Pelle - Oltre il limite
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Legati da una relazione malata, segnata dalla droga, dai rimorsi e dalla tendenza al suicidio, Andrea ed Elisa corrono verso l’inevitabile distruzione.
Andrea, trentacinquenne inventore in erba, trascorre una vita frustrante intessendo svariate relazioni che si rivelano ogni volta fallimentari. Affetto da ansia e attacchi di panico che lo accompagnano fin dall’adolescenza e dal rimorso per la morte di Cheyenne, una donna che lo ha molto amato, di cui si ritiene responsabile, è costantemente sconvolto da incubi riguardanti la morte. Si ritrova a intraprendere un percorso che lo porterà di volta in volta a superare uno o più limiti, fisici, psicologici, etici e legali. Dopo l’ennesima relazione finita male si ritrova attratto da Elisa, una ragazzina, minorenne e sofferente, che fa nascere in lui una vera e propria ossessione tanto da non pensare alle possibili conseguenze di una relazione con lei. Assieme a lei la vita gli sembrerà prendere il volo verso una quasi certa realizzazione dal momento che la start-up a cui sta lavorando riscuote successo ma. La strada che stanno percorrendo insieme, però, li porterà dritti verso la distruzione. L’eroina, il sangue, il suicidio e il senso di colpa del sopravvissuto segneranno la fine dell’idillio, non senza l’aiuto di una certa superficialità da parte del protagonista. Amore, morte, vecchiaia, rinascita e abbandono sono narrati e percepiti attraverso la pelle e l’organismo umano. Una relazione malata, che tuttavia passa inosservata agli occhi della gente, porterà entrambi verso l’inevitabile massacro. L’assonanza tra la ciò che accadrà a Elisa e ciò che è accaduto a Cheyenne incideranno sulla pelle di Andrea la certezza di quanto le azioni compiute abbiano potere di vita o di morte su un individuo e che, nel profondo, siamo tutti probabili mostri.
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Anteprima del libro
Pelle - Oltre il limite - Domenica Lupia
miracolo.
Gli occhi
Tattoos of memories and dead skin on trial
For what it’s worth it was worth all the while
It’s something unpredictable, but in the end is right.
I hope you had the time of your life.
GREEN DAY, Good Riddance
Sono entrato nelle viscere di vecchie civiltà. Ho percorso migliaia di chilometri alla ricerca di distacco e di risposte. Ho conosciuto l’ossessione, la paranoia e la pazzia: non mie, per mia sfortuna... ho sentito la paura e visto la mia anima guardarmi dritta negli occhi… muta, mi diceva tutto! Ho guardato, con la stessa fame che attanaglia le budella di un maniaco davanti a un ragazzino, le macerie di vecchie vite venute giù, crollate sotto il peso inesorabile del tempo e della desolazione. Ho concepito l’abbandono, nelle case deturpate e abbattute dal tempo; l’idea di una fuga rocambolesca mi si insinuava nella mente. In quella che un tempo era una casa abitata, vissuta, all’appendiabiti sono ancora appese le giacche. Seppure il pavimento in alcuni tratti sia imploso e in altri esploso dalle fondamenta, nello scolapiatti della cucina sono sopravvissuti ancora dei bicchieri intatti, coperti di polvere. Una scodella, un’insalatiera rimasta non si sa come sulle mattonelle dell’acquaio; uno sportello della dispensa è rimasto indecorosamente aperto.
Cosa era successo, di tanto importante, da dover lasciare tutto, tazze piene di latte, sportelli aperti, giacche e impermeabili appesi ancora al muro, in attesa trepidante che il proprietario li prendesse e non li lasciasse lì, nel mezzo dello scoppio di chissà quale catastrofe? Vivevano delle persone, lì? A chi apparteneva quella roba? C’erano dei bambini? Mangiavano, in quella cucina? Bevevano il latte, da quelle tazze? Probabilmente c’era anche una bambina. Forse, in una domenica come tante, appena sveglia, beveva il suo bicchiere di latte circondata dalla sua povertà e dall’amore dei suoi cari… avrà avuto paura… avrà guardato, seduta sulla sua seggiolina, con i gomiti sul tavolo e le gambe ciondolanti, con occhi spalancati quelli del padre, ancor più spalancati dalla consapevolezza, dal terrore. Le avrà detto di sbrigarsi e lei si sarà bloccata per qualche istante, ammutolita e a bocca aperta, prima di buttarsi giù dalla sedia e di scappare via, senza portare nulla con sé, non un giocattolo… non una coperta.
