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L'Ultimo Gigante: Trasgressione: Libro Uno della Lindensaga
L'Ultimo Gigante: Trasgressione: Libro Uno della Lindensaga
L'Ultimo Gigante: Trasgressione: Libro Uno della Lindensaga
E-book1.024 pagine15 ore

L'Ultimo Gigante: Trasgressione: Libro Uno della Lindensaga

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Info su questo ebook

Al centro del Mar dell'Alba giace la potente nazione isolana di Kalyria, faro di luce e di speranza per il mondo sin dalla sua creazione alla fine dei Tempi Bui quasi quattromila estati prima, ma ora, nell'Estate del Mondo 6097, qualcosa di malvagio sta arrivando. Minaccia non solo Kalyria stessa, ma anche il futuro di tutti quelli che la chiamano casa, siano essi stranieri o isolani.

Uno di questi stranieri è il giovane Gigante Menannon, esiliato dalla sua stessa terra di Lornennog con l'accusa di aver riso, giunto con suo padre sull'isola quando aveva solo cinque estati. Qui trovò una casa, l'amore ed un futuro promettente come primo Gigante ad essersi mai unito alla Gilda degli Arpisti.

Ora, mentre il male avvolge Kalyria, minacciando non solo il suo amato padre e colei che gli ha rubato il cuore - Nirna, la Principessa Reale di Kalyria - ma l'isola stessa, Menannon si ritrova coinvolto in una intricata rete di bugie e stratagemmi, stregoneria e pazzia, tattiche disperate e risultati disastrosi. Una scelta amara incombe nelle tenebre del male: chi vivrà? Chi morirà? E chi sceglierà tra l'uno e l'altro?

LinguaItaliano
Data di uscita7 nov 2020
ISBN9781071572405
L'Ultimo Gigante: Trasgressione: Libro Uno della Lindensaga

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    Anteprima del libro

    L'Ultimo Gigante - J. R. Hardesty

    Cosa dicono di Trasgressione

    Indie Book Reviewers

    ... brillantemente immaginato e pienamente sviluppato ... la scrittura è eccellente ... vorrei poter leggere il seguito!

    ... abbastanza azione, conflitto e colpi di scena e una accurata descrizione del mondo fantasy da tenervi incollati per tutto il tempo ...

    ... dimostra una forte e quasi assuefante narrazione e una grande attenzione al dettaglio ... mi ha tenuto incollato alle pagine... fino a tarda notte.

    ... un racconto epico che non riuscivo a mettere giù!

    da U. S. Review of Books:

    La portata della storia è imponente e coinvolgente: accalappia fin da subito i lettori e li intriga per tutto il corso della storia, mentre getta le basi importanti per ciò che si ipotizza sarà una vasta saga ... questo libro porta splendidamente avanti la tradizione [dell’high fantasy] e prepara il terreno per un’epica e potente saga, offrendo innumerevoli avventure e colpi di scena a chiunque possegga l’immaginazione per viaggiare assieme a Mennanon e ai suoi amici. 

    - Michael Radon

    BIOGRAFIA DEGLI AUTORI

    J. R. Hardesty è il team di scrittura marito-moglie composto da Johanna e Richard Hardesty. Johanna ha diverse lauree, incluse quelle di Inglese, Storia, Archeologia e Topografia. Richard non ha lauree, ma un sacco di ore universitarie. Ha trascorso del tempo con la U. S. Air Force come interprete di russo. Dopo il suo servizio USAF, ha passato diversi anni come programmatore di computer e operatore di sistemi e come libraio. È stato anche il proprietario di un’impresa di libri d’antiquariato per diversi anni. Attualmente vivono nel Montana con tre gatti e tre cani, e quando possibile, vanno a fare delle passeggiate.

    Ai Blackmore’s Night, la cui musica ci ha aiutati

    a creare l’atmosfera per scrivere e ci ha fornito l’ispirazione.

    A tutti i nostri beta reader. Ci avete detto ciò che non andava

    e noi l’abbiamo sistemato.

    LA LINDENSAGA

    L’ULTIMO GIGANTE

    Libro Uno: Trasgressione

    PROSSIMAMENTE

    L’ULTIMO GIGANTE

    Libro Due: Punizione

    IL DONO DELL’ECCELSO

    Libro Tre: Il Principe dei Teluri

    Libro Quattro: Il Sommo Re dei Teluri

    L’ARPISTA DELLA VALLE DI RHINDOL

    Libro Cinque: La Chiave di Tanguroth

    Libro Sei: La Sfera della Creazione

    Libro Sette: La Torre Bianca

    Libro Otto: Le Scale di Frostrill

    Sono previsti quindici volumi in tutto.

    L’ULTIMO GIGANTE: TRASGRESSIONE

    IN PRINCIPIO, l’Eccelso creò il Mondo e tutto ciò che vi è al suo interno. Lo benedisse e lo dichiarò buono. Una delle precedenti creazioni dell’Eccelso fu una razza di esseri che visse con Lui nei Cieli e lo servì volontariamente. Ma ci fu uno tra di essi che divenne geloso dell’Eccelso e del Suo potere, e pensò di prendere per sé ciò che non era suo, quindi si ribellò contro il suo Signore. Per questo, venne punito ed esiliato nella grande Tenebra, e da lì lui pianificò la sua vendetta. Il Caduto è noto con diversi nomi durante le ere, ma spesso viene chiamato semplicemente ‘Il Malvagio’, e tramite lui, il male s’insinuò nel nuovo Mondo di Linden. La storia di Linden e delle battaglie delle sue genti per liberarsi dalle spire del Malvagio è riportata nella Lindensaga. Vi sono molte storie in quel grande libro. Questa è una di esse. Questa è la storia dell’Ultimo Gigante.

    Capitolo 1

    (Estate del Mondo 6096)

    ––––––––

    Menannon era da solo nella Sala Grande delle Riunioni. Fissava attraverso le alte finestre bifore la Costellazione del Pellegrino Telurion, il Cacciatore del Cielo, con le tre stelle della sua cintura che luccicavano dalla loro volta gelida, indisturbate dal bisogno di contrastare la luce della luna piena. La sua mente si riempì di gioiosa anticipazione e non fu per nulla intaccata da pensieri di stregoni, regine pazze, morti violente e tombe d’acqua.

    Nulla tormentava il suo cuore, poiché questo giorno avrebbe visto il coronamento di otto lunghe estati di impegno. Quel giorno avrebbe conseguito il grado di Arpista Qualificato completo, il primo Gigante ad averlo mai ottenuto. Rimaneva solo una fase oltre a quello: passare le Prove del Mastro per diventare un Mastro Arpista della Gilda degli Arpisti di Aridion, onorando pertanto la fiducia e il sacrificio di suo padre, ma quello era riservato al futuro.

    Questo sogno era stato l’incandescente centro della sua vita sin da quando lui e suo padre erano stati esiliati dalle Terre dei Giganti di Lornennog per il crimine di ilarità quando egli aveva solo cinque estati. Erano ritornati al possente regno insulare di Kalyria, lunga dimora di suo padre, e lì Menannon aveva saputo di arpe ed arpisti ed aveva scoperto in se stesso uno straordinario talento per la musica.

    Con l’arrivo di questo giorno e del suo rituale, il giovane Gigante sapeva, nel profondo del cuore, che nulla ora si parava innanzi alla via di realizzare il suo sogno, ma doveva ancora imparare che il silenzio, la solitudine ed il fallimento sono i figli illegittimi dell’odio.

    * * *

    La luce del sole che penetrava dalle grandi finestre bifore della sala indorò tutto con un bagliore intenso, prestando una qualità onirica ai procedimenti. Le panche e gli scanni erano completamente occupati – perfino nel terzo soppalco del coro nella parete di fondo. Nessuna superficie della sala grande era stata lasciata senza decorazioni, dal suo pavimento di marmo intricatamente dettagliato al soffitto a volta tenuto su da file gemelle di pilastri alti cento piedi. Nonostante la folla, l’acustica della sala era di una tale precisione che nemmeno un’anima presente si perdeva una singola parola del rituale che il Granmastro stava svolgendo.

    Tutti i diplomati si erano fatti avanti per ricevere i loro onori in un giubilante colore blu quando veniva chiamata ogni disciplina. Per tradizione, le nuove vesti degli artigiani qualificati erano del colore delle loro discipline: un percussionista si vestiva di marrone; un pifferaio di blu; un arpista di verde; un cantante di viola. Coloro che praticavano le arti del libro vestivano di cremisi; i mastri delle leggende di bianco; i fabbri di color ruggine ed i guaritori d’argento.

