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L’aeroplano del Papa
L’aeroplano del Papa
L’aeroplano del Papa
E-book201 pagine1 ora

L’aeroplano del Papa

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Info su questo ebook

L'aeroplano del Papa è un romanzo futurista in versi liberi di Filippo Tommaso Marinetti nel 1912. Dedicato a "Trieste, nostra bella polveriera", il romanzo predica la necessità di "svaticanare l'Italia" e di muovere guerra all'Austria: un'idea ardita nel 1912, in tempi di Triplice Alleanza, ma che sarebbe divenuta di folgorante attualità appena due anni dopo con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mag 2019
ISBN9788833463902
L’aeroplano del Papa
Autore

Filippo Tommaso Marinetti

F. T. Marinetti was born in Egypt in 1876 and died in Italy in 1944.

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    Anteprima del libro

    L’aeroplano del Papa - Filippo Tommaso Marinetti

    becchini.

    1. VOLANDO SULLA SICILIA NUOVO CUORE D’ITALIA.

    Orrore del tetro cubo della mia camera

    da sei lati chiusa come una bara!

    Orrore della Terra, vischio sinistro alle mie zampe d’uccello!

    Oh! salire! Salire... fuggire in alto e lontano!

    Dalla breccia della parete, scoppiata subitamente,

    il mio gran monoplano dalle aperte ali bianche

    fiuta l’azzurro del cielo....

    Davanti a me, l’acciaio con sfolgorante fragore

    dilacera la luce, e la febbre

    cerebrale della mia elica

    espande nell’aria il suo rombo.

    Sulle mie ruote ragionanti io tutto vibro danzando,

    e mi schiaffeggia il folle vento dell’estro!

    I meccanici intanto, nel buio

    logico della mia camera,

    per la coda trattengono elasticamente

    la mia ansia di volo,

    come si tiene a guinzaglio un cervo volante....

    Via! Lasciatemi! Parto!

    E alfine – oh! gioia possente! – io mi sento

    quello che sono veramente:

    un grande albero insorto che si sradica

    con uno scatto di volontà e si slancia

    via sul suo aperto fogliame stormente,

    scagliando contro il vento

    la turbinante matassa delle sue folte radici!

    Sento il mio petto aprirsi come un gran buco

    ove tutto l’azzurro del cielo deliziosamente s’ingolfi,

    liscio, fresco e torrenziale!

    Sono una finestra aperta innamorata del Sole,

    che verso il Sole s’invola!

    Chi ancora potrà rattenere

    le finestre affamate di nuvole

    e i balconi briachi di luce

    che stasera si strappano dai vecchi muri delle case

    per balzar su nello spazio?

    Ho alfine riacquistato il mio massiccio coraggio

    dacchè i miei piedi vegetali,

    non pompano più dalla terra prudente

    l’avaro succo della paura!

    In alto! Nel cielo più alto! Ecco m’appoggio

    sulle elastiche leggi dell’aria....

    Ah! ah! son già sospeso a picco sulla città

    e sul casalingo disordine

    dei suoi palazzi disposti come utile mobilia....

    Ora dondolo appena, come una lampada accesa

    sulla piazza centrale, tavola apparecchiata

    dai numerosi piatti fumanti che si muovon da soli,

    fra uno scintillìo di bicchieri

    sfilanti elettricamente!

    L’ultimo proiettile del sole al tramonto

    colpisce me, uccello coperto dì sangue,

    ma che non cade.... ed io salto

    da ramo a ramo

    sull’enorme foresta illusoria dei fumi

    che salgono dalle officine....

    Più in alto! Più lontano! Volo fuor dalle mura!

    Ed ecco una gazzarra di croci ammutinate,

    là, tra le file arcigne dei cipressi gendarmi....

    I giardinetti sepolcrali hanno grida

    rosse e verdi, ed i candidi marmi

    sembrano mille fazzoletti agitati!

    Seguirmi a volo vorrebbero i morti stasera....

    Stasera i morti son ebbri, son gai....

    Come voi, morti, ero morto, ed eccomi risuscitato!

    Il cielo è tutto appestato

    dall’olio di ricino del mio motore!