Me la immagino vestita di bianco, col colletto merlettato e le labbra bagnate di latte, vivere una domenica qualsiasi senza pensare al domani, senza pensare al minuto dopo… giunti a questo punto, non è chiaro infatti, se la vita mi abbia deluso o addirittura sorpreso.
Il sudore sulla fronte
Well tell him I was calling
Just to wish him well
Let me leave my number
Heartbreak hotel
DIRE STRAITS, Calling Elvis
Non so perché accettai l’invito. Non ero solito provare piacere in queste occasioni; a dire il vero neppure ero solito sentirmi a mio agio. Tuttavia lo feci e pensai che forse sarebbe stato piacevole, più piacevole che passare l’ennesima serata passeggiando da solo sui marciapiedi del centro storico. Cosa che amavo fare, eh! Amavo farlo davvero, ma quella sera lei era troppo bella, troppo più bella di qualsiasi tuffo nella nostalgia e in un’altra realtà nelle strade deserte.
Quella sera mi ritrovai, quindi, in un ambiente non nuovo. Tanto tempo prima mi ero già trovato in situazioni del genere, ma non accadeva da non so quanti anni. Una festa privata in una villa con piscina riscaldata appartenente a dio solo sa chi; una schiera di gente ben vestita; giacche e borse firmate che mi giravano intorno in un viavai senza fine; musica techno house o rivisitazioni di vecchi classici italiani remixati su una pessima base dance; chiacchiere senza fine su argomenti scottanti e attuali come la guerra in Iran, Charlie Hebdo, i gamberi troppo piccanti e i cinesi che pian piano ci conquistano; camerieri impettiti con la fretta negli occhi, che servivano drink alle donne in nero e agli uomini col papillon. Camerieri che, qualunque durata avesse avuto la festa, il mattino seguente si sarebbero alzati presto, ammesso che fossero andati a dormire, per prendere il treno verso la città universitaria e concludere la loro laurea in ingegneria e aspettare, finalmente, che qualcuno il drink lo servisse a loro.
Riuscii a rimanere in me per poco, erano già ventisette minuti che costringevo la mia faccia a simulare perlomeno un po’ di disinvoltura. Non ero più al mio posto, odiavo queste situazioni. Non ce la feci. Mi venne da vomitare e cercai il primo cesso a disposizione, il primo che, a trentadue minuti dall’inizio della festa, non fosse già stato preso di mira da almeno dieci insospettabili tossici, tutti in fila ad aspettare di poter usufruire del lavandino di marmo di Carrara su cui stendere la coca. Più di dieci tra uomini e donne dal bel vestito nero, dal gran conto in banca e dal setto nasale bruciato, la bella società insomma.
Trovai il bagno e mi ci fiondai dentro. Feci scattare la serratura. Non vomitai. Rimasi di fronte allo specchio con le mani sul lavandino bianco-ottico a cercare di respirare… il mio battito doveva solamente rientrare nella norma. Il mio respiro doveva solo tornare calmo.
Pian piano mi sentii meglio: riuscivo a cogliere i dettagli di quel bagno, a ciascuno di essi la mia mente si staccava un po’ e le mie mani tremavano meno. Accanto allo specchio, sul lato destro, c’era un piccolo scaffale in legno scuro, più scuro del ciliegio, sul quale la padrona di casa - ecco, la casa rimaneva sempre di chissà chi
, ma finalmente sapevo che chissà chi
era una donna – aveva raccolto una varietà infinita di profumi. Alcuni etnici, dalla confezione bruna e dorata; altri dal nome ridondante, come solo alcune case di alta moda possono permettersi senza apparire ridicole; altri ancora dalla boccetta così particolare da non riuscire a individuarne l’apertura.
Tra le mille boccette dalle disparate provenienze, una catturò in particolar modo la mia attenzione. Non si trattava di un profumo moderno, non era costoso, non aveva certo un design accattivante. Era un flaconcino di Lancôme, Ô
de Lancôme: il profumo di mia madre. Lo aprii in fretta e furia, era semplice farlo anche per un uomo; era banale e non di alta progettazione, mia madre non poteva permettersi altro che quello.
Spruzzai per tutto il cesso quel liquido fresco e respirai a pieni polmoni: per un attimo mi sembrò che mia madre potesse davvero entrare di colpo nella stanza e sgridarmi, come tanti anni prima. Sgridarmi per essermi ridotto così male senza neppure drogarmi, sgridarmi con lo sguardo autorevole e la fronte malamente corrugata di chi vuole che tu ti tolga dai guai immediatamente, perché lei, ormai, dall’altro mondo non può più aiutarti a farlo, cosa che faceva quando era ancora su questo, di mondo.