    Quando l’ultimo nuovo guaritore qualificato lasciò il palco, tra gli applausi e i migliori auguri della folla, il silenzio cominciò a strisciare tra le panche. Il momento che tutti stavano aspettando era finalmente arrivato. Era arrivato il momento che il primo Gigante degli arpisti ricevesse i suoi onori. La trepidazione percorse la folla come il formicolio prima di un colpo di fulmine. La popolazione di Aridion City aveva preso a cuore Menannon quando lui era arrivato la prima volta, un bambino di undici estati pelle e ossa con niente per raccomandarlo tranne un dono per arpeggiare ed una determinazione ad eccellere. L’avevano guardato diventare un arpista – la cui abilità, alcuni giuravano, era legata al divino – e crescere fino ad essere un magnifico ragazzo che doveva abbassarsi e camminare di traverso per qualsiasi porta nella città salvo qui, nella sala. A nove piedi, Menannon era il più alto abitante vivente della città.

    Il giovane Gigante si mosse orgogliosamente lungo la navata centrale, salì i gradini del palco, sul quale vi era l’alto altare, e si inginocchiò rispettosamente davanti alla sedia simile a un trono del Granmastro.

    Invece di alzarsi per continuare il rituale come di consueto, il Granmastro Blackmore si mise a suo agio sulla sedia e si appoggiò comodamente allo schienale per meglio essere in grado di studiare il suo apprendista estremamente alto. In tal modo, si spostò sotto un raggio di sole che indorò i suoi capelli bianchi e mostrò la sua faccia sbarbata essere rugosa quanto un pezzo di pergamena che era stato pulito fin troppe volte. A discapito della sua età avanzata, avendo quasi seicentotrentacinque estati, il suo occhio destro aveva un luccicore giovanile. Il sinistro era chiuso per sempre dalla cicatrice bianca di un colpo di spada ricevuto tanto tempo prima, che attestava come l’occhio fosse stato perso, ma non le circostanze. Blackmore era un individuo basso, di corporatura robusta di ascendenza mista di Nani e Umani i cui genitori erano provenuti da una piccola Valle a nordovest, annidata lungo il Fiume Rhindolin, isolata tra i regni dei Nani di Garnet e Sythra a est e il Mar del Crepuscolo a ovest.

    Non molti dei Valinga, come veniva chiamato questo popolo, avevano mai lasciato la Valle, ma i pochi che l’avevano fatto si erano dimostrati sempre del più alto valore per le terre di Aridion. Blackmore non faceva eccezioni. Era stato Granmastro della Gilda degli Arpisti per più di quattrocento estati, la sua longevità attribuita alla parte Nanica della sua ascendenza, poiché gli Umani della Valle erano di breve durata quanto gli Umani delle altre terre, salvo per il Popolo delle Lunghe Navi. La Gilda aveva prosperato sotto la sua guida. Come fosse giunto alla Gilda era una storia da raccontare, se qualcuno l’avesse saputa, ma lui se la teneva per sé, con dispiacere di molti arpisti.

    Blackmore continuò la sua contemplazione della figura davanti a lui. Il silenzio nella sala si intensificò mentre tutti si domandavano di questa strana interruzione dei procedimenti. Lui li lasciò pensierosi, mentre si accontentava di guardare a lungo la faccia del suo Gigante. Era una faccia che valeva la pena guardare: ben fatta e delicata, con alti zigomi che si arrotondavano nelle cavità ombrose al di sotto di essi, un naso solido e labbra carnose e ben formate. Capelli ribelli blu-neri lunghi fino al bavero si arricciavano sull’alta fronte ampia, e una barba corta attenuava i bordi della mascella finemente scolpita. Sopracciglia spesse e leggermente arcuate e lunghe ciglia incorniciavano gli occhi neri come la mezzanotte che, nella giusta luce, brillavano dello stesso riflesso cobalto dei capelli e della barba. Proprio ora, quegli occhi lo stavano fissando con qualcosa di un’espressione prudente.

    Blackmore nascose un sorriso al rossore per l’imbarazzo che stava cominciando ad insinuarsi sul volto di Menannon, mentre il silenzio continuava. Il ragazzo era troppo giovane per essere in pieno controllo dell’incredibile intelletto del quale l’Eccelso l’aveva benedetto, e lui ancora peccava della sicurezza che esso meritava. Sarebbe giunta col tempo, ma per ora, le sue emozioni quasi sempre scavalcavano il suo giudizio.

    Sul tavolo vicino alla mano destra di Blackmore vi era ancora l’ultimo cordone da artigiano qualificato rimanente, adagiato su di un cuscino di velluto. A differenza degli altri cordoni che avevano assunto l’unico colore della nuova vocazione dell’artigiano qualificato, questo era intrecciato con tutti i colori della Gilda salvo l’argento del guaritore. Invece di alzarsi, proferire le rituali parole e filettare il cordone sulla spalla dell’abito del giovane, come aveva fatto con tutti gli altri, Blackmore continuò a rimanere silenziosamente seduto lì, volgendo lo sguardo da Menannon al cordone e viceversa.

    Infine, l’anziano arpista si schiarì la gola e fissò duramente il suo molto perplesso – e non poco imbarazzato – apprendista.

    «Te lo darò ad una condizione» grugnì Blackmore, ignorando totalmente il protocollo prescritto. «Donerò questo simbolo di tutto il tuo duro lavoro – una volta che l’avrai guadagnato giustamente – se e solo se mi dai la tua parola che tornerai a casa per sei mesi e ti riposi. Mi darai la tua parola?»

    Menannon, colto totalmente alla sprovvista da questa richiesta inaspettata e diversa dalla tradizione, quasi soffocò quando cercò di rispondere. Le risate e gli sbuffi mezzi soffocati che sentì dal fondo della sala dove si trovavano gli altri diplomati non lo aiutarono affatto.

    «Io... ah... io giuro così» balbettò Menannon, la sua faccia ora veramente in fiamme.

    «Non ti ho chiesto di giurarlo, figliolo. La tua parola sarebbe stata sufficiente.» Blackmore sorrise in modo sbarazzino quando finalmente si alzò e fece segno al giovane di abbassarsi, cosicché lui potesse filettare il cordone attraverso gli anelli sulla spalla destra di Menannon ed allacciarlo al suo posto. Poi gli fece segno di alzarsi e di rivolgere la faccia alla sala. Blackmore zoppicò fino al fronte del palco per indirizzarsi alla folla, il suo bastone che schioccava rumorosamente sulle lastre di pietra nel silenzio.

    «Vostre Maestà, signore, nobili della corte, studenti, professori, buona gente della città, sentite tutti! Per la prima volta nella sua storia, la Gilda degli Arpisti è stata presentata con un enigma: un apprendista che non rientra nel normale contesto della nostra gilda. Un apprendista il cui talento, la dedicazione e lo sforzo hanno finora superato tutti gli altri che sono passati per queste porte che lui ha ottenuto per diventare un artigiano qualificato in tutte le arti praticate da questa Gilda tranne una, e quella non per colpa sua. Per onorare nel modo più giusto questo apprendista, i Mastri della Gilda si sono incontrati in assemblea per creare un nuovo rango tra gli artigiani qualificati.» Blackmore zoppicò di lato ed indicò Menannon col suo bastone.

    «Lasciate che vi presenti per la prima volta, ma sicuramente non per l’ultima, Mastro artigiano qualificato Menannon» quasi gracchiò Blackmore, e l’intera sala in ovazioni, pestaggi ed applausi spontanei.

    Il giovane Gigante rimase fermo, non sapendo bene che cosa fare, l’insolito cordone che brillava al sole in netto contrasto con la nerezza dei suoi abiti, poiché i suoi erano i colori indossati dagli apprendisti.

    Dama Larisa, la Signora delle Sarte per la Gilda, era stata sottoposta a forte pressioni per decidere di che colore vestire un ragazzo che era un artigiano qualificato in tutte le discipline della gilda eccetto quella della guarigione, in quanto questa questione non era mai sorta prima. Si era devastata il cervello per quasi tutta l’ultima estate dell’addestramento del Gigante cercando di escogitare una soluzione adatta. Alla fine aveva alzato le mani e decretato che un ragazzo simile avrebbe dovuto vestire di nero, utilizzando la ragione che la creazione della tintura nera richiedeva un infusione di tutti gli altri colori. Il fatto che avesse anche enfatizzato l’oscuro mistero degli occhi di Menannon allietò il suo piacere, la qual cosa ovviamente lei non l’avrebbe ammessa.

