Riscontri. Rivista di cultura e di attualità: N. 1 (GENNAIO-APRILE 2019)
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Riscontri. Rivista di cultura e di attualità - Riscontri
Riscontri
RISCONTRI. RIVISTA DI CULTURA E DI ATTUALITÀ
N. 1 (GENNAIO-APRILE 2019)
Tutti i diritti di riproduzione e traduzione
sono riservati
Responsabile : Ettore Barra
Registrazione presso il Tribunale di Avellino, n. 2 del 15/03/2018
Amazon Media EU S.à.r.l. (AMEU), 5 rue Plaetis, L-2338 Luxembourg
Anno XLI (Nuova Serie I) - N. 1, Gennaio-Aprile 2019
Periodicità: quadrimestrale
email: [email protected]
sito: www.riscontri.net
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Indice dei contenuti
POTERE DELLA NEOLINGUA E NEOLINGUA DEL POTERE
L’EPITOME DE CAESARIBUS
METAMORFOSI DANNUNZIANE
La dimensione storica dell’alterità
LO STATO DELL’ARTE CONTEMPORANEA
LE DIVERSE FORME DELLA SCRITTURA DI SÉ
TOPOGRAFIA FIORENTINA NELLA DIVINA COMMEDIA
LA SEDUZIONE DELL’ALTROVE NELLA QUINTA DIMENSIONE
LA CITTÀ IDEALE DI LEONARDO DA VINCI
SE TELEFONANDO…
UTENZE BLOCCATE
HEAT - LA SFIDA
L’ironia della chiave
Note
EDITORIALE
POTERE DELLA NEOLINGUA E NEOLINGUA DEL POTERE
Nel suo 1984, George Orwell immaginava una forma di dominio ideologico basata sul Newspeak: una lingua artificiale imposta da un partito totalitario al fine di rendere impossibile l’espressione del dissenso. Nel romanzo distopico dell’autore britannico, l’archelingua doveva essere soppiantata dalla neolingua in un processo di continua purificazione che consentisse una riscrittura continua di passato e presente a seconda delle esigenze.
Se nel nostro presente manca un regime totalitario in grado di imporre una simile operazione, è vero anche che sono visibili i tentativi in questo senso da parte di un’ideologia politicamente corretta sempre più pervasiva. Un vero e proprio sistema di potere basato su un gruppo di parole in grado di funzionare – allo stesso tempo – da passepartout e da uscita di emergenza in qualunque discussione. Quello che ne risulta è un dibattito pubblico estremamente confuso, dove le parole perdono i loro significati per acquisirne altri del tutto arbitrari e non motivati.
"Fascista,
razzista,
omofobo,
islamofobo e
populista" sono tra le parole più ricorrenti nei giornali e nei talk show, sempre in agguato – con la loro immediata percezione di gravità – nella discussione di tematiche importanti e complesse. Scagliare, infatti, uno di questi epiteti permette anche all’interlocutore più ignorante di averla facilmente vinta senza bisogno di una riflessione o di un ragionamento.
In televisione come al bar, a farne le spese è proprio chi – invece – una riflessione si sforza di farla senza il rassicurante supporto di una visione del mondo in bianco e nero. Dove bene e male sono nettamente delimitati e non è pertanto ammissibile alcuna forma di dissenso.
D’altro canto, la neolingua orwelliana si caratterizza proprio per la sua semplicità. Un lessico sempre meno ricco che si contrappone alla complessità del linguaggio classico. Se per un giorno, infatti, venisse vietato l’uso dei cinque epiteti sopra citati, la conseguenza sarebbe un totale quanto significativo annullamento dell’attuale dibattito politico. Non è però necessario avvalersi del mezzo estremo di una dimostrazione per assurdo. Sarebbe, invece, più che sufficiente iniziare a riportare le parole ai loro significati originali e pretendere da chi li utilizza la dimostrazione di averne contezza.
«La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa» sosteneva Karl Marx in uno dei suoi tanti insegnamenti da sempre ignorati dalla sinistra italiana. Come si può definire diversamente da una farsa il sempre imminente ritorno del fascismo
cavalcato da politici e giornalisti anche nelle elezioni politiche del 2018? Per poi ritrovarci, immancabilmente, con le risibili percentuali ottenute da gruppuscoli che si nutrono dell’attenzione riservata – perfino a livello legislativo – al sogno
impossibile di ristabilire il regime mussoliniano.
