Il castello del terrore
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Info su questo ebook
Edgar Wallace
nacque nel 1875 a Greenwich (Londra). Cominciò a lavorare giovanissimo; a diciott’anni si arruolò nell’esercito ma nel 1899 riuscì a farsi congedare. Fu corrispondente di guerra per diversi giornali. Ottenne il suo primo successo come scrittore con I quattro giusti, nel 1905. Da allora scrisse, in ventisette anni, circa 150 opere narrative e teatrali di successo, nonché la sceneggiatura del celeberrimo King Kong. Definito “il re del giallo”, è morto nel 1932.
Edgar Wallace
Edgar Wallace (1875–1932) was one of the most popular and prolific authors of his era. His hundred-odd books, including the groundbreaking Four Just Men series and the African adventures of Commissioner Sanders and Lieutenant Bones, have sold over fifty million copies around the world. He is best remembered today for his thrillers and for the original version of King Kong, which was revised and filmed after his death.
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Anteprima del libro
Il castello del terrore - Edgar Wallace
160
Titolo originale: Terror Keep
Traduzione di Roberta Fornenti
su licenza della Garden Editoriale s.r.l.
© 1995 Finedim s.r.l., Compagnia del Giallo
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-5207-6
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Edgar Wallace
Il castello del terrore
Newton Compton editori
Il castello del terrore
Personaggi principali
J.G. Reeder
detective del pubblico ministero
Margaret Belman
amica di Reeder
Signor Daver
proprietario dell’hotel Larmes
Olga Crewe
ospite dell'albergo
Signora Burton
governante dell’albergo
Reverendo Dean e Colonnello Hothling
altri ospiti del Larmes
George Ravini
ladruncolo italiano
Brill e Gray
due agenti di Scotland Yard
Bill Gordon
capo di Scotland Yard
John Flack
pazzo assassino evaso
Prologo
Parlando in termini legislativi è improprio, per non dire illegale, attribuire una precisa malattia, per quanto clamoroso e di pubblico interesse sia stato il loro crimine, a coloro che hanno il triste privilegio di entrare e uscire dal Manicomio Criminale di Broadmoor, prima che i dottori e una pietosa giuria li abbiano condannati a entrare in questo luogo senza speranza. Ma John Flack era talmente conosciuto che tutti l’avevano visto spesso aggirarsi con le mani dietro la schiena e il mento sul petto per i corridoi del manicomio. Era un uomo anziano, alto e magro, che indossava vestiti logori. Non parlava con nessuno ed erano pochi quelli che gli rivolgevano la parola.
– Quello è Flack; il ladro più astuto del mondo. John Flack il Pazzo
... nove omicidi...
Quelli che si trovavano a Broadmoor per degli omicidi isolati erano piuttosto orgogliosi del vecchio John, nei loro rari momenti di lucidità. Le guardie che lo chiudevano a chiave la notte nella sua cella e che lo guardavano dormire non avevano di che lamentarsi su di lui, perché non dava problemi e perché durante i sei anni di detenzione non aveva mai avuto quegli attacchi di pazzia che tante volte portano in quell’ospedale, in una cella imbottita, qualche povero diavolo innocente. Trascorreva la maggior parte del tempo scrivendo o leggendo, perché era una sorta di genio con la penna e scriveva con straordinaria rapidità. Aveva riempito centinaia di quaderni scrivendo un grande trattato sul crimine. Il direttore del manicomio l’assecondava, permettendogli di tenersi i quaderni, aspettando di poterli poi raccogliere nel suo interessante museo.
Una volta, facendo una grande concessione, il vecchio John gli diede un quaderno da leggere. 11 direttore lo lesse e trasalì. Si intitolava: Come svaligiare una banca nel caso ci siano solo due uomini di giiardia. Il direttore, che era stato un soldato, lesse e rilesse, fermandosi di tanto in tanto per grattarsi la testa; perché quel documento, scritto con mano chiara e ben leggibile, gli ricordò un ordine d’attacco usato nell’esercito. Non c’erano dettagli troppo piccoli per essere trascurati. Si prendeva in considerazione qualsiasi possibilità. Non solo si elencavano gli ingredienti per produrre la droga per sistemare le guardie
, ma c’era anche una nota di spiegazione che possiamo citare.
