Lo stato della strage: Volume I, Parte prima. 1969: i precedenti, le bombe, il contesto italiano e internazionale
Di Massimo Pisa
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Info su questo ebook
Un’immensa mole di materiale per raccontare lo stato della strage di piazza Fontana nel suo cinquantesimo anniversario; il fatto criminale, la storia delle inchieste minuto per minuto, personaggio per personaggio; investigatori, indagati, apparati, magistrati, politici, militanti, movimenti, vittime. Due generazioni in alta definizione. Senza scorciatoie, senza salti logici. Solo i fatti. Tutti i fatti che conosciamo di una saga lunga cinquant’anni, per rispondere a tre domande: cosa è successo? Cosa sappiamo? Come lo sappiamo?
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Anteprima del libro
Lo stato della strage - Massimo Pisa
Storie narrate
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[email protected] – www.bibliotecaclueb.it
Massimo Pisa
Lo stato della strage
1969: i precedenti, le bombe,
il contesto italiano e internazionale
Introduzione
In questo lavoro c’è troppo.
Troppe pagine, troppe note, troppi nomi e sigle, avvenimenti, date. Si basa su troppi faldoni e troppi documenti: 455.917 sono i fogli che compongono i 486 file in formato .pdf in cui, da qualche anno, sono stati digitalizzati tutti i procedimenti su piazza Fontana. Ma studiare a fondo quelle vicende ha comportato l’apertura e la lettura di altri e altrettanto voluminosi scrigni di carte. Quelli dell’affaire Pinelli e dell’omicidio Calabresi, della bomba che uccise Feltrinelli e di quella che Bertoli lanciò per uccidere in via Fatebenefratelli, ancora a Milano. Ulteriori stragi: Brescia e Bologna, che hanno intersecato in più punti la vicenda dell’attentato commesso nell’ultimo mese degli anni Sessanta, origine e paradigma delle carneficine a venire. A loro volta, tutte queste inchieste hanno fagocitato quelle sul golpe Borghese e sull’imboscata di Peteano, sui fili occulti della P2 e di Gladio, o su singoli omicidi e attentati «minori» degli anni Settanta. Dispiegando, sul tavolo di chi le ha lette, i negativi di quella democrazia in ostaggio di logiche ed azioni da Guerra Fredda, attraversata da conati di lotta armata e nostalgie di passo dell’oca. Il totale di quanto consultato fa oltre un milione 835mila pagine. È un numero che fa impressione, è un volume che dà vertigine.
Non ci siamo fermati lì. Abbiamo aperto, uno per uno, i fascicoli virtuali declassificati dalla Presidenza del Consiglio con la «direttiva Renzi», un patrimonio di carte – dei servizi militari, degli Affari Riservati e poi della Dcpp del Viminale, del Ministero degli Esteri, dell’Arma dei Carabinieri – in parte già confluito nei procedimenti giudiziari, in parte ancora inesplorato. Abbiamo bussato alle porte di questure e comandi provinciali dei carabinieri, chiedendo di vecchi fascicoli personali e di protocollo «P», e qualcuno ci ha aperto. Gli Archivi di Stato di Roma e Milano hanno messo a disposizione preziosa documentazione, così come il Comune del capoluogo lombardo, la Biblioteca della Camera e quella di Palazzo Giustiniani. A questi vanno aggiunte le raccolte degli atti dei due rami del Parlamento, tra sedute e commissioni d’inchiesta. Le sentenze, istruttorie e dibattimentali, sono state utilizzate e passate al microscopio come elementi tra i tanti, seppur segnanti, e non come pietre angolari. Abbiamo dragato fin dove possibile i giacimenti statunitensi, britannici, francesi, svizzeri, olandesi. Tentato in Germania, in Ungheria e Repubblica Ceca (i paesi Oltrecortina più vicini operativamente all’Italia). Possiamo quantificare questa ulteriore iniezione di carte in poco meno di 20mila pagine. È stato soppesato e miscelato al resto, infine, quanto offrivano le fonti aperte delle testate radiotelevisive e cartacee di mezzo mondo, anche online. È una ricerca che ha impegnato qualche anno, richiesto innumerevoli incroci di dati e di decine di migliaia di dichiarazioni, di verbali di dibattimento e informative, di appunti e ordinanze. È sproporzionato perfino il peso del volume che avete in mano: sfioriamo il chilo, ed è solo il primo di una serie di quattro.
Dilatato all’estremo, questo studio prova a rispondere a tre domande. Cosa è successo? Cosa sappiamo? Come lo sappiamo? La vicenda di piazza Fontana è profondamente incisa nella carne della Repubblica. È passata sotto tanti (distratti) microscopi, distillabile in pochi dati secchi, ormai scolpiti in lapidi e pietre d’inciampo: qualcuno mise la prima bomba omicida dell’Italia del Dopoguerra, qualcuno diede la colpa a innocenti a sinistra, qualcuno tramò da destra e dentro le istituzioni, qualcun altro scoprì e processò. Il paradosso è che, in fondo a 46 anni di procedimenti, la bomba di piazza Fontana è uscita dal tunnel delle attribuzioni di responsabilità senza colpevoli da condannare e si è consegnata alla Storia, e al suo dito puntato contro gente assolta da sentenze di Stato. Quindi, innocente. «Verità storica» si chiama questa categoria di largo consumo e largamente consolatoria. Permette di raccontarci il poco o tanto che sappiamo su un evento, con ragionevole approssimazione su tutti i suoi snodi, e di dimenticare quanti pezzi di verità mancano all’appello. Noi sappiamo, ma non abbiamo le prove. Citare Pierpaolo Pasolini, senza capirlo. E, troppo spesso, senza aver letto nulla dei fatti che si analizza. Un «concentrato di opinioni», il conformismo cantato da Giorgio Gaber applicato al nostro passato.
La verità manca pure all’esito di questa ricerca, così voluminosa eppure parziale e fortemente limitata, nonostante il «troppo» materiale da ordinare e mettere a sistema. Ne siamo consapevoli.
Infatti, in questo lavoro c’è troppo poco.
Non un documento davvero rivelatore di una verità occulta (ma migliaia di pezzi nuovi del puzzle). Non c’è il nome dell’assassino, non ci sono i colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio (ma tutti gli elementi noti e meno noti per farsene un’idea). Non c’è – non c’è stata ogni volta che è stata richiesta a chi scrive queste note – una tesi precostituita (ma tutte le tesi proliferate negli anni verranno vagliate, e ne daremo una alla fine di questo percorso).
Abbiamo utilizzato una sola linea, che è quella del tempo e del prima, abbandonando fin da principio il senno del poi, per essere il più liberi possibile nell’analizzare i documenti e la loro provenienza. In purezza. Questo lavoro si fonda sulle carte originali e non sugli altri libri e saggi già pubblicati: ne vedrete citati pochissimi, solo dove ritenuto necessario, solo dove aggiungano una testimonianza genuina, un dettaglio di prima mano, un retroscena significativo. Il corollario è stato il sacrificio della sintesi e di ogni forma di scorciatoia narrativa. La scelta è di illuminare con la nostra torcia ogni anfratto raggiungibile di questo infinito fondale. Esistono già, sulla materia in argomento, eccellenti saggi riassuntivi, altri meno precisi, ognuno comunque meritevole di una lettura. A questi vi rimandiamo per analisi meno impegnative di questa.
Da qualche parte tra questi assi cartesiani si colloca quest’opera che state cominciando a sfogliare. Lo stato della strage è il suo nome, e non per caso. Adotta, e capovolge, il titolo del primo e più celebre saggio di inchiesta su piazza Fontana, il più coraggioso e rivoluzionario, il più ideologico e limitato dei lavori «a tesi» su quella vicenda: troppo, a metà del 1970, doveva ancora emergere per avere uno sguardo davvero complessivo su responsabilità e significati. Avrebbe potuto chiamarsi anche Io non so, per rovesciare un altro celebre punto di vista, o Segreti e bugie per iscriversi a uno dei due partiti, i Complottisti contro gli Antidietrologi, del bipolarismo che intossica lo studio del nostro passato prossimo. Non è questo l’obiettivo. Questo è un lavoro che vuole fare il punto sullo stato delle scoperte e su quanto ancora manca alla verità. Arrivarci seguendo con scrupolo perfino maniacale il «come» quelle verità si sono formate e sedimentate.