    Ne ho sulla bocca, sul naso, sugli occhi..... Una doccia!

    Stomaco mio volante, non fare lo schizzinoso!

    Bisogna pure che paghi il tuo viaggio

    con un poco di nausea!

    E vomita, vomita pure, stomaco mio, sulla terra!

    È l’ultima zavorra che getterò per salire

    e per giocar leggermente a saltamontone

    sulle schiene villose dello montagne!...

    Campagne geometriche! Quadrati innumerevoli

    di campi arati, di vigne e di prati!

    Son tombe di giganti?

    Intorno a ognuna il sole accende lentamente

    quattro file di verdi candelabri.....

    Destatevi, tranquille fattorie!

    Aprite, aprite le ali rosse dei vostri tetti,

    per volare con me verso il tuo battito forte, o Sicilia,

    nuovo cuore d’Italia, balzato fuori dal suo petto

    nello slancio delle conquiste!...

    Alfine, alfine m’è dato d’entrare

    nel rosso del tramonto, come un conquistatore,

    su fra le rampicanti architetture

    della città futura, tutta d’orgoglio e metallo,

    che le sottili e precise matite delle nuvole

    minuziosamente disegnarono

    nel mio sognante cervello di adolescente!...

    E alfine faccio scalo nei golfi di porpora

    d’un continente aereo....

    Un vasto odore salato?.... Il mare! Il mare!...

    Il mare: innumeri schiere

    di donne turchine che si svestono!...

    Vedo la schiuma delle loro gracili nudità intrecciate,

    chine a bere l’ultima inebbriante sorsata di luce

    nel tondo deserto del cielo!

    E lasciatemi ridere di voi,

    lenti velieri boccheggianti,

    simili a insetti a zampe all’aria che non possono

    nè mai potranno – lasciatemi ridere! –

    rimetter sul suolo le zampe!

    Pretensiosi isolotti dalle pompose vesti di smeraldo,

    voi non siete per me se non larghi fiori palustri,

    piatti sull’acqua, corrosi da grasse mosche nerastre,

    Già come un turbine vi sorpasso,

    e con la mano accarezzo velocissimamente

    il globo immenso dell’atmosfera,

    enorme dorso del massacrante pericolo

    che mi separa dal mare!...

    Vedo e sento, giù in fondo, a picco sotto i miei piedi,

    lo spaventevole urto possibile,

    contro il petto del mare, più duro della pietra!...

    Oh gioia! oh gioia!... Bisogna pure ch’io lasci

    un istante le leve, per batter le mani alla Squadra!

    Sono vénti tartarughe favolose, immote sotto di me,

    con gole di cannoni protese

    fuori dai gusci metallici,

    e tutt’intorno il guizzare delle torpediniere

    e delle barche-rospi, che sgambettano

    sui loro piccoli remi folleggianti!...

    I marinai sulle tolde sono schiacciati e tondi;

    i loro volti seguono i miei applausi

    come talvolta seguono gli stridi turchini

    degli uccelli migranti....

    Le larghe corazzate ora tacciono,

    ma un giorno, ma presto, riparleranno terribili

    con la loro esplodente eloquenza a ventaglio

    sullo smalto spazzato del nostro lago Adriatico!...

    Ah! ah! cupo vento africano,

    vento balordo dalle lentezze ipocrite!...

    stai forse spiando le mie distrazioni?

    Io non mi curo di vincere la tua deriva insidiosa.

    Voglio lasciarti fare, e approfittare di te!

    M’involo fra le tue braccia filacciose e bagnate.

    A mille metri sotto le mie ali

    il mare s’annera di rabbia!... Ritorniamo alla terra!

    Ma ha dunque un odore, la terra?

    Non sento un fetore di tomba?.... Che è mai?....

    Mi chino sulla bussola fino a toccarla col naso,

    e non leggo, e non so....

    È Roma, è Roma, questo sepolcrale fetore!...

    Roma, la mia capitale!... Roma, immensa topaia,

    gran mucchio di cartacce, lugubremente colonizzato

    da migliaia dì sorci, di tarli, di scarafaggi ufficiali!

