattro, George, William Samuel Harris, io, e Montmorency. Seduti nella mia stanza fumavamo e commentavamo come fossimo mal ridotti - ridotti male, si capisce, dal punto di vista medico, questo intendo dire.
Ci sentivamo tutti e quattro tristanzuoli e ciò ci innervosiva.
Harris diceva che di tanto in tanto sentiva tremendi attacchi di vertigini da non sapere più quel che faceva; e allora anche George disse che aveva attacchi di vertigini e non sapeva più quel che faceva. In quanto a me, si trattava del fegato in disordine.
Sapevo benissimo che si trattava del fegato in disordine perché avevo letto proprio allora un foglietto propagandistico di certe pillole per il fegato nel quale erano elencati tutti i vari sintomi per cui uno può affermare che il proprio fegato è in disordine. E io, quei sintomi, li avevo tutti.
Sarà una cosa straordinaria, ma io non ho mai letto un foglio di propaganda farmaceutica senza arrivare alla conclusione che soffro di quella particolare malattia, descritta dal volantino nella sua forma più virulenta. In ogni singolo caso la diagnosi sembra corrispondere esattamente a tutti i sintomi ch'io abbia mai avvertito. Ricordo che un giorno andai al Museo Britannico per leggere la cura di una lieve indisposizione di cui avevo cominciato a soffrire - febbre da fieno, mi pare. Presi giù il libro e lessi tutto quello ch'ero venuto a leggere; e poi, soprappensiero per un momento, sfogliai le pagine pigramente, e con indolenza mi misi a esaminare le malattie in generale.
Dimentico, ora, quale fu la prima infermità in cui mi ingolfai certo un flagello distruttore - e prima ancora che avessi dato un'occhiata alla metà dell'elenco dei sintomi premonitori
c'era in me la certezza assoluta che, ovviamente, avevo quella malattia.
Rimasi per un momento agghiacciato dall'orrore, poi con l'indifferenza della disperazione, continuai a sfogliare le pagine. Arrivai alla febbre tifoidea - ne lessi i sintomi scoprii che avevo la febbre tifoidea, che dovevo portarmela addosso da mesi senza accorgermene - mi chiesi che altro ancora avessi; mi capitò sott'occhio il Ballo di San Vito - scoprii, come previsto, d'avere anche quello - e cominciando a interessarmi al mio caso decisi di scrutarmi fino in fondo e quindi ripresi la lettura in ordine alfabetico. Lessi: brividi di febbre intermittente, e seppi che ne soffrivo e che la crisi acuta sarebbe cominciata tra una quindicina di giorni. In quanto a Bright e alla sua malattia del rene, rimasi consolato scoprendo che l'avevo solo in una forma di sottospecie e che, quanto a lei, mi avrebbe fatto vivere per anni.
Il colera ce lo avevo e con gravi complicazioni; con la difterite sembrava che ci fossi nato. Mi sprofondai coscienziosamente in tutte e ventisei le lettere e arrivai alla conclusione che l'unica malattia da cui ero esente era il ginocchio della lavandaia.
Questa scoperta al primo momento mi lasciò piuttosto deluso, mi parve quasi un affronto. Perché mai non avevo il ginocchio della lavandaia? Perché questa invidiosa eccezione? Ma dopo un po', grazie a Dio, prevalsero sentimenti meno avidi. Ebbi così la possibilità di riflettere che avevo tutte le altre malattie conosciute dalla farmacologia e così mi sentii meno egoista e decisi di fare a meno del ginocchio della lavandaia. La gotta, sembrava che mi avesse ghermito nella forma più maligna senza che ne avessi coscienza; in quanto alle fermentazioni per zimosi evidentemente ne soffrivo dalla fanciullezza. Dopo la zimosi non c'erano altre malattie e così conclusi che non avevo altro.
Rimasi lì seduto a meditare. Pensai... che caso interessante devo essere io dal punto di vista clinico; che pacchia per una scuola! Gli studenti, avendo me, non avevano più bisogno di fare il giro per gli ospedali. L'ospedale ero io; sarebbe bastato fare un giro intorno a me e poi potevano prendersi la laurea.