Mi guardai allo specchio: facevo pena. I capelli, appiccicati ai lati del viso dal sudore, si stavano asciugando; le occhiaie e le lacrime mi tagliavano la faccia. Mi sembrò di avere cent’anni.
Iniziai a sentire un brusio, sempre più forte e fastidioso. Tante, troppe voci e tutte stranamente
seccate con me. Era la fila di gente fuori.
Anche il mio bagno, il mio angolo di salvezza, era ormai diventato destinazione per la sniffata tra i gamberi e le tartine. Uscii facendomi strada nella fila a testa china, facendo le mie scuse al pavimento. Mi presi gli insulti; alcuni mi sollecitarono persino un piccolissimo sorriso, così piccolo che non riuscì a mantenere il suo vigore e a sopravvivere per tutta la strada dall’impulso alle mascelle.
Cazzo, Roberta! Sono qui per lei; non l’ho neppure vista e voglio scappare.
Eccola! La guardai; le dissi che era troppo bella, ma che dovevo andare. Ci rimase male, ma potevo assolvermi e andare via senza problemi.
«Domani! Domattina al Caffè Imperiale, non mi sento bene. Domani!»
Andrea, ma che cazzo fai? No, dico, te ne stavi uscendo incolume, o quasi, e ti vien fuori un altro appuntamento? Allora sei proprio un coglione!
Lei sorrise e fece segno di sì con la testa, io mi morsi le labbra.
Sono proprio un coglione…
Scappai da quella bolgia infernale e dopo poco riuscii a respirare a pieni polmoni. Mi diressi verso casa. Nel frattempo il cielo aveva deciso di offrirmi uno dei temporali più spettacolari che avessi mai visto e io apprezzai davvero il fatto di percorrere l’ultimo tratto di strada bagnato fradicio, mentre la pioggia sferzante mi rigava il viso. Avevo sempre visto tanta poesia nella pioggia. Ricordo un vecchio fumetto, V for Vendetta mi pare, a cui fece seguito il film; a un certo punto un personaggio diceva: «Dio è nella pioggia!» Io non credevo in Dio, ma in questo sì!
Andrea, torna in te, risuonò la voce nella mia testa, hai fatto una cazzata, e quindi domani come farai?
Il mio cervello mi stava ricordando che io fuggo da certe situazioni, solo che stavolta non ne avevo voglia, stavolta – domani - vorrei proprio annegare con Roberta.
Ore 7:30. Mi butto giù dal letto con un entusiasmo che conosco, lo stesso che mi ha sempre pervaso quando, convinto di uscirne vincitore, mi martoriavo senza pietà nell’ennesima, fallimentare relazione, sapendo perfettamente che non sarebbe potuta durare. Nei mesi successivi mi ritrovavo un po’ più solo e dilaniato: avevo detto che non poteva durare!
Questa volta, però, sarebbe andata bene; pensare a Roberta, che conoscevo da un paio di giorni, già mi faceva addormentare sognando bambini a spasso nel nostro giardino, nella nostra casa con la palizzata bianca, con il cortile invaso da parenti in festa. Già mi faceva pensare alle lunghe notti che avremmo avuto, da soli e lontani dal mondo, chiusi in una stanza su di un letto a fare l’amore, ridere, fare l’amore, parlare e fare ancora l’amore, fino al mattino.
Da quando pensavo a queste cose?
Preparo il caffè sapendo che oggi non ci sarà alcun mal di stomaco a cogliermi all’improvviso, che poi tanto improvviso non è. Mi vesto. Cosa metto? Cerco nel mio armadio qualcosa che possa rendermi perlomeno un po’ più attraente del solito. Sto già cercando di imbrogliarla: voglio mostrarmi diverso da come sono, migliore, ma non mi importa. No che non mi importa! Mentre corro per casa come un forsennato, sbatto il gomito contro il mobile porta TV; becco in pieno il nervo, un dolore lancinante che mi lascia per qualche secondo senza fiato.
Il caffè è caduto sui miei vestiti e la mia sceneggiata va a puttane. Prendo dall’armadio il solito abito, lo indosso alla meno peggio ed eccomi fuori di casa. Per un momento penso che mentre scenderò le scale l’ansia mi assalirà, oppure lo farà mentre faccio scattare la serratura del portone, o, meglio ancora, mentre aspetto al semaforo che