Tutti i romanzi del Commissario De Vincenzi (14 Romanzi polizieschi in edizione integrale)
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Augusto De Angelis
Augusto De Angelis (1888-1944) was an Italian novelist and journalist, most famous for his series of detective novels featuring Commissario Carlo De Vincenzi. His cultured protagonist was enormously popular in Italy, but the Fascist government of the time considered him an enemy, and during the Second World War he was imprisoned by the authorities. Shortly after his release he was beaten up by a Fascist activist and died from his injuries.
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Tutti i romanzi del Commissario De Vincenzi (14 Romanzi polizieschi in edizione integrale) - Augusto De Angelis
INDICE
Augusto De Angelis
Biografia
Opere
Romanzi
Altri libri
Filmografia
Il commissario De Vincenzi (serie TV)
Personaggio letterario
IL BANCHIERE ASSASSINATO
1. Nebbia
2. Monforte… quaran…
3. Le prime indagini
4. La prova terribile
5. Un giovane biondo, in una soffitta
6. «Non so!… Non so nulla!»
7. Il conte Marchionni
8. Le due rivoltelle
9. «Sono stata io ad ucciderlo!»
10. Un grande amore
11. Un dolore più forte del dolore
12. Tenebre
13. Tentativi
14. La conferenza di De Vincenzi
Epilogo
SEI DONNE E UN LIBRO
Prologo
«Prego consegnare alla Questura»
Capitolo primo
Dopo un’ora di sonno
Capitolo secondo
Gualtiero Gerolamo Pietrosanto
Capitolo terzo
Le prime indagini
Capitolo quarto
Tre donne
Capitolo quinto
Patt…
Capitolo sesto
«Un vittorioso, un fortunato della vita»
Capitolo settimo
Un romanzo d’amore
Capitolo ottavo
Il peso dell’inconoscibile
Capitolo nono
Una coppia di assassini?…
Capitolo decimo
«La Zaffetta» - Venetia 1531
Capitolo undicesimo
La Darsena di Porta Ticinese
Capitolo dodicesimo
«Povera figliaccia di mamma sua!»
Capitolo tredicesimo
Giri attorno a un punto ignoto
Capitolo quattordicesimo
Il «confidente»
Capitolo quindicesimo
Harrington
Capitolo sedicesimo
Il «bigatt»
Capitolo diciassettesimo
Colloqui… spiritici
Capitolo diciottesimo
Il «parco dei cervi»
Capitolo diciannove
Battute d’aspetto
Capitolo ventesimo
Le donne sono sei
Capitolo ventunesimo
La seduta
Capitolo ventiduesimo
«Da trent’anni lo odiavo»
Epilogo
GIOBBE TUAMA & C.
Prologo
Le caprette
Capitolo I
Il sabato
Capitolo II
La domenica
Capitolo III
Sempre la domenica
Capitolo IV
Un cliente senza distinzione
Capitolo V
Il male in tutte le sue forme
Capitolo VI
L’eredità
Capitolo VII
«Perciocché Iddio ha fatto l’uomo a sua propria immagine»
Capitolo VIII
Miss Lolly Down
Capitolo IX
Chi di spada fere…
Capitolo X
Il terzo non riesce
Capitolo XI
Ombre nella nebbia
Capitolo XII
Il tranello
Capitolo XIII
… E il terzo è riuscito!
Epilogo
Le caprette
IL CANOTTO INSANGUINATO
Prologo
Capitolo primo
Capitolo secondo
Capitolo terzo
Capitolo quarto
Capitolo quinto
Capitolo sesto
Capitolo settimo
Capitolo ottavo
Capitolo nono
Capitolo decimo
Capitolo undicesimo
Capitolo dodicesimo
Capitolo tredicesimo
Capitolo quattordicesimo
Capitolo quindicesimo
Capitolo sedicesimo
Capitolo diciassettesimo
Capitolo diciottesimo
Capitolo diciannovesimo
Capitolo ventesimo
Epilogo
IL CANDELIERE A SETTE FIAMME
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
LA BARCHETTA DI CRISTALLO
PARTE PRIMA: IL QUADRANTE TRAGICO
Prologo
1
2
3
4
5
6
7
8
9
PARTE SECONDA: LE SFERE SI FERMANO
10
De Vincenzi non scherza più
11
Harry Gordon
12
Le gemme
13
Gastone Vitelleschi dei Marchesi…
14
Risveglio
15
Lo specchio
16
Venerdì tredici
L’ALBERGO DELLE TRE ROSE
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
19.
20.
IL DO TRAGICO
PROLOGO
Sei lettere azzurre
1. 150 PAIA DI SCARPE
2. NEBBIA
3. COLUMBIA G. Q. 7153
4. RAPITA NELL’ESTASI
5. INTERVALLO
6. ACCORDO DISSONANTE
7. ESPERIMENTO
8. TRAPASSO SENZA SUSSULTO
9. EPISODIO
10. INTRODUZIONE
11. NEL CERCHIO
12. PROFONDITÀ PERIGLIOSE
13. SARABANDA
14. DE VINCENZI SPEZZA IL CERCHIO
15. CORONA
16. CADENZA D’INGANNO
17. LUCI SUL FANGO
18. IL CAPITOLO DEGLI ABBELLIMENTI
a) MORDENTE
b) TRILLO
c) ACCONCIATURA
d) CADENZA
e) PAUSA
f) ARPEGGIATO
19. ACCESSORIO
20. A SOLO
PER TENORE
21. ANDANTE MOSSO
22. LEGATURA DI VALORE
23. ICTUS D’ENTRATA
24. UNA PARRUCCA NON SALVA IL CRANIO
25. RIFLESSIONE DI SUONO
26. LAVORO DI CONTRAPPUNTO
27. SINCOPATO
28. IN CERCA DELLA FONDAMENTALE
29. ACCELERANDO
30. FUGA
31. JANE
32. FINALE BARBARO
EPILOGO
San Fedele
IL MISTERO DELLA VERGINE
Capitolo I
Colloquio
Capitolo II
Perry
Capitolo III
Araldica
Capitolo IV
Incontro
Capitolo V
Enigma
Capitolo VI
Rosenkreutz
Capitolo VII
Verità
Capitolo VIII
Ectoplasma
Capitolo IX
Legamenti
Capitolo X
Bagliori
Capitolo XI
Avvertimento…
Capitolo XII
… inutile
Capitolo XIII
Telefonate
Capitolo XIV
Nuvole
Capitolo XV
Registrazioni
Capitolo XVI
Versetti
Capitolo XVII
Tregenda
Capitolo XVIII
Quadri
Capitolo XIX
Risveglio
Capitolo XX
Collera
Capitolo XXI
Sottintesi
Capitolo XXII
Coincidenze
Capitolo XXIII
Notturnino
Capitolo XXIV
Cy H
Capitolo XXV
Corruzione
Capitolo XXVI
«Imperatore»
Capitolo XXVII
Rompicapi
Capitolo XXVIII
Confessione
Capitolo XXIX
Allucinazioni
Capitolo XXX
Fuoco
Capitolo XXXI
Questura
Capitolo XXXII
Fisco
LA GONDOLA DELLA MORTE
O.
Parte prima
Manque
1 rosso
2 nero
3 rosso
4 nero
5 rosso
6 nero
7 rosso
8 nero
9 rosso
10 nero
11 nero
12 rosso
13 nero
14 rosso
15 nero
16 rosso
17 nero
18 rosso
Parte seconda
Passe
19 rosso
20 nero
21 rosso
22 nero
23 nero
24 nero
25 rosso
26 nero
27 rosso
28 nero
29 nero
30 rosso
32 rosso
33 nero
34 rosso
35 nero
36 rosso
L’IMPRONTA DEL GATTO
Un morto nel cortile
1. Satana
2. Lois
3. Risveglio a palazzo
4. Ombre
5. Il cugino Oscar
6. L’avvocato dei gatti
7. La villa
8. La valigetta
9. Il gioco delle ore
10. Nicotina
11. Interrogatorio
12. Le storie di Escamillo
13. Tangenti
14. Cotangenti
15. Le due lettere
16. De Vincenzi
17. Il convegno
18. Florastella
Epilogo
LE SETTE PICCHE DOPPIATE
Prima parte. I giocatori dell’Albergo Londra
Preliminari del pomeriggio.
L’ incontro
Telefono
Soliloquio
Colloquio
Domande
Giuoco
Preliminari della sera.
Un nuovo giocatore
La partita comincia
Seconda parte. Il cadavere
I.
II.
III.
IV.
Terza parte. La fialetta
I.
II.
III.
Quarta parte. Inchiesta
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
Quinta parte. Ponte
(Bridge)
I.
II.
Sesta parte. Scintille
I.
III.
IV.
V.
VI.
Settima parte. Un piccione
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
Ottava parte. Anagramma
I.
II.
III.
IV.
Nona parte. Il duello
I.
II.
III.
IV.
V.
Decima parte. Bagliori
I.
II.
III.
IV.
V.
Undicesima parte. La prima manche
I.
II.
III.
Dodicesima parte. Slam
e Rubber
I.
II.
III.
IV.