    Mentre la folla continuava a festeggiare e Menannon stava ancora lì, in imbarazzato silenzio, Blackmore non poté trattenere un pizzico di orgoglio paterno, poiché lui aveva personalmente affinato e coltivato questo straordinario talento. Ci era voluta una mano leggera alle redini. Solo una cosa rimaneva ora per il ragazzo, e cioè passare le sue Prove del Mastro, poi il mondo sarebbe stato la sua ostrica, e la Gilda degli Arpisti più fortunata.

    «Be’, giovanotto» disse il Granmastro con un sorriso, «non stare lì come una statua. Fai un inchino, se vuoi.»

    Il giovane Gigante e l’oggetto di piacere della folla fece un inchino come ordinato, seppur affrettato, e scappò via, il suono degli applausi e delle ovazioni che lo inseguivano come un segugio determinato. Infine, era finita.

    * * *

    In alto, i gabbiani volavano e si chiamavano l’un l’altro, la loro attività che attestava la vicinanza dell’alba. Ogni uccello sembrava avesse la sua propria opinione della nave mercantile profondamente elaborata al di sotto di loro, una nave adornata con la polena di un Enorme Drakta di Pietra. Veniva sospinta da una vela quadra quando il vento soffiava nel modo giusto, come adesso, e quando non lo faceva, da cinquanta rematori, venticinque per parte in logge estese costruite appena sotto il ponte, fuori dalla tolda principale per preservare lo spazio centrale per passeggeri e merci. Le sotto-coperte erano suddivise in camere da letto e dispense. Ai passeggeri più ricchi veniva data la cabina vicina a quella del capitano nella torre di poppa, sotto l’ombra della coda ricurva del drakta.

    In piedi sulla prua per poter forse avvistare la sua amata Kalyria il prima possibile, l’odore salato dell’aria di mare che si diffondeva attorno a lui stava facendo girare la testa di Menannon come del buon vino. Prima che la nave avesse lasciato il porto e non fosse entrata in mare aperto sei sere fa, lui non si era reso conto di quanta nostalgia di casa aveva avuto, o quanto gli erano mancati il profumo del mare e il richiamo dei gabbiani.

    Ci era voluta la bellezza di quindici giorni per seguire la strada da Aridion City lungo il fiume Ari a Bridge Town e Koresh, poi a nord fino a Blue Bay, il porto più vicino all’Isola di Kalyria, la sua casa e destinazione. Lui e diversi altri suoi compagni artigiani qualificati erano partiti la mattina dopo il diploma per una meritata vacanza, prima di ritornare alla Sala Maestra in autunno. La maggioranza di loro sarebbe stata assegnata ad una delle remote sale degli arpisti che punteggiavano la grande Aridion, ma pochi altri, in effetti niente più che una manciata, sarebbero stati invitati ad affrontare direttamente le Prove del Mastro e di quelli, pochi sarebbero passati.

    Gli arpisti si erano uniti ad un gruppo di commercianti Nani per compiere il viaggio fino a Blue Bay. Al raggiungimento del porto, tutti tranne il migliore amico di Menannon, Leènoviilek, erano salpati per un altro luogo. Lo stesso Menannon si stava dirigendo ad est verso l’Isola di Kalyria e Lee, come i suoi amici chiamavano l’artigiano qualificato, aveva deciso di accompagnarlo, poiché quel giovane gentiluomo non aveva mai visto la favolosa isola che Menannon chiamava casa.

    La grande isola era situata nel mezzo del Mar dell’Alba, una volta un maestoso vulcano a scudo che si era autodistrutto tanto tempo prima, lasciandosi alle spalle un’isola a forma di mezzaluna benedetta da terreno fertile e da un clima mite, vantaggioso per la crescita di tutte le colture, buone per il cibo che piacevoli agli occhi. Le bianche guglie e i tetti dorati della sua città capitale, Kirith Kalyria, splendevano da quell’isola come un faro, persino nelle più buie veglie notturne.

    Menannon salì sulla trave più bassa del parapetto. Era così impaziente che non vedeva l’ora di essere a casa. Da questo leggero aumento del suo punto di osservazione, spostò gli occhi verso nordest, ma vide solo il cielo azzurro con i suoi ciuffi di nuvole bianche all’orizzonte.

    Uno dei marinai, in possesso di capelli grigio ferro e una faccia brizzolata segnata dalle intemperie, interruppe momentaneamente il suo compito di rammendare una rete da carico. La sua casacca verde lo marcava come un anziano uomo di mare nella Gilda dei Marinai e degli Ormeggiatori, una delle poche gilde in tutta Linden che non doveva la sua obbedienza alla Gilda degli Arpisti.

    «Ragazzino, pure se avessi gli occhi di un drakta, non la vedresti per minimo un duegiorno ancora» lo informò in modo canzonatorio l’anziano. «Se il vento si ferma, con questo mare di poppa, ti porteremo là al tramonto del terzo giorno a partire da oggi.»

    Menannon indietreggiò sul ponte, i suoi alti zigomi lievemente arrossati.

    Alla vista del suo rossore, il vecchio marinaio rise sguaiatamente, i suoi occhi azzurri che luccicavano innocentemente. «Non essere in imbarazzo, giovanotto. È normale desiderare la vista di casa. Da quanto tempo manchi?»

    «Otto estati ed un tregiorno» disse Menannon senza averci nemmeno dovuto pensare.

    «Lungo tempo, quello. Che stai a fare? Scuola, immagino. Dal tuo aspetto, direi che non puoi avere più di venti estati ora.»

    «Diciannove, in realtà. Ho appena terminato il mio addestramento da artigiano qualificato alla Sala degli Arpisti di Aridion City.»

    «Quindi sei un Arpista, allora. Una giusta professione onorevole, quella.» Il marinaio annuì d’approvazione. «In che ti sei specializzato? Percussioni?» chiese, battendo un rapido tempo su una delle casse impacchettate vicino a lui.

    «Nah» irruppe una nuova voce nella conversazione.

    Menannon ed il marinaio si voltarono per vedere Lee venire verso di loro. Nonostante il caldo, lui indossava ancora il suo abito marrone d’Arpista sopra le sue vesti, con il suo solido cordone marrone da artigiano qualificato sulla sua spalla destra, a dimostrare che lui era un percussionista nella gilda. Menannon, tuttavia, aveva riposto il suo soprabito da arpista, rimanendo vestito solo di una larga camicia bianca, calze nere e soffici stivali in pelle all’altezza del ginocchio, che normalmente portava di sotto.

    «Lui è un Tutto» disse Lee sorridendo maliziosamente a Menannon, il suo bianco sorriso in netto contrasto con la sua pelle scura. I suoi occhi vermigli erano illuminati di dispetto. La luce del sole di mezzogiorno, evidenziando la sua bocca dalle labbra carnose e il naso aquilino, mostrava che i suoi capelli castano scuro tagliati corti erano ricci quanto la lana. Tutte queste cose lo contrassegnavano come un essere proveniente dalla giovane città stato di Crenanoc, situata molto a sud, oltre i Residui di Watheran, sulla punta più meridionale della grande Aridion, una città famosa per i suoi guaritori e cavalli.

    «Che è un ‘Tutto’?» Le miriadi di linee attorno agli occhi del marinaio sprofondarono di perplessità.

    «Ma come, un Tuttofare, ovviamente.» Il percussionista si mise a suo agio su una cassa vicino a Menannon. «Non riusciva a decidersi, così si è specializzato in tutte le arti della sala e si è qualificato in tutte loro.»

    «Un po’ di talento, quello.» L’anziano fischiò d’ammirazione, leggermente meravigliato da questo giovane prodigio.

    «Nah, nel suo caso, è solo determinazione cocciuta.» Lee sogghignò a Menannon, che gli rispose con un giocoso sguardo disgustato.

    «Ti voglio bene anch’io, Artigiano Qualificato della Percussione Leènoviilek. Inoltre, non mi sono specializzato in tutto. Non sono un guaritore.»