Non è un lavoro di uno storico: chi scrive, nella vita, fa il giornalista e una remota tesi in Storia contemporanea non attribuisce nessuna patente, così come il mestiere non è garanzia di nessuna competenza particolare. Se non quelle di chi sa com’è fatta una ricerca negli archivi e di cosa contengono gli atti di polizia giudiziaria e degli organi di intelligence. Di come leggerli e interpretarli.
Queste che avete in mano sono cronache. Trame di geopolitica e microstorie di apparati e di persone. Ricostruzioni di colpe e di eroismi, singoli e collettivi. Di ragion di stato e di ribellioni a meccanismi infernali. Del lutto pubblico e privato delle vittime, dello shock emotivo di una generazione. Tutto documentato, certificato al millimetro, al centesimo. Hanno origine dal semplice desiderio di conoscere quei fatti, nei loro elementi costitutivi: quelli, almeno, oggi a disposizione. Saggiare qual è il grado delle nostre conoscenze, e dei vuoti ancora da riempire. Comporre – se l’immagine può servire a una lettura di questa mole di informazioni – un mosaico di centinaia di migliaia di ritratti in primo piano, ognuno in alta definizione, per ottenere alla fine la forma di un solo volto osservato dall’alto, di un solo cratere in mezzo al salone principale di una banca dilaniata, che restituisca una visione unica e definitiva. Entrare in quella piccola agorà di operazioni contabili nel cuore di Milano e prendere in mano ogni scheggia della bomba, ogni lembo straziato, guardarli con occhi idealmente vergini, tentare di ricomporli.
Il risultato finale è la visione panoramica di quello che è Stato. Di come ci ha condizionato. Per piazza Fontana è transitato l’ultimo vagone di una guerra cominciata agli inizi del Novecento, da lì sono partiti conflitti nuovi arrivati ai nostri giorni. Molti degli armadi che contengono quelle storie sono oggi a disposizione. Altri, probabilmente i più importanti, restano sigillati in ragione di logiche novecentesche.
Oggi, però, oggi sì, vale la pena aprirli tutti.
Milano, 9 novembre 2020
L’origine del male
È qui che tutto ha inizio. In questo luogo e in questi tempi. Nel pieno di venti rivoluzionari e di sommovimenti reazionari. Nell’epicentro di uno scacchiere attraversato da logiche e codici conosciuti a pochissimi. L’Italia conosce il rumore delle esplosioni alla fine degli anni Sessanta. Imparerà a convivere con quella eco, con quelle onde d’urto.
1.Le bombe di piazza Fontana
Le bombe fasciste, nell’anno domini 1969, entrano in piazza Fontana che è già giorno 12, in fondo a un venerdì vissuto per lunghe ore a contatto con la tragedia. E non sono ospiti inattese.
Due lampi, poi le fiamme sotto l’ex albergo Commercio. Illuminano il portone serrato dell’Arcivescovado, cinquanta passi più in là, e poco oltre quello della banca, che ovviamente a quell’ora è chiusa. Due molotov. Lanciate poco dopo l’una di notte quando la calma sembra aver riconquistato il centro di Milano. I due feriti sono ragazzi che non c’entrano nulla con questo 11 aprile di guerriglia. Lo giura come può, a mamma Mina, Sergio Bergamini. Ha 26 anni, è impiegato in una ditta di elettrotecnica, e dal suo letto all’ospedale Niguarda, dove viene ricoverato con le mani fasciate per le ustioni, garantisce: «Ho avuto la disavventura di passare solo di lì, non ho tempo di pensare a certe cose: io ho da lavorare». Neppure il geometra Luciano Treu, anch’egli 26enne, ha passione per quelle cose lì. Per quella battaglia quotidiana tra guardie rosse e guardie nere. È lui l’altra vittima, il coraggioso amico di Bergamini: sta provando a spegnerlo, mentre gli piove addosso la seconda molotov. Per attimi infiniti, le torce umane sono due. Mani «compagne» e coperte provvidenziali evitano due funerali¹.
Quando vengono colpiti, Sergio e Luciano hanno appena finito di leggere. Li hanno incuriositi i cartelli maoisti e anarchici appoggiati accanto all’ingresso dell’ex Commercio. Reperti di battaglia. Quei due proiettili di vetro e benzina li colpiscono per sbaglio. Per fato avverso, come capita troppo sovente nel centro di Milano. Piazza Fontana non fa eccezione.
Che siano stati i fascisti, oltre alla logica, lo dicono i testimoni a polizia e giornali, anche se hanno visto soltanto maglioni neri «alla squadrista» e mani che lanciavano prima della fuga. E nient’altro². Ma a rinsaldare la convinzione della matrice di destra c’è anche un mancato precedente, vecchio di quattro settimane. Quella volta, il 16 marzo ’69, era di domenica: durante il comizio fascista all’Ambasciatori, millecinquecento filocinesi e neoanarchici si erano schierati dall’altra parte della città a difesa della «Casa dello studente e del lavoratore», il nome ufficiale dell’albergo occupato in piazza Fontana. La Celere stava nel mezzo. Quando i neri erano partiti in un corteo non autorizzato, puntando il centro della città a braccia tese, con i «duce! duce!» e gli «allarmi, siam fascisti» urlati a polmoni pieni, il muro di polizia e carabinieri aveva retto. E lo scontro era stato rimandato. Due giorni dopo, il capogruppo socialista in Consiglio comunale, Bettino Craxi, aveva presentato un’interpellanza al sindaco e compagno di partito Aldo Aniasi. Chiedendo lo sgombero non delle sedi, di partito e giovanili, dei neofascisti assalitori, ma di quell’ex hotel occupato, «per conoscere se, pur non venendo meno ai sentimenti di deferente rispetto che sono dovuti al leader della Repubblica Popolare Cinese signor Mao Tse-tung e alla memoria del teorico della rivoluzione bolscevica russa del 1917 Vladimir Ilic Lenin, non ravvisando alcun rapporto tra queste insegne ed i problemi del diritto allo studio che avevano dato origine e motivato il gesto di protesta concretizzatosi con la occupazione di uno stabile comunale destinato alla demolizione, la Amministrazione comunale nutra o meno il proposito di far rispettare le regole cui si attengono tutte le forze politiche democratiche». Non mancava il veleno, alla penna del giovane leader cittadino del Psi³.
Ad ogni modo, per le due bombe molotov di piazza Fontana, le indagini dell’Ufficio Politico milanese puntano subito in direzione neofascista. I poliziotti gettano la rete, ma nella notte un solo militante finisce a San Vittore per il possesso di un tirapugni. È un ventenne fascista napoletano emigrato sotto il Duomo a febbraio, si chiama Luciano Buonocore ed e già diventato animatore degli squadristi della «volante nera», picchiatori che fanno le ronde in cerca di rossi a cui dare una lezione. Il «noccoliere» di Buonocore è l’unica arma ritrovata durante le perquisizioni. Per la soluzione del caso bisognerà aspettare⁴.
Docilmente, nonostante le piaghe, Bergamini e Treu si fanno fotografare sul letto d’ospedale. Finiscono sul giornale con nome, faccia e indirizzo di casa. Non sono però le loro ustioni a conquistare i titoloni in cronaca.
La notizia da nove colonne, almeno sulla grande stampa moderata, è quella gigantesca guerriglia urbana che ha preceduto quelle ustioni notturne. Ci sono le grandi foto in presa diretta degli scontri e degli arresti sulle prime pagine dei quotidiani del pomeriggio del 12 aprile (la mattina hanno scioperato). Riflessi di una battaglia vera, lunga e cattiva, a margine del corteo ufficiale per i morti di Battipaglia, una manifestazione carica di indignazione e tensione per i due morti del 9 aprile. Morti di piazza. Povera gente falciata dalle pallottole di polizia mentre protestava contro la chiusura dello zuccherificio e la perdita dei posti di lavoro, il giovane dimostrante Carmine Citro e l’insegnante Teresa Ricciardi affacciata al balcone⁵.