IL MISTERO DI CINECITTÀ
PERSONAGGI
1. Dodici più una
2. Cobina
3. Sid ha paura
4. Le idee di Cobina
5. Il minuetto di Scarlatti
6. De Vincenzi
7. Di nuovo il minuetto
8. Psicologia
9. Caienni prende una decisione
10. Intervallo
11. Miss Llewellyn
12. Il veleno dei Borgia
13. Telefonate
14. Strychnos nux vomica
15. Colpi di sonda
16. Il portiere dell’Excelsior
17. La camera di Boldviski
18. Blanca vertua
19. La rivoltella di Sibylle
20. L’alibi di Giucé e la confessione di Mike
21. L’ampolla di terracotta
22. Il Questore
23. Il fazzoletto colorato
24. Le rose gialle
25. Gita Garena
26. De Vincenzi si prepara a fare il gatto…
27. …Per prendere un topo
28. Delirio
29. Manette
30. Rapporto
IL MISTERO DELLE TRE ORCHIDEE
Prima giornata: giovedì
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
Seconda giornata: venerdì
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
Augusto De Angelis
TUTTI I ROMANZI DEL COMMISSARIO DE VINCENZI
Il presente ebook è composto di testi di pubblico dominio.
L’ebook in sé, però, in quanto oggetto digitale
specifico,
dotato di una propria impaginazione, formattazione, copertina
ed eventuali contenuti aggiuntivi peculiari (come note e testi introduttivi), è soggetto a copyright.
Immagine di copertina: https://pixabay.com/illustrations/skull-and-crossbones-skull-weird-2077852/
Elaborazione grafica: GDM.
Augusto De Angelis
Augusto De Angelis (Roma, 28 giugno 1888 – Bellagio, 18 luglio 1944) è stato uno scrittore e giornalista italiano, attivo soprattutto durante gli anni del fascismo.
Biografia
Nel 1930 pubblicò il suo primo romanzo Robin agente segreto, fortemente ispirato a L’agente segreto (1907), romanzo di Joseph Conrad, mentre il suo primo romanzo giallo fu Il banchiere assassinato (1935).
Nella sua breve carriera scrisse poco meno di una ventina di romanzi polizieschi, nella maggior parte dei quali è protagonista il commissario Carlo De Vincenzi, della squadra mobile di Milano (cui la RAI ha dedicato, con il titolo di Il commissario De Vincenzi, fra il 1974 e il 1977, due serie televisive con Paolo Stoppa nei panni dell’investigatore), un personaggio arguto ma molto umano, attraverso il quale l’autore si svincolò presto dai cliché dell’investigatore di stampo anglosassone, creando una sorta di Maigret italiano ante litteram.
Appassionato di teatro e di cinema, ha scritto anche diverse commedie teatrali pubblicate sulla rivista Il dramma
un quindicinale di commedie edito da Le Grandi Firme di Torino e non mancano pure due biografie sulla vita e i ricordi della sua attrice prediletta, Dina Galli.
Nonostante il buon successo dei suoi romanzi, tuttavia, De Angelis non poté goderne a lungo: la censura del regime fascista infatti impose il sequestro del romanzi noir nonché la chiusura della famosa collana dei gialli Mondadori, sia perché vedeva con sospetto il genere letterario noir cosiddetto d’élite, considerato come un prodotto della cultura anglosassone, sia perché, per motivi propagandistici e di ordine pubblico, tendeva a far scomparire il crimine dalle cronache e dalla letteratura.
A causa dei suoi articoli pubblicati sulla Gazzetta del Popolo
, scritti dal 25 luglio all‘8 settembre 1943, fu arrestato con l’accusa di antifascismo e successivamente trasferito nel carcere di Como. Uscì di prigione nel 1944 dopo aver scontato diversi mesi di detenzione, estremamente provato e debilitato dalla prigionia, tornò a Bellagio sul lago di Como dove risiedeva, ma ebbe la sfortuna d’incontrarsi con un repubblichino
della zona, che per una banale discussione, lo aggredì con pugni e calci, tanto da causarne la morte, avvenuta pochi giorni dopo per le conseguenze del pestaggio.
Oltre a scrivere romanzi gialli, pubblicò Fra le quinte della guerra: diario d’un soldato (1912), fu traduttore dal francese di Paul Adam (I cuori utili, 1929), Jules Claretie (L’accusatore, 1930) e Robert Boucard (L’esercito segreto dell’Inghilterra: rivelazioni di un sanzionista, 1936), e autore d’una biografia su Maria Antonietta (Maria Antonietta - Regina di Francia, 1934) e di una, inserita in una serie di donne nella storia
, su L’amante di Cesare (1936).
Nei suoi romanzi, De Angelis rinuncia in un certo modo alla propaganda ideologica di regime, e questo si rende fortemente manifesto specialmente nel romanzo Il candeliere a sette fiamme (1936), titolo con chiari riferimenti alla menorah, nel quale descrive un delitto commesso in un lurido albergo, e il commissario De Vincenzi, che deve investigare, si ritrova con i soliti elementi stranieri, una spy-story in cui gli ebrei hanno un ruolo di primo piano nella neonata questione palestinese. Anche nei luoghi comuni si distanzia dal regime (l’ebreo è un soggetto con dei rilievi fisici ben definiti secondo le leggi razziali): egli prende le parti degli ebrei e ne fa degli eroi.
A lungo dimenticati, i suoi romanzi sono stati riscoperti nel 1963 dallo scrittore Oreste del Buono (che ne pubblicò tre presso Feltrinelli, dove lavorava) e grazie agli sceneggiati televisivi del 1974-1977, resi popolari anche grazie alla riuscita interpretazione di Paolo Stoppa, e riportati a nuova luce. Negli anni duemila, infatti, la casa editrice Sellerio ne ha iniziato, a cura di Beppe Benvenuto, la ri-pubblicazione.
Opere
Romanzi
Robin agente segreto (1930)
Il banchiere assassinato (1935); Garzanti 1975; Sellerio 2009 ISBN 88-389-2376-0
Sei donne e un libro (1936); Sellerio 2010 ISBN 88-389-2499-6
Giobbe Tuama & C. (1936); Sellerio 2008 ISBN 88-389-2319-1
La barchetta di cristallo (1936); Sonzogno 1974; Sellerio 2004 ISBN 88-389-1965-8
Il canotto insanguinato (1936) ; Sellerio 2014 ISBN 978-88-389-3236-6
Il candeliere a sette fiamme (1936); Feltrinelli 1963 (in Il commissario De Vincenzi, a cura di Oreste del Buono); Garzanti 1973; Sellerio 2005 ISBN 88-389-2064-8
L’albergo delle tre rose (1936); Feltrinelli 1963 (in Il commissario De Vincenzi, a cura di Oreste del Buono); Garzanti 1972; Sellerio 2002 ISBN 88-389-1783-3
Il Do tragico (1937); Sonzogno 1976
Il mistero della Vergine (1938)
La gondola della morte (1938)
La notte fatale (1940)
Le undici meno una (1940)
L’impronta del gatto (1940); Sellerio 2007 ISBN 88-389-2232-2
Le sette picche doppiate (1940)
Il mistero di Cinecittà (1941); Sonzogno 1974; Sellerio 2003 ISBN 88-389-1883-X
Il mistero delle tre orchidee (1942); Feltrinelli 1963 (in Il commissario De Vincenzi, a cura di Oreste del Buono); Garzanti 1972; Sellerio 2002 ISBN 88-389-1708-6
L’isola dei brillanti (1943); Palomar 1995
Allucinazione (1943)
Curti Bò e la piccola tigre bionda (1943)
Altri libri
Dina Galli ed Amerigo Guasti: vent’anni di vita teatrale italiana (1923)
Interviste e sensazioni (1926); a cura di Bruno Brunetti, Graphis 2006 ISBN 88-7581-051-6
Viaggi con Claudine (1927)
Maria Antonietta - Regina di Francia (1934); Lucchi 1960
L’amante di Cesare (1936)
Hitler e il Reno (1936)
Intelligence Service. La fucina dello spionaggio inglese (1936)
La vita comica ed eroica di Dina Galli (1938, sull’attrice).
Filmografia
Il commissario De Vincenzi - (1974) Miniserie TV - regia di Mario Ferrero
Il commissario De Vincenzi 2 - (1977) Miniserie TV - regia di Mario Ferrero
Il commissario De Vincenzi (serie TV)
Il commissario De Vincenzi è una serie televisiva poliziesca prodotta e trasmessa dalla Rai sul Programma Nazionale in due stagioni distinte nel 1974 e nel 1977.
Interprete principale del lavoro televisivo, nei panni del protagonista, il commissario Carlo De Vincenzi, era l’attore Paolo Stoppa.
Personaggio letterario
La prima serie articolata su tre storie ciascuna delle quali sviluppata in due episodi girati in bianco e nero, venne trasmessa nella prima serata della domenica sera fra il 24 marzo e il 9 aprile 1974, mentre la seconda serie - pure basata su tre diverse storie - andò in onda a partire dal 18 marzo 1977.