    Il percussionista si rivolse di nuovo al marinaio. «La guarigione non è qualcosa che puoi imparare» disse. «L’Eccelso o ti premia col talento, oppure no. Gli Arpisti ti aiutano solo a perfezionarlo. Perciò lui non ha avuto alcuna possibilità in quella, ma io lo vedevo comunque andare alle lezioni di guarigione, così almeno conosce la teoria anche se non può praticare l’arte. Segnatevi le mie parole. Questo ragazzo diventerà Granmastro Arpista uno di questi luminosi giorni! Poi che l’Eccelso ci aiuti, ché lui si aspetterà che tutti noi saremo estremamente coscienziosi come lui.» Lee aveva a malapena passato per il rotto della cuffia le altre lezioni richieste di storia, leggenda e le arti, a causa non di una mancanza di intelligenza, ma piuttosto di una generale mancanza di interesse. Il suo cuore e il suo amore erano solo per la musica e il percussionismo, mentre tutto il resta entrava in un orecchio ed usciva dall’altro, e lui non ne sentiva la mancanza.

    «Io non sono estremamente coscienzioso. Rispetto solo la mia gilda.»

    «Oh, certo che lo fai, ed io non ho visto solo la tua arpa nella tua borsa, ma anche i tuoi appunti per studiare per le prossime Prove del Mastro? E quelle non saranno tenute fino al prossimo giugno. E tu dovresti essere in vacanza e, sotto ordini precisi del Granmastro Blackmore, in totale relax e ad ubriacarti ogni notte.» Lee fece l’occhiolino al marinaio.

    Menannon tirò su col naso e scosse la testa a quel suggerimento. «Lui non ha incluso ubriacarti ogni notte in quell’ordine!»

    «Sì che l’ha fatto» Lee rassicurò il vecchio marinaio, che stava apprezzando molto il diverbio verbale tra i due. «E cosa, se posso chiedere, c’è di sbagliato nel rilassarsi e nell’ubriacarsi?» Quest’ultima domanda la indirizzò al vecchio lupo di mare.

    «Niente di cui io riesca a pensare.» L’anziano gli rivolse un ghigno.

    «Visto? Lui è d’accordo con me.» Lee ritornò a Menannon. «Quindi?»

    Menannon si appoggiò contro il parapetto e lanciò un’altra veloce occhiata verso nordest prima di rispondere. «Be’, io riesco a pensare a ben due ragioni. La prima è che io sono un Gigante, e i Giganti non si ubriacano. Seconda cosa, ed è molto più importante, mio padre mi picchierebbe.»

    «E perché quello dovrebbe farti tirare indietro?» Domandò il percussionista con grande allegria.

    «Tu non hai visto mio padre, amico mio, altrimenti non penseresti nemmeno una cosa simile, men che meno dirla.»

    «Quindi sei un Gigante, ragazzo? Me lo stavo proprio chiedendo.» Il marinaio finì il suo lavoro e spintonò una cassa e ci si sedette sopra, poi tirò fuori una vecchia pipa malconcia dal suo marsupio e cominciò a riempirla e ad accenderla mentre esaminava pensierosamente Menannon. «T’avevo preso per un Teluri, visto quanto sei alto e robusto. Sei una vista più bella della maggior parte dei Giganti che ho incontrato, e ne ho incontrati un bel po’.» L’anziano indicò Menannon con il cannello della sua pipa e gli fece un occhiolino.

    «Una volta ho trascorso un inverno a Nuova Belitarra. Là c’è un intero villaggio di Giganti verso l’entroterra da Gormidad. Non sto dicendo che i Giganti non siano gente di bell’aspetto, ché sono tanto di bell’aspetto quanto qualsiasi altra gente, ed alcune ragazze di Nuova Belitarra sono assolutamente mozzafiato, ma tu hai un aspetto più bello di qualunque altra persona abbia visto, e sei dannatamente più ba...» L’anziano signore deglutì un po’ e sembrò mormorare fino a fermarsi, poi fece un lungo tiro dalla sua pipa. Menannon e Lee si scambiarono un sorriso.

    «Va tutto bene, potete dirlo... io sono dannatamente più basso di tutti gli altri Giganti adulti che abbiate mai visto.» Il sorriso di Menannon illuminò il suo intero volto, i suoi occhi neri che luccicavano.

    «Non intendevo offenderti, ragazzo.»

    «E non è stata presa come un’offesa, signore, ve lo assicuro. La verità è la verità e non può arrecare offesa. Personalmente non trovo che la mia altezza sia un problema, sebbene quello che penserà mio padre, io non posso dirlo.» Menannon guardò altrove un po’ a disagio, poi scrollò le spalle e ritornò lo sguardo. «Posso solo sperare che lui non sarà troppo deluso per la mia statura, poiché sono lo stesso di quando mi vide l’ultima volta, anche se sono più grande di tre estati.»

    «Deluso!» proruppe il percussionista, incredulo. «Per la gloria dell’Eccelso, Menannon! Sei alto quanto un albero e solido come una montagna. Che altro potrebbe desiderare?»

    «Non hai prestato attenzione alle pergamene di insegnamento? Se lo avessi fatto, sapresti che per il mio popolo, io sono alto circa quanto un ragazzo mezzo cresciuto di, diciamo, tredici estati. Come il nostro buon marinaio qui ti dirà, io sono un nano.» Guardò il marinaio il quale annuì, un po’ imbarazzato all’ammissione.

    «Un nano? Stai sicuramente scherzando!» La domanda di Lee fuoriuscì come un incrocio tra uno sbuffo d’incredulità ed una risata.

    «No» lo assicurò Menannon scuotendo gravemente la testa.

    «Già, ti sta dicendo la verità dell’Eccelso, ragazzo.»

    «Mio padre è alto quindici piedi e tre pollici pieni ed è appena sopra la media. Io, invece, sono alto esattamente nove piedi, cioè due piedi e mezzo più basso del Gigante più basso finora mai registrato. Per darti una vera idea di quanto alto sia mio padre, considera questo: tu sei alto circa sei piedi, giusto?»

    «Sei piedi e due pollici» concordò Lee, intrigato.

    «Va bene, se ti mettessi in piedi sulla mia testa e ti allungassi il più che puoi, saresti appena in grado di guardare mio padre negli occhi. Persino in ginocchio, lui è ancora più alto di me di due piedi.» Ci fu quindi un lungo silenzio mentre i tre contemplavano le parole di Menannon. Sopra di loro, un gabbiano lampeggiò di bianco nel sole mentre vorticava e ondeggiava al di sopra della nave.

    «Un Gigante di Kalyria» mormorò tra sé il vecchio marinaio mentre aspirava pensierosamente la sua pipa. «Un Gigante di Kalyria...» Improvvisamente, i suoi occhi si ingrandirono e lui tirò via il cannello della pipa dai suoi denti e lo puntò su Menannon.

    «Voi siete il figlio di Lord Gorlanndon! Per il Grande Orlandino Cornuto, sto davvero parlando all’erede di Lord Gorlanndon e non sono mai caduto...» Il suo sorriso si trasformò in un’espressione di orrore e lui saltò in piedi come se fosse stato punto.

    «Sono spiacente per essermi seduto senza permesso ed essere stato così informale. Vi chiedo il vostro perdono, mio Lord.»

    Le parole dell’uomo quasi ruzzolarono le une sulle altre nella sua fretta di scusarsi per aver agito in questo modo alla presenza di un tale augusto personaggio come questo giovane passeggero. Vicino a lui, Lee lo stava fissando con incredibile sorpresa e Menannon non riusciva a decidere se ridere o farsi piccolo per l’imbarazzo.

    «Di che cosa state parlando, signore? Non sedersi in sua presenza? È solo un Arpista Qualificato, anche se uno piuttosto alto» proruppe Lee.

    «Suvvia, ragazzo!» lo interruppe l’anziano compagno. «Lui è l’erede del Primo Consigliere di Kalyria, il migliore e più potente commerciante in tutto il Mar dell’Alba. Non c’è un marinaio da queste parti che non darebbe la sua gamba sinistra per navigare per Lord Gorlanndon. Quindi, ragazzo, il tuo amic qui è un principe, pure se non ha una corona. E tu faresti meglio a trattarlo col rispetto dovuto alla sua posizione su questa nave!» sbottò l’anziano marinaio.

    «No, vi prego...» incominciò Menannon, ma il marinaio si era gonfiato il petto con orgoglio e stava indietreggiando con riverenza.

    «Andrò ad informare il capitano ed assicurarmi che Cook vi renda orgogliosi di noi.» Quasi corse lungo il ponte, chiamando i suoi compagni e lasciando Menannon e Lee a fissarlo con un po’ di stupore. Alla fine, Lee si voltò verso il suo amico, un sopracciglio interrogativo inarcato.