«La marcia del silenzio», l’hanno chiamata. Fila liscia dall’Arco della Pace al Duomo col sindaco Aniasi e i gonfaloni dell’Anpi in testa, approda al palco del comizio dove i sindacati confederali scelgono il compagno Carlo «Nullo» Bulgarelli, della commissione interna dell’Alfa Romeo di Arese, come unico delegato a parlare.
La pace della manifestazione dura finché il servizio d’ordine di Cgil e Movimento Studentesco riesce a tenere a bada i duri. Lo spezzone dei marxisti-leninisti, quello dei neoanarchici, i cani sciolti che innalzano la bandiera di Al-Fatah e protestano per l’indipendenza della Palestina. Ma dopo le parole di «Nullo» e il rompete le righe sotto al sagrato, il corteo spontaneo dell’ultrasinistra si mette in marcia verso la sede di Assolombarda, e non è più controllabile. Non è nemmeno, com’è ovvio, autorizzato dalla polizia, che aspetta schierata in via Pantano, davanti al santuario dell’industria lombarda, a protezione dell’ingresso. Il primo dardo, lanciato dal muro di ragazzi con i fazzoletti sulla bocca e le pietre nei tascapane, è una molotov che divampa sotto un idrante della polizia. Il vicequestore Luigi Vittoria fa quello che gli viene meglio: ordinare cariche e lanci di lacrimogeni.
Il gas e la guerriglia intossicano Milano per quattro ore. Invadono via Larga e piazza Missori, la scalinata di via Sant’Alessandro e via Torino, risalgono per piazza Diaz e si disperdono fin nel cuore di Brera. Sotto al Duomo, in un momento di calma, i neofascisti di Domenico Leccisi, il trafugatore della salma di Mussolini ancora sulla breccia, hanno la malaugurata idea di megafonare per il comizio dell’indomani. Vengono salvati dal linciaggio per un nulla. Il venerdì di paura termina con la sede della Giovane Italia – la bollente leva studentesca del Movimento Sociale, che nulla ha di risorgimentale oltre al nome – che respinge l’assedio rosso con una grandinata di bottiglie incendiarie tirate giù sull’asfalto di corso Monforte.
Finisce con sette «rossi» arrestati. I loro nomi diventano automaticamente simboli da difendere negli slogan dei cortei: Marco Amante, Ernesto Buzzini, Franco Costa, Barnaba Fornasetti, Massimo Hurle, Antonio Mola e Giovanni Nucita. Ottantasei i feriti tra polizia e carabinieri (il vicequestore Francesco Brayda quasi ci rimane secco per quel pezzo di ferro che lo centra in testa) e una trentina di civili a farsi medicare. Tra questi ultimi anche il 55enne violinista Angelo Ephrikian, papà di Laura, attrice e moglie di Gianni Morandi. Passava anche lui per il centro e di questi tempi non è una grande idea, soprattutto nel weekend. Tantissimi i manifestanti che si fanno disinfettare in casa, o da amici, per non essere identificati. Per sabato 12 aprile comizi e manifestazioni sono annullati, per i giorni a venire si vedrà. Così decidono il prefetto Libero Mazza e il questore Giuseppe Parlato⁶.
Milano trema. Il suo cuore borghese freme di indignazione. I suoi giornali cavalcano l’onda. Il «Corriere della Sera» taglia con l’accetta: «È certo comunque che Milano non avrà pace sin quando i pubblici poteri tollereranno nel cuore della città due focolai di fanatismo quali il quartier generale dei maoisti in piazza Fontana e la sede della Giovane Italia in corso Monforte». «Il Giorno» se la cava con un progressista distinguo: «È bene avvertire subito che il Movimento Studentesco è estraneo a questa parte della manifestazione».
E i comunisti? Il Pci sta in trincea, doppia. Resta in difesa, come può. «L’Unità» stigmatizza le molotov di piazza Fontana, «il quinto attentato fascista, nel giro di tre mesi, nella nostra città». Sferza l’inerzia poliziesca sul fronte indagini per i recenti attentati neri e la presunta «protezione» ai raduni dell’ultradestra. Ma la Federazione provinciale del partito, per parte sua, sa di non potersi limitare a glorificare «l’immensa risposta popolare» di Milano e del Paese. Il nemico è ormai anche a sinistra: «Nessun comunista, nessun lavoratore, nessun giovane deve cadere nella trappola della reazione, nessuno deve prestarsi a fare il gioco della provocazione. Vanno quindi combattute con ogni fermezza, così come i comunisti hanno sempre sottolineato, le parole d’ordine irresponsabili e provocatorie che tendono alla ricerca dello scontro per lo scontro e che danno luogo a gesti di tipo anarcoide che niente hanno a che fare con la tradizione di lotta della classe operaia»⁷.
Il non detto del comunicato è che tra questi gesti il Pci include anche le penultime bombe rudimentali. Il barattolo di polvere che ha affumicato la carraia della Fiera Campionaria. E la bomba carta scoppiata in Piazza Affari, nella notte tra giovedì 10 e venerdì 11 aprile, che ha sbriciolato i vetri dell’ingresso⁸.
Calma, compagni, e unità. Un mantra che il partito ha ormai mandato a memoria.
Ma non è un messaggio che gli anarchici (guardati con sospetto da Botteghe Oscure come «utili idioti» della repressione) possano ascoltare, tanto meno abbracciare. Soprattutto i più caldi di loro. E infatti eccoli, il Pietro Valpreda con i suoi amici «Cap» e «Steve», che tanto favellano di bombe e rivoluzione con quei nomi da fumetto di Jacovitti. Eccoli presentarsi la sera del 12 aprile in piazzale Lugano, insieme a Vincenzo Nardella, altro cane sciolto del movimento libertario. Scendono i pochi gradini verso lo scantinato ed entrano al Ponte della Ghisolfa, il circolo di cui deridono i metodi non violenti e a cui scroccano, però, il ciclostile per stampare i loro manifesti. Pietro ha un bottiglione vuoto in mano. Cerca benzina. Quel sabato sera è ancora vergine di molotov. Con i veterani della Ghisolfa il rapporto è dialettico, per usare un eufemismo. C’è Franco Bertoli, c’è Pino Pinelli, ma è Amedeo Bertolo, il meno stagionato di quel gruppetto di libertari, ad accompagnarli alla porta. Non vuole noie. Per l’indomani è in calendario un convegno anarchico, con compagni in arrivo da tutta Italia. Ci manca solo un Valpreda in giro per Milano a fare l’incendiario con i suoi amici. La questura, che chiama quelle teste calde «capelloni» e che tutto orecchia⁹, non aspetta altro per inchiodare gli anarchici. Tutti.
2.Un anno esplosivo
Milano brucia. Da un anno. Per il commissario capo Nino Allegra è diventato un fatto personale. Una lista di attentati lunga così. I volantini con le sigle anarchiche lasciati sul posto paiono sfidare lui, e i suoi della Politica. L’elenco si allunga, Allegra lo aggiorna con fastidio. Non è l’unico a compilarne uno: anche gli agenti e gli ufficiali del Cs Milano, il locale Centro di controspionaggio del Sid, annotano e analizzano. Solo che loro, le «barbe finte», devono semplicemente relazionare a Roma. Non fanno indagini, non devono scoprire colpevoli, non hanno da rendere conto al questore, al prefetto, al Ministero, di quella scia di fuochi fatui della rivoluzione¹⁰.
– 30 marzo 1968, bomba carta contro un portone di via Andrea Costa, dove hanno una filiale gli americani della Dow Chemical: è l’industria produttrice del napalm che viene gettato in Vietnam dai soldati yankee. C’era stata una rivendicazione: più che altro, era un volantino scritto a mano, firmato genericamente «Gruppo anarchico», e i pochi brandelli sopravvissuti alla fiammata riportavano scritte contro il presidente Usa Lyndon Johnson che «se ne frega delle marce della pace» e sul «genocidio vietnamita». Tuttavia, il Cs Milano avanzava il sospetto che i filocinesi di Sergio Spazzali, dipendente della Rank Xerox proprietaria del palazzo, avessero stilato un finto volantino anarchico per fare incolpare i cugini¹¹.