La figura del commissario Carlo De Vincenzi (cinquantenne funzionario di questura, sorta di antieroe e, secondo la definizione che ne dà l’Enciclopedia della televisione, uomo senza particolare fascino, ma di grande umanità
) era ispirato al personaggio letterario creato dallo scrittore Augusto De Angelis, autore negli anni trenta di una serie di romanzi digenere poliziesco che risultarono invisi al fascismo e che patì le persecuzioni del regime tanto da morirne nel 1944 (vedi: Storia del giallo).
Alcuni dei suoi scritti vennero pubblicati o ripubblicati postumi ad inizio degli anni sessanta, e da essi furono ricavate le serie televisive con taglio dello sceneggiato di stile teatrale-televisivo.
Le sceneggiature dei diversi episodi del seriale - ambientati, come i romanzi polizieschi da cui erano ricavati, nell’Italia degli anni trenta posta sotto il regime fascista - furono affidate ad un’équipe di autori specializzati in fiction di investigazione: Manlio Scarpelli, Bruno Di Geronimo, Paolo Barberio, Nino Palumbo.
La regia era curata da Mario Ferrero, mentre le scenografie erano affidate a Sergio Palmieri (Luciana Del Greco nella seconda serie); di Maurizio Monteverde erano i costumi.
Particolarmente composito, all’interno dei sei episodi che andavano a comporre le due serie, era il cast di attori impiegati, molti dei quali provenienti da esperienze cinematografiche e teatrali.
IL BANCHIERE ASSASSINATO
(Le undici meno una)
(1935)
1. Nebbia
Piazza San Fedele era un lago bituminoso di nebbia, dentro cui le lampade ad arco aprivano aloni rossastri.
L’ultima auto s’allontanava lentissimamente dal marciapiede del teatro Manzoni, facendo risuonare sordamente il claxon. Il teatro chiudeva le sue grandi porte nere.
Qualche ombra fantomatica traversava la piazza. Due ombre si scontrarono allo sbocco di via Agnello e una di esse notò che l’altra era quella di un signore in abito da sera, pelliccia e tuba. Il signore per suo conto non vide che un’ombra nera. Non guardava neppure, del resto. Camminava. Procedette dalla piazza per via Agnello, nella nebbia, lentamente. Andava.
L’uomo, come se avesse riconosciuto colui col quale s’era urtato, si voltò per seguirlo. Ma subito si fermò, indeciso, trasse l’orologio e, accostatoselo agli occhi, vide che era la mezzanotte passata da qualche minuto. Alzò le spalle e tornò sui suoi passi, dirigendosi in fretta verso il grande portone della Questura, dentro cui entrò.
«E allora, cavaliere?»
«Ah!… Che vuoi?»
«C’è niente?»
«Hai domandato a Masetti?»
«Perché?… A quest’ora la squadra
è ancora aperta?»
«Dev’essere tornato Masetti… L’ho mandato a Porta Ticinese. Senti un po’ quel che ha fatto.»
«Furtarelli, De Vincenzi… E avrà trovato i tre braccialetti dal ricettatore.»
La rotonda faccia di De Biasi, apoplettica, sogghignava.
«È la sua specialità… trovare i braccialetti dai ricettatori…»
«E la tua qual è, De Blasi? L’astinenza?…»
«Non mi vanterei, certo, d’essere un bevitore d’acqua e limone, come te…»
De Vincenzi alzò le spalle, sorridendo. Quel giornalista, tondo e rosso come un segnale di via ingombra, gli piaceva. Con quella rotonda faccia da avvinazzato, era sveglio e pronto. Il migliore senza dubbio del Sindacato dei reporters e fargliela non era facile.
«Ognuno ha le sue debolezze, De Blasi…»
«La mia non è una debolezza; è una forza. Senti un po’…»
Entrò nella stanza e chiuse la porta dietro di sé. De Vincenzi si alzò di scatto, nascondendo sotto un pacco di pratiche il libro che stava leggendo.
«Ho sentito! Se tu ti metti a sedere, te ne vai domattina e io la tua teoria sulle virtù molecolari del vino la conosco…»
De Blasi non si scompose, guardò la stufa e fece una smorfia.
«Quando vi cambieranno le stufe, qua dentro? Quella lì appesta. Se tu credi che io potrei resisterci… Hanno imbiancato il cortile, hanno cambiato i mobili su dal Questore… Hai veduto i divani rossi?… Un po’ duretti; ma per adesso senza macchie d’unto. Però, a voialtri le stufe vecchie e la carta sbiadita alle pareti non le cambiano, eh?… Sei di notturna
stanotte?»
«Senti, De Blasi…» e il commissario, girando attorno alla tavola, si avvicinò al giornalista. «Tu sei simpaticissimo; ma io per un’ora o due desidero rimaner solo… Vattene a trovar Masetti, vattene al Pilsen
, vattene in Galleria…»
«Con la nebbia e tre gradi sotto zero!… Sarai matto!…»
«No, al Pilsen
c’è caldo… E poi tu fai presto a riscaldarti…»
«Leggevi?»
De Vincenzi lo spingeva verso l’uscio e De Blasi, pur lasciandolo fare, gli indicava il mucchio delle pratiche sul tavolo…
«Hai sepolto il tuo vizio sotto i reati e i delitti! Quanti ladri e quanti ricettatori pesano adesso sopra Pirandello?»
«Vattene! Non è Pirandello.»
«Sì, me ne vado. Ma è vero che studi la psicoanalisi? Me lo ha detto Ramperti… Un giorno di questi mi devi prestare Froind… Si dice così?… Chi è Froind?…»
«Un signore, che giustificherebbe tutti i tuoi peccati, dicendo che è di notte che te li sogni…»
«Curioso!… Ma perché hai fatto il poliziotto, tu, De Vincenzi?»
«Per avere il piacere di arrestarti, un giorno di questi. L’ubriachezza molesta è contemplata dal codice…»
«Uhm!… Quando mai mi hai veduto ubriaco, tu?… Vieni al Pilsen
più tardi?… Oppure da Cassè
alle quattro?»
«Sì, da Cassé
… Arrivederci.»
Chiuse la porta, mise un legno nella stufa e aprì il tiraggio. Per fumare, fumava, quella stufa. Si guardò attorno. La stanza dell’ufficio di notturna era squallida. Sul tavolo bruciacchiato dalle sigarette e che perdeva qua e là l’impellicciatura, coperto quasi dagli stampati, dai moduli, dalle cartelle, il telefono tutto nuovo e lucente, sembrava un oggetto di lusso messo lì per isbaglio. O anche una macchinetta chirurgica.
Tornò a sedere, prese il libro, sotto il pacco delle carte.
Non era Freud. Era Lawrence. Le serpent à plumes. I sensi…
Aprì il cassetto e toccò altri due libri: l’Eros di Platone e Le epistole di San Paolo.
Si rovesciò sulla sedia e guardò il soffitto: perché mai aveva fatto il commissario di Pubblica Sicurezza, lui?…
Ebbe un sussulto e gridò nervosamente:
«Avanti!» richiudendo in fretta il cassetto. «Tu!… E che vieni a fare a quest’ora?…»
Alto, magro, elegantissimo, col frak sotto la pelliccia e la tuba in testa, Giannetto Aurigi entrò in fretta, si tolse la tuba e rimase in piedi davanti al tavolo, fissando De Vincenzi.
Aveva gli occhi brillanti, stranamente lucidi, il volto esangue, contratto, scarno.
Sorrideva e, nel sorriso, le labbra sottili sparivano, sicché la bocca sembrava un taglio.
Quel pallore e i pomelli rossi colpirono De Vincenzi.
«Freddo?»
«Nebbia! Da piazza della Scala non si vedono le lampade ad arco della Galleria… Aghi sulla faccia e le dita intirizzite…»
De Vincenzi lo fissava curiosamente, interessato.
«Dentro la Scala
il sole d’Egitto sui flabelli e sulla gloria dei Faraoni… Subito fuori, il vigile, che batte i piedi…»
Schiacciò il gibus, che aveva tra le mani. Si guardò attorno e lo andò a posare sul piano di una specie di scaffale, pieno di cartelle legate.
Si tolse la pelliccia e l’attaccò a un chiodo. Poi, lentamente, fregandosi le mani bianche lunghe affusolate, andò a sedersi.
«E tu sei venuto a San Fedele?!»
«Eh?…»
Si era astratto e la domanda lo aveva fatto sobbalzare.
«Ma sì, non è la prima volta… Sapevo che eri tu di servizio…»
«Tutte le sere sono di servizio qui o di là e tu da molto tempo non venivi…»
«Già… Ma non perché non pensi a te. Mi sei caro, tu! Di tutti i compagni di collegio il più caro, anche se…»
Si fermò, preso come da un leggero impaccio o perché il suo pensiero aveva cambiato corso. Rise. Si guardò attorno.
«È triste, qui…»
«Un ufficio di Questura come un altro. Ma tu dicevi: anche se… Anche se sono diventato funzionario di Polizia, vero?»
«Dev’essere una vita da cani!… Mah! L’inclinazione naturale! Ci sono i ladri. Natura anche quella!»
«Già…»
De Vincenzi macchinalmente toccò il libro, che aveva dinanzi. Per una inconscia reazione, di cui non si rese conto, aggiunse:
«I ladri e gli assassini…»
«Che c’entra?»