    «Come ho detto, mio padre è molto incredibile.» Menannon scrollò le spalle con un sorriso piuttosto imbarazzato e si fece strada verso la poppa della nave per prepararsi per quello che sapeva sarebbe stato un pranzo con il capitano adatto alla regalità.

    «Un principe, ha detto l’uomo» osservò Lee mentre camminavano. «Un principe! Tu? Un principe?» Lee non riuscì a nascondere il divertimento nella sua voce, e nemmeno ci provò. Il rossore di Menannon fu tutto quello di cui ebbe bisogno per esplodere in una risata fragorosa. «Un principe! Oh, questa è bella. Aspetta che la comitiva alla sala lo venga a sapere!»

    Menannon si limitò scoccargli un’occhiataccia, la quale provocò Lee ancor di più, ma lui si contenne quando si avvicinarono alla poppa e agli alloggi del capitano. Il pasto andò esattamente come Menannon si era aspettato, ed egli non riuscì a liberarsi abbastanza presto delle rigide formalità.

    * * *

    Il mattino del terzo giorno dopo la conversazione con il vecchio marinaio trovò Menannon di nuovo in piedi sul parapetto di prua, i suoi occhi incollati all’orizzonte orientale, strizzandoli nel sole appena sorto per un primo scorcio della sua casa. In verità, sebbene fosse affezionato alla sua isola nativa e la preferiva a qualsiasi altro posto in cui aveva vissuto o che aveva visitato, era suo padre che stava attirando il suo cuore così fortemente. Sin dal momento in cui si erano fatti avanti da Lornennog, erano stati compagni ed amici inseparabili. Anche se era stato un grande onore venire inviato alla Sala Maestra per il suo addestramento, la separazione dal suo amato padre era stata la prova più difficile finora nella giovane vita di Menannon e non era migliorata col tempo.

    Gorlanndon aveva fatto in modo di portare la sua ammiraglia nel porto a Blue Bay ed incontrarsi lì con suo figlio durante le vacanze primaverili in ognuna delle cinque estati che Menannon aveva trascorso a Aridion City. Poi le questioni a casa l’avevano trattenuto a Kalyria e non era più venuto a Blue Bay. Questa mancanza aveva cominciato a premere sulla mente di Menannon, riempiendolo con una crescente ansietà che non riusciva ad alleviare di persona. Menannon aveva ricevuto e spedito molte lettere, ma nient’altro per buona parte di tre estati. La cosa che incombeva maggiormente nel suo cervello come causa del suo disagio era il fatto che suo padre non era stato in grado di assistere alla sua promozione, un’assenza che non era assolutamente da lui. Le famiglie di Lee e di diversi altri erano giunte persino fin dal lontano Crenanoc meridionale per l’occasione, un viaggio arduo di molte settimane. Gorlanndon aveva spiegato la sua assenza piuttosto logicamente, anche se con un po’ troppa disinvoltura. Ora, comunque, Menannon era libero di scoprire da sé se andava o no tutto bene col suo sire e la sua città.

    Quando scese riluttante sul ponte ancora una volta, una piccola voce al suo interno gli sussurrò, marchiandolo come un bugiardo, dicendogli che non era solo suo padre che lo preoccupava. Già, gli disse che vi era qualcun’altra...

    Senza alcuna intenzione da parte sua, dei profondi occhi viola sembrarono improvvisamente guardarlo dall’orizzonte orientale, occhi che avevano tormentato il suo sonno e disturbato le sue ore di veglia durante tutte le lunghe estati in cui era stato via, dimostrando che c’era qualcun’altra su Kalyria che aveva diritto al suo cuore: Nima. Al pensiero di lei, il suo battito accelerò, non lasciando dubbi sul fatto che i suoi sentimenti per la sua vecchia compagna di giochi fossero ancora lì e, sembrava, più forti di quanto lui si fosse reso conto. Lei era come una sorella per lui, e forse qualcosa di più... Interruppe i suoi pensieri lì, non intenzionato a proseguire ulteriormente, costringendosi fermamente a guardare oltre le onde e di nuovo all’orizzonte, verso casa e il suo sire. Però il suo viso e il suo nome si intrufolarono in lui, distraendolo. Nima... Nima. Per sempre nel suo cuore, ma mai sua.

    Nima era Umana, e per di più era la Principessa Reale di Kalyria e, in quanto tale, ben oltre la sua portata sia per legge che per tradizione, sebbene quello non li avesse mai fermati dall’essere amici d’infanzia e compagni di giochi. Ora, tuttavia, entrambi erano adulti e quindi questo ritorno a casa sarebbe stato, be’, un po’ complicato. Nonostante ciò, Menannon era determinato a vedere Nima in modo cortese non appena possibile. Ci sarebbero voluti alcuni giorni, certo, prima di poter lasciare garbatamente Lee da solo, in quanto non era assolutamente possibile ricongiungersi con la sua più cara amica d’infanzia con un altro caro amico al seguito. Non sarebbe stato giusto per nessuno di loro due.

    Mancava poco a mezzogiorno quando finalmente il marinaio alla testa d’albero chiamò: «Terra! Terra ad est, mio Lord.» Si era sparso a macchia d’olio il fatto che Menannon fosse il figlio ed erede di Gorlanndon di Kalyria e da allora era stato trattato con regalità, con suo molto imbarazzo, ma in segno di rispetto per suo padre aveva sopportato il loro atteggiamento con grazia. Il comandante della nave aveva riservato a Menannon e Lee ogni cortesia, poiché non avrebbe fatto dire in giro che lui aveva fallito nel suo dovere nei riguardi di un così rispettato concorrente come Gorlanndon. Inoltre, tale fallimento avrebbe ben potuto avere un impatto molto negativo sugli affari dell’armatore e quindi sul suo ingaggio, e lui non era arrivato dove si trovava per mancanza di acume.

    «In che direzione?» rispose Menannon. Salì di nuovo sul parapetto e strizzò gli occhi verso est.

    «Dieci gradi a nordest» fu la risposta, e il Gigante volse rapidamente il suo sguardo nella direzione data. Sebbene la sua vista fosse più acuta di quella di un Umano, la curvatura stessa del mondo gli impedì di vedere ciò che il marinaio sopra di lui riusciva a vedere. Attese impazientemente, il suo sguardo incollato in quel punto finché alla fine non la vide: una macchia bianca all’orizzonte come una nuvola a bassa quota. Rimase lì dov’era per la maggior parte del giorno a guardare mentre l’isola diventava sempre più grande, finché quasi non riempì l’intero orizzonte orientale, fluttuando come un grande uccello sopra le onde.

    «Be’, direi che abbiamo quasi raggiunto la nostra destinazione» osservò Lee arrivando al parapetto vicino a lui. «Che cosa intendi fare come prima cosa quando raggiungeremo il porto?»

    «Farò rapporto a mio padre, ovviamente» disse Menannon.

    «Farai rapporto a tuo padre? È un modo piuttosto strano di dirlo.» Lee rivolse al Gigante un’occhiata perplessa. Menannon sorrise piuttosto timidamente.

    «È un retaggio della prima volta che salpai con lui. Mi divertivo nella timoniera o qualcosa del genere quando avrei dovuto studiare o fare i compiti. Non accadeva mai. Mi ero appena messo comodo a guardare in cerca di un albatro e avevo sentito il primo ufficiale gridare: ‘Menannon! Vi vedo! Fate rapporto a vostro padre, giovanotto!’ Da allora ho sempre fatto rapporto a lui.»

    «E che cosa fece lui quando tu facesti rapporto?» Lee non poté nascondere un sorriso al pensiero di un Menannon responsabile fino all’inverosimile venire beccato a divertirsi, persino da giovane.

    Il Gigante non riuscì ad evitare un leggero arrossamento al ricordo di se stesso da bambino avvicinarsi alla cabina di suo padre come se fosse stata una tana di Drakta. Si schiarì la gola e sorrise.

