I melicotti di Pianezza e le altre paste di meliga del Piemonte
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Anteprima del libro
I melicotti di Pianezza e le altre paste di meliga del Piemonte - Gian Paolo Spaliviero
Internetgrafia
Introduzione
La pianta del mais fu notata e descritta con precisione da Michele da Cuneo in una relazione redatta già in occasione del secondo viaggio in America di Cristoforo Colombo. Il mais si affermò nella penisola iberica, dove fu coltivato già nei primi anni del Cinquecento, e da qui si diffuse velocemente in Italia e Francia. I primi esemplari dei semi andini giunsero in Italia nel 1539 e per un decennio è documentata la coltivazione sperimentale in diversi orti botanici. Nel 1554 è già attestata la coltivazione agricola nel Polesine e nel basso Veronese; nel 1592 il mais proveniente dal Trevigiano si commerciava sul mercato di Venezia. Nella seconda metà del Cinquecento il mais è prepotentemente inserito nelle diete contadine e nel 1602 il medico Castore Durante da Guala scriveva che
fanno di questa farina i contadini polenta
.
Negli anni Quaranta del Seicento comparve nel Bolognese, nel 1641 in Umbria, nel 1677 nel Milanese e a d inizio Settecento in Piemonte Nelle valli alpine il mais comparve sporadicamente alla fine del Cinquecento; le prime attestazioni, relative al settore orientale delle Alpi (Stiria e Alto Adige), risalgono agli anni Settanta del Cinquecento e all’inizio del Seicento risulta diffuso in molti settori della catena. A metà Settecento risulta presente in quasi tutte le valli alpine. In Italia assunse nomi diversi: miglio grosso, sorgo, grano grosso, melega. Nell’Italia settentrionale venne chiamato granoturco, intendendo probabilmente il termine turco
come sinonimo di straniero. La polenta preparata con la farina di mais si diffuse a tal punto da non lasciare alcuna traccia sulle tavole, o semplicemente nella memoria dei contadini e dei valligiani, di una polenta fatta con il miglio o con altri cereali.
Oltre che per la polenta, la farina di mais veniva utilizzata per pani speciali (il Pan ëd melia , composto da un mix di farina di mais e frumento con l’eventuale aggiunta di patate lesse, detto anche raschietta , per la ruvidezza della crosta o per l’usanza di raschiarvi il fondo della pentola) oppure biscotti e dolci. Ricordiamo poi le tante varianti dolci della polenta , e le torte a base di farina di mais : tra queste la
Polenta d’Ivrea
, creata nel 1922 dai fratelli Strobbia, e la Polenta di Marengo , inventata nel 1933 dall’alessandrino Chiabrera ispirandosi all’aneddoto su Napoleone che, dopo la vittoria di Marengo, si sarebbe rifocillato con un piatto di polenta all’antico Albergo del Falco.
Scrivere allora
della polenta, dei dolci, biscotti e pane, confezionati con la farina di granoturco, vuol dire parlare della tradizione povera delle popolazioni contadine e montanare e della loro cucina rustica di sopravvivenza. Come abbiamo visto, presto il mais, dopo il suo arrivo nel XVI secolo dalle Americhe, soppianta i cereali minori fino a quel momento impiegati, da soli o in abbinamento con il frumento, per la preparazione di polente cotte, del pane e degli altri prodotti da forno e diventa un indiscusso protagonista. Nelle vicende della cucina povera di tutto il nord della penisola, affiora senza soluzione di continuità il ricordo delle antiche polentine molli, in una varietà infinita di elaborazioni. Termini come pult , polt , puta , puti , putiscia , putöö , comuni in quasi tutte le tradizioni culinarie della campagna padana, identificano appunto delle papette e farinate, più o meno consistenti, ottenute dalla cottura di farina in acqua o latte, con un’ombra di condimento. Prima delle grandi carestie del XVII secolo e della rapida propagazione della coltura del mais, si preparavano polente con farina di segale, farro, fraina, miglio, sorgo, orzo, riso e, naturalmente, frumento, per quanto questo cereale potesse essere disponibile. Dalla metà del ‘700, da noi in Piemonte, il mais sostituì quasi completamente (soprattutto nei territori di montagna) le colture cerealicole minori e la polenta gialla sostituì sia il pane sia buona parte del companatico, diventando molte volte piatto unico. La farina di mais comincia ad essere impiegata per la preparazione di pane e dolci, spesso in abbinamento con il frumento, seppure doveva rivelarsi poco adatta ad essere impiegata pura per confezionare il pane, ma discreta in abbinamento alla farina bianca. Le gravi manifestazioni di pellagra nelle zone più povere, furono il prezzo dell’assunzione di una dieta incentrata sulla polenta. Se questa infatti si accompagnava sempre con cibi molto saporiti, molli o abbondantemente conditi che consentissero la pucia , è noto che il poco companatico e la pucia richiamavano grandi quantità di polenta. Nutriva poco, si diceva, ma riempiva lo stomaco e impediva di sentire i morsi della fame. Oggi che la fame endemica si è allontanata dal nostro orizzonte, possiamo apprezzare in pieno la fantasia e la perizia con cui questo semplice alimento (la polenta) è stato elaborato nel corso dei tre secoli passati. Esistono un’infinità di preparazioni in cui la farina di mais sotto forma di polenta costituisce la base a cui aggiungere diversi tipi di condimento quali olio,burro, formaggi e salumi di vario tipo, ma anche legumi e pesce fresco o conservato, elementi dolcificanti.
Allo stesso modo, sul versante dei prodotti dolci, se ne contano numerosissime altre; biscotti di meliga, pinze, focacce, torte e pane dolce. Ogni regione ha elaborato le sue soluzioni a partire dai materiali che ritrovava sul territorio con i quali nei secoli precedenti aveva creato una propria cultura gastronomica in riferimento alla forneria. Dal XVII secolo, su quasi tutto il territorio nazionale, ma in particolare al Nord, queste diverse strade del pane
, come potremmo definirle, si tingono di giallo; un piccolo sentiero all’inizio, una pista faticosamente ricavata fra gli sterpi e il fogliame nel fitta foresta, via via sempre più larga poi, con il passare dei secoli, fino ad arrivare ad un solenne viale della vittoria alla fine del XIX. Un lento declino fino alla II guerra mondiale e dopo di questa, con il boom economico degli anni sessanta e il nuovo benessere, quasi un crollo totale.
Oggi, consolidata una certa ripresa nei consumi di questi prodotti gialli
, , per lo più biscotti e dolci, ma anche farina per l polenta, sull’onda di una certa moda culturale salutista e minimalista in campo culinario, ma anche per necessità, in presenza di una grave crisi economica, si guarda alla tradizione antica per riscoprire ricette, materiali e tecniche povere. Ma per una beffa del destino, quei piatti che un tempo erano il prodotto di un’economia quasi di sopravvivenza e di una cucina fondata sui prodotti del territorio, appaiono oggi di difficile allestimento. In effetti la rarefazione di prodotti e materiali tradizionali, lo scadimento della qualità, l’abbandono delle antiche tecniche di produzione contadine in favore di un alienante approccio industriale, li relega nel campo delle costose false rarità. Nasce un nuovo mercato dei prodotti tradizionali con le varie sigle e certificazioni;
biologici
, naturali o simili, riproposti con un approccio cultural – chic, un confezionamento di lusso e tecniche di vendita innovative (vedi internet), che si rivolge ad una ristretta fascia di consumatori ad elevata capacità di spesa, mentre il resto del mercato rimane appannaggio dei prodotti di massa industriali i bassa qualità proposti dai supermercati. Non è sufficiente riscoprire, ad esempio, un antico fagiolo, una farina di granoturco otto file, un dolce o un biscotto particolare e locale, un salume, se non si riesce a restituire loro una condizione di normale
coltivazione, produzione e vendita. Il congelarli in un presidio, relegarli in una nicchia, in una sorta di aristocrazia merceologica, provocherà fatalmente nel prossimo futuro un loro nuova scomparsa. Il mercato, in presenza di crisi ricorrenti e globali, non può reggere certi livelli di prezzo – oggi