    Le cupole, gonfie pance di giganti, galleggiano

    nei vapori violetti del crepuscolo,

    qua e là forati da campanili d’oro,

    pugnali dritti che vibrano ancora nelle loro ferite sonore....

    Mi seguono dei treni? Non è vero!

    Sono piuttosto veloci serpenti dai lucidi anelli,

    sono serpenti che nuotano con lunghi balzi in cadenza

    contro le enormi onde aggressive dei boschi,

    e si tuffano nel flusso e riflusso dei monti....

    I treni-serpenti sì fermano

    di tanto in tanto ad annusare i villaggi,

    livide carogne, e ne succhiano

    con le loro rosse ventose

    un brulichìo fosforeo d’insetti....

    Ah! che io sia un fulminante veleno,

    nel vostro agile ventre, o serpenti,

    quando voi balzerete feroci alla frontiera!

    Gloria a voi, treni-serpenti che approfittate dell’ombra

    per impadronirvi di tutta la terra!

    Invano, invano la luna vi accarezza, beffandovi

    con le sue lunghe derisioni di luce!

    Invano, invano la luna allunga il braccio lucente

    del suo raggio più lascivo, per scoprire

    la nudità dormente e sospirante dei fiumi!

    Oh! luna triste, sonnolenta e passatista,

    che vuoi mai ch’io mi faccia

    di quelle meschine pozzanghere rimaste dal diluvio?!

    Io ti cancello d’un tratto, accendendo

    il mio bel riflettore dall’ampio raggio elettrico,

    più nuovo, più bianco del tuo!...

    S’abbandona il mio raggio sulle terrazze,

    inonda i balconi in amore,

    e fruga negli offerti lettucci delle vergini....

    Il raggio vagabondo del mio gran riflettore

    incendia di battaglia e d’eroismo

    i mormoranti ruscelli delle loro vene dormenti....

    Ma basta!... Ho di meglio da fare!...

    Vento caparbio, lasciami! Giù le zampe!...

    Ritorno al mare..... al mare!...

    Il mare e il suo gran popolo prigioniero

    che urla tra mura di ferro!...

    Vedo i fari, le sue sentinelle,

    ritti e più terribili perché tacciono,

    violenti e immensi nella tenebra immensa.

    Alcuni spingono ovunque

    sguardi di cacciatori affaccendati,

    altri chinano sui flutti le loro aste d’oro,

    pescatori dalle lenze luminose....

    O fari, o poveri pescatori disillusi!

    che mai volete da questo mare vuotato?

    Alzate la testa, e guardate:

    tutti i pesci d’oro grasso che cercate

    guizzano lassù nel cielo!...

    A me piace intanto volare così,

    come una greve farfalla,

    acciecando con gesti e con grida

    la dolorosa pupilla di un faro pescatore,

    senza bruciarmivi le ali!...

    Attenti ai ciottoli, voi, bastimenti assonnati

    che rotolate pei colli e le valli del mare

    sulle vivide zampe dei cento riflessi

    delle vostre rosse troniere!

    Pietà dei vostri fanali impalati sugli alberi,

    pietà del loro sguardo

    sofferente, estenuato, che sospira

    verso l’acqua melmosa e cortese dei porti....

    Pietà di voi, sballottati così

    dal mare o dal vento che fa turbinare

    sulle vostre vele piangenti

    le volte agitate della sua bocca slabbrata!

    Ecco laggiù dei bastimenti in fuga....

    Sembrano officine volanti, fumanti,

    con le vetriere in fiamme, officine

    subitamente sradicate intere

    dalla forza violenta d’un ciclone....

    Filano via sulla nerezza animata del mare.

    E quella nave, là in fondo, sembra.... che sembra?

    Ah! ecco! Un gran mulino per macinare le stelle!

    Pompano il cielo i suoi alberi, e dalle rosse troniere

    una farina siderale tutt’intorno si spande,

    Ma io devo resistere ai colpi del vento contrario

    che vorrebbe arrestarmi,

    e rullo, e beccheggio, in equilibrio sull’ali,

    maneggiando il volante e i due timoni.

    Con un colpo di pompa costringo

    il mio motore saziato

    a far le fusa melodicamente....

    E tu, mio buon carburatore, spalàncati

    e

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