Pensai a quanto tempo ancora mi rimanesse da vivere. Tentai di esaminarmi. Mi tastai il polso. In principio non lo trovai, ma poi sembrò che cominciasse a battere tutto di un colpo. Tirai fuori l'orologio e contai. Andava a cento e quarantacinque pulsazioni al minuto. Cercai di sentirmi il cuore. Ma il mio cuore non lo trovai. Non batteva più. Ero sempre stato d'opinione che doveva esserci, e aver pulsato; quindi non mi potevo render conto di che cosa era accaduto. Mi palpai dappertutto sul davanti, da quella che io chiamo la mia vita fino alla testa, e un po' attorno da ciascun lato e un po' sulle spalle. Ma non riuscivo a sentire né udire nulla. Cercai di guardarmi la lingua. La cacciai fuori per quanto fu possibile, chiusi un occhio e cercai di esaminarla con l'altro. Non riuscivo a vedere che la punta e l'unica cosa che ci guadagnai fu di esser certo più di prima che avevo la scarlattina.
Quando ero entrato in quella sala di lettura ero un uomo sano e felice. Quando mi trascinai fuori di lì ero un decrepito relitto umano.
E mi recai dal mio medico. E' un vecchio amicone e tutte le volte che vado da lui perché credo di essere ammalato, egli mi tasta il polso, mi guarda la lingua, parla del tempo che fa, tutto ciò gratis; e pensai che, andandoci ora, gli avrei reso un bel servizio. Mi dicevo: I medici hanno bisogno di pratica. Egli avrà me. Farà più pratica con il mio corpo che con quelli di mille e settecento di quegli ammalati comuni, trascurabili, che non hanno che una o due malattie ciascuno
. Andai dritto dritto da lui, lo trovai in casa e lui disse:
- Be'! Che cos'hai?
Io dissi:
- Caro mio, non starò a rubare il tuo tempo con la narrazione di tutto quello che ho. La vita è breve e, probabilmente, prima che io finissi tu saresti già all'altro mondo. Ma ti dirò quello che non ho. Non ho il ginocchio della lavandaia. Perché proprio non abbia anche il ginocchio della lavandaia non lo capisco, ma il fatto è che non ce l'ho. Però, qualsiasi altra cosa, io ce l'ho.
E gli raccontai come ero arrivato a scoprire il vero.
Ed allora egli mi sbottonò e si mise ad osservarmi, mi afferrò il polso e mi colpì il petto mentre non me lo aspettavo - una cosa veramente da vigliacco, dico io - e subito dopo cominciò a darmi testate col viso per appoggiare l'orecchio al mio petto. Dopo di che si accomodò e scrisse una ricetta, la piegò e me la porse. Io me la misi in tasca e uscii.
Non la lessi. Andai dal primo farmacista e gliela diedi. Il buon uomo la lesse e me la porse indietro.
Disse che non poteva servirmi.
Io dissi:
- Ma non è un farmacista, lei?
Lui disse:
- Sono un farmacista. Se fossi una combinazione di una cooperativa di consumo con un albergo familiare potrei servirla. Ma il fatto di essere soltanto un farmacista me lo rende impossibile.
Lessi la ricetta:
Diceva:1 libbra di bistecca, con 1 bottiglia di birra, ogni 6 ore.
1 passeggiata di dieci miglia ogni mattina.
Andare a letto alle 11 in punto tutte le sere.
E non ti riempire la testa con cose che non capisci.
Seguii la prescrizione col risultato (felice risultato, per quanto mi riguarda) di aver salva la vita, che ancora continua.
Nella presente contingenza, per tornare alla propaganda per le pillole per il fegato, non c'era possibilità di sbagliarsi: i sintomi io li avevo e il principale era un'allergia generale
per qualsiasi specie di lavoro.
Quanto io patisca di questo male, non vi è lingua che possa dirlo.
Ne sono vittima fino dall'infanzia. Da ragazzo, poi, la malattia non mi abbandonava neanche per una sola giornata. A casa non capivano, allora, che era colpa del fegato. La medicina era molto lontana dal progresso di ora, e i miei confondevano la malattia con la pigrizia.