– 26 maggio 1968, esplosione sul davanzale di una finestra della Citroen di via Gattamelata, a pochi passi dalla Fiera Campionaria, con volantini di «Gruppi Anarchici Internazionali» che preannunciavano «un maggio nero, in solidarietà con la lotta degli studenti francesi contro il regime capitalista», e urlavano: «Basta con i sindacati, i partiti, le chiese, lo Stato, l’Esercito, la polizia!»¹².
– 10 giugno 1968, le 16.10 di un lunedì, una fiammata (provocata da «accensione sostanza chimica contenuta in vasetto vetro», come spiega lo stringato telegramma del prefetto Libero Mazza) poco dopo la porta sinistra d’ingresso illuminava la Basilica di San Babila, ed era firmata «Mov. Nikilista», con frasi anticlericali, anche qui scritte a mano: «Condanniamo la Chiesa per: 1) Attività criminosa contro la Rivoluzione; 2) Associazione a delinquere»¹³.
– 16 giugno 1968, il botto alla Banca d’Italia di Cordusio era arrivato alle 22.42, quando «est esplosa piccola bomba carta costituita da strofinacci commisti et polvere pirica», un aggeggio che «non habet provocato – rassicurava il telegramma del prefetto al Viminale – danni at persone et cose»; nel solito volantino scritto a mano e in stampatello («Banca d’Italia banca del popolo!»), firmato dal «Gruppo Anarchico Internazionale», l’ennesimo invito alla rivolta contro il capitale («Con il nostro gesto, incitiamo i lavoratori italiani, a prendere possesso, spontaneamente delle ricchezze, che si trovano nella Banca d’Italia!»), con qualche difetto di punteggiatura. Anche il Sid lo catalogava come anarchico, con la stessa mano di quello della Dow Chemical, ma nell’informativa non si parlava più di marxisti-leninisti. Inutili gli interrogatori nell’ambiente, anche di quel «capo squadra manovratore presso le locale FF.SS.», quel «Pinelli Giuseppe di Alfredo e di Malacarne Rosa», che aveva liquidato le domande di polizia in due righe di verbale, dopo aver premesso che a quell’ora dormiva: «Milito tuttora nel Movimento Anarchico e per quanto riguarda il gesto vandalico di cui mi parlate nulla posso dirvi. A.D.R. [a domanda risponde, nda]. Non ho altro da aggiungere. F.L.C.S.». Fatto, letto, confermato e sottoscritto. L’epilogo di ogni interrogatorio. Otto giorni dopo, un volantino a stessa firma e intitolato Le ricchezze al popolo veniva fatto ritrovare su una panca della navata centrale del Duomo¹⁴.
– 22 giugno 1968, le 19.15 di un sabato, altro tempio profanato dalla contestazione: «sono stati deposti nell’interno Basilica S. Ambrogio – era sempre il prefetto Mazza a telegrafare al Ministero – sotto arco Cappella della Esposizione due candelotti fumogeni uno dei quali estesi completamente bruciato mentre altro est stato spento da sacrista». Il volantino lì accanto recitava «S. Ambrogio Nr. 2 vedasi S. Babila Movimento Nichilista»¹⁵.
– 22 luglio 1968, di sera tardi, le 22.50, «attraverso inferriata cancello ignoti habent lanciato in cortile Biblioteca Ambrosiana sita in questa piazza San Sepolcro, rudimentale bomba-carta che est esplosa senza provocare alcun danno»; ma aveva fatto molto rumore a due passi dal palazzo che ospitava i poliziotti del Distretto Centro (e che, soprattutto, diede i natali al fascismo mussoliniano nel 1919). Sul volantino non cambiavano toni né la grafia («Borghesi e privilegiati, preti e papi, noi vogliamo demolire il privilegio e l’ineguaglianza, che da secoli separa in due classi gli uomini») e nemmeno le sgrammaticature («i piacieri materiali della vita», «noi vogliamo che preti, papi, borghesi, studenti, professori ecc. vadino a lavorare nei compi e nelle fabbriche»), quanto la firma: Gr. Anarchico «P J. Proudhon». E qui Allegra e il suo Ufficio Politico avevano battuto un colpo, il 29 luglio, associando la rivendicazione a Franco Bertoli («esponente locale Gruppo anarchico La Comune») e al ferrarese Gianoberto «Pinky» Gallieri («di professione traduttore»), entrambi fermati; nella stanza che il primo aveva affittato al secondo, in un appartamento di via Lanzone, l’Ufficio Politico aveva sequestrato dodici candelotti da 100 grammi di Vulcania Ager-B, sette metri di miccia, ritagli di giornali sugli attentati e un foglio con scritto: «Quale lavoro possiamo affrontare – Solidarietà internazionale – Rapimento – NATO – Organizzazione clandestina – Organizzazione terroristica». E aveva attribuito loro, sul momento, anche i botti precedenti. Un’operazione-lampo che aveva solidificato, secondo il prefetto Mazza, «i sospetti su alcuni giovani postisi in evidenza, nel corso delle recenti agitazioni studentesche, per certi atteggiamenti di intemperanza chiaramente indicativi delle loro velleità rivoluzionarie», giovani che «usavano riunirsi con la massima segretezza nei luoghi più disparati». L’equazione ribellione uguale terrorismo era così dimostrata e Mazza, nella sua riservata al Viminale del 20 agosto 1968, proponeva di remunerare con «un parola di lode ed un premio in denaro» la «particolare tenacia e capacità professionale» dei sei uomini d’oro dell’Ufficio Politico: il capo Antonino Allegra, il vice Beniamino Zagari, il commissario aggiunto Luigi Calabresi, i brigadieri Vito Panessa e Rosario Greco, la guardia Gregorio Spalletta¹⁶.
– 23 agosto 1968, tre giorni appena e ricominciavano gli attentati dimostrativi, stavolta puntando al monumento simbolo della città: sul sagrato del Duomo, un tubo di insetticida pieno di polvere pirica era bruciato lentamente nella notte¹⁷.
– 26 agosto 1968, altri tre giorni, e cinque dall’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici. Nuova deflagrazione all’1 di notte contro il portone del palazzo dove aveva la sede l’Ufficio commerciale di Cuba e viveva l’addetto commerciale cubano Rolando Alvarez, in viale Piceno. Nuova anche la firma sul volantino, il sedicente «Movimento Azione Rivoluzionaria Anarchica, sezione Sud», grafia e contenuti simili ai precedenti: «In solidarietà col proletariato ceco, in solidarietà coi proletari di tutto il mondo». A questi ultimi, da un portone divelto nel quartiere di Città Studi, veniva lanciato un appello: «il marxismo tradisce i vostri ideali, scoprite il pensiero di Bakunin!». Una «Fiat 1100/103 colore blu aut nero avente fanalino posteriore destro danneggiato» era stata vista allontanarsi coi fuggiaschi¹⁸.
