La sera del nuovo giorno
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Enrico però non riesce a rassegnarsi e un anno dopo decide di mollare tutto per inseguire il sogno di un amore. Giunto a San Francisco, alla sede del giornale presso cui la ragazza gli ha detto di lavorare lo informano che non sanno nulla di Martine e lo liquidano bruscamente. Proprio quando tutto pare irrimediabilmente perduto, ecco che la scorge a bordo di un’auto e si getta al suo inseguimento con un taxi. Martine però scompare. Incerto sul da farsi, Enrico si fa condurre dal taxista in un hotel di sua scelta, purché economico, dove potersi riposare e pensare con lucidità ai prossimi passi. Il mattino successivo, lo raggiunge un sibillino messaggio che solo lei, chissà come, può avergli inviato. È l’inizio di un calvario per Enrico che dovrà fare i conti con la parte più oscura del suo animo e decidere cosa è disposto a fare pur di aiutare una damigella caduta suo malgrado nelle grinfie di un bieco individuo.
Un mistero che si svela a poco a poco, una storia dal ritmo serrato e scandita da continui colpi di scena.
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Anteprima del libro
La sera del nuovo giorno - Massimo Fossati
sogno.
1
Nella vita di ognuno di noi ci sono giorni speciali. Non mi riferisco a quei giorni in cui, lo si sa da tempo, accadrà qualcosa di particolare come il dover superare un esame, presentarsi a un colloquio di lavoro, sposarsi o cose del genere. Per questi appuntamenti ci si prepara con largo anticipo, li si immagina, li si teme, li si attende con trepidazione o con paura, sono segnati sul calendario e sembrano venirci incontro, dapprima lentamente, poi con un incedere sempre più rapido finché non succede quello che doveva succedere. No, io mi riferisco a quei giorni che si presentano esattamente come tutti gli altri, camuffati dalla più routinaria normalità, ma che nascondono, nel loro insignificante progredire, ora dopo ora, l’evento che sarà capace, magari, di cambiarci la vita. Fino a cinque minuti prima il nostro futuro, per quanto imprevedibile, sembra scorrere come su di un binario che si perde all’orizzonte verso la direzione tracciata; subito dopo, anche se ancora non ce ne rendiamo conto, tutto cambia. I nostri schemi salteranno, i nostri progetti sembreranno quelli di un altro, tanto ci parranno estranei, e nulla, da quel momento, sarà più come quando abbiamo aperto gli occhi, quel mattino, al fastidioso suono della sveglia. E il bello è che solo col tempo si acquisisce la consapevolezza dell’importanza del momento che si è vissuto e di quanto sia stato determinante per ciò che si sta facendo.
Sono immerso in questi pensieri mentre, cullato dal ronzio dei motori del Boeing e dall’indistinto chiacchiericcio dei passeggeri che occupano i sedili vicini al mio, sorvolo l’Atlantico alla volta della California. Capisco che il perdersi dietro alle elucubrazioni pseudo filosofiche sulla casualità o sul destino non è che un sistema che utilizzo per tenere occupata la mente in modo che si distragga da questioni che mi generano ansia e che tendono a farmi sentire fragile e indifeso come un bambino di fronte all’incertezza per ciò che troverò una volta sbarcato a San Francisco. Nonostante i miei sforzi, di tanto in tanto, la pazzia della mia iniziativa mi guarda negli occhi con una insopportabile espressione derisoria mista a una imbarazzante compassione.
Cosa pensi di trovare in America mi sussurra, non sei un po’ cresciuto per credere ancora alle favole? Non lo sai che in vacanza tutto è possibile e lecito ma che, nella vita reale, le cose vanno diversamente? Non ti ricordi più di Beatrice? Ma, allora, andare fino a Siena in vespa non era stato poi così impegnativo, non avevi dovuto attraversare mezzo mondo, spendere un sacco di quattrini, perdere il lavoro...
Beatrice! Da quanto tempo non pensavo più a Beatrice!