- Si può sapere, scansafatiche che altro non sei, perché non ti muovi, non fai qualcosa per procacciarti da vivere? ma non sei capace? - E non sapevano, è chiaro, che ero ammalato.
E, invece di pillole, erano sganassoni. Eppure, per quanto possa sembrar strano, quegli sganassoni riuscivano a guarirmi, almeno per il momento. Imparai così che uno sganassone mi curava meglio il fegato e mi disponeva a filar dritto e a fare quello che mi dicevano di fare senza perder tempo, più di quanto non me lo curi oggi una scatola intera di pillole.
Ma lo sapete bene che spesso è così. Questi rimedi antiquati sono a volte più efficaci di tutte le specialità farmaceutiche.
Per un'altra mezz'ora ci descrivemmo l'un l'altro le nostre malattie. Io spiegai a George e a William Harris come mi sentivo alzandomi al mattino; William Harris ci descrisse quello che si sentiva quando andava a letto e George, ritto davanti al caminetto, si esibì in una pantomima incisiva e impressionante per illustrarci come passava la notte.
George è un malato immaginario, credete pure, non ha proprio niente.
In quel momento la signora Poppets picchiò alla porta e ci chiese se eravamo pronti per il pranzo. Ci scambiammo un triste sorriso l'un l'altro e convenimmo che forse era meglio tentare di mandar giù un boccone. Harris disse che qualche briciolina nello stomaco della gente spesso tiene in scacco la malattia. La signora Poppets portò il vassoio e noi ci accostammo al tavolo e sbocconcellammo una bistecchina con cipolle e un po' di torta al rabarbaro.
Dovevo esser davvero molto indebolito, allora, perché dopo poco meno di mezz'oretta, mi parve di non aver più nessuna voglia di cibi - caso insolito in me - e rifiutai il formaggio.
Assolto questo compito, riempimmo di nuovo i bicchieri, accendemmo le pipe e riprendemmo la conferenza sullo stato della nostra salute. Cosa fosse quello che effettivamente avevamo nessuno di noi era in grado di poterlo dire con certezza ma l'opinione generale era che, fosse quello che fosse, tutto era effetto dell'eccesso di lavoro.
- Noi abbiamo bisogno di riposo, - disse Harris.
- Riposo ed evasione, - disse George. - Lo sforzo che abbiamo imposto ai nostri nervi ha generato una depressione completa di tutto l'organismo. Evasione, affrancamento dal dover pensare... ecco quello che ci ristabilirà l'equilibrio mentale.
George ha un cugino a carico, di professione eterno studente di medicina fuori corso, e perciò, nell'esprimere le cose il nostro amico ha un certo che del medico di casa.
Fui d'accordo con George e suggerii che scoprissimo qualche posticino all'antica, lontano dalla gazzarra delle folle e lì cercassimo di passare una settimana al sole, tra i sentieri assonnati - un cantuccio mezzo dimenticato, come se fosse stato nascosto dalle fate, fuori della portata del mondo fragoroso una specie di nido, appollaiato lassù, sulle scogliere del Tempo, dove il diciannovesimo secolo non avrebbe potuto far arrivare che un sussurro, un'eco lontana lontana delle sue onde tempestose.
Harris disse che secondo lui un posto simile sarebbe stato un disastro. Disse che aveva ben capito che razza di posto intendevo io; un posto dove tutti andavano a letto alle otto; dove non poteva avere il suo giornale al mattino né per amore né per forza e dove bisognava far dieci miglia per trovare il tabaccaio.
- No, - disse Harris.- Se vogliamo un po' di riposo e di evasione non c'è di meglio che un viaggio per mare.