Cortocircuiti che potrebbero essere evitati ascoltando giornalisti come Aldo Cazzullo e Paolo Mieli, che da decenni tentano – con pacatezza – di spiegare l’insensatezza e la pericolosità di una perenne caccia al fascista
. Quest’ultima ha, infatti, tra le sue controindicazioni quella di lasciare la porta aperta ad altre forme di autoritarismo che hanno l’accortezza di non presentarsi con una divisa nera. Più che una prospettiva anti
servirebbe quindi una cultura autenticamente democratica, in grado di vigilare su tutte le minacce alla libertà, di qualsiasi provenienza.
"Fascista non può in alcun modo diventare sinonimo di
autoritario o di
illiberale, così come l’ormai in disuso
comunista" non poteva – a suo tempo – etichettare qualunque oppositore del ventennio berlusconiano.
L’uso politico della parola fascista
non può che generare ingiustizie e paradossi, come quello di aver definito tali persone che – come Indro Montanelli e Giovannino Guareschi – del regime di Benito Mussolini erano addirittura stati oppositori, ma riconosciuti colpevoli di mancata connivenza col Pci e i suoi eredi.
Se di un presunto fascista
andrebbe dimostrata la continuità politica o quanto meno ideologica (ammesso che di ideologia si possa parlare vista la sua natura di contenitore vuoto
, dove poter inserire qualunque cosa), lo stesso procedimento andrebbe fatto per il razzista
. Che nella realtà sarebbe il sostenitore di teorie fondate sul presupposto di razze
storicamente e biologicamente superiori ad altre, con annesse politiche di preservazione della purezza
. Mentre, nella finzione ideologica che sovrascrive il mondo reale o – per usare un termine marxista – nella sua narrazione
, il razzista
è chiunque si opponga all’idea no border. Una posizione, quest’ultima, dall’indiscusso valore poetico, ma assolutamente non politico. Col paradosso di una posizione non politica adottata da numerosi esponenti politici, in Italia e nel mondo.
Se è evidente che nessuna realtà statuale possa fare a meno di confini, perché chiamare in causa qualcosa di serio come il razzismo, col rischio di banalizzarlo e – anche in questo caso – di non poterne più veramente riconoscere effettive manifestazioni?
Col risultato paradossale di persone dagli strumenti semplici che arrivano ad autodefinirsi razziste
quando, ad una semplice indagine, quello che chiedono veramente è un controllo dei flussi migratori. Nient’altro da quello che qualunque Stato si sentirebbe chiamato a fare. A riprova di una semplificazione anche qui sospetta, sia da parte di chi immagina di risolvere il problema limitandosi a costruire muri e barriere – che infatti assurgono al livello di manifesti politici in formato slogan – e sia da parte di chi invece sostiene un processo migratorio infinito e senza limiti di cui è più che legittimo avere paura.
Preoccupazioni acuite dalla convinzione di chi vede l’integrazione come un fenomeno naturale e inevitabile, in quanto tale non bisognoso di un piano che assicuri le tutele minime (un rifugio e un lavoro) alle persone che arrivano. Col rischio concreto di disgregazione sociale derivante da una guerra totale tra poveri. Per non parlare del rischio di complicità effettiva, più o meno volontaria, con le organizzazioni criminali che gestiscono la tratta di esseri umani.
Altro caposaldo del Grande Fratello orwelliano è quello dello psicoreato. Un delitto che può essere commesso anche solo a livello mentale, in uno Stato totalitario che non concede spazio nemmeno alla coscienza individuale. Per cui il dissenso, da parte di chi si ritiene detentore della verità assoluta, non può spiegarsi in altro modo che come malattia mentale.
Finzione letteraria, com’è noto, ispirata dalla realtà storica. In particolare allo stalinismo che aveva tra le sue pratiche consolidate quella di rinchiudere i dissidenti nei manicomi. Non è un caso che i nuovi crimini del pensiero
abbiano tutti per suffisso la parola fobia
. Ovvero un «disturbo psichico – secondo il vocabolario Treccani – consistente in una paura angosciosa destata da una determinata situazione, dalla vista di un oggetto o da una semplice rappresentazione mentale, che pur essendo riconosciuta come irragionevole non può essere dominata». Quello di islamofobi
e omofobi
sembra, quindi, un destino già segnato nel nome loro affibiato. Anche, anzi soprattutto, senza alcuna incitazione all’odio o atto di violenza; ma semplicemente in presenza di opinioni – condivisibili o meno – che sono razionalmente argomentate e non prevedono alcuna discriminazione giuridica.