Già, devo ammettere, mio malgrado, che quello che sto facendo non è molto diverso da quello che avevo fatto una quindicina d’anni fa quando me n’ero andato fino a Siena per rivedere quella ragazzina bionda e boccoluta che avevo conosciuto un paio di mesi prima a Marina di Pisa dove, coi miei, avevo trascorso le vacanze estive a casa dello zio Ettore. Me n’ero proprio innamorato ed ero convinto, ahimè come ora, che anche lei smaniasse dalla voglia di incontrarmi e di rinverdire il ricordo struggente di quelle carezze e di quei baci scambiati, la notte, sdraiati sulla spiaggia, indifferenti alle lingue di spuma che arrivavano a lambire i nostri piedi e ai tonfi delle onde che biancheggiavano arrotolandosi di fronte alla nera immensità del mare. Ricordo bene con quanta fiduciosa baldanza avevo percorso, marinando la scuola, la lunga strada per arrivare davanti al liceo che mi aveva detto di frequentare, in tempo per la fine delle lezioni. Mi ero immaginato, senza lesinare nei particolari, la sua sorpresa, la gioia che si sarebbe dipinta sul suo volto nel vedermi, lo slancio col quale si sarebbe precipitata fra le mie braccia. Avevo atteso per oltre due ore che suonasse la campanella della libera uscita, seduto sul mio vespino seminascosto fra le auto parcheggiate nella via. Avevo infatti pensato che sarebbe stato meglio avvicinarla mentre rientrava a casa per evitare di imbarazzarla con i suoi compagni aspettandola ai piedi degli scalini dai quali sarebbe scesa una volta emersa dall’androne dell’istituto. Ricordo altrettanto bene l’amarezza dell’interminabile viaggio del ritorno quando, davanti ai miei occhi, continuavano a sfilare le immagini di lei che si scambiava effusioni con un ragazzo alto e occhialuto che era venuto a prenderla con la Cinquecento. L’aver evitato una figuraccia, per aver capito la situazione prima di essermi fatto vedere, non aveva lenito la pena per l’abissale delusione che mi aveva fatto compagnia lungo la strada che mi aveva riportato a Firenze.
D’estate le ragazze si lasciano andare. Capace che te la danno senza farsi troppi problemi mentre, a casa loro, non riusciresti nemmeno ad avvicinarle: monache tutto l’anno e troie in vacanza.
Me lo aveva poi detto, col suo modo dissacrante di esprimersi, il mio compagno di banco quando gli avevo confidato la mia disavventura.
La vacanza è così.
Era stato infine il suggello al suo commento, rivelandomi quella amara quanto ineludibile verità, a suo dire, sul comportamento femminile.
Cerco di non farmi suggestionare troppo da quel ricordo ormai lontano elencando mentalmente tutte le differenze con la situazione che sto vivendo: intanto non sono più un ragazzo e nemmeno lei è una spensierata quindicenne; poi la passione dalla quale siamo stati travolti è lontana anni luce da quegli impacciati approcci adolescenziali che, a ripensarci, mi fanno sorridere. Beatrice non mi aveva consentito di spingermi oltre il confine delle esplorazioni che le mie mani avevano avidamente compiuto sul suo corpo fremente, ricambiate con pari investigazioni sul mio, preludio di qualcosa che non sarebbe mai successa. Niente a che vedere con quanto era accaduto con Martine.
E poi, in un certo senso, non avevamo lasciato la porta aperta quando ci eravamo separati?
Guardo dal finestrino ovale la distesa blu cobalto dell’oceano che scorre sotto di me. Da quest’altezza sembra una lastra di vetro uniforme, non si distinguono increspature. Fra non molto si dovrebbero vedere le coste della Groenlandia, il primo avamposto della terra al di là dell’Atlantico per chi segua la rotta polare. Mi è stato spiegato che passare più a nord, vicino al polo, è la strada più corta per attraversare l’America rispetto a quella che sembrerebbe, a tutta prima, la più ragionevole, e cioè quella che si mantiene più o meno sullo stesso parallelo.
La Terra è una sfera,
mi aveva detto con un sorriso condiscendente l’impiegata dell’agenzia di viaggi alla quale mi ero rivolto per la prenotazione del volo. Se prova a guardare un mappamondo capirà perché la rotta polare sia la più breve.
Si vede che è la prima volta che vado in America?
le avevo chiesto per superare l’imbarazzo che era seguito alla mia stupida domanda.
Non si preoccupi,
mi aveva rassicurato mentre componeva il numero della compagnia aerea per verificare la disponibilità di posto sul volo che avevo scelto, non è l’unico a porsi questi problemi.
Ma forse sono l’unico che va allo sbaraglio inseguendo un sogno.
Vuole del caffè, del tè...