    «Andai nella sua cabina con le mie ginocchia che sbattevano tra loro. Lui era seduto alla sua scrivania a scrivere nei suoi registri. Si fermò e mi guardò. Non disse una parola – semplicemente mi guardò -, poi mi fece segno di entrare ed io praticamente mi mossi con cautela fino alla sua scrivania, e lui mi prese e mi mise in piedi su un vecchio trespolo per pappagalli che aveva nell’angolo cosicché io potessi guardarlo negli occhi. Lui rimase seduto lì, nella sua grande sedia, e mi guardò, poi fece la sua espressione più amaramente delusa sul suo volto ed il mio cuore sprofondò nei miei stivali e cominciai a piangere e a promettere che avrei cercato di essere migliore. Lui annuì come se avesse appena siglato un affare, poi iniziò a girarsi per ritornare al lavoro, ma si rigirò. Sorrise ed allungò le sue mani ed io saltai nelle sue braccia e lui mi diede un grande abbraccio, poi mi infilò sotto il suo braccio come un pezzo di pergamena arrotolato e si erse più che poté, dato il basso soffitto, e si diresse verso la porta. Non appena stavamo per lasciare la cabina, si fermò, mi guardò e disse: Quindi, hai visto l’albatro? ed io dovetti dirgli che no, non l’avevo visto, ma poi lo rassicurai che avrei continuato a guardare e lui si fece una grassa risata, poi andammo sul ponte e lui mi mise al lavoro o sullo studio.»

    V’era una melodia nella voce di Menannon che Lee non aveva mai sentito prima mentre il Gigante parlava di suo padre. Per appena un attimo, il percussionista non poté evitare una fitta di gelosia. Lui aveva un’amorevole famiglia completa con tre madri, cinque fratelli e tre sorelle, ma c’era una vicinanza tra Menannon e suo padre che Lee non aveva mai provato e poteva solo immaginare come doveva essere. Scosse quella sua momentanea perdita come indegna e immeritata e sorrise al suo amico.

    «Allora, vedesti mai l’albatro?»

    «No,» ridacchiò Menannon, «ma non fu per una mancanza di osservazione.»

    «Comunque, perché stavi cercando quel dannato pennuto?»

    «Be’, mio padre mi disse nel nostro primissimo viaggio insieme che se avessi individuato l’albatro sopra l’acqua del mare, la buona fortuna per quel viaggio e per sempre sarebbe stata nostra, perché avrebbe significato che l’Eccelso stava prestando particolare attenzione a noi, ma io penso che lui l’avesse detto semplicemente perché soffrivo un po’ di mal di mare ed ero piuttosto spaventato di essere circondato da così tanta acqua, perciò diede ad un fantasioso bambino di cinque estati qualcos’altro a cui pensare.» Menannon non riuscì ad evitare di arrossire di nuovo a questo ricordo.

    Lee dovette ridacchiare a quel pensiero e ritornò a guardare i dettagli dell’isola che cominciavano a sorgere alla massa generale all’orizzonte.

    L’apice della Corona di Kalyria, il punto più alto dell’isola, fu il primo elemento a spiccare. Era il restante degli ultimi sei originari picchi vulcanici che avevano formato l’anziana isola e si ergeva a tredicimilaquattrocentocinquantotto piedi sopra il mare circostante. Il prossimo ad apparire fu il grande bastione delle Scogliere di Marmo che racchiudeva i Campi di Morr,  il miglior terreno di coltivazione sull’intera isola. La nave corresse la sua posizione verso sudest per aggirare l’isola e entrare nel bacino d’ormeggio fronteggiante Kirith Kalyria sulla costa settentrionale.

    Il capitano mantenne il suo vascello ben lontano dalla terra, poiché vi erano sporgenze sommerse e pinnacoli come denti circostanti l’intera terra visibile. Il sole stava scagliando lunghe ombre oltre la prua della nave, quando superarono i confini occidentali delle Pianure di Pelar e la città stessa apparì alla vista.

    Lee trattenne il respiro per la meraviglia. Due bianche torri fiancheggiavano la bocca del bacino d’ormeggio, posti in cima alla Mezzaluna che formava un argine naturale per la città. I loro tetti, composti dell’oro più fine, brillavano in modo accecante sotto il sole del tramonto. Più in là, la città sembrava quasi bruciare di luce bianca mentre i raggi del sole riflettevano dal marmo venoso d’oro e d’argento utilizzato nella sua costruzione, dove era steso come un tappeto riccamente intessuto lungo le quattro colline sopra le quali la città era stata costruita. Vi erano così tante navi all’interno del bacino d’ormeggio che pareva come se un’intera falange di nuvole si fosse posata sulla terra. Persino provenendo da una città portuale, Lee non aveva mai visto nulla di paragonabile a questo posto. Vicino a lui, Menannon stava sorridendo leggermente, godendosi la reazione del suo amico alla sua patria.

    «Bella, vero?» mormorò lievemente così da non spezzare l’umore del percussionista.

    «Bella?» Lee portò degli occhi luccicanti sul Gigante. «Dire che Kirith Kalyria è bella è come dire che il Trono dell’Eccelso è una collina mediamente alta piuttosto che la montagna più alta di Aridion! I racconti non fanno giustizia a questo posto. Per la gloria dell’Eccelso! È meravigliosa!»

    «Oh sì, che lo è!»

    Rimasero in silenzio per diversi istanti, godendosi la vista della città mentre si avvicinava sempre più fino a quando essi riuscirono a riconoscere il verde degli alberi e le sediziose macchie di colore che contrassegnavano i giardini e le strade. Il colore e la vita erano ovunque, tutto messo in luce alla perfezione dagli ultimi raggi dorati del tramonto.

    Che l’Eccelso mi aiuti, è bello essere a casa. Menannon dovette scacciare una foschia dai suoi occhi. Guardò rapidamente da parte così Lee non avrebbe visto la mancanza momentanea nel suo contegno. Si voltò di nuovo verso la terra e la città di fronte a loro e alzò avidamente lo sguardo sulla cima della collina più occidentale, i suoi occhi incollati al punto dove sapeva che si ergeva la villa di suo padre circondata da mura e il giardino, sebbene non riuscisse ancora a distinguerla. Ci fu un breve lampo di luce, come se il sole avesse appena brillato attraverso una finestra da poco pulita. Menannon s’irrigidì e strizzò gli occhi. Sì! Eccolo di nuovo! Saltò sul parapetto e si allungò più in alto che poté ed alzò la sua mano in un saluto.

    «Che succede? Chi stai salutando?» Lee cercò a lungo per vedere che cosa fosse preso al suo amico per salutare improvvisamente la città.

    «Mio padre!»

    La gioia sul volto di Menannon era sbalorditiva. Lee non poté nascondere un sorriso di risposta, ma era ancora più perplesso.

    «Com’è possibile che lui possa vederti da questa distanza? Siamo a malapena in grado di vedere gli edifici della città.»

    «Vedi quel lampo?» Menannon indicò. Lee strizzò i suoi occhi, ma vide solo il luccichio della città stessa.

    «Dove?» domandò.

    «Lassù sulla sinistra. Lo vedi? Lì!» Menannon fece un altro saluto, questa volta con entrambe le mani. «Vedi quel lampo come di sole che luccica da una finestra?» Lee seguì il braccio puntato di Menannon e finalmente colse i piccoli lampi ai quali il suo amico si stava riferendo. Effettivamente rassomigliavano alla luce del sole che si rifletteva da un vetro appena pulito.

    «Com’è possibile che lui possa vederti da lì? Sarebbe un miracolo se riuscisse anche solo a vedere questa nave» chiese Lee, incredulo.

    «Sta utilizzando il suo strumento di lunga gittata» Menannon mantenne il suo sguardo bloccato sulla cima della collina da cui la luce ancora lampeggiava a intermittenza.

    «Il suo cosa?» Ora, Lee stava cominciando a credere che il suo amico lo stesse prendendo in giro. Però l’espressione sul volto di Menannon era un tale miscuglio di gioia e sollievo che doveva essere serio.

    Menannon guardò in basso verso il suo amico e sorrise piuttosto imbarazzato di sé e riportò il suo viso all’aspetto calmo come si confaceva ad un gentiluomo, ma lui semplicemente non riusciva a non tenere il luccichio fuori dai suoi occhi.

    «Mio padre ha inventato ciò che chiama Lungocercatore. È come una serie di lenti per occhiali messe insieme in un lungo tubo di metallo che ti permette di focalizzarti su oggetti distanti e vederli come se fossero quasi a portata di mano. Ogni lente a sé stante può essere usata per far sembrare grandi le piccole cose. Da bambino venni punito diverse volte per aver tolto le lenti nelle loro montature di metallo dal tubo ed essermeli messi sugli occhi e averli tenuti lì con i muscoli delle guance per studiare le piccole cose come formiche e scarafaggi. Nell’autodifesa e per impedire danni ad uno strumento importante, mio padre mi diede alcune montature di vetro e mi insegnò come creare le lenti per me. Ero piuttosto bravo.»