Diventata anche l’omofobia una categoria politica, capita sempre più spesso che il crimine di pensiero sia imputato – in tutta la sua paradossalità – a persone omosessuali. Com’è accaduto di recente a Martina Navratilova, ex tennista statunitense e icona gay. Lesbica dichiarata dal 1981 ma colpevole di aver denunciato la concorrenza, a suo dire sleale, da parte dei transgender nei confronti delle donne in ambito sportivo. Infatti, «dal 2016 il Cio (Comitato Olimpico Internazionale) – si legge in un articolo del sito La27ora
(Corriere della Sera) – ha deciso che agli atleti trans non sia più richiesto l’intervento chirurgico né i due anni di terapia ormonale di conversione. Chi passa da uomo a donna dovrà soltanto dimostrare di avere i livelli di testosterone contenuti entro i 10 nanogrammi per litro».
Solo per questo, la Navratilova è stata rimossa dal ruolo di ambasciatrice e consigliera della Athlete Ally
. Significativamente, lo stesso articolo che citavamo parla nel titolo di «scivolone sulle atlete trans» da parte della protagonista della vicenda. Salvo poi ammettere, nel testo, che in effetti «dovrebbe essere lecito discuterne»…
Il populismo
, infine, si presenta come mirabile sintesi di tutti e quattro gli epiteti. Sembra infatti che non possa esistere un populista
che non sia anche fascista, razzista, omofobo, islamofobo e – magari allo stesso tempo – antisemita. Dove per populismo si fa riferimento alla tendenza di instaurare un rapporto diretto con la popolazione, facendo a meno della mediazione dei partiti. Tendenza che, per la verità, – grazie all’uso disinibito dei più moderni mezzi di comunicazione – appartiene a tutta la politica contemporanea da ormai diversi decenni.
Nel linguaggio comune, quindi, populista
è più che altro sinonimo di euroscettico
– o peggio sovranista
– ma con accezione dispregiativa di demagogico
. Posto che le forze cosiddette populiste appaiano talvolta effettivamente ambigue, resta l’impressione che una parte dell’informazione abbia acquisito una sorta di automatismo che la esime dal tracciare identikit precisi per soggetti politici talvolta molto differenti. In favore di pezzi che a volte ricordano più la pratica dei «due minuti d’odio» contro Goldstein, il nemico supremo di Oceania, particolarmente virulenta nella nuova versione social media.
D’altro canto, anche tra i populisti non mancano ideologie distorsive. Un esempio banale potrebbe essere proprio il tanto discusso reddito di cittadinanza
che – a ben guardare – non è altro che un sussidio di disoccupazione. Chiamato, per motivi evidentemente ideologici, con un nome che ha invece tutt’altro significato.
Tutte le possibili critiche, che è senz’altro fondato muovere ai populisti
, non giustificano però il processo ideologico di un’etichettatura schematica che mira a screditare aprioristicamente qualunque forma di dissenso. Addirittura conferendo a certuni primati di demagogia che – magari in direzione uguale e contraria – possono con i medesimi criteri essere assegnati anche agli altri.
Ettore Barra
L’EPITOME DE CAESARIBUS
Analisi dell’opera nel contesto della storiografia tardoantica
L’Epitome de Caesaribus è un’opera storica in lingua latina risalente, secondo Paolo Chiesa, al V secolo d.C.; è una compilazione trattante, in brevi descrizioni suddivise in quarantotto capitoli, le figure degli imperatori romani, da Augusto (in particolar modo dalla battaglia di Azio, nel 31 a.C.) a Teodosio (morto nel gennaio del 395 d.C.).
L’opera mostra uno stile biografico che si rifà, o cerca di ispirarsi, al modello svetoniano, agile ed efficace, in particolar modo fino al capitolo 38, con la descrizione di Caro; di lì in poi, le movenze sono più affini a quelle della narrazione storiografica liviana, in una trattazione continua fino al capitolo conclusivo, dedicato alla figura di Teodosio.
L’attribuzione più comune, oggi, è quella ad un autore anonimo di età tardoantica: ipotesi, questa, che ha messo da parte l’attribuzione ad Aurelio Vittore precedentemente perlopiù assecondata. Paolo Chiesa, in Roma antica nel Medioevo[1], fa riferimento all’Epitome de Caesaribus come prodotto letterario di confine tra l’età tardoantica e il Medioevo, come opera rappresentativa di un tipo di atteggiamento, talvolta sottovalutato, che pure l’età medievale e quella di poco precedente seppero dimostrare nei confronti del mondo romano: un atteggiamento, cioè, di interesse, a prescindere da intenzioni critiche o addirittura denigratorie.