E la voce di Aurigi suonò stridula, quasi falsa.
«Faccio per dire. Sei impressionabile, stanotte! L’Aida?…»
L’altro rise:
«Credi che influisca sui nervi?… Può darsi.»
Distese le lunghe gambe ed appoggiò la nuca alla spalliera della seggiola. Socchiuse gli occhi.
De Vincenzi lo guardava. Perché mai era venuto a quell’ora? E perché era venuto?
Compagni di collegio erano stati e amici. C’era molta cordialità tra loro: ma forse non la confidenza. Dove trovarla la confidenza, del resto, in questi tempi, tra uomini lanciati ognuno verso il proprio destino, con le proprie passioni, i propri bisogni, i molti vizi del corpo umano?
Ognuno di noi ha un segreto e beato colui che ne ha uno confessabile.
Qual era il segreto di Aurigi, che, alle due circa di notte, aveva sentito il bisogno di venire a trovare lui e che gli si stava addormentando davanti, lì sulla sedia, come schiantato dalla fatica o dalle veglie o da un torpore malsano?
Squillò il telefono sul tavolo e l’assonnato diede un balzo.
«Che c’è?»
De Vincenzi sorrise:
«Nulla! Il telefono…»
Prese il ricevitore e rispose:
«Pronto…»
Pronunciò qualche monosillabo e riappese il cornetto. Guardò l’altro:
«Potevi continuare a dormire…»
«Scusami! La musica di Verdi…»
Evidentemente, cercava di darsi un contegno. Indicò con la mano:
«Sarà il tuo martirio e il tuo incubo, quel telefono lì…»
De Vincenzi mise la mano sulla scatola nera e lucida, toccandola quasi amorosamente.
«Il mio caro tirannico telefono! È lui che alla notte, nelle lunghe ore di veglia, mi unisce alla città… Esagero. Diciamo al mondo, al mio mondo di commissario, capo della squadra mobile
. È per suo mezzo che mi arrivano le voci di allarme, primi richiami disperati…»
Ebbe un sorriso indulgente, come se compatisse se stesso:
«Per lo più, sono portinai svegliati dal rumore dei grimaldelli o dallo schianto secco di un colpo di rivoltella o semplicemente dagli schiamazzi di una comitiva di disturbatori notturni. Guardalo!… È tozzo, nero, inespressivo, per te. Niente altro che una scatola con un buffo cornetto e un cordone verde. Ma per me ha mille voci, mille volti, mille espressioni. Quando squilla, io so già, se mi reca un richiamo d’ordinaria amministrazione oppure se mi annuncia un nuovo dramma, una tragedia d’amore e di delinquenza…»
Aurigi sogghignò:
«Il mistero da squarciare!»
"Fa’ pure dell’ironia. Hai ragione. È così raro il caso di un mistero. Lo vorrei! Ma non lo cerco più e non lo aspetto neppure. Nel senso che tu puoi credere: il mistero poliziesco, l’enigma… un colpevole da individuare e da prendere… No, no!… La vita è molto più semplice e molto più complessa nello stesso tempo. Però, vedi, c’è sempre un mistero, che mi appassiona, tragico, fondo… Il mistero dell’anima umana.»
«Poeta!»
Aurigi rivide dinanzi a sé il compagno di un tempo. Anche in collegio faceva versi e declamava tutto solo, come un invasato.
«Io mi domando…»
«Perché abbia fatto il poliziotto? Sei già il secondo che se lo domanda, questa notte. Ma appunto per questo ho fatto il poliziotto: perché forse sono un poeta come tu dici. Io sento la poesia di questo mio mestiere… La poesia di questa stanza grigia, polverosa… di questo tavolo consumato… di quella povera vecchia stufa, che soffre in tutte le sue giunture, per riscaldar me. E la poesia del telefono! La poesia delle notti di attesa, con la nebbia sulla piazza, fin dentro il cortile di questo antico convento, che oggi è sede della Questura e ha i reprobi al posto dei santi! Delle notti in cui nulla avviene e tutto avviene, perché nella grande città addormentata, anche nel momento in cui parliamo, i drammi sono infiniti, se pure non tutti sanguinosi. Anzi, i più terribili sono appunto quelli che non culminano in un colpo di rivoltella o di coltello…»
Si fermò, come se un’idea improvvisa lo avesse fatto riflettere.
«Già… Poeta!… Tu, per esempio, Giannetto…»
Il sussulto di Aurigi fu repentino, visibile.
«Io?… Che dici?… Quale dramma vuoi che ci sia in me?…»
«Ma no!… Chi pensa ad un tuo dramma? Dicevo: tu, Giannetto, sei un poeta come me!… Non è forse per amor di poesia, che ti sei ricordato stanotte del tuo compagno di collegio e sei venuto qui? Perché, infatti, saresti venuto, se non per questo?»
«Tante altre volte sono venuto e tu non te ne sei meravigliato…»
«Già… Ma questa sera è diverso.»
«Indaghi?»
De Vincenzi ebbe un lampo.
«Tu hai bisogno di me, questa notte, Giannetto!»
«Ma certo!… Non sei tu, forse, che puoi darmi l’imprevisto? Alla Scala
mi aveva preso uno strano torpore. Nel palco mi sono addormentato. Ero sopraffatto da uno sfinimento dolce e morboso. Poi…»
«Eri solo?»
«Nel palco? No. È il palco dei Marchionni. C’era Maria Giovanna e sua madre. Poi è venuto Marchionni. Io dormivo… Uno scandalo… Mio suocero… il mio futuro suocero mi ha fatto andare con lui nel ridotto, per farmi la predica. Erano molti giorni che cercava un pretesto, per farmela. Dice che giuoco, che passo le notti al circolo, che mi uccido nei bagordi e che perciò mi addormento, quando mi trovo con la mia fidanzata. Ha parlato di forti perdite, che io avrei fatte. Dice che anche in Borsa ho chiuso il mese con una differenza impressionante…»
«È vero?»
«Che gioco? No.»
«E in Borsa?»
L’esitazione di Aurigi fu brevissima. Fissò negli occhi De Vincenzi e alzò le spalle.
«Oh! le Tessili sono precipitate…»
«Ne avevi molte?»
«Qualcuna. Ma, se mai, questa era proprio una ragione per star sveglio! No, no. È un’altra cosa. Te l’ho detto: mi sento sfinito. Ho lasciato il teatro prima della fine del terzo atto. Avevo bisogno di camminare. La nebbia… il freddo… la città quasi deserta… Ho fatto la Galleria e sono tornato indietro. Sono venuto qui da te… Ti dò noia?»
«Mi preoccupi.»
«Scherzi, vero? Non ti immaginerai che abbia qualcosa d’insolito, di grave, da rivelarti! Sarebbe buffo!…»
De Vincenzi assunse l’aria del buon fanciullo, che fa tante domande per curiosità. Sorrideva.
«A che ora finisce il terzo atto dell’Aida?»
«Non lo so!… Le undici… le undici e mezzo… Più tardi, forse.»
«E avevi freddo?»
«Io?… Perché?»
«Sei venuto qui all’una e mezzo… Fà il conto.»
Aurigi scrollò le spalle.
Di scatto, De Vincenzi si alzò e andò verso il calendario appeso alla parete. Pose il dito sul numero rosso e guardò Giannetto.
«Domani ne abbiamo 28…»
Un lampo di terrore passò negli occhi di Aurigi. Visibilmente, la sua forza di finzione lo abbandonò ed egli di colpo apparve smontato. Mormorò, convulsamente:
«Eh! sarà la fine!»
De Vincenzi gli si accostò.
«Dentro sino al collo, dunque? Così?…»
Un sorriso sinistro contrasse la bocca di Giannetto.
«Ma tu scherzi, De Vincenzi!… Che volevi dire, tu? Che è la fine del mese, semplicemente… E questo ho detto anch’io.»
«Già. Chiusura di mese e di conti. Le Tessili?»
«Quelle sono in ripresa!»
«E tu?…»
«E io?… Ho gli Acciai»
«Che crollano.»
«Come lo sai?»
«Lo vedo scritto sul tuo volto.»
«Sì, crollano. È inspiegabile, ma è così. Attraverso un momento atroce, De Vincenzi. Hai detto: fino al collo?… Di più… di più…»
Si alzò e fece qualche passo per la stanza angusta. Si muoveva come un automa.
De Vincenzi lo guardava e non avrebbe saputo dire a se stesso, se in quel momento era maggiore in lui l’apprensione per la sorte dell’amico o il desiderio freddo e spietato di guardargli sino in fondo al cervello, di scoprirne il segreto nascosto.
«Via!… Tu sei un bel giocatore! Fin dal collegio, lo eri. Resisterai… Ti rifarai…»
Allora, Aurigi parlò in fretta, come per liberarsi con uno sfogo improvviso.
«No! Non posso resistere! Questa volta non posso più. Già il mese scorso era grave. Dovetti dar fondo a tutte le risorse. Se ti dico la cifra, non la credi. Questo mese dovevo rifarmi e ho giocato tutto. Ho lasciate le Tessili e ho preso gli Acciai… Più che potevo… Come un forsennato o come un chiaroveggente, che è poi la stessa cosa!… Tu non puoi capirmi!»