Se non è possibile procurare questa droga, io consiglio di telefonare a un qualsiasi dottore e descrivere i seguenti sintomi... Il dottore prescriverà la droga in minima quantità. In questo modo ci si possono procurare sei bottigliette di questa medicina e poi, per estrarre la droga, si procederà come segue...
– Hai scritto molte altre cose di questo genere, Flack? – chiese lo sbalordito ufficiale.
– Di questo genere? – John Flack sollevò le spalle magre. – Lo faccio solo per divertimento, per tenere in esercizio la memoria. Ho già scritto sessantatrè quaderni su questo argomento, e non credo che si possano migliorare. Nei sei anni che ho trascorso qui non sono stato in grado di pensare a un solo miglioramento applicabile al mio vecchio sistema.
Stava scherzando? Erano le dichiarazioni di una mente disordinata?
Il direttore, esperto com’era degli uomini che aveva in cura, non ne era certo.
– Vuoi dire che hai scritto un’enciclopedia del crimine? – chiese incredulo. – Dove si trova?
Le labbra del vecchio Flack si atteggiarono a un sorriso ironico, ma non rispose.
Sessantatrè volumi manoscritti rappresentavano il lavoro di una vita per John Flack. Era qualcosa di cui andava molto fiero.
In un’altra occasione, quando il direttore gli parlò nuovamente del suo straordinario lavoro letterario, disse: – Ho messo un’enorme fortuna nelle mani di un uomo intelligente; sempre ammesso – continuò pensieroso – che sia un uomo deciso e che il libro gli capiti tra le mani molto presto. In questi giorni di grandi scoperte scientifiche la novità di oggi è cosa vecchia domani.
Il direttore aveva i suoi dubbi riguardo all’esistenza di quei deprecabili volumi, ma poco dopo questa conversazione dovette ricredersi. Scotland Yard, che di rado, per non dire mai, insegue delle chimere, mandò a Broadmoor il capo ispettore Simpson, un uomo senza immaginazione che era stato promosso proprio per questa ragione. Il suo colloquio con John Flack il Pazzo fu molto breve.
– A proposito di quei tuoi libri, John – disse. – Sarebbe davvero terribile se cadessero in mani sbagliate. Ravini dice che hai un centinaio di volumi nascosti da qualche parte...
– Ravini? – Il vecchio John Flack gli mostrò i denti. – Ascolta, Simpson! Non penserai che io resti chiuso in questo posto orribile per tutta la vita, no? E se lo pensi, sarà meglio che cambi idea. Una di queste notti me ne andrò di qui, puoi anche dirlo al direttore se ti va, e così Ravini e io potremo fare una bella chiacchierata.
La sua voce era alta e stridula. Il vecchio, folle bagliore che Simpson conosceva tanto bene era tornato a splendere negli occhi di Flack.
– Non sogni mai durante il giorno, Simpson? Io faccio tre sogni ricorrenti. Nel primo, sogno di scoprire un metodo per fuggire di qui con un milione di sterline in tasca; è il primo sogno, ma non è molto importante. Un altro sogno riguarda Reeder. Puoi anche riferire a J. G. quello che ho detto. Sogno di incontrarlo in una notte buia e nebbiosa, una notte in cui la polizia non riuscirebbe a capire da dove vengono le urla. E il terzo sogno riguarda Ravini. George Ravini ha solo una possibilità: morire prima che io riesca a uscire di qui.
– Sei matto – disse Simpson.
– E per questo che sono qui – disse John Flack pensieroso.
Questa conversazione con Simpson e quella che aveva avuto con il direttore erano le più lunghe che avesse sostenuto nei sei anni trascorsi a Broadmoor. Quando non scriveva, in genere passeggiava con il mento sul petto e le mani dietro la schiena. A volte raggiungeva un certo punto accanto al muro più alto, e si diceva che lanciasse delle lettere all’esterno, anche se non sembra verosimile. È invece possibile che trovasse un messaggero che portava all’esterno le sue missive e i suoi scritti, e che i due si scambiassero solo dei monosillabi come risposta. Era molto amico di un ufficiale che montava la guardia. Una mattina trovarono la guardia con la gola tagliata. La porta era aperta e John Flack era fuggito nel mondo esterno per realizzare i suoi sogni.
1.
Due pensieri irritavano Margaret Belman mentre il Southern Express, l’affollato treno per Siltbury, la trasportava verso Selford Junction. Il primo pensiero riguardava, naturalmente, i drastici cambiamenti che stavano avvenendo nella sua vita e gli effetti che questi avevano avuto sul signor J.G. Reeder, un mite uomo di mezza età.