La tendenza più nota, che attraversò quelle fasi di passaggio tra il mondo antico e medievale, è quella critica, portatrice di giudizi negativi e legata soprattutto al sentimento cristiano, il quale cercò una legittimazione anche nella messa in evidenza dei punti deboli o delle crudeltà che caratterizzarono l’Impero romano. Paolo Chiesa nota e sottolinea, infatti, «il perdurare nel Medioevo di un filone storiografico che interpretava la natura di Roma antica in modo prevalentemente negativo, almeno per il periodo in cui la città fu sede e centro indiscusso del paganesimo».
Questo tipo di prospettiva è ben evidente, ad esempio, nei passi che lo stesso studioso cita come esemplificativi di Orosio[2] e Liutprando da Cremona[3], volti a descrivere criticamente l’atto della fondazione di Roma: le fondamenta della città furono gettate, nella prospettiva dei due autori, per mezzo di atti fratricidi e omicidi, che hanno lasciato la loro impronta, perpetuandone l’effetto nefasto e malaugurante sulla storia romana tutta.
Del resto, va detto che il mondo romano, nel corso della sua storia, oltre che nelle modalità del suo originarsi e sorgere, aveva incarnato atti di violenza che inevitabilmente crearono delle ombre nel compiersi della definizione dell’Impero; è sotto il potere imperiale che il mondo romano esercita la sua reazione violenta nei confronti della realtà cristiana (ingiusta, secondo Sant’Agostino, nella lettera XCIII4 dell’anno 408 circa), che comunque non sarà arrestata nel suo affermarsi.
Sant’Agostino, nel De civitate Dei[4], metterà in evidenza e ricorderà gli atti fratricidi sotto il cui segno Roma era nata e dai quali aveva derivato, in qualche misura, una corruzione mai del tutto superata; non bisogna dimenticare comunque che, con Costantino e poi soprattutto con Teodosio, l’Impero si allineerà ed anzi inizierà a promuovere il processo di cristianizzazione, specie quando, in Oriente, Eusebio di Cesarea interpreterà il potere imperiale in senso provvidenzialistico, attribuendogli lo scopo, stabilito da Dio, di unificare il mondo allora noto per far strada all’evangelizzazione.
L’Impero romano, comunque, spesso in riferimento ai singoli detentori del potere, aveva talvolta creato titubanze e reazioni critiche, più o meno esplicitamente, anche da parte di chi, in quel contesto politico e sociale, aveva esercitato la sua azione culturale e vissuto la propria vita: celebre il caso di Lucano che, sul finire dell’età giulio-claudia, nel I capitolo della Pharsalia[5], lamenta quella che pare essere una tendenza insita nel mondo romano a rivolgere contro se stesso le armi e la violenza, tramite modalità che fondamentalmente richiamano quell’antico atto fratricida che aveva segnato indelebilmente il suo stesso originarsi; non manca poi di suscitare qualche sospetto della presenza di una mal celata ironia, il noto riferimento a Nerone, la cui grandezza giustificherebbe quel doloroso percorso di conflitti civili, in quanto processo che ha condotto al suo potere.
Fin dalle prime fasi del Principato, del resto, quest’ultimo aveva creato certe forme di insofferenza, spesso legate a personali motivi e situazioni di disagio che il nuovo assetto di potere da poco stabilitosi generava: è il caso di Ovidio, il quale nei Tristia, più che in qualunque altra sua opera, scrive col fine assolutamente pratico di
mettere in rilievo con la massima enfasi possibile – evitando, naturalmente, l’affermazione esplicita – che il princeps, forte della propria autorità, seppellendo il più grande poeta di Roma in una tomba vivente, aveva oltrepassato il segno, aveva abusato di un potere che dopotutto non era che temporale[6].
Si tratta, ovviamente, in questo come in altri casi, di voci più o meno polemiche che si ergono in ragione di motivazioni personali, di esperienze concrete necessariamente da contestualizzare; voci che non possono essere considerate se non estremamente lato sensu, come se si ergessero a difesa di una vaga libertas romana, tenendo anche presente che «la romana libertas non era mai stata sinonimo di auto-espressione politica completa»[7].
Dunque, evidentemente, ogni riferimento va analizzato in relazione alle circostanze concrete che generano certi atteggiamenti: è innegabile, tuttavia, che l’Impero abbia suscitato riflessioni spesso disincantate, di autori