«Ti capisco. Continua.»
Aurigi s’irrigidì.
«Perché? Perché mi fai parlare?»
«Non sei venuto qui, da me, per questo?»
«Per raccontare a te la mia rovina?!… Sei pazzo! A che scopo? Puoi darmi mezzo milione, tu? Ah! Ah!»
Rideva. Era chiaro che non poteva trattenersi dal ridere, a quell’idea.
«Puoi darmi mezzo milione?» ripeté.
«No, evidentemente io non posso darti quella somma… Ma il conte Marchionni…»
Giannetto si fermò e guardò De Vincenzi ad occhi spalancati, come se non capisse.
«Marchionni?»
«Naturalmente… Non deve essere tuo suocero? Quando ti sposi? Non è ricchissimo, Marchionni?»
L’altro alzò le spalle violentemente e riprese a passeggiare.
D’un tratto si fermò.
«De Vincenzi, tu mi hai fatto parlare e io non ne avevo voglia. Sono venuto da te, per non pensare. Due ore, hai detto? Sarà benissimo. Ma, se mi chiedi dove son andato per due ore, tra la nebbia, non lo so. Ho camminato. Ad un tratto mi son trovato in Galleria… E sono venuto qui, da te…»
Sarcastico, De Vincenzi lanciò:
«In Questura!»
«Ma sì: da te, non in Questura. Era un diversivo. Tu potevi avere un bel delitto da raccontarmi. E un bel delitto, mio caro, mi avrebbe dato il mezzo di non pensare alla mia rovina.»
De Vincenzi fece appena in tempo a dirsi che l’accento e l’aspetto di Aurigi erano paurosamente sinistri, quando il telefono nero, sul tavolo, squillò a tre riprese rabbiose, laceranti come tre gridi disperati.
2. Monforte… quaran…
«Pronto!»
De Vincenzi era andato a sedersi al tavolo ed aveva afferrato il ricevitore. Aurigi gli voltava le spalle e fissava il calendario.
«Sì, squadra mobile… Sono io… Ciao, Maccari… Di pure… No, aspetta…»
Prese una matita e tirò a sé sul tavolo un blocco di carta.
«Dimmi ora, chè scrivo… Bene… Monforte… quaran…»
La voce s’interruppe e De Vincenzi continuò a scrivere in silenzio. Aveva represso a fatica un sussulto e il suo sguardo era corso rapido e terrorizzato a Giannetto, che gli voltava sempre le spalle. Poi aveva riabbassato il capo sul foglio di carta. Per un momento era stato come se un gran vuoto gli si fosse fatto nel cervello; ma aveva subito vinto lo smarrimento e, quando tornò a parlare dentro il cornetto, la sua voce suonò calma e indifferente.
«Va bene… Ho capito benissimo il numero… e anche il nome… È morto?… Capisco… Tu mi aspetti, naturalmente… Vengo subito… Porterò gli agenti che ho sottomano; ma preparati a lasciarmene qualcuno dei tuoi… Ciao.»
Lentamente, riappese il ricevitore. Aveva lo sguardo duro e la mascella contratta.
«Che c’è?…» chiese Giannetto, voltandosi. Vide il volto dell’amico e ripetè quasi con paura:
«Che è successo?»
«Niente!… Affari… d’ordinaria amministrazione. Volevi un bel delitto, eh!»
Premette il bottone del campanello e fissò ancora Aurigi:
«Perché, proprio stanotte volevi un bel delitto, tu?»
«Io?… Ma che hai, De Vincenzi?»
«Sei sicuro d’aver passeggiato per due ore?»
«Ma sì. Te l’ho detto. E che c’entra, adesso?»
Basso, tarchiato, un torso quadro e muscoloso su due gambe troppo corte, il brigadiere Cruni era comparso sulla soglia.
«Ha chiamato me, cavaliere?»
«Sì. Tu e tre agenti. Un tassì. Subito.»
Cruni chinò il busto in avanti con una specie di inchino, che era saluto e risposta e fece per andare. Il commissario gli gridò dietro:
«Mandami Paoli!»
Poi rapidamente prese il pastrano e lo indossò.
«Esci?» fece Aurigi. «Vengo con te…»
«No. Non puoi. Aspettami qui.»
«Perché vuoi che ti aspetti qui? Sono quasi le tre. Me ne vado a casa.»
Per quanto padrone di sé e oramai deliberato a non vedere nell’amico d’infanzia che un «caso» interessante la sua ragione e il suo dovere, De Vincenzi trasalì visibilmente.
Quasi inconsciamente ripeté:
«A casa? A casa tua?»
Aurigi lo guardò sorpreso.
«Ma sì. Oh! dove vuoi che vada? Ma che hai, Carlo? Impazzisci?»
«Ti sembra?»
Stava per fermarsi e mettersi ad interrogarlo. Poteva essere un mezzo. Ma subito ci rinunciò e fu con voce fredda che disse:
«No, non andartene. Aspettami qui. Te ne prego. Avrò qualcosa da raccontarti, al ritorno.»
L’altro alzò le spalle.
«Come vuoi! Infatti, perché dovrei andarmene a casa?…»
Sorrideva. Sedette.
L’agente Paoli comparve nel quadro della porta.
«Son qui, cavaliere.»
De Vincenzi si mise il cappello, fece un segno di saluto ad Aurigi e raggiunse rapido la porta. Paoli si trasse da parte. Il commissario gli sussurrò brevemente un ordine e sparì.
L’agente aveva trasalito e adesso fissava con curiosità professionale l’uomo in frak, che, seduto tranquillamente, tamburellava con le dita sul tavolo del commissario.
«Mi fate compagnia?»
«Se non la disturbo…»
L’accento della guardia non era né ironico, né rude; ossequioso, piuttosto.
«A me?… Sedetevi…»
E spinse verso di lui, sul tavolo, l’astuccio aperto delle sigarette.
«Ecco gli altri, se Dio vuole! Per questa notte sarà finita…»
Aveva squillato il campanello. L’agente si era alzato dalla poltrona e si dirigeva lentamente verso la porta d’ingresso.
Il salotto era tutto illuminato. Troppa luce. Una luce da ricevimento, o da operazione chirurgica. Le tre porte erano spalancate. Quella di sinistra, che dava sull’altro salottino più piccolo; quella di destra della sala da pranzo; e quella di fondo, che s’apriva sulla stanza d’entrata.
L’altro agente scrollò le spalle:
«Come se non si stesse meglio qui dentro che al Commissariato!»
Sulla porta del salottino era apparso il commissario Maccari. Grassottello, rotondo, tutto pieno di bonarietà, Maccari aveva le mani in tasca. Ma il volto contratto rivelava in lui un senso d’orrore, di pietà, di concentrazione preoccupata, che faceva strano contrasto con quella sua aria pacifica da buon borghese.
Stava lì sulla soglia e guardava il suo agente, senza vederlo. Parlava tra sé, smozzicando le parole tra i denti.
«Mah!… Un brutto delitto… E chi ci capisce un accidente, è bravo!… Perché quel disgraziato è venuto a farsi ammazzare proprio qua dentro?»
S’accorse che l’agente stava seduto davanti a lui e lo guardava, sorpreso. Batté gli occhi, come se si svegliasse.
«Avete frugato dappertutto, voi?»
«Così, cavaliere… Una prima occhiata!…»
L’agente si era alzato e, quando gli fu vicino, gli disse con accento desolato:
«Intanto…»
«Intanto ce lo tolgono, eh?»
«Già… Lei, cavaliere, ha chiamato il commissario De Vincenzi, no?… Squadra mobile… La Centrale assumerà direttamente le indagini… È un delitto importante. A noi ci lasciano i furti e gli scassi…»
Lo scatto del commissario fu sincero, quasi violento.
«E voi ringraziate Iddio, questa volta!»
«Oh! Per me… Ma davvero a lei sembra tanto oscuro questo delitto?… Il nome sulla porta… il nome nelle tasche del morto… la porta spalancata e senza segni di scasso… le luci accese…»
Maccari lo interruppe con bonarietà.
«Spente, figlio mio!»
«Ma no, cavaliere!… Accese… Tutte come adesso, le abbiamo trovate… tutto l’appartamento illuminato a giorno…»
«Già! E c’era buio… Buio!… Le luci erano accese, ma c’era il buio, figlio mio… e qualcosa di losco, di viscido nel buio, date retta a me!… Non è finita! Vi dico io che questa storia è appena cominciata!…»
Sulla porta di fondo era apparso De Vincenzi. Dietro di lui si vedeva il volto curiosamente proteso dei due agenti, che egli conduceva con sé.
«Buona notte, Maccari!»
«Ciao!… Scusami d’averti disturbato, ma non potevo fare altrimenti…»
De Vincenzi si guardava attorno. Fissò subito il lampadario, che era tutto acceso, e batté le palpebre a quel chiarore, perché lui veniva dalla strada con la nebbia.
«Figurati!… E poi… Tu non sai ancora quanto hai fatto bene a chiamarmi… Ti dirò…»
Si guardò di nuovo attorno.
«Tutto così?» chiese.