Quando aveva annunciato che stava cercando un posto in campagna, lui avrebbe potuto almeno dimostrare una certa dose di rimpianto; un po’ di tristezza sarebbe stata comunque doverosa. Invece lui si era rallegrato di questa prospettiva.
– Temo che non potrò venire a Londra tanto spesso – gli aveva detto lei.
– Questa è una buona notizia – aveva risposto il signor Reeder, aggiungendo le solite banalità sul valore dei cambiamenti d’aria e sulla bellezza del contatto con la natura. In effetti era la prima volta in una settimana che si era mostrato allegro, e la faccenda era piuttosto esasperante.
Il grazioso viso di Margaret Belman si irrigidì mentre ripensava alla propria delusione e al proprio disappunto. Non aveva alcuna speranza di essere assunta. Neppure per un momento aveva pensato che la sua esperienza come segretaria avrebbe giovato a qualcosa. Non era per niente qualificata per quel posto, non aveva esperienza del lavoro in un albergo e le sue possibilità di ottenere l’impiego erano davvero remote.
Per quanto riguarda invece l’italiano che aveva cercato in tutti i modi di fare la sua conoscenza, si trattava di uno spiacevole luogo comune, familiare a una ragazza che lavorava per mantenersi e che, in altre circostanze, non ci avrebbe nemmeno pensato.
Ma quella mattina lui l’aveva seguita in stazione, ed era certa che lui l’aveva sentita dire alla ragazza che era con lei che sarebbe tornata con il treno delle 6.15. Un poliziotto avrebbe potuto difenderla da lui, se solo avesse voluto correre il rischio di farsi della sgradita pubblicità. Ma una ragazza sveglia cerca sempre di evitare queste situazioni e di risolvere il problema a modo suo.
Non era una prospettiva allegra, e le due cose combinate erano sufficienti per rovinare un pomeriggio che altrimenti sarebbe stato piacevole. Per quanto riguarda il signor Reeder...
Margaret Belman aggrottò la fronte. Aveva ventitré anni, età in cui si considerano noiosi i giovanotti. D’altra parte gli uomini sulla cinquantina non sembrano molto attraenti; e infatti lei odiava le basette del signor Reeder, che lo facevano assomigliare a un maggiordomo scozzese. Naturalmente era un caroli treno giunse alla stazione di coincidenza. Si trovò nella stazione sorprendentemente piccola di Siltbury prima di essere riuscita a capire se era innamorata del signor Reeder o se era solo irritata con lui.
L’autista della carrozza fermò il cavallo dall’aspetto triste davanti a un piccolo cancello e indicò con il frustino.
– Le conviene fare questa strada, signorina – disse. – L’ufficio del signor Daver è alla fine del sentiero.
Era un vecchio astuto che aveva trasportato molte aspiranti segretarie all’hotel Larrnes, e aveva capito che quella ragazza, la più graziosa di tutte, non era andata lì come ospite. In primo luogo non aveva bagaglio, e poi il bigliettaio le era corso dietro per darle il biglietto di ritorno che lei, distratta, aveva dimenticato.
– Vuole che l’aspetti, signorina...?
– Oh sì, per favore – si affrettò a dire Margaret mentre scendeva dalla carrozza.
– Ha un appuntamento?
Il cocchiere era del luogo e gli indigeni hanno i loro privilegi.
– Glielo chiedo – spiegò lui – perché molte ragazze sono venute a Larmes a parlare con il signor Daver, ma lui non le ha ricevute. Avevano visto l’annuncio e sono venute, ma l’annuncio dice di scrivere prima.
Credo di aver fatto dozzine di viaggi trasportando ragazze che non avevano l’appuntamento. Glielo dico per il suo bene.
La ragazza sorrise.
– Avrebbe dovuto avvisare le ragazze prima che lasciassero la stazione – disse allegra – e far risparmiare loro il prezzo della corsa in carrozza. Sì, ho un appuntamento.
Dal punto del cancello in cui si trovava riusciva a vedere tutto l’hotel Larmes. Non sembrava l’hotel e nemmeno l’albergo di lusso che si era immaginata. Era facile capire quale fosse la parte più antica perché le pareti dritte e grigie erano coperte di edera rampicante, che nascondeva solo in parte le ali aggiunte nel corso degli anni.