Non mi ero accorto, assorto com’ero nella contemplazione dell’oceano a tratti velato da sfilacciati brandelli di nuvole che galleggiavano nell’aria sotto di me, del carrello metallico che la hostess aveva sospinto fino all’altezza della fila del mio sedile. Ora la ragazza bionda mi guardava con un sorriso stereotipato in attesa della mia risposta.
Mi faccio dare un succo di frutta (non ne bevo mai, ma non mi è venuto in mente nient’altro) e mentre sorseggio lentamente quel liquido denso e troppo dolce dal sapore di pesca, lascio che la mia mente torni a lei, a Martine.
In quel giorno normale di un’estate normale di quasi un anno fa ci eravamo incontrati.
Io stavo tirando il fiato, in cucina: la solita onda d’urto dei turisti che, per me, si traduceva in un susseguirsi incalzante di foglietti con su scritte le ordinazioni messi uno in fila all’altro, in ordini gridati ai miei collaboratori affaccendati attorno ai fuochi o chini sul ripiano d’acciaio dove venivano predisposti i piatti pronti per essere portati in sala dai camerieri, nello sfrigolare di padelle, nel vapore che dalle pentole saliva verso la cappa di aspirazione, nello sbattere degli sportelli del forno e, in altre parole, nell’inferno che si scatenava all’improvviso fra mezzogiorno e le due del pomeriggio, si stava placando. La frenetica attività del cuore pulsante del ristorante in Borgo Santi Apostoli, a due passi da Ponte Vecchio, che fino a pochi minuti prima sarebbe sembrata inesauribile, scemava fino a fermarsi, come se lo slancio che l’aveva messa in moto si fosse di colpo esaurito. A rilento, i ragazzi che si occupavano dei dolci sistemavano le ultime portate, mentre quelli addetti alle mansioni più semplici (quelli che un tempo si sarebbero definiti sguatteri) iniziavano a riordinare il caos che incombeva ovunque si girasse lo sguardo, caricando le lavastoviglie.
Per me quello era il momento, appunto, di tirare il fiato: quale responsabile della cucina, il cuoco (o lo chef, come i miei colleghi amano ora essere definiti), il lavoro era praticamente finito. Me ne stavo dunque appoggiato a un bancone, nell’angolo vicino alla cella frigorifera, sorseggiando rilassatamente un calice di Brunello quando il proprietario del locale aveva fatto il suo ingresso dalla porta a due battenti che poneva in comunicazione l’affaccendato mondo della cucina con quello rilassato ed elegante della sala da pranzo.
Ci sono due turiste che sono entrare proprio ora,
mi aveva annunciato senza nascondere il suo imbarazzo. So che è tardi, ma... non me la sono sentita di mandarle via.
L’avevo guardato con disappunto e con stupore insieme: il Baffo (così lo chiamavamo, noi vestali dei fornelli, in omaggio ai suoi baffetti alla Clark Gable che spesso accarezzava per vezzo quando rimuginava qualche pensiero o era preoccupato) non era solito farsi intenerire da clienti fuori orario, soprattutto per il pranzo. Generalmente, accogliendoli con un sorriso dispiaciuto, allargava le braccia e annunciava che la cucina era ormai chiusa lasciando intendere che, se fosse dipeso da lui... ma i cuochi, si sa, sono personaggi scontrosi e iracondi come prime donne.
Spero non pretendano di scegliere fra tutte le portate della carta,
avevo detto, contrariato per quell’inspiegabile strappo alla regola.
No, no, naturalmente. Ho fatto presente che, in questo caso, sarei venuto a vedere cosa si potesse fare.
Bene,
avevo commentato posando a malincuore il bicchiere. Vado io a vedere cosa vogliono.
Avevo dunque preceduto il Baffo in sala individuando subito il tavolo ancora intonso attorno al quale sedevano le due ragazze che avrebbero preteso di farmi lavorare oltre il mio consueto orario. Man mano che mi ero avvicinato alle clienti importune era divenuta sempre più chiara la ragione per la quale non erano state cacciate, soprattutto conoscendo quanto ascendente avessero le belle donne sul padrone del vapore. A dire il vero, una delle due ragazze la si sarebbe potuta definire carina, ma l’altra, quella bruna che le sedeva di fronte, quella con un fisico atletico e degli splendidi occhi azzurri che sembravano sprigionare scintille di paradiso, quella era così bella da lasciare senza fiato, da oscurare qualsiasi cosa attorno a lei.