«Tutto» rispose l’altro. E nella sua voce c’era come un accento di condiscendenza. Maccari sapeva quel che adesso il suo collega più giovane si sarebbe messo a cercare. Le tracce, gli indizi, le orme, la cenere delle sigarette, il profumo nella stanza… E non ne rideva neppure, del resto.
Ma volle mettere le cose in chiaro.
«Del resto, io sono venuto da un quarto d’ora, soltanto… Ho dato un’occhiata… Mi son reso conto che l’affare non andava e t’ho telefonato subito… Tu sei giovane, hai da far carriera, tu!… Io?» Ebbe un sorriso amaro. «Oramai!… E per di più i morti mi fanno impressione. Ne ho visti da che vivo più d’uno… Forse, parecchi… Certamente troppi pei miei nervi!… Che vuoi?… L’uomo vivo lo detesto… Se fossi sanguinario, ucciderei, io! Ma l’uomo… cadavere mi fa pietà… e mi fa terrore.»
Aveva avuto un fremito. Tornò a guardarsi attorno, per mutar corso alle idee.
«Sì, tutto com’era quando siamo entrati. Il telefono è lì nell’entrata… Lo avrai visto… Ho telefonato alla Guardia medica, che mandino un dottore… Ma ce n’era uno solo, che ha dovuto avvertire un suo collega a casa… Verrà, quando verrà… È morto, può aspettare. Vuoi vederlo?»
De Vincenzi non s’era tolto il cappello, per un’abitudine della sua professione. Quella per lui, in quel momento, non era una casa privata; era il luogo del delitto. E rimaneva lì, in mezzo alla stanza, con le mani nelle tasche del soprabito. Sì, il morto avrebbe dovuto vederlo, o presto o tardi. Ma qualch’altra cosa doveva dire, prima, al suo collega.
Non ebbe esitazioni; sebbene un leggero fremito gli rendesse più acuta la voce.
«Sai, Maccari? Questo è l’appartamento di Giannetto Aurigi e Aurigi, per uno di quei casi che non mi fanno meraviglia, tanto forte ormai è in me la convinzione che il caso solo ci governa, è mio vecchio amico… compagno di collegio… e proprio stanotte…» S’interruppe. Perché dir tutto? «Non importa!… Quel che importa, invece, è che, appunto perché Aurigi è mio amico, tanto più è necessario che io abbia i nervi a posto e che cominci dal principio a non commettere errori. Sento già che, se mi sfugge qualcosa, non mi ci ritrovo più. È meglio che vada adagio, con cautela.»
Si tolse il cappello, perché sentiva caldo, adesso. Lo posò sul tavolo e sedette.
«Raccontami.»
Maccari lo aveva ascoltato, fissandolo. Lo scrutava, a quel modo che fanno le persone grasse e bonarie, con gli occhi socchiusi. Sembrava che ammiccasse, e non sorrideva neppure, invece. Ma quando parlò, sul principio, le sue parole erano venate d’ironia.
«Sì, lo so, è un metodo anche questo… Adesso seguite il metodo, voialtri giovani… Ma aspetta… Mi son messo a studiare anch’io… Un po’ tardino; ma non credere che lo faccia per imparare. Lo faccio per rendermi conto di quanti errori abbia commesso o evitati io, così ignorante come sono, da trent’anni a questa parte…
«I cadaveri ti rendono amaro, Maccari!»
«No! Aspetta… Volevo citarti proprio io una regola del tuo metodo… Eccotela…»
E la enunciò, come se recitasse un versetto imparato a memoria.
«Il valore d’un fatto non è nella sua rarità, ma piuttosto nella sua volgarità e prima di pretendere alla chiaroveggenza di ciò, che è invisibile agli occhi della carne, conviene esercitarsi alla chiaroveggenza di ciò che è troppo visibile e, appunto per questo, non attira l’attenzione…»
S’era accostato, rivolgendo adesso verso di sé le punte della sua ironia.
«Bello, eh?»
«Se si potesse far sempre a quel modo!… E così?»
«Così, meno d’un’ora fa, ho ricevuto una telefonata… Venite subito in via Monforte, quarantacinque… è stato commesso un assassinio… Chi è che telefona?… Pronto! Pronto!… Ma la comunicazione era stata tolta… Con gli automatici, lo sai, non si può controllare di dove telefonano… Sono stato un po’ in forse. Ti confesso che sulle prime ho creduto ad uno scherzo… Poi mi son detto: se faccio una passeggiata e non trovo niente, il male è minore di quel che sarebbe, se il morto ci fosse e io non vi andassi… Arrivo qui e trovo il portone semichiuso, la luce accesa per le scale come rimane di solito tutta la notte nelle case signorili e non un’anima… Ma il portone era semichiuso. Capisci? Da quel momento mi sono detto che non si trattava di uno scherzo. La portineria sprangata… I portinai addormentati. Salgo e, subito dopo il primo pianerottolo, Fanti mi dice: Sente che odore?…
Odore, infatti, come di gas, ma non era gas… era polvere da sparo, cordite… Eppure per le scale non avevano sparato, ché se no avrei trovata tutta la casa sveglia… Al secondo piano due usci, uno chiuso, l’altro aperto… Questo qui… E si vedeva la sala d’ingresso illuminata. Sulla porta, il nome di Giannetto Aurigi. Entro. Lì, nell’ingresso, niente, ma tutte le luci accese. Giriamo. Laggiù una porta chiusa. La camera del domestico, evidentemente. Vuota. C’era il panciotto a righe azzurre del cameriere e i pantaloni e la giacca buttati sul letto. Da quella parte, pure sull’ingresso, la cucina. Vuota. Lì, la camera da pranzo, buia, l’unica buia, e vuota. Qui, nessuno. Lì, un altro salottino e steso per terra, contro il divano, un uomo morto.»
Aveva parlato in fretta, animandosi, e si fermò per riprendere fiato. De Vincenzi lo ascoltava e cercava di seguire le parole sue e di non pensare a tutto quel tumulto di sensazioni e di sentimenti che l’agitava.
Maccari riprese:
«Un uomo morto… Un foro di pallottola alla tempia… Un filo di sangue sul volto. L’uomo era in frak. Lo frugo…
Si cercò nelle tasche. Tirò fuori un piccolo portafogli di marocchino verde. Lo palpò un poco e poi lo tese al collega.
«Eccotelo… Questo è il suo portafogli. Piccolo per via del frak. Dentro ci sono cinquecento lire e sette o otto biglietti da visita.»
De Vincenzi aveva preso la busta di cuoio verde e l’aveva aperta. Senza fretta. Senza curiosità. In lui si era creato insensibilmente uno stato d’animo strano: doveva vedere, voleva vedere, e quasi non poteva o, per meglio dire, ritardava i movimenti per farlo, come se volesse di conseguenza ritardare l’effetto di essi.
«Mario Garlini!»
Aveva trovato i biglietti da visita per primi e aveva letto il nome. Un sussulto lo fece sobbalzare.
«È un agente di cambio…»
«Era, vuoi dire. Adesso è un defunto. Sì, proprio così, era un agente di cambio. Ma era anche qualche cosa di più. La banca Garlini è sua. Si parla di trenta o quaranta milioni suoi, di patrimonio.»
Maccari alzò le spalle e scosse la testa. Trenta o quaranta milioni: quanti! Lui non li avrebbe mai visti. Ma quell’altro non li poteva vedere più. In fondo, non c’era differenza tra loro, adesso. Lui viveva senza tutti quei milioni e quindi non viveva. L’altro era morto e i milioni non erano più suoi. Era triste quella sera, Maccari, e concluse tra sé: siamo morti tutti e due.
Ma ad alta voce disse soltanto:
«Bah! Adesso non può più servirsene.»
Tanto per dir qualcosa, De Vincenzi fece una domanda, che era la più semplice che potesse fare, per cominciar le indagini.
«Segni di lotta?»
«Nessuno. Neppure una sedia rovesciata. Deve essere stato colpito mentre era seduto. È scivolato col corpo in terra.»
«L’arma?»
«Niente! Se non l’hanno nascosta in qualche luogo della casa, il che mi sembra poco probabile, se la sono portata via. Così, si spiegherebbe anche l’odore di polvere per le scale e questo vorrebbe dire che, appena fatto il colpo, chi ha sparato è fuggito.»
«E poi?»
«E poi… Che vuoi?… Subito ho sentito che l’affare era serio e non soltanto per quei trenta o quaranta milioni del morto. C’è qualcosa che non canta bene in tutto questo. Non mi domandare che cosa, perché non lo so. È un’impressione mia. Ma così forte che, dopo aver telefonato al medico, ho subito telefonato a te. Sbrigatela tu!… Giacché posso, io non voglio occuparmene…»
De Vincenzi si alzò. Mormorò, tanto per seguire la logica di Maccari:
«Bah!…»
Ma fece uno sforzo per liberarsi da quell’intorpidimento, da cui si sentiva invaso, e continuò:
«Non hai fatto svegliare i portinai? Non hai suonato alla porta dell’appartamento vicino?»
«Niente. Però avrai visto: il portone è piantonato e su questo pianerottolo c’è un agente.»
