NO: Del rifiuto e del suo essere un problema essenzialmente maschile
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Anteprima del libro
NO - Lorenzo Gasparrini
Introduzione
Capitalismo e patriarcato
Sembra molto strano, a chi lavora da tempo sugli argomenti di genere, che si debba ancora discutere, come nella famosa storia dell’uovo e della gallina, se sia nato prima il patriarcato o il capitalismo. Per quanto indietro qualcuno si sia spinto a trovare le origini del capitalismo occidentale, il patriarcato è evidentemente una costruzione sociale prebiblica e questo dovrebbe chiudere la questione senza lasciare dubbi. Questi ultimi continuano a resistere proprio perché quelle questioni di genere, e i suoi discorsi e linguaggi, sono ancora poco diffusi nella pubblica opinione, specialmente italiana. Si pensa che quelle di genere siano tematiche nate di recente, sulla scia di fatti di cronaca sui quali i media hanno preso a soffermarsi con interesse – morboso come sempre – negli ultimi anni. Prima non se ne parlava
è l’opinione diffusa, e questa confermerebbe che di tutto ciò non si facesse studio, analisi, ricerca nei luoghi più diversi, istituzionali e non. Invece è proprio così; quando si fa notare, documenti storici alla mano, ai più sedicenti esperti di critica al capitalismo che Marx ha sostanzialmente scelto di non includere la questione femminile nelle sue teorie di lotta al capitalismo, i più si sentono come traditi o presi in giro da quello che non si sarebbero aspettati. La storia parla chiaro: anche comunismo e socialismo nascono maschi
, e le tante lotte di donne impegnate sul campo e con i loro scritti già a fianco di nomi storici dei movimenti per i diritti dei lavoratori confermano che quella di tenere fuori dal gioco tutto ciò che non riguardava gli uomini era una scelta politica precisa e non una fatalità inevitabile o una disgraziata occasione mancata.
Il capitalismo è figlio del patriarcato, e ovviamente figlio maschio, bianco ed eterosessuale. Da bravo figlio patriarcale, continua con mezzi nuovi e più efficienti l’oppressione fino ad allora vigente, e la perfeziona col progresso tecnologico messo al servizio di una cultura sempre più sessista con l’andare del tempo. I notevoli traguardi storici ottenuti dalle donne da almeno due secoli e mezzo non possono far dimenticare il loro senso: sono appunto traguardi, mete raggiunte – cioè qualcosa che ha reso necessaria una lotta sociale perché era dato per scontato che la parità tra generi non sarebbe dovuta esistere. Volendo cercare per tutto ciò un evento iniziale preciso, basterà fermarsi alla celebrata Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino che, come si sa, escludeva dalla sua generale rivendicazione di ‘diritti umani’ proprio la metà degli esseri umani: le donne. La risposta polemica non si fece attendere: di lì a poco Olympe de Gouges ebbe da dirne parecchie a questi illuministi ancora poco illuminati sulle questioni politiche che riguardavano un sesso diverso dal loro. I risultati di questa sacrosanta rivendicazione si sono visti subito: Olympe finì ghigliottinata come quella regina alla quale aveva spiegato che era anche lei un’oppressa. Quella corona che aveva sulla testa Maria Antonietta serviva solo a ricordarle da quale famiglia – patriarcale – proveniva, e in quale altra famiglia dello stesso tipo era stata collocata da un potere dispotico che la usava, lei come le altre regine, come fattrici di re. Finito il re, finita anche la sua funzione.
Ugualmente facile è stato dimostrare che lo sconvolgimento sociale portato dal capitalismo si è ampiamente servito del più classico degli schemi patriarcali per consolidarsi e perpetuarsi tra generazioni. I borghesi come i proletari erano accomunati da una stessa struttura familiare, i primi per continuare la dinastia di potere economico e politico, i secondi per aumentare le possibilità di (misero) reddito attraverso il moltiplicarsi dei corpi adattabili prima possibile allo sfruttamento lavorativo. Tu lavorerai col sudore della fronte e tu partorirai con gran dolore
era per entrambe le classi sociali una intoccabile ideologia alla quale doveva adattarsi la loro differente realtà, senza mai una crisi o un ripensamento. Ora che le classi sociali sono molte di più, e ciascuno e ciascuna di noi appartiene a più d’una trovandosi a essere contemporaneamente sfruttati e sfruttatori, non è cambiato quasi nulla per la maggior parte delle persone. Davanti a una formale parità di genere sono ancora le donne a dover combattere una società che le paga di meno, le uccide di più in quanto donne, le obbliga a scegliere carriere o posizioni subordinate, chiude loro strade e piani alti con muri di cristallo, le ricatta con i supposti obblighi familiari, rende loro la vita difficile tra pregiudizi e stigmi sociali. E quando decidono di alzare la testa e lottare, per la maggior parte della gente – uomini e donne – sono femministe isteriche che non si sono rese conto che gli anni Sessanta sono finiti.