    Lee non riuscì ad evitare una sbuffata derisoria a questo. Alla sala degli arpisti era positivamente assiomatico che non ci fosse nulla con cui Menannon non fosse ‘piuttosto bravo’.

    Vicino a lui, Menannon sogghignò imbarazzato alla reazione di Lee e si affrettò a proseguire la sua spiegazione. «Quando è a casa, mio padre tiene il Lungocercatore nel padiglione dietro la sua villa, così può guardare le sue navi mercantili andare e venire dal bacino d’ormeggio sotto la città. Quando lo muove appena a destra, il sole si riflette dall’ultima lente. Vedi? In quel modo! Ci sta ancora guardando.» Menannon rivolse di nuovo la sua attenzione al distante punto di luce.

    «Sto arrivando, padre mio» sussurrò. «Sono quasi a casa.»

    Lee nascose con attenzione il suo sorriso, non volendo che Menannon sapesse che aveva origliato ciò che era ovviamente un commento molto privato. Lee non riusciva a distogliere lo sguardo dall’intensa faccia di Menannon verso la cima della lontana collina e viceversa per tutto il tempo in cui la nave si stava facendo strada al di sotto dei possenti fari e dentro il bacino d’ormeggio pieno di traffico marittimo. La luce continuò a lampeggiare mentre si avvicinavano, provando oltre l’ombra di un dubbio che qualcuno su quella collina era interessato nel loro progresso quanto loro erano interessati nella progressione.

    Ci volle un’ulteriore ora prima che la loro nave potesse venire attraccata ad una banchina pubblica. Gorlanndon aveva i suoi attracchi in un’altra sezione del bacino d’ormeggio, dove altri tra i più grandi mercanti avevano le loro banchine, i loro moli e i loro fari privati. Il ponte si fece vivo di attività mentre l’equipaggio fissava la nave e il resto dei passeggeri si raccoglieva sulla passerella per sbarcare. Lee rivolse a Menannon un saluto e tornò indietro per raccogliere i suoi effetti personali. La banchina si affollò di attività e colori mentre i portatori venivano con portantine e lettighe per scortare i signori e le signore di ritorno alle loro proprietà oppure per vendere i loro servizi agli altri, e qualsiasi altro tipo di marinai, venditori ambulanti, famiglie, amici e completi sconosciuti vennero per accogliere la nave e il resto dei suoi passeggeri ed equipaggio.

    Casa, infine!

    Capitolo 2

    (Estate del Mondo 6096)

    ––––––––

    Menannon rimase un momento indeciso se tornare indietro a prendere i suoi effetti personali o sbarcare. Una voce irruppe nei suoi pensieri e lui si voltò per trovare il marinaio della rete da carico che gli sorrideva.

    «V’ho detto che l’avremmo portata qua entro il tramonto di oggi, ragazzo.» Il vecchio marinaio ammiccò, poi, ricordandosi, fece il saluto. «Possiamo esservi ulteriormente utili, mio Lord?»

    «Be’, in verità... Potreste far trasferire il kit mio e del mio amico alla villa di mio padre per me...?» cominciò Menannon, ma il marinaio lo interruppe con un sorriso ancora più ampio.

    «Perché farete il viaggio fino ai cerchi più alti molto più in fretta se non siete intralciati dai vostri effetti personali. Sì, sì. Ci penserò io personalmente e mi assicurerò di far venire una sedia per il vostro amico non appena lui si rimetterà in sesto, mio Lord.»

    Il sorriso sollevato sul volto di Menannon fu tutto il ringraziamento di cui il vecchio marinaio aveva bisogno. Con un affrettato grazie, il giovane si girò e, approfittando della sua grande altezza, volteggiò oltre il parapetto ed atterrò con un tonfo sul pontile, facendo sussultare una ragazzina dai capelli neri che vendeva fiori e facendole quasi cadere il suo cesto di mano.

    Menannon si piegò su un ginocchio e la calmò con una rapida mano. I suoi occhi verdi si riempirono di lacrime ed il suo piccolo mento cominciò a tremare, ma poi qualcosa nel sorriso e nel leggero piccolo occhiolino che Menannon le rivolse rassicurarono la bambina, e lei gli sorrise a sua volta. La piccola imprenditrice si riprese rapidamente e gli porse un bouquet di fiori appena colti.

    Il sorriso di Menannon si allargò e lui prese una moneta dal suo marsupio e la scambiò destramente con i fiori nella sua piccola mano. I suoi occhi si ingrandirono di meraviglia mentre guardava la moneta, e lei cominciò immediatamente a cercare il resto nel marsupio del suo vestitino color ruggine di almeno una taglia più grande, ma Menannon scosse la testa e le rivolse un altro occhiolino, infilò con attenzione i fiori nella sua cintura, si alzò e corse verso terra, schivando la folla sul pontile. L’intera transazione era stata condotta in totale silenzio.

    Nonostante la crescente oscurità, gli ampi viali che salivano attraverso le sette cinte della città erano stracolmi di acquirenti e carrozzine, intrattenitori e coloro che cercavano intrattenimento. I membri della guardia cittadina si occupavano di assicurare la sicurezza – più per tradizione che per necessità – e di aprire le lanterne naniche che pendevano dalle postazioni lungo i viali. Presto le strade principali vennero brillantemente illuminate come a giorno, mentre aveva inizio la vita notturna della città.

    Anche se fosse esistito un mezzo di trasporto capace di trasportare persino un piccolo Gigante come lui attraverso le strette strade tortuose, Menannon era troppo impaziente per una tale lenta maniera di viaggiare, quindi partì giocoforza a piedi, evitando il traffico cittadino, le portantine, i portatori e tutti gli altri tipi di gente sul suo cammino sulla cima del Citadel, il colle centrale di Kirith Kalyria, dove si ergevano gli edifici governativi ed il Palazzo Reale, antica dimora di re e regine dell’Impero Kalyriano. Dalla sua nobile altezza, dei grandi ponti si inarcavano lungo gli altri tre colli: l’Equian, i cui picchi e i fianchi sostenevano le grandi ville, i frutteti e i vigneti dei residenti più ricchi della città; l’Idrian, dove si trovavano le principali sale artigianali delle arti, inclusa la sala degli Arpisti – qui vi erano anche le grandi sale dell’università fondata dai Precettori, un ramo degli Arpisti che si specializzarono nella suprema educazione delle scienze, dell’ingegneria, dell’agricoltura e della storia delle erbe –; e l’Aureun, la cui sommità venne graziata dai grandi e piacevoli giardini di Kalyria, aperta a e adorata da tutti gli abitanti della città.

    Molte erano le ore che Menannon aveva trascorso lì come un novello apprendista arpista, utilizzando la sua flora esotica come soggetto per praticare le arti dell’illuminazione e della pittura. Di tanto in tanto si godeva anche i vari intrattenimenti presenti lì. I concerti all’aperto realizzati dagli arpisti qualificati della locale sala degli arpisti erano i suoi preferiti, sebbene, se pressato, avrebbe ammesso che si godeva quasi allo stesso modo i giocolieri e le maschere. L’Aureun era anche il sito della maggior parte delle più grandi sale del commercio degli Uomini d’affari più ricchi di Kalyria, incluso il padre di Menannon.

    Il resto della grande città girava attorno ai corsi inferiori e ai piedi dei suoi colli in fortificati cerchi concentrici che riempivano ogni spazio disponibile con case, giardini, sale di commercio, negozi, locande e taverne dei suoi abitanti. Almeno una strada da ciascuna dei quattro colli aveva il suo capolinea al porto, ma la loro lunghezza variava con la forma e l’altezza del colle. La strada principale che portava fino al Citadel era la via più corta per la cima, in quanto saliva direttamente il colle piuttosto che proseguire a spirale attorno ad esso come facevano le strade sulle altre tre. Dalla cime del Citadel, era un facile e rapido cammino sul ponte che portava alla villa di suo padre sull’Equian.

    Raggiunse la cima del Citadel in men che non si dica, ma a lui parve una vita e quasi si gettò attraverso il cancello principale delle mura circostanti la piazza centrale. Non avrebbe potuto fare il viaggio per niente meno di una corsa a perdifiato, se la sua stessa vita fosse dipesa da essa.