Ero rimasto a guardarla senza spiaccicare parola. Per fortuna il Baffo era intervenuto in mio soccorso dicendo che si sarebbero dovute mettere d’accordo con me, lo chef, (generalmente non amo che mi chiami così, mi sembra inutilmente pretenzioso, ma quella volta non avrei trovato nulla da obiettare) per vedere cosa il ristorante avrebbe potuto riservare loro.
Per gli antipasti della carta non ci sono problemi,
avevo esordito cercando di darmi un contegno professionale, mentre per il resto potrebbe volerci più tempo per la preparazione...
Sì, gli antipasti andranno bene,
aveva detto l’amica insignificante con un forte accento inglese.
Potrei farvi portare qualche assaggio, se gradite, mentre se mi dite cos’altro volete, proverò ad accontentarvi.
Mi avevano lasciato carta bianca, e così ero tornato in cucina, tirato fuori dalla cella una bistecca di chianina e preparato personalmente una tagliata alle erbe fini da accompagnare con delle verdure cotte alla piastra. Per il contorno avevo urlato un paio di ordini al mio aiuto raccomandandogli, pena la decapitazione, di non carbonizzare i peperoni e di non far rinsecchire troppo le melanzane.
Venti minuti dopo il cameriere aveva portato alle ultime clienti la tagliata cucinata con tutta la dedizione di cui ero stato capace. Infine non mi ero trattenuto ed ero tornato in sala per sapere se tutto fosse stato di loro gradimento.
La carne, stupenda!
aveva commentato, in inglese, la dea bruna regalandomi un sorriso che mi aveva fatto tremare.
Anche l’amica, la biondina, aveva detto qualcosa a conferma del suo lusinghiero giudizio ma, crudelmente, non le avevo prestato la minima attenzione. Facendo ricorso al mio inglese scolastico, con un po’ di coraggio, avevo chiesto: Siete qui in vacanza?
Sì, siamo già state a Milano e a Venezia. Domani andremo a Roma,
aveva risposto occhi di cielo (allora non sapevo ancora che si chiamasse Martine).
Vi siete fermate molto a Firenze?
Solo due giorni.
Non si può vedere Firenze in soli due giorni!
avevo esclamato con enfasi. Ce ne vorrebbero almeno altri due o tre.
Ha ragione, ma Miriam vuole andare subito a Roma.
Siete già andate a vedere il giardino di Boboli?
Si erano guardate incerte.
Se vi fa piacere potrei accompagnarvici io.
Sarebbe magnifico!
aveva esclamato Martine prima che l’amica potesse aprire bocca.
Allora è deciso: ci vediamo a Ponte Vecchio fra mezzora.
Tutto era iniziato la lì.
Il pomeriggio era trascorso piacevolmente. Dietro lo schermo di discorsi banali e di circostanza, avevo avvertito che, piano piano, si era instaurato fra me e Martine un dialogo diverso fatto di rapidi sguardi, di sorrisi, di gesti apparentemente casuali ma che tradivano l’interesse che provavamo l’uno per l’altra. Credo che anche Miriam se ne fosse accorta, anche se nulla aveva lasciato trapelare.
Al momento di salutarci (verso le sei dovevo rientrare al ristorante) le ragazze mi avevano ringraziato stringendomi la mano e dandomi due rapidi baci sulla guancia mentre io avevo augurato loro buon viaggio: quella sera stessa mi avevano detto che avrebbero preso il treno per Roma. È facile immaginare il mio stupore quando, nel pieno del convulso marasma dell’inseguimento delle ordinazioni per la cena, il capo cameriere mi si era avvicinato mentre controllavo la sapidità della zuppa d’orzo dicendomi: Stamane devi aver fatto colpo con la tua tagliata
.
Ero rimasto col mestolo a mezz’aria.
Sono tornate le americane?
avevo chiesto, incredulo.
Una sola: quella figona bruna con...
Ma già non lo stavo più a sentire perché mi ero precipitato in sala: Martine era là, seduta allo stesso tavolo, ma meravigliosamente sola.
Credevo che tu fossi partita. E Miriam? Come mai...
Lei mi aveva sorriso divertita dal mio stupore e dalla confusione che sembrava non consentirmi di articolare (in inglese, per di più!) una frase sensata.
Ho deciso di seguire il tuo consiglio e di fermarmi ancora un po’ a Firenze, mentre Miriam era impaziente di vedere Roma. Peccato che tu debba lavorare, perché ti assumerei come guida,
mi aveva detto con un’espressione ammiccante e allusiva che mi aveva consegnato il codice per decriptare il messaggio più vero nascosto dietro la sua frase innocente.