– il 30 agosto 1968 la storia del terrorismo mondiale conosceva la sua prima bomba col preavviso per corrispondenza, con una lettera senza francobollo recapitata la mattina del 26 in via Fatebenefratelli 11. Era la «Brigata Anarchica Ravachol» che la firmava e aveva la carineria di evitare faticose ricerche all’Ufficio Politico. Nella busta c’era una pagina battuta a macchina, altra differenza rispetto alle precedenti rivendicazioni, e con largo uso di maiuscole. E un titolo: «azione sabotatrice contro la rinascente», sviluppato nei proclami successivi. «Il nostro fuoco rivoluzionario, proletario ed anarchico – si leggeva sul foglio – vuole distruggere uno dei tanti templi del Consumo, simbolo di una società borghese sfruttatrice ed oppressiva, dove il luccichio è illusione del benessere». Ma era il passaggio successivo a proiettare le ombre più sinistre: «compagno lavoratore, nella banche si trovano le ricchezze che ti hanno rubato e che ti rubano quando fornisci il tuo lavoro… distruggi le banche, assaltale e prendi ciò che ti spetta!!!!». E poi ancora: «distruggi le università, costringi il lavoratore intellettuale al lavoro manuale, prendi la cultura!!!!!!!!!!!!». E, naturalmente, «distruggi le chiese, abolisci i culti nei fantasmi e negli spiriti, repristina la scientificità!!!!!». Tutto questo profluvio di distruzione e punti esclamativi si sublimava al sesto piano del grande magazzino di corso Vittorio Emanuele, con la terrazza affacciata sul Duomo. Un chilo di nitrato di potassio con saccarosio e benzina, con congegno a orologeria a immersione, restava inerte dentro la scatola che conteneva tutto il congegno: roba sofisticata ma artigianale che non era esplosa per il basso voltaggio della batteria. Né la lettera, né la notizia del misterioso attentato era stata passata ai giornali. Chissà perché¹⁹.
– 25 settembre 1968, scoppio alla Montecatini-Edison di largo Donegani, clorato di potassio e filo elettrico. L’ennesima sigla che firmava il volantino (ritorno al pennarello e allo stampatello) era il «Gruppo anarchico di liberazione internazionale E. Malatesta (Dipartimento Nord)», con i soliti proclami contro «lo sfruttamento capitalistico ed il dominio statale»²⁰.
– 15 dicembre 1968, il bis alla Rinascente di corso Vittorio Emanuele venne preso ancora più sul serio. Perché era una bomba natalizia e potenzialmente avrebbe potuto fare disastri, almeno secondo le valutazioni dell’Ufficio Politico milanese e dei superiori degli Affari Riservati. Al primo piano della Rinascente, la solita mano misteriosa lasciò un affare da un chilo di nitrato di potassio e zucchero mischiato con trielina, con congegno orologeria a immersione. L’ordigno venne trovato da un vigilante e disinnescato, ma la notizia fu seppellita ancora una volta sulla stampa: solo il «Corriere della Sera» del 22 dicembre, in una lunga cronaca dei tumulti di contestazione allo shopping del centro, si era concesso un fugace accenno: «Nel tentativo di far chiudere il magazzino qualcuno ha pure telefonato alla Volante la notizia, risultata falsa, che al primo piano era stata nascosta una bomba (un ordigno-carta era stato rinvenuto lunedì scorso al primo piano: ma si trattava di un arnese del tutto innocuo)». Il retroscena di quel «bavaglio» ai quotidiani venne raccontato una settimana dopo dall’interno, dalla fonte «Giornalista», al Viminale, che aveva orecchie e sentinelle anche lì dove la questura milanese non arrivava:
Nella notte di venerdì 20, alle 23,40 circa uno sconosciuto ha telefonato al «Corriere della Sera», e quindi al «GIORNO» comunicando di aver posto un ordigno ad orologeria la Domenica precedente al 1° piano della «Rinascente». Secondo lo sconosciuto il pacco era stato scoperto da un sorvegliante di nome Caputo. La notizia è stata confermata ufficiosamente. Si è poi saputo dalla Rinascente che si trattava di una vera bomba ad orologeria «puntata» sulle 17,30.
L’uomo al telefono si è fatto vivo a ripetizione anche nella giornata di sabato 21 annunciandosi con il nome di «Annibale» e avverando che egli non potrà evitare di compiere un atto di protesta a mezzo esplosivo. Le sue idee sono tuttavia confuse. Non si capisce se ha interessi sindacali o risentimenti particolari. Si abbandona spesso a monologhi tipici dei paranoici.
Tentativi di intercettamento effettuati per identificare l’autore delle telefonate non hanno avuto esito.
La notizia non è apparsa sulla stampa (solo il Corriere di oggi tra le righe di un servizio dice che si trattava di una bomba carta innocua) più che per l’invito della Questura, per gli accordi intercorsi con la «Rinascente». Non è improbabile tuttavia che la notizia finisca su qualche giornale periodico di tipo scandalistico.
Così non era stato. Ma, anche a dar credito alla velina, già di suo abbastanza inverosimile, tutto sembrava meno che un attentato di matrice anarchica. E, ad esser maligni, si spiegava anche il silenzio stampa²¹.
– 19 gennaio 1969, ore 23.05, cinque candelotti di gelignite tagliati in due, con detonatore di alluminio e miccia, erano stati lasciati sul davanzale di una finestra dentro a un barattolo di vetro «per marmellata» e avvolti in un sacchetto di plastica. Per poco non avevano augurato un macabro e posticipato buon anno alle guardie della Caserma Garibaldi a Sant’Ambrogio: fortunatamente la miccia «interamente combusta» si era staccata e il pacco dono era rimasto intonso²².
– 26 gennaio 1969, a mezzanotte e mezza era saltata la saracinesca dell’Ufficio Nazionale Spagnolo del Turismo di via Disciplini, obiettivo classico dei movimenti libertari antifranchisti. Un gran botto, visto che «lo spostamento d’aria ha fracassato all’interno buona parte dell’arredamento, frantumando tutti i vetri», come annotava un dispaccio Ansa, e pure «quelli dell’appartamento del primo piano abitato dalla famiglia del Generale Vittorio Emanuele Terragni». La lettera alla «Sig. Policia» del «Grupo Anarquista Barcellona 1939», allegata a quell’ordigno di «natura imprecisata», aveva rinnovato il curioso epistolario tra attentatori e questura milanese. Stavolta in italiano incerto, pur se con grafia svolazzante: «Dopo di 30 anni regime franchista il popolo spagnolo lotta sempre». L’Ufficio Politico e il controspionaggio locale avevano ritenuto autentica quella rivendicazione, con una significativa distinzione. Nella sua relazione ai superiori romani, il maggiore Francesco Pezzino del Sid scagionava gli anarchici milanesi: questa era una bomba vera, grossa, invece i libertari avevano «palesato indecisione e incompetenza» nei precedenti episodi, secondo l’ufficiale; che avanzava sospetti, piuttosto, su «ambienti di fuoriusciti spagnoli e antifranchisti»²³.
– 1° febbraio 1969, ordigno rudimentale al magazzino Rca di piazzale Biancamano, musica nel mirino («da mettere in relazione con la contestazione al Festival di Sanremo», per il Cs Milano)²⁴.
– e ancora, nella notte tra 31 marzo e 1° aprile 1969, un ragazzo era stato visto scappare dalla basilica di Santa Maria delle Grazie dopo aver gettato a terra un sacco di cellophane con nove candelotti rosa, un detonatore di alluminio e qualche metro di miccia; il tutto era stato recuperato da un metronotte e consegnato alla polizia.
Infine, come abbiamo visto, il 9 e l’11 aprile, i due botti finali di quest’anno esplosivo, alla Fiera Campionaria e alla Borsa Valori.
Certo, c’era stata qualche altra bomba sicuramente nera in città, di quelle denunciate dall’Unità. Due, a mano, entrambe Srcm (le preferite a destra), avevano colpito la sezione «Aldo Sala» del Pci, la notte tra il 25 e il 26 gennaio. Ordigni di periferia, a Villapizzone. Fonti d’ambiente neofascista, in fermento «dopo i noti eventi cecoslovacchi» (Jan Palach era morto da una settimana) erano state consultate ed erano rimaste mute²⁵. Non erano certo quelli gli attentati che preoccupavano Allegra.
È il conto di quegli altri che continua ad allungarsi, mentre la contabilità degli arrestati resta a zero. Non hanno contribuito ad alleggerire la pressione nemmeno gli specialisti del Ministero dell’Interno, con la loro ultima analisi complessiva sul terrorismo datata 28 marzo 1969. È un documento – destinato però al fascicolo generale «Attentati e sabotaggi» del Viminale, e non alle questure – a suo modo rassicurante, che saggiamente riconduce quella lunga scia alle sue dimensioni reali.
I recenti attentati, compiuti con l’uso di mezzi incendiari o esplosivi per evidenti fini dimostrativi politici, sono fatti aberranti che vanno deplorati e perseguiti come manifestazioni di violenza, che offendono, al tempo stesso, la legge e la coscienza democratica dei cittadini.