Il capitalismo ha di molto affinato le armi patriarcali, da un Ottocento di scontri armati e stragi sui luoghi di lavoro. Non che queste cose siano finite, ma ora c’è un paradigma culturale molto efficace a renderle disgraziate eccezioni, sventurate eventualità, effetti collaterali. Secoli di letteratura, cinema, informazioni, prima che si chiamassero media hanno raccontato l’epopea del self made man ponendo l’accento sulla questione del self made in modo che passasse sotto silenzio che si trattava sempre e solo di man. Nel Far West come in Steinbeck la donna era l’ostaggio o l’ostacolo, da difendere o conquistare; nell’Europa occidentale dickensiana come in quella centrale di Schnitzler fino a quella orientale dei russi pur tanto diversi tra loro, la donna portava scompiglio, disturbo, caos e disordine. I Buddenbrook finirono con tutte e solo donne, il povero Hans Castorp non comprese mai nulla di quella che aveva di fronte. Il divismo – così ben capito già da Walter Benjamin – ha trasformato i sogni di tanti uomini e donne in modelli appositamente irraggiungibili quanto intercambiabili, in modo che tutti e tutte possano frustrarsi allegramente senza soluzione di continuità divenendo clienti di una inarrestabile fabbrica di illusioni per tutte le tasche. Da quando poi la prassi politica è diventata continua comunicazione di slogan elettorali, i politici si vantano di non essere politici e parlano alla cosiddetta ‘pancia’ degli elettori; attingono cioè a un universo simbolico non più messo in discussione da nessuna analisi critica, ma fornito da quella fabbrica di valori spendibili e facilmente collocabili in un mercato che è appunto il capitalismo. E possiamo cambiargli nome quanto vogliamo: liberismo, capitalismo e patriarcato sono una linea genealogica assimilabile a nipote, figlio e nonno e le pur evidenti differenze tra generazioni non mutano né il loro scopo né scalfiscono il solido legame che li tiene uniti.
Quell’universo simbolico – patriarcale prima, capitalista poi, liberista ora se preferite – permea un’educazione sessista che continua a funzionare in modo molto efficace¹.
Oppressore di chi?
Questa educazione patriarcale, attraverso gli strumenti del sessismo, mantiene e ricostruisce adattandola nel tempo una gerarchia sociale che per quanto complessa è chiaramente identificabile. Al vertice – un vertice largo e stratificato ma pur sempre un vertice – c’è il maschio bianco occidentale che pur nelle differenze di censo vive di simboli che gli ricordano il proprio potere, comunque declinabile sugli altri generi. Il ricco industriale o banchiere, il potente personaggio politico si circonda di donne appariscenti più o meno pubbliche e non manca occasione per dichiararsi legato a valori machisti. La sua vicinanza, quando non appartenenza, alla destra o alla sinistra di uno schieramento politico ne determina la volgarità di linguaggio e la spudoratezza dell’azione, ma certo non il senso ultimo del suo messaggio esistenziale e politico. Man mano che si scende una scala di potere economico, politico o mediatico, l’uomo bianco occidentale sente comunque di avere una possibilità di scherno sociale nei confronti di chi non è uomo etero, che in ultimo si può identificare nella più ipocrita e banale – ma comunque dannosa – forma di violenza recentemente conosciuta: l’odio in rete. Impossibilitato a un contatto fisico e alla dimostrazione sociale della propria superiorità, l’uomo (o anche la donna) che vuole comunque partecipare di un privilegio di genere, di un potere sessista si sfoga su Boldrini o su Rackete per dimostrare che comunque lui (ma anche lei, sempre più spesso) è a un gradino superiore. Si tratta di una superiorità che non ha bisogno di alcuna dimostrazione, né tantomeno di essere comprovata effettivamente in una forma reale. L’appartenenza al genere in cima alla gerarchia patriarcale, e la pervasività del suo modello di potere, ha fornito da tempo tutti gli strumenti necessari: il campionario di insulti sessisti è stato appreso fin dal primo giorno di scuola, a volte anche prima, e si declina pur nelle mille varianti disponibili nella propria lingua sempre intorno ai consueti temi svalutanti.
Questo tipo di oppressione non è meno dolorosa o violenta perché ci si è abituati, sia a commetterla che a subirla. Quando è un sistema sociale a insegnare l’esercizio di discriminazioni sessiste, la questione della responsabilità personale viene dopo quella della consapevolezza sociale. Che si abbia intenzione o meno di esercitare quella oppressione sistemica, essa agisce comunque e bisogna innanzi