«Ho visto…»
Fece un movimento brusco e deliberatamente andò verso l’uscio di sinistra, quello che dava nel salottino. Guardò il morto e non ne ricevette nessuna impressione. Soltanto chiese a se stesso, quasi con rancore verso quel cadavere: «Perché è morto?…» Era una domanda senza risposta, naturalmente. Ma in certo modo una risposta c’era e De Vincenzi la formulò a se stesso, voltandosi verso il collega ad osservargli:
«Era giovane, ancora…»
«Trentacinque o trentasei anni. Giovane.»
«L’hai frugato completamente?»
«No, per non muoverlo. Aspettavo il dottore.»
De Vincenzi tornò a guardar dentro il salottino. Era un salottino banale: un divano azzurro e due poltrone; un tavolo, una consolle, qualche quadro, nessuna fotografia. In fondo, di faccia, un’altra porta. Non volle traversar quel salotto subito.
«E quella porta?» chiese.
«La stanza da letto.»
«Illuminata?»
«Sì.»
«Il letto?»
«Fatto. Con la piega alle lenzuola e il pigiama disteso e pronto. È chiaro che non sì è coricato.»
«È l’ultima camera dell’appartamento, quella?»
«No. Un’altra porta. Era chiusa. Ho appena guardato: il bagno. M’è sembrato vuoto.»
Il brigadiere Cruni con l’agente Rossi erano rimasti sulla porta, in anticamera. Ma guardavano e ascoltavano. De Vincenzi sentì quasi, in quel momento, il peso del loro sguardo addosso a sé e chiamò subito:
«Cruni!»
Il brigadiere, con un piccolo balzo di soddisfazione, avanzò.
«Andate a vedere nel bagno.»
Cruni vi si precipitò.
De Vincenzi si volse a Maccari.
«Fuori, per la nebbia, le strade sono bagnate. Hai trovato tracce di passi?»
L’altro indicò il pavimento:
«Non vedi da te? Niente!… Venuti in auto, si capisce…»
Tra i due si fece il silenzio.
Maccari si abbottonava il pastrano, accingendosi ad andarsene. De Vincenzi si tolse il suo. Troppo caldo in quell’appartamento: neppure il cadavere nella stanza vicina era riuscito a raffreddarlo. C’era un’aria pesante, bruciata: l’aria dei termosifoni troppo bollenti, che non mandano vapore e che lo assorbono. Aridità. Eccolo il senso! Era un senso di arido, che De Vincenzi si sentiva in bocca. Anche tra le giunture delle dita aveva quella sensazione. Voleva reagire. Avrebbe certo continuato ad interrogare Maccari, se in quel momento non si fosse sentito suonare il campanello e dall’ingresso una voce che diceva: «Aprite. C’è il dottore.»
Maccari e De Vincenzi si scossero.
«Ha fatto presto!» osservò Maccari.
Lui avrebbe preferito che il dottore avesse ancora tardato qualche minuto. Non voleva farsi prendere nell’ingranaggio di quell’inchiesta.
Il dottore comparve, quasi di corsa. Era giovane, magro, con il naso aquilino e tagliente come un rostro, e gli occhiali. Sembrava ancora uno studente, che non mangiasse tutti i giorni. Aveva una busta nera sotto il braccio. Doveva essere quello uno dei suoi primi servizi comandati. Uno dei suoi primi delitti. Un cadavere da studiare. Sentiva tutta l’importanza della cosa e di sé. Si vide davanti quei due e andò loro incontro con la mano tesa.
«Buona notte, signori… Dottor Sigismondi, della Guardia medica di via Agnello…»
Gli altri due si presentarono.
«Si trova lì dentro…» gli disse De Vincenzi, indicando la porta di sinistra. «È morto. La prego, dottore, di voler segnare la posizione esatta del corpo… Si faccia aiutare da un agente… Voi, Rossi… mettetevi a disposizione del dottore… E la prego, dottore, di spogliarlo e di farmi consegnare gli abiti, procurando che non cada nulla dalle tasche. Ma prima lo esamini bene. Veda se c’è stata lotta… e da quanto tempo lo hanno ucciso…»
Il dottore volle aver l’aria di non essere alle prime armi e rispose, come per insegnargli qualcosa:
«Approssimativamente, vuol dire. Nessuno può stabilire con esattezza da quanto tempo un uomo è morto. Oppure si potrebbe anche stabilirlo; ma con gli strumenti adatti e prendendo la temperatura dell’ambiente… E tutte queste cose qui mancano…»
Intanto, s’era tolto il cappello e il pastrano e stava per dirigersi verso l’uscio indicatogli, quando da quello uscì il brigadiere Cruni. Aveva il volto soddisfatto. Con una strana intonazione di voce, come se volesse farsi sentire da tutti, disse:
«Nulla, cavaliere! Il bagno è vuoto.»
S’era guardato attorno e si avvicinò a De Vincenzi, facendogli un segno d’intelligenza.
«Parla,» gli disse il commissario.
Il brigadiere parlò a voce bassissima, quasi soffocata:
«Guardi lei, di là… Il bagno è in disordine. Si direbbe che c’è stata una lotta. E per terra ho trovato questo…»
De Vincenzi prese l’oggetto, che Cruni gli tendeva e l’osservò attentamente. Era una fialetta di profumo, d’oro, uno di quegli oggettini graziosi, che le signore portano nella borsetta. Tutta cesellata. La prese fra due dita e la sollevò contro luce per guardarvi attraverso. Mormorò:
«Incolore…»
Annusò e poi subito si volse:
«Dottore!»
«Dica…»
«Guardi un po’…» e gli porse la fialetta.
Il dottore l’osservò, la sturò e se l’accostò al naso.
«Mandorle amare!… Dove l’ha trovata? Strano!…»
«Strano, che cosa?»
«Che possa aver trovata questa fiala altrove che al suo posto naturale!…»
«E quale sarebbe, secondo lei, il… posto naturale di quella fiala?»
«Un ospedale o una farmacia… Non credo di ingannarmi, dicendole che qui dentro c’è acido prussico…»
E il giovane continuava a guardar la fiala.
Maccari e De Vincenzi tacevano. Avevano sentito un brivido alla schiena.
Eppure, il morto era stato ucciso con un colpo di rivoltella… Che cosa c’entrava, adesso, l’acido prussico?
3. Le prime indagini
Erano rimasti tutti e tre a guardare quella fialetta d’oro, che il dottore teneva tra le mani.
Il primo a parlare fu il giovane medico, che vedeva in essa un mezzo di più, per dar peso alla propria opera.
«Ad ogni modo» disse, mettendosela in tasca, «domani mattina le fornirò un rapporto esatto sul contenuto.»
«Grazie!»
Ma De Vincenzi aveva bisogno per qualche istante di raccogliere le idee, di concentrarsi, di fare il punto, soprattutto al proprio stato d’animo, perché sentiva di non avere ancora il cervello limpido e lo spirito sereno. Aveva l’impressione che tutti quei fatti e che persino gli oggetti materiali attorno a sé sfuggissero, divenissero evanescenti e, così evanescenti com’erano, si mettessero a danzare una folle danza, una sabba di spettri.
«E adesso, dottore, vuol dare un’occhiata di là?…»
La sua voce era gelida. Persino il dottore lo guardò meravigliato. Ma annuì col capo e si affrettò ad entrare nel salottino.
Cruni tirò il commissario per la manica.
«Vada anche lei di là, cavaliere!» gli mormorò, con accento quasi supplichevole, tanto in lui era forte il desiderio che il suo capo diretto vedesse quel che lui aveva visto e traesse quelle conclusioni, che a lui erano mancate.
De Vincenzi, dopo un’esitazione, si decise. E i due seguirono il dottore.
Maccari era rimasto solo. Pensava. E, secondo la sua abitudine, i suoi pensieri gli uscivano dalle labbra sotto forma di parole. Ma lui non parlava che per sé solo.
«L’ho detto!… Per me siamo soltanto al principio…»
Si sentiva sopraffatto. Una grande stanchezza lo aveva invaso. Sedette.
«Domani mattina, a mia moglie ripeterò un’altra volta: mia cara, ancora tre anni, tre lunghi anni… e poi la pensione!… Ritirarmi!… E lei ciabatterà per la casa, borbottando: bella cosa, la pensione!… Per quel che ti daranno!…»
Ma le idee gli si cambiavano ad ogni momento e il suo pensiero tornava sempre a quel dramma, che pure avrebbe voluto cancellare per sempre dalla memoria.
«Odore di polvere da sparo… Una porta socchiusa… Nessuna effrazione e… un cadavere… La pensione!… E gli studi sul metodo… Il metodo!… Il ritratto parlato… I dati segnaletici… E tutta una quantità di gente, che ruba e ammazza e non sa neppure che queste cose avvengono!… Potermene non occupare neppure io!»
Sussultò, perché il brigadiere Cruni ritornava, correndo.
«Il telefono… Dov’è il telefono?»
Maccari alzò la testa e lo guardò e dovette far passare qualche secondo prima di rispondergli, perché non riusciva a capire che cosa quelle parole significassero.