Tuttavia, al fine di valutarne giustamente il significato e la portata su di un piano generale di situazione politica e di ordine pubblico, si deve considerare:
1)che trattasi di forme di opposizione e di protesta politica non soltanto proprie del nostro paese;
2)che tali forme non sono nuove in Italia e, per di più, non hanno assunto la gravità che il fenomeno ha presentato negli anni passati.
Né isolati, dunque, né nuovi, e nemmeno così virulenti. Il passato prossimo, quello repubblicano, riportava la memoria a destra.
Ma il periodo più critico, di una gravità che poi nn si è più registrata, fu quello che si colloca tra l’autunno 1950 e la primavera 1951, quando una fitta rete di attentati fu compiuta, a Roma ed in altre città, dalle organizzazioni clandestine terroristiche, tra loro collegate, dei «Fasci d’azione rivoluzionaria» e della «Legione Nera» tendenti alla ricostituzione del disciolto partito fascista. Fu il periodo più grave per la particolare pericolosità dell’azione terroristica risultante da un complesso di circostanze come:
–l’esistenza di un’organizzazione segreta, costituita ed operante su basi nazionali;
–la frequenza degli attentati, che si susseguivano quasi ogni settimana ed a volte quasi ogni notte;
–la natura degli obbiettivi, particolarmente importanti a Roma come sedi di ministeri (Interno ed Esteri), di rappresentanze diplomatiche (Ambasciate Usa e Jugoslava), di sedi centrali di partiti ed associazioni politiche (Pri, Psu ed Anpi) ;
–la perfetta confezione e la rilevante potenza degli ordigni impiegati, che contenevano, ciascuno, cariche da 2 a 4 chilogrammi di tritolo fortemente compresso;
–la potenziale pericolosità delle esplosioni per la pubblica incolumità e l’imponenza dei danni effettivamente prodotti: è sufficiente ricordare, a tale riguardo, che l’attentato contro il palazzo del Viminale causò un danno, valutato allora in un milione di lire per la sola rottura dei vetri delle finestre, tra le quali erano quelle della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che non si era ancora trasferita a Palazzo Chigi.
Lo sanno dunque anche i cervelli dell’Antiterrorismo civile, in quest’alba di primavera del ’69, che «il confronto dei mezzi usati dagli attentatori per gli attentati degli anni passati e per quelli recenti depone, obiettivamente, per la minore gravità di questi ultimi». Che la differenza è tangibile: «gli ordigni di un tempo avevano, di solito, una potenza distruttiva che non poteva spiegarsi se non con fini terroristici, quelli impiegati negli attentati recenti – ordigni rudimentali, confezionati generalmente con scarsi quantitativi di polvere nera da mina (cosiddette bombe-carta), o soltanto bottiglie molotov – rivelano piuttosto scopi dimostrativi di protesta o di opposizione politica, violente sì, ma meno gravi del terrorismo». Che tra quelle bombe post-sessantottine e quelle fasciste, il pericolo per la democrazia viene sempre da queste ultime²⁶.
Peccato che questa banale lettura non sia arrivata nella sede della Questura centrale milanese. Che ha un obiettivo, e uno solo, nel mirino.
3.«Attenzionati» e «bravi ragazzi»
Di quel magma neoanarchico, polizie e spie sanno quel che c’è da sapere. Pietro Valpreda è un ospite relativamente recente nei dossier dell’Ufficio Politico, politicamente sconosciuto fino all’autunno del Sessantotto. Ha trascorso il solito inverno a cercare una scrittura da ballerino, il suo mestiere, e uno spazio politico in quella minoranza di minoranza, la sua vocazione. Due giovani sponde le aveva trovate a fine gennaio e con loro era partito per Sanremo, a contestare il Festival ufficiale e fare da eco al Controfestival di Dario Fo e Franca Rame. Antonio Moi e Aniello «Cap» D’Errico avevano in due gli anni di Valpreda. Veniva dal 16enne Cap la proposta di qualche botto, ma l’idea era stata giudicata un azzardo perfino da Valpreda. Così, quella spedizione improvvisata era sfociata in un gesto simbolico: il trio aveva piazzato le tende in piazza Santa Brigida, e le foto della loro contestazione erano state pubblicato dallo «Specchio», settimanale organo del più acceso neofascismo. «Risulta a quest’Ufficio – si leggerà in una relazione della questura del 18 settembre 1970 – che nell’archivio del locale circolo anarchico Ponte della Ghisolfa tali fotografie sono conservate gelosamente».
L’11 febbraio Pietro Valpreda era di nuovo a Milano, a volantinare frasi pro Palestina fuori dal Teatro Dal Verme, dove manifestava l’Unione democratica amici d’Israele. Il ballerino era stato identificato con gli amici Enrico Maltini, Francesco Andreoli, Antonello Frediani e con Giuseppina Brivio, la sua ragazza del momento. Il tempo di raccontare ai suoi giovani accoliti di aver fatto la comparsa ne I cannibali di Liliana Cavani, ed ecco che con «Cap» e Leonardo «Steve» Claps veniva fondato il gruppo Gli Iconoclasti. Annunciato da un foglio ciclostilato, dal titolo «Terra e libertà», che sapeva di sberleffo tardo liceale, col titolo disegnato a normografo e gli slogan a grana grossa. Tre articoli, però, avevano attirato gli strali della legge. Uno, Ravachol è risorto, esaltava i botti antifranchisti dei compagni di Barcellona 39 e prometteva altra violenza nel nome dei padri dell’anarchia violenta: «Centinaia di giovani son pronti ad organizzarsi per pigliare il posto di nemici dello stato ed a gridare né dio né padrone con la dinamite di Ravachol, col pugnale di Caserio, con la pistola di Bresci, col mitra di Bonnot, con le bombe di Filippi e di Henry. tremate borghesi!!!». Meno tracotante, ma non troppo, Ai porcospini colerico fascisti de L’Osservatore Romano col suo urlo «a fuoco il vaticano!». Infine Non contestazione ma sabotaggio sistematico, che tornava a protestare contro Sanremo, e rilanciava un vecchio slogan a effetto accanto al titolo. Era scritto a penna: «Bombe! Sangue!! Anarchia!!!»²⁷.
«Terra e libertà» non aveva sfondato (per usare un eufemismo) come Manifesto della Nuova Rivoluzione. Mai avute molte chances, coi suoi riferimenti ai bombaroli francesi François «Ravachol» Koenigstein ed Émile Henry, all’accoltellatore Sante Caserio, al regicida Gaetano Bresci, al rapinatore Jules Bonnot, all’attentatore Bruno Filippi: sovversivi degli anni a cavallo del Novecento, così lontani da quelle nuove lotte. Non era riuscito nemmeno a sfruttare l’involontario traino pubblicitario di Indro Montanelli – niente meno – che aveva appena disquisito di attentatori anarchici del passato sul disprezzatissimo (dagli stessi anarchici) «Corriere della Sera», l’11 marzo 1969: «Ravachol è un idealista: di tutto quello che ruba – e ruba a man bassa – non intasca una briciola: tutto viene devoluto all’organizzazione e al finanziamento dei suoi giornaletti. Ma qual è il suo ideale? Sopprimere il ricco. E in questo atteggiamento, anche se di fronte alla morte si traduce in sublime stoicismo, c’è qualcosa di sordido. L’anarchico italiano è di diversa e – riconosciamolo – più nobile pasta. Nei suoi attentati non c’è prezzo di quattrini come in quelli di Ravachol, malgrado il suo personale disinteresse. Il suo bersaglio non è il ricco, ma il potente. Non odia il padrone di casa: odia il Re, il Presidente del Consiglio, il Generale, l’Ammiraglio, il Prefetto, insomma l’Autorità. Ed è naturale»²⁸.
La nobiltà d’intenti, generosamente concessa dal Gran Conservatore di Fucecchio, non aveva portato consensi, né quattrini, alla causa. Un altro numero infarcito di fanfaronate, poi l’organo dell’Iconoclasta era stato chiuso.