Mi opposi al viaggio di mare con tutte le mie forze. Un viaggio di mare fa bene se può durare per un paio di mesi; una crociera di una settimana soltanto è una tragedia. Al lunedì tu parti con l'idea radicata nel cervello che vuoi divertirti. Accenni un disinvolto saluto agli amici sul molo, accendi la tua pipa più voluminosa e te ne vai a fare lo sbruffone in coperta, come se fossi un concentrato del Capitano Cook, di Francis Drake e di Cristoforo Colombo. Al martedì ti auguri di non esserti mai imbarcato. Al mercoledì, giovedì e venerdì preferiresti essere all'altro mondo. Al sabato riesci a mandar giù un po' di brodo magro, a star seduto in coperta e a rispondere con un sorrisino dolce e stanco alle persone gentili che vengono a chiederti se ora ti senti meglio. Alla domenica ricominci a passeggiare e a mangiare cibi normali. E al lunedì mattina tutto comincia a piacerti, ma tu, valigia e ombrello in mano, stai già presso il barcarizzo in attesa di sbarcare.
Ricordo che anche mio cognato, una volta, fece un viaggetto di mare per rimettersi in salute. Prese un biglietto di andata e ritorno Londra-Liverpool e quando arrivò a Liverpool si precipitò in cerca di chi gli ricomprasse il biglietto di ritorno.
Lo offrì per tutta la città facendo una riduzione tremenda, così mi dissero, e riuscì a cederlo per diciotto pence a un giovane dall'aspetto bilioso, al quale i medici avevano consigliato di andare al mare e fare del nuoto.
- Andare al mare! - gli disse mio cognato spingendogli affettuosamente in mano il biglietto. - Caspita, ne avrete tanto di mare che vi basterà per tutta la vita; e poi, in quanto agli esercizi fisici, ne farete di più rimanendovene seduto in coperta su quel bastimento che mettendovi a far capriole sulla spiaggia.
E mio cognato se ne ritornò in treno. Disse che per la sua salute la North-Western Railway era abbastanza.
Conobbi un altro tipo che fece una crociera di una settimana intorno alle coste dell'Inghilterra e, prima della partenza, il cameriere di bordo gli si avvicinò e gli chiese se voleva pagare i pasti volta per volta oppure aggiustarsi su di un pagamento anticipato per tutto il vitto.
Il cameriere di bordo gli consigliò quest'ultima forma di pagamento che veniva molto più a buon mercato. Disse che per tutta la settimana gli avrebbero fatto il prezzo di due sterline e cinque scellini. Disse che a prima colazione servivano pesce e carne alla griglia. Si mangiava poi all'una: quattro portate.
Pranzo alle sei: minestra, pesce, piatto di mezzo, pollo, insalata, dolce, formaggio e frutta. Alle dieci un leggero pasto per cena.
Il mio amico decise per l'affare del pagamento anticipato a due sterline e cinque scellini (è un buon mangiatore) e pagò.
Il pranzo dell'una arrivò appena fuori di Sheerness. Egli non sentiva quell'appetito che credeva di dover sentire e quindi si accontentò di un po' di lesso e di un piattino di fragole con panna. Durante il pomeriggio si sorprese a riflettere molto e ad un certo momento gli sembrò che da settimane e settimane non avesse fatto altro che mangiar carne lessa; poi, ad un altro momento, gli sembrò che da anni non si fosse nutrito che di fragole con la panna.
Né la carne lessa, né le fragole con la panna mostravano di essere a loro agio... erano piuttosto agitate.
Alle sei vennero ad avvisarlo che il pranzo era pronto. Questo annuncio non risvegliò nessun entusiasmo dentro di lui, però egli ponderò che bisognava scontare un poco delle due sterline e cinque scellini e aggrappandosi a cavi e cose varie scese abbasso. Giunto ai piedi della scala venne salutato da un odorino di cipolle e prosciutto mescolato con quello di pesce fritto e verdura; il cameriere col suo sorriso ipocrita si avvicinò e gli disse:
- Che cosa debbo portarvi, signore?
- Portarmi fuori di qui, - fu la risposta assieme a un lamento.
E quelli lo riportarono in coperta in fretta e furia, lo appoggiarono ben bene alla murata sottovento e lo lasciarono.