Beh, io qui non finirò prima di mezzanotte,
avevo replicato con sincero rammarico. Se avrai la pazienza di aspettarmi...
Vuol dire che tirerò in lungo con la cena.
Benissimo!
avevo esclamato, ancora incredulo. Non correrò con le tue ordinazioni.
Ero tornato in cucina galleggiando dieci centimetri al di sopra del pavimento di marmo della sala da pranzo.
Poso il bicchiere vuoto, di plastica trasparente, sul tavolinetto incernierato allo schienale della poltroncina di fronte, aperto davanti a me, e torno a guardare dall’oblò. Forse è solo il mio desiderio di arrivare, ma mi pare di scorgere all’orizzonte, oltre la grande ala dell’aereo, una striscia giallastra seminascosta nella bruma: le prime avvisaglie della terra. Alzo gli occhi sullo schermo sul quale è riportata la rotta che stiamo seguendo, posto in altro, sulla paratia che separa il corridoio dalla business class. Effettivamente il piccolo aeroplano stilizzato che finora si è mosso lentamente su di un monotono sfondo blu è ormai prossimo alle coste della Groenlandia. Bene, mi dico per farmi coraggio, una volta arrivati lì non ci resterà che planare verso la California come se, per davvero, si trattasse di percorrere una strada in discesa. Mi rendo conto che è una stupidaggine, ma mi piace pensarlo.
Chiudo gli occhi desiderando di potermi assopire per cancellare un po’ del tempo che dovrò ancora trascorrere nel ventre di questo grosso uccello metallico, ma subito rivedo gli occhi luminosi di Martine, la sua espressione enigmatica di quando mi aveva chiesto, di punto in bianco, dove abitassi. I ricordi, venati di nostalgia, iniziano a fluire senza ch’io faccia resistenza: so che non riuscirò a dormire.
Eravamo seduti in uno dei locali dov’era possibile chiacchierare senza che la musica ci costringesse a gridarci nelle orecchie.
Ho una casa non molto lontano,
le avevo riposto avvertendo un fremito percorrere il mio corpo come se avessi infilato le dita in una presa di corrente. È un piccolo appartamento all’ultimo piano di un vecchio palazzo su Lungarno Vespucci.
Perché non ci andiamo?
Fa’ conto di essere già lì,
le avevo risposto alzandomi dalla poltroncina e posando sul tavolino il bicchiere quasi vuoto che tenevo in mano.
Era, mi pare, il secondo giorno da che l’avevo conosciuta e il primo da che non mi ero più presentato al lavoro dopo aver propinato al Baffo la balla che mia madre era stata ricoverata in ospedale e che avrei dovuto occuparmi di lei. Fino a quel momento ci eravamo limitati a qualche carezza, a qualche bacio quasi casto, a passeggiare e ridere per le strade della città tenendoci per mano come due studenti innamorati. Mi aveva detto di essere venuta in vacanza con Miriam, un’amica che aveva conosciuto a un master che aveva frequentato dopo la laurea, una specie di premio che si erano concesse prima che le loro strade si separassero. Al suo ritorno lei avrebbe cominciato a lavorare a San Francisco, dove si sarebbe trasferita da Los Angeles, per la W. & T., una casa editrice che, fra l’altro, pubblicava delle riviste di moda per le quali avrebbe scritto.
Sai già dove andrai a vivere?
le avevo chiesto con la remota speranza che mi indicasse un indirizzo, già allora incapace di accettare fino in fondo che questa esaltante parentesi apertasi improvvisamente nella mia vita fosse destinata a richiudersi di lì a pochi giorni.
Non lo so ancora, ma non è importante,
aveva risposto alzando le spalle con gesto noncurante. Qualcosa troverò.
E se mi venisse voglia di venirti a cercare?
ero stato costretto a insistere.
Aveva riso come se avessi detto una cosa del tutto insensata.
Dicevo tanto per dire.
avevo proseguito io, ridendo a mia volta per non dare importanza alla mia domanda. Quando morirai dalla voglia di vedermi, tu saprai dove trovarmi, mentre io non potrò fare altrettanto.
Potrai cercarmi dove lavorerò,
aveva tagliato corto impedendomi, con un bacio, di fare altre indagini.
Sì, lei sapeva