Margaret guardò il prato verde su cui erano sistemati dei tavoli e delle sedie; il giardino di rose, nonostante fosse autunno inoltrato, era ancora fiorito e pieno di colore. Dietro c’era una fila di pini che sembravano seguire il profilo della collina. Riuscì a vedere un breve tratto di mare e una sottile scia di fumo lasciata da una nave invisibile all’orizzonte. Un vento gentile le portò la fragranza dei pini. Aspirò con aria estatica.
– Non è meraviglioso? – sospirò.
Il cocchiere disse solo: – Non c’è male – e indicò di nuovo con il frustino.
– È quella costruzione quadrata; è stata costruita pochi anni fa. Il signor Daver si interessa più allo scrivere che al mandare avanti l’albergo.
Margaret aprì il cancello di legno di quercia e si incamminò lungo il sentiero di pietra, verso lo studio privato del gentiluomo scrittore. Il sentiero era costeggiato da aiuole piene di fiori; le sembrava di passare nel giardino di una villa privata.
Nello studio c’erano una lunga finestra e una piccola porta verde. Evidentemente era stata avvistata, perché prima ancora che suonasse il campanello d’ottone la porta si aprì.
Era il signor Daver in persona: un uomo alto e magro, sui cinquant’anni, con una faccia gialla e bizzarra e un sorriso che la ragazza trovò divertente. Anzi, le venne da ridere. Il labbro superiore dell’uomo copriva quello inferiore, e quel viso magro e rugoso gli dava l’aspetto di un buffo e grottesco portafortuna. Gli occhi rotondi e marroni che guardavano fisso e la fronte grinzosa gli conferivano l’aspetto di un folletto.
– La signorina Belman? – chiese con una certa ansia.
Aveva la pronuncia blesa e la mania di stringersi sempre le mani, come se fosse costantemente preoccupato che il suo modo di fare non piacesse.
– Entri nella mia tana – disse mettendo una tale enfasi sull’ultima parola che lei riuscì a stento a trattenere le risa.
La tana
era uno studio molto ben arredato e confortevole, con le pareti coperte di libri. Chiudendosi la porta alle spalle sedette sulla sedia che lui le aveva offerto con una risata nervosa.
– Sono molto felice che sia venuta. Ha fatto buon viaggio? Sono sicuro di sì. Londra è calda e afosa come al solito? Temo di sì. Vuole una tazza di tè? Ma certo che la vuole.
Faceva le domande e si dava le risposte con tanta rapidità che lei non aveva nemmeno la possibilità di rispondere.
Prima che Margaret avesse il tempo di pronunciarsi sull’argomento, lui aveva già ordinato il tè al telefono.
– Lei è giovane... molto giovane – scosse la testa con aria triste. – Ventiquattro? No. Sa usare la macchina da scrivere? Che domanda stupida le hojatto!
– È stato molto gentile a ricevermi, signor Daver – rispose lei – ma io non credo proprio di essere la persona che cerca. Non ho esperienza nella direzione di un albergo, e dal salario che offre mi rendo conto che...
– La calma – disse il signor Daver scuotendo la testa con solennità. – È solo questo che desidero. C’è poco lavoro da fare qui, ma io voglio essere dispensato anche da quel poco. 11 mio lavoro – indicò con un ampio gesto della mano la scrivania piena di carte – è colossale. Ho bisogno di una segretaria che tenga i conti e che si occupi dei miei interessi. Qualcuno di cui mi possa fidare. Io credo nei volti e lei? Vedo che anche lei ci crede. E nella calligrafia? Vedo che è d’accordo anche su questo. Ho messo l’annuncio tre mesi fa e ho parlato con trentacinque aspiranti. Impossibili! Le loro voci... terribili! Io giudico le persone dalle loro voci e vedo che lo fa anche lei. Lunedì, quando mi ha telefonato, mi sono detto: – La Voce!
Stringeva le mani così forte che le sue nocche erano diventate bianche, e questa volta Margaret quasi non riuscì a trattenere il riso.
– Ma, signor Daver, io non so niente della direzione di un albergo. Comunque credo che potrei imparare, e naturalmente desidero questo posto. Il salario è terribilmente generoso.
– Terribilmente generoso – ripetè l’uomo con un mormorio. – Come