Trascorse i quattro giorni seguenti vivendo una vita semplice e morigerata a stecchetto, a base solo di galletta da marinaio, sottile (la galletta, non il marinaio), e acqua gassata; ma, arrivato al sabato, si sentì altezzoso e si permise un tè poco carico e un toast; al lunedì seguente s'ingozzò di brodo di gallina. Sbarcò il martedì e mentre la nave si staccava dalla banchina egli la seguì con lo sguardo pieno di rammarico.
- E via lei, - disse, - e via lei, con due sterline di viveri a bordo che mi appartengono e che non ho mangiato.
Disse che se gli avessero concesso un'altra giornata di tempo era certo che si sarebbe rifatto del suo.
Dunque io mi ero messo contro il viaggio di mare. Ma, come spiegai, non perché pensassi a me stesso, io non faccio mai storie. Era perché temevo per George e George diceva che sarebbe stato benissimo, e che gli sarebbe anzi piaciuto, ma che piuttosto doveva consigliare me e Harris a rinunciare perché era certo che tutti e due avremmo sofferto il mal di mare. Harris brontolò tra sé che restava sempre un fatto misterioso il sapere come fa la gente a prendersi il mal di mare sui bastimenti diceva che secondo lui lo fanno apposta, per darsi delle arie e diceva anche che molte volte aveva tentato di averlo, ma che non c'era mai riuscito.
Poi si mise a raccontare aneddoti, del come avesse attraversato la Manica con un mare tanto grosso che i passeggeri dovettero esser legati alle cuccette e non c'era a bordo anima viva, tranne lui e il capitano, che non avesse mal di mare. Altre volte erano lui e il secondo di bordo a non soffrire; insomma era sempre lui e un altro. E quando poi l'altro non c'era, c'era lui soltanto.
Certamente è curioso che mai nessuno abbia mal di mare - a terra.
In mare, invece, tu ti imbatti in un sacco di gente che se la passa male davvero, a volte il bastimento ne è pieno; eppure finora non ho mai visto un solo uomo, a terra, che nemmeno sapesse ciò che sia avere il mal di mare. Dove diamine si andranno a nascondere quando sono a terra le migliaia e migliaia di cattivi marinai che pullulano su di ogni nave, è un mistero.
Se ce ne fossero molti come un tale che vidi sul vaporetto di Yarmouth, potrei spiegare il presunto enigma facilmente. Fu appena fuori del molo di Southend, ricordo, e lui stava piegato attraverso un portellino in una posizione molto pericolosa. Mi avvicinai, ansioso di soccorrerlo.
- Dica! si tiri più indietro, - gli dissi scuotendolo per le spalle. - Lei va a finire in mare, così.
- Dio lo volesse! - fu tutta la risposta che ne ebbi; e dovetti abbandonarlo lì.
Passarono tre settimane ed un giorno lo rividi a Bath, nel bar di un albergo. Raccontava dei suoi viaggi e diceva quanto amasse il mare.
- Se sono buon marinaio! - ribatté rispondendo alla invidiosa domanda di un mite giovanotto; - una volta, però, mi sentii un po' strano, devo confessarlo. Fu al largo di Capo Horn. Il giorno dopo, la nave naufragò.
Dissi:
- Ma non era un po' indisposto presso il molo di Southend, un giorno, augurandosi d'essere gettato in mare?
- Il molo di Southend! - rispose lui con un'espressione perplessa.
- Sì, andavamo a Yarmouth, venerdì scorso fecero tre settimane.
- Oh! Ah! Sì!- rispose, illuminandosi. - Ora me ne ricordo. Che mal di testa quel pomeriggio! Tutta colpa di quei sottaceti, sa!
Erano i peggiori sottaceti che abbia mai trovato su di una nave che si rispetti. Lei ne aveva mangiati?
Io, per conto mio, ho scoperto un preventivo ottimo per non soffrire il mal di mare, dondolandomi. Ti pianti al centro del ponte e, a seconda del beccheggiare della nave, fai oscillare il tuo corpo in modo da rimanere sempre diritto. Quando la parte prodiera del vapore si innalza, tu ti abbassi in avanti fino a che il ponte non ti tocchi quasi il naso; e quando invece si innalza la