«Oh! Sì… Eccolo lì… A destra… Nell’ingresso…»
Cruni vi corse e si attaccò al ricevitore. Poco dopo parlava con un commissario di servizio in Questura e gli diceva che il commissario De Vincenzi si trovava in via Monforte, in casa del signor Aurigi, dove c’era un morto e quel morto era il banchiere Garlini. Dall’altra parte del filo il commissario di notturna lo ascoltava distrattamente, prendendo appunti. Finì col domandargli:
«Ebbene?» con l’aria di volergli chiedere a che scopo raccontasse proprio a lui tutte quelle cose, se sul posto si trovava il suo collega De Vincenzi.
Ma Cruni non aveva finito.
«Il dottor De Vincenzi dice che nel suo ufficio si trova in questo momento Giannetto Aurigi. Ce l’ha lasciato lui, raccomandando all’agente Paoli di non farlo andar via… Ecco, il commissario la prega di farlo accompagnare qui subito… Senta, cavaliere, dice il commissario di mandarlo qui con due agenti… No, no… Senza manette… Gli agenti debbono anzi far finta di nulla, e non dirgli neppure una parola del cadavere…»
Nell’altra camera, Maccari lo aveva ascoltato. Quando lo vide tornare, gli chiese:
«Giannetto Aurigi si trova in Questura?»
«Già! Quando si dice, eh!, cavaliere…»
Il commissario si voltò verso la porta del salottino sulla quale era riapparso De Vincenzi. Questi aveva un sorriso sarcastico sulle labbra ed esclamò, tra sé:
«Voleva un bel delitto!»
Ma subito, quasi per cancellare il suono di quella frase, chiese bruscamente a Maccari:
«Sentivi il mistero, tu?»
«Io? No. Sentivo di peggio: la tragedia!»
«Perché dici tragedia?» chiese De Vincenzi, scrutandolo negli occhi.
«Te ne accorgerai!…»
Anche De Vincenzi, del resto, aveva quell’impressione. C’era in quella camera, in quell’appartamento, un’atmosfera pesante, viscida, che pesava come qualcosa d’invisibile, di mostruoso, d’inumano. Non soltanto il mistero di quel cadavere. Qualche altra cosa di imponderabile. Lo sentiva. Non soltanto che ci fosse di mezzo Aurigi, col quale aveva studiato in collegio e che era un poeta anche lui… Ma tutto, tutto aveva vibrazioni strane.
«E tu avevi Aurigi in Questura?»
Fu quella domanda, che richiamò De Vincenzi alla realtà. Sorrise.
Il caso!
«È tuo amico, hai detto?»
L’altro s’era di nuovo assorto. Mormorò:
«Lascia andare! È terribile!…»
Come se volesse scuotersi da quel torpore, da cui si sentiva invadere sempre più, si volse di scatto verso il brigadiere:
«Subito! Svegliate i portinai e portatemeli qui… Avete telefonato a San Fedele?»
«Signorsì, cavaliere. Lo conducono subito qui. Il cavaliere Boggi, che ha sostituito lei di notturna, dice che penserà lui a telefonare al Questore…»
E il brigadiere, uscendo dal fondo, non sentì il commissario, che mormorava:
«Il Questore!… Bah! Se ne parlerà domani mattina…»
Adesso aveva bisogno di agire, voleva affrettarsi. Andò sull’uscio e chiamò il dottore. Questi era ancora chino sopra il cadavere, che aveva disteso sul divano. Si voltò, vide il commissario, diede un’altra occhiata all’uomo e poi tornò nel salotto, passandosi una palma contro l’altra, lentamente, col gesto di chi si asciuga le mani.
«Lei vuol sapere da quanto tempo è morto, vero?…» Alzò le spalle e disse in fretta: «Cominciano a manifestarsi i primi segni di rigidità… Saranno due ore… due ore e mezza… Faccia lei…»
«E gli abiti?»
«Sono lì… Io non li ho frugati… Ma se permette, continuo…»
E, senza aspettare la risposta, tornò nel salottino.
Maccari, intanto, pur continuando ad abbottonarsi il pastrano, quasi volesse con quel gesto decidersi ad andarsene, a strapparsi di lì, si guardava attorno. Ad un tratto vide un oggetto luccicare presso il divano e si chinò a raccoglierlo. De Vincenzi lo osservava.
Maccari, invece di mostrargli l’oggetto che aveva raccolto e che continuava a tenere tra le dita, gli chiese:
«Di là… hai trovato qualche cosa?»
L’altro, macchinalmente, trasse a metà dalla tasca una carta, che si affrettò a ricacciar dentro.
«Sì… Qualche cosa… Proprio quello che occorreva per non farmici capire più nulla… E tu?»
«Io?… Toh!»
E gli porse quell’oggettino luccicante, con il quale adesso le sue dita grassocce stavano giuocando.
Era un bastoncino di rosso per le labbra. Uno di quei tubetti preziosi, che le signore portano nella borsetta.
De Vincenzi lo osservò, ma non fece commenti. In quel momento arrivava Cruni con il portinaio e la portinaia.
Una strana coppia. Lei giovane, belloccia, con il petto opulento. Era evidente che aveva paura, ma era altrettanto evidente che un’irritazione sorda le agitava quel suo petto copioso. Lui era un esserino patito, timido, in preda ad un terrore illimitato.
La donna parlò subito, senza freni, avanzandosi verso De Vincenzi, quasi avesse compreso che era a lui che bisognava rivolgersi.
«Che c’è? Un furto, eh? Se hanno rubato, ve lo dico io chi è il ladro… Me lo aspettavo… E la colpa è sua… Di quest’imbecille… Chè la soffitta non doveva affittarla! Ma lui è di cuore tenero!»
Indicava con la mano tesa il marito, che s’era messo a tremare e che balbettava:
«Rosa! Rosetta! Che dici?… Aspetta a parlare… Non sai ancora nulla!»
Preso da un improvviso scatto d’energia, l’omuncolo si voltò verso quei due uomini, che lo fissavano.
«È vero, signori? Ancora noi non si sa nulla!… Perché ci abbiano svegliati… che cosa sia successo… Nulla di nulla!»
De Vincenzi aveva ritrovato il suo sangue freddo. Era tornato ad essere il commissario di Pubblica Sicurezza e persino il tono della voce gli si era fatto diverso, quasi un po’ volgare, per quanto questo non fosse nelle sue abitudini, così sempre corretto e signorile com’era.
«Dormivate, eh? La solita storia… Ma adesso zitti…»
Si volse all’uomo, intuendo che quello avrebbe parlato più facilmente, mentre la donna gli avrebbe dato filo da torcere.
«Venite qui, voi… e rispondetemi…»
Il portinaio fece un passo avanti, ma la moglie lo afferrò e lo trasse da una parte con tanta violenza da farlo vacillare.
«Io, io!… Interroghi me! Che cosa vuole che sappia, lui?… Di giorno sta al Municipio… È impiegato… Guadagna trecentosettantacinque lire al mese! Bella roba!… È vero che non sa far niente! E la sera mangia e va a dormire! Che vuole che sappia?»
«E voi, invece?»
«Io sto tutto il giorno in portineria. Conosco tutti! E la sera fino a mezzanotte rimango in piedi… Chiudo il portone alle undici; ma prima che possa andarmene a letto ce ne vuole!…»
De Vincenzi si volse a Maccari:
«Li conosci, tu?»
«Mai visti!… Siete mai venuti al Commissariato, voi due?»
La donna protestò con indignazione.
«Mai! Oh! Che crede?»
Il commissario si strinse nelle spalle:
«Io? Niente!»
De Vincenzi aveva interrogato con gli occhi Cruni e i due agenti, ma anche costoro avevano scossa la testa.
«Bene!» esclamò De Vincenzi. «Allora, venite qui voi, donnetta mia, ma rispondete soltanto alle mie domande, senza far tante chiacchiere. Capito?»
«Purché mi domandi quel che so!…»
Il commissario, prima di continuare con lei, si volse al brigadiere:
«Cruni, andate giù. Quando vengono da San Fedele con… Quel signore… Fermatelo e fatelo entrare in portineria. Manderò io a chiamarlo.»
Cruni scomparve ancora nell’ingresso e De Vincenzi si volse alla donna, che seguiva tutti i suoi movimenti, curiosamente, con un sorriso quasi ironico sulle labbra.
«Dunque… A che ora avete chiuso il portone, questa notte?»
«Alle undici. E a che ora voleva che lo chiudessi?»
«Tutto il giorno e la sera siete stata in portineria»
«Che domanda! Oh! Dove voleva che stessi?»
«Cercate di ricordarvi bene, prima di rispondermi… Avete visto il signor Aurigi, durante la giornata?»
La donna alzò le spalle.
«Sì naturalmente… Usciva… Entrava…»
«Le ore. Ditemi le ore in cui lo avete veduto. Ma pensateci bene!»
Il volto della portinaia appariva ineffabile.
«E come faccio? Durante il giorno passa tanta gente! Sarà uscito ed entrato alle ore solite… La mattina alle undici, non esce mai prima… Poi rientra all’una… Esce nel pomeriggio… Aspetti… Oggi dev’essere uscito verso le tre e tre quarti. Lo so, perché m’ha chiesto se era venuto qualcuno a cercarlo e proprio allora stavo stirando… E poco dopo erano le quattro, perché ho smesso di stirare e so che