Gli altri anarchici, quelli ortodossi del Ponte della Ghisolfa, hanno appena rilanciato l’Usi, il primo sindacato d’Italia con la A cerchiata, puntando a una saldatura con i Co.Bas. Stanno, cioè, facendo politica in maniera più raffinata rispetto alle semplici sparate da corteo. Così come prova a farla, oltre i fermenti di piazza, il resto della sinistra milanese a sinistra del Pci, sebbene le due figure carismatiche di riferimento siano da un po’ lontane dai riflettori in questo aprile.
Già a inizio anno, quando il Viminale ne aveva chiesto un ritratto aggiornato, il questore milanese Parlato aveva riferito di un Mario Capanna – sebbene sempre «inserito nel noto elenco degli esponenti del M.S. ritenuti pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica» – da qualche tempo «considerato un po’ esagitato ed esaurito, corre anche voce uso di stupefacenti, ciò sia per gli atteggiamenti che assume, sia per la posizione oltranzista». Il caso Trimarchi, esploso a marzo, aveva fatto il resto: le denunce e il conseguente procedimento penale per il presunto sequestro di persona dell’ordinario di Istituzioni di Diritto Privato alla Statale, bloccato dentro l’aula per un pomeriggio dopo una sessione di esami particolarmente severa, aveva scatenato l’ennesimo dibattito sui limiti politici e penali della contestazione. E su quelli della reazione. Che subisce, però, una battuta d’arresto in un processo coevo, quello per la guerriglia dell’11 aprile: i sette imputati, schivata l’ulteriore accusa di aver fomentato una rivolta nel carcere di San Vittore, se la cavano con poco. Otto mesi ad Amante e Nucita, quattro con la condizionale per Mola e Costa, assoluzione per Buzzini, Fornasetti e Hurle. Tutti liberi. Il pm aveva chiesto condanne fino a cinque anni²⁹.
Quiete, per Giangiacomo Feltrinelli, dopo i guai giudiziari: il 22 gennaio era arrivata l’assoluzione per aver guidato un corteo non autorizzato, uno dei tanti sussulti dell’aprile 1968 in cui la rabbia per l’attentato a Rudy Dutschke si era sfogata sui vetri e sui muri del «Corriere della Sera» e del consolato tedesco. L’editore rosso viene però indicato come finanziatore di ogni gruppo contestatario su piazza. Per ultima, la neonata Unione dei Comunisti Italiani marxista-leninista, e il «Giangi», secondo gli emissari del Viminale, sarebbe in ottima compagnia: governo cinese, l’altro editore rosso Giuseppe Regis, i registi Marco Bellocchio e Salvatore Samperi, il loro attore-feticcio Lou Castel, al secolo Ulv Quarzell, caratterista svedese diretto dal primo ne I pugni in tasca, dal secondo in Grazie zia. Per completare il quadro, è stato il Francesco d’Assisi televisivo di Liliana Cavani³⁰. Ed è, notoriamente, un vero militante a sinistra.
A confronto con la mole di sforzi investigativi e informativi (per non parlare della copertura giornalistica) dedicata al pericolo rivoluzionario da sinistra, i fascisti milanesi godono di una sorta di franchigia. Due mesi e mezzo d’indagine sono serviti per individuare lo stampatore dei volantini delle Sam, le fantomatiche Squadre d’Azione Mussolini che da fine gennaio adornavano i muri di Milano coi loro slogan: è un tale Pietro Cireddu, un 39enne sardo del Sulcis che però non appariva agli occhi della questura come minaccia immediata per l’ordine democratico. Anche gli altri attentati neri, come l’incendio del 4 marzo alla sede del Partito Comunista marxista-leninista di viale Monte Grappa (fascio littorio e scritta Sam sul muro), non avevano innescato chissà quali affanni³¹.
I calibri grossi, i «bravi ragazzi» del neofascismo più truce, sono lontani da Milano in questo aprile già caldissimo. Giancarlo Rognoni, l’eretico leader della Giovane Italia milanese eternamente insoddisfatto per la moderazione del Msi, il 13 è a Rimini per il comizio di Pino Romualdi, il leader della destra interna del partito, e si becca una denuncia per incidenti³².
Quanto ai due cani sciolti più pericolosi, più organici alle armi – e assai «attenzionati» dal Sid per la loro spregiudicatezza – che a una qualunque formazione di destra, sono anch’essi al largo. Giancarlo Esposti, il figlio del concessionario Fiat di Lodi con la passione per le Ss naziste, era stato pizzicato una seconda volta – dopo un primo arresto nell’ottobre del 1967 – con pistola, proiettili, distintivi del Reich e svastiche in auto. Sorpreso durante un controllo casuale a fine gennaio, in una piazzola di sosta dell’autostrada a Roncobilaccio, due ore dopo la partenza da Milano per Bologna. L’arresto in sé era banale, ma aveva messo in allerta il controspionaggio, visto il calibro del personaggio. Gli era andata bene, come in passato: una condanna a dieci mesi e venti giorni, con la condizionale, che era un buffetto³³.
Gianni Nardi, il suo gemello diverso, rampollo di un casato industriale che costruisce elicotteri, motori per aerei e pezzi di ricambio per l’aviazione Nato, è sotto la lente d’ingrandimento del controspionaggio romano: una fonte, come segnala un appunto Sid del 2 aprile, lo dà per organico a un gruppo terrorista e gli attentati (alla Sinagoga, al rabbino capo Elia Toaff, a un giudice della Corte costituzionale) sarebbero imminenti, grazie a una dotazione di 400 chili di esplosivo e a una base sicura nella villa di Nardi nell’ascolano. Segnalazione talmente grave che si attiva il colonnello Federico Gasca Queirazza, il capo dell’Ufficio D del Servizio, il numero uno del controspionaggio militare. Gli accertamenti ridimensionano, però, il rischio, la pericolosità dello stesso Nardi e del suo presunto socio Alessio Montini. Che è un semplice contrabbandiere di sigarette sulle coste adriatiche. Mentre della santabarbara non si trova traccia³⁴.
4.Il magma di Roma
I morti di Battipaglia sono l’argomento politico del momento. Il 15 aprile la Camera, nove giorni dopo Pasqua, riapre i suoi lavori e il primo discorso tocca al presidente Sandro Pertini. L’eco della sua voce indignata pervade i banchi: «Non basta manifestare la nostra pietà per le vittime e la nostra costernazione per quanto è accaduto. Dalla nostra qualità di rappresentanti del popolo ci deriva un preciso dovere: impedire che fatti simili possano ancora ripetersi e che il faticoso cammino del popolo lavoratore italiano sia ancora segnato da sangue innocente». C’è il presidente del Consiglio, il democristiano doroteo Mariano Rumor alla guida del suo primo agonizzante governo, a riferire in aula: si trova davanti una pila di interpellanze e sei di queste (quella dei comunisti Pajetta, Longo, Ingrao, Amendola, Macaluso e Reichlin; l’altra di Avolio, Cacciatore, Ceravolo, Passoni, Lattanzi, Alini, Mazzola, Minasi, Pigni e Luzzatto del Psiup; tre dei socialisti, a firma Bertoldi, Mosca e Lezzi; di Enrico Quaranta; e dell’indipendente Eugenio Scalfari; una, infine, di transfughi di sinistra nel Gruppo misto) chiedono il disarmo della polizia in ordine pubblico. Idea che non dispiace nemmeno alla sinistra dc di Donat-Cattin, Scotti, Capra e Bodrato, promotori «di un diverso armamento e di più idonei addestramenti».