    «Insomma! Rallentate e mostrate un po’ di rispetto.» Una delle guardie del cancello, la luce delle lampade gemelle nella loro avvezza gloria sul frontone sopra i molteplici portici colonnati della Sala del Consiglio che brillava dalla sua armatura a scaglie nere e rosse, si mosse dalla sua posizione ai gradini più bassi della Sala del Consiglio e lo rimproverò per la sua indecorosa fretta in un luogo tanto augusto. Queste lampade – gli Occhi dell’Eccelso – bruciavano incessantemente sin da quando furono poste le fondamenta della città, simbolizzando l’amore dell’Eccelso per le persone di Kalyria, e il loro per Lui. La loro luce divampava dall’Eccelso stesso e nessuno, tranne Lui, poteva estinguerla.

    Obbediente, il Gigante rallentò fin quasi ad una camminata e salutò le lampade com’era proprio, ma non irruppe in una falcata quando superò la Sala del Consiglio e il palazzo della regina, dove non poté evitare una rapida occhiata alla torre più bassa, in cima alla quale vi erano le camere di Nima. La finestra al suo apice era illuminata. Lei era all’interno. Tutto ciò che poteva fare era non deviare e lanciare sassolini alla sua finestra per attirare la sua attenzione com’era solito fare da ragazzino, ma la vigilanza delle guardie e la consapevolezza che suo padre lo aspettava lo mantennero sul suo corso.

    Superò i piccoli edifici pubblici e le monumentali statue che riflettevano la lunga storia di Kalyria e fu presto fuori dal cancello, dopo il muro posteriore della piazza, oltre il Ponte Matematico al lato occidentale del colle ancora una volta a perdifiato e si scagliò oltre l’arieggiata apertura all’incrocio dove si incontravano le tre vie dell’Equian. Quella centrale saliva su fino all’apice dell’Equian e le altre due scendevano, una a sinistra e l’altra a destra. Senza neanche guardare le altre, Menannon percorse l’ampia via centrale alberata, che si snodava tra le alte mura di pietra che racchiudevano i giardini e gli edifici della villa più grande della città.

    Svoltò un ultimo angolo, senza fiato, e vide l’alto muro in pietra dell’abitazione di suo padre, ma scoprì con sua sorpresa che il grande portone in legno era chiuso e bloccato. Era molto strano, poiché tutto era rimasto aperto alla strada senza timore di intrusione di qualsiasi tipo, in quanto Kalyria era sotto la Pace dell’Eccelso, e il crimine era virtualmente inesistente.  Scivolò fino a fermarsi di fronte al portone e, per la prima volta nella sua vita, tirò la corda della campana per essere ammesso nella sua stessa casa. Con sua sorpresa e impazienza, tirò così forte che quasi la staccò. Il profondo suono rimbombante dell’antica campana echeggiò dentro e, in risposta, una feritoia s’aprì al centro del portone.

    «Chi va là?» domandò una voce mentre una scintillante lanterna nanica veniva spinta attraverso l’apertura per illuminare il visitatore.

    Il portinaio guardò fuori e poi sempre più su. Ci fu uno stupefatto silenzio per circa mezzo battito del cuore, poi gli occhi dell’individuo si sgranarono di sorpresa e allegria.

    «Padron Menannon? Per le sante lacrime dell’Eccelso, è bello rivedervi!»

    L’individuo ritrasse la lanterna e chiuse la feritoia. Menannon poté sentirlo urlare a squarciagola «Padron Menannon è al portone!» anche mentre le catene risuonavano, e il portone principale si spalancò.

    «Entrate, Padroncino!»

    Il portinaio si dimostrò essere null’altro che Skendrin, il maggiordomo di suo padre, anche se il perché avesse dovuto comportarsi da portinaio era un mistero a cui Menannon non ebbe la lussuria di rifletterci, poiché il maggiordomo afferrò il suo braccio e quasi lo strattonò per il piacere attraverso il portone.

    «Come testimonierebbe l’Eccelso in persona, siete una gioia per gli occhi, ragazzo!»

    Menannon si ritrovò dinanzi il viso sorridente di uno dei dipendenti più anziani di suo padre. La testa grigio ferro di Skendrin arrivava quasi al centro del petto del giovane Gigante, in quanto lui era alto ben più di sei piedi. Era un Umano snello e longilineo, la cui snellezza nascondeva i muscoli nerboruti forti come l’acciaio guadagnati in una vita di servizio a bordo delle navi mercantili di Gorlanndon e ora nascosti sotto la sua piuttosto bizzarramente decorata tunica arancio e viola. Skendrin era ritornato riluttante sulla terraferma alla morte del suo signore, che aveva servito il Gigante come suo ultimo maggiordomo.

    «Come fai a sapere chi sono?» non riuscì ad evitare di chiedere Menannon, siccome nessuno lo aveva più visto da quando era partito per Aridion City otto estati prima.

    «Be’, per prima cosa, vi stavamo aspettando, giovane canaglia! Vostro padre ce lo ha fatto sapere ore fa. E se ciò non bastasse, basta guardarvi. Non avete orecchie a punta, quindi non siete un Teluri, e inoltre siete troppo massiccio per uno di loro e troppo grande per essere chiunque altro. E siete l’immagine sputata di vostro padre. Pensate, giovanotto! Vostro padre vi sta aspettando da un duegiorno. È ancora nella residenza estiva. È lì da ore. Fatelo salire quando arriva, ha detto, e così ho fatto. Ora, andate!»

    Skendrin lo spinse nel giardino che andava rapidamente riempiendosi di servi e sudditi del re che si affollavano. Menannon si ritrovò a venire salutato da tutte le parti da gente che conosceva virtualmente da una vita intera.

    La villa di Gorlanndon era piuttosto modesta in grandezza per il Gigante, ma per chiunque altro sarebbe stata un’imponente abitazione. Costruito in marmo e coperto con ardesia, il singolo piano della sezione centrale era alto trenta piedi, mantenuto da ciò che pareva essere una foresta di pilastri, a partire da quelli del portico frontale. L’ala sinistra era di molto più corta, poiché era stata costruita per accomodare gli ospiti di altre razze di cui non v’era mai mancanza nella casa del Gigante. Il suo impero commerciale abbracciava tutto il mondo conosciuto di Linden e i commercianti dalle terre lontane erano spesso ospiti in questa casa. In effetti, un mercante dalle Isole Paradisiache sul lato più lontano della grande Aridion, al bordo del Mar dell’Alba, era attualmente in alloggio, sebbene previsto in partenza tra un duegiorno. L’ala destra ospitava le camere della famiglia. A volte Gorlanndon l’utilizzava come un ufficio. Sul retro, vicino al cortile di erba cipollina, c’erano la cucina, gli sfarzosi alloggi della servitù, un magazzino ed altre camere necessarie a gestire una grande abitazione. Sul lato accanto al cortile, vicino al portone, vi erano i capannoni, le officine ed una grande dimora che era la residenza del maggiordomo e della sua famiglia. Nonostante Gorlanndon si riferisse alla dimora come a un cottage, avrebbe funto da villa ad un ricco proprietario terriero se fosse stata nel suo cortile. I dieci acri della magione erano racchiusi da un raffinato muro di pietra alto venti piedi. La casa di Gorlanndon era la più grande villa all’interno dei confini di Kirith Kalyria.

    Lo sguardo di Menannon balzò immediatamente oltre le molti masse colonnate della villa, oltre il piccolo giardino dietro di essa e su fino alla cima della collinetta rocciosa che era stata inclusa nei possedimenti di Gorlanndon. Lì, brillante nella luce di multiple lanterne naniche che pendevano dai suoi cornicioni, c’era una struttura che rassomigliava a filigrana in pietra, così delicatamente erano incavate le sue mura di marmo striate d’argento. Le sue tende e imposte erano spalancate alla brezza del mare da tutti i lati, ed era coperta da fogli di rame. Ad occhi Umani, essa sarebbe sembrata una piccola torre, ma per Gorlanndon non era nient’altro che un servizievole gazebo. Il Gigante l’aveva costruito per sua moglie Julianna come suo ritiro speciale dove avrebbe potuto trascorrere tempo utile dipingendo e scrivendo poesie. Quando lei si era rifiutata di ritornare a Kalyria da Lornennog dopo la nascita di Menannon, Gorlanndon aveva affermato la casa estiva come proprio luogo speciale, e raro e privilegiato era il visitatore a cui fosse stato permesso di attenderlo lì.

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