A destra si punta il dito contro «l’esplosione di neoanarchismo» (il missino Niccolai) e la «violenza organizzata» in «manifestazioni insurrezionali» (Malagodi e i liberali). Una lettura condivisa dal ministro dell’Interno Franco Restivo – democristiano siciliano di antica osservanza scelbiana, uomo di legge e ordine e di nessuno sconto al vento sessantottino – che riferisce tra proteste vibranti, attribuendo ai manifestanti l’origine dei tumulti: «Una tattica che appare preordinata». Difende i poliziotti: «Nessuno ha dato l’ordine di sparare». Si prende dell’assassino dagli scranni delle opposizioni. Insiste: «Preordinati disegni di sovversione». Il mite Rumor interviene, lamenta «una atmosfera di intimidazione psicologica, di aggressione morale e fisica» nelle piazze, senza raccogliere altro che accuse di «vigliaccheria politica» dal comunista Giuseppe D’Alema, che appare perfino più aggressivo del figlio Massimo, militante extraparlamentare alla Normale di Pisa. Rumor tiene il punto: «Guerriglia ad opera di provocatori». E rifiuta di togliere pistole e lacrimogeni alla forza pubblica: «Il disarmo, nelle manifestazioni sindacali e politiche, è un traguardo verso cui si può puntare», finge di concedere, ma è «una proposta che avrebbe il significato di disarmo morale e psicologico»³⁵.
La temperatura politica e sociale è sopra il livello di guardia. E non solo a Montecitorio. Roma è agli antipodi di Milano anche nella contestazione. Dove avanzano, in piazza, le loro pretese di egemonia i picchiatori neofascisti. Dove le bombe sono nere, dalla fine del ’68, e si indaga sui neri. Anche se gli ultimi boati qualcosa hanno cambiato, nelle dinamiche eversive e investigative. Ma è soprattutto Roma a essere diversa. Ingloba. Fagocita fermenti e scosse telluriche delle due piazze, nera e rossa. Si lascia scivolare addosso eventi altrimenti gravissimi, come un attentato all’uscio di casa del titolare del Viminale, Restivo in persona. Non è ancora l’alba del 19 aprile 1969.
Il botto – saranno 300 grammi di polvere nera, sì e no, con miccia accesa dentro a un sacchetto di plastica – proviene dal finestrino di un’Alfa Giulia bianca in corsa, con a bordo due ragazzotti col berretto calato sulla fronte. I dinamitardi vanno a colpo sicuro con l’indirizzo: Lungotevere Marzio, antico ed elegante palazzo con vista sul tribunale romano, universalmente conosciuto come Palazzaccio. Scelgono le quattro e mezza di notte, per evitare viavai indesiderati ed effetti collaterali. La guardia Giuseppe Masciana, di piantone al portone, non ha tanti secondi per soppesare il pacchetto dopo l’urto sul suo fianco destro. Lo getta nel fiume. All’esplosione segue il fragore degli spruzzi. Non riesce a prendere, però, il numero di targa, coperto da un pullover verde e impossibile da annotare³⁶.
Perquisire casa di Stefano Delle Chiaie, dalle parti dell’Arco di Travertino, è per l’Ufficio Politico romano poco più di un riflesso condizionato. Non c’è attentato nella Capitale che non venga attribuito, anche solo come ipotesi, all’ispettore di produzione Ina di origini casertane, classe ’36. Et pour cause. Il «Caccola», come lo chiamano per la statura inversamente proporzionale alla belligeranza littoria, è abituato. Bussano alla porta alle 11.30 e lui, noblesse oblige, lascia guardie e commissario ad aspettare dietro la porta per dieci saporiti minuti. È già programmata, quella visita, la bomba a Restivo è solo un motivo in più. Gli agenti impiegano un’ora a frugare alla ricerca di «armi, munizioni e materie esplodenti, abusivamente detenute», come recita la formula dei verbali. Inutilmente. Restano lì qualche altro minuto ad ascoltare e annotare il diario orale di Delle Chiaie sul 18 aprile appena trascorso. E lo lasciano lì. Nessun indizio. Così come dalle perquisizioni nel giro più stretto del «Caccola». E nei magazzini e negli scantinati della sede del Msi di via Gallia. E ancora di quelli della Direzione nazionale di via IV Fontane, del quartier generale di Caravella, degli universitari neri, in via Como.
Al setaccio un partito con rappresentanza in Parlamento. Per terrorismo. Per un attentato al ministro dell’Interno. Senza clamore alcuno sulla stampa. Senza conseguenze. Questa è Roma³⁷.
È da novembre che cercano di inchiodarlo, il «Caccola». Da quando è cominciata la catena infernale di attentati in città. È da un decennio che Delle Chiaie è sotto la lente di ingrandimento delle polizie e delle spie capitoline. Dall’inizio del Sessantotto si è guadagnato un occhio di riguardo particolare da parte del Sid. I militari gli hanno appiccicato quell’etichetta che detesta più di tutte, quella di prezzolato del Ministero dell’Interno, e che proprio non riesce a togliersi di dosso: un nazional-rivoluzionario come lui! L’hanno messo nero su bianco: «non gode di molta stima e fiducia nell’ambiente del movimento, dove è conosciuto come informatore della Questura di Roma». Lui! «In realtà, egli vive soltanto dei mezzi che gli vengono forniti dall’Ufficio Politico della Questura»³⁸.
Sono solo calunnie? Venticello da Barbiere di Siviglia? Magari per infamare polizia e ministeriali, più ancora che lo stesso «Caccola»?
I fatti dicono che il suo Sessantotto, prima e dopo Valle Giulia, Stefano Delle Chiaie lo ha passato a collezionare denunce e informative dedicate alle attività svolte in proprio e dalla crema del neofascismo romano, per suo conto. Sandro Pisano, Giancarlo Cartocci, Serafino Di Luia, Mario Merlino, Domenico Gramazio, Carmine Palladino e Saverio Ghiacci, erano stati indiziati con lui e altri per il corteo non autorizzato del Fuan (la nuova sigla dei camerati universitari) in piazza Ss. Apostoli del 27 febbraio ’68. E dopo la battaglia di Valle Giulia del 1° marzo, quando la forza pubblica aveva battagliato contro rossi e neri sotto la facoltà di Architettura, Delle Chiaie era finito nuovamente in un rapporto di polizia insieme a Ugo Martinat, Adriano Romualdi, Mauro Meli, Giulio Caradonna e Massimo Anderson, col veneziano Giampietro Mariga di rinforzo, col triestino Gianfranco Sussich a dar man forte: tutti arrestati o denunciati col «Caccola», Merlino, Gramazio e altri centocinquanta fascisti per l’assalto squadrista alla Sapienza occupata, il 16 marzo 1968, quello voluto e guidato dai vertici del Msi³⁹.
Ma non c’era, il leader della nuova destra capitolina, tra i quarantanove camerati partiti da Brindisi il 16 aprile 1968 per una «crociera» di dieci giorni nella Grecia dei colonnelli a bordo della nave Egnatia. Mancava perché l’organizzazione era tutta roba di Ordine Nuovo, degli altri fascisti. Un viaggio architettato da Alessio Borraccino e Pino Rauti, assenti, e dal presentissimo capodelegazione Giulio Maceratini. Era un’escursione comunque aperta al resto delle destre. Crociera, lo era per modo di dire: gli ordinovisti si erano aggregati da tutta Italia, compresi Elio Massagrande da Verona e Roberto Besutti da Mantova; s’era aggiunto qualche ex di Avanguardia Nazionale Giovanile, come Adriano Tilgher, Mario Merlino e Roberto Palotto; c’era Stefano Serpieri di Europa Civiltà, c’era il direttore del «Borghese», Mario Tedeschi. Un po’ di turismo, malcelata invidia per le fascisterie ateniesi al potere, un incontro col ministro degli Interni greco Pattakos. Una base di rapporti a futura memoria⁴⁰.
Era stata una tela raffinata che Delle Chiaie, però, non aveva tessuto. È sempre stato uno da territorio, università e dintorni. È orgogliosamente fascista ma non ha, almeno in apparenza, l’anticomunismo come dogma, né i neoanarchici come nemici a prescindere. Non più del «sistema» democratico, almeno. Il «caccola» è stato, ad esempio, socio fondatore di un circolo «XXII Marzo», nato e morto in un paio di settimane alla Sapienza sotto la statua della Minerva, nel maggio ’68: il nome era un chiaro riferimento alla rivolta universitaria parigina di Nanterre, e riuniva l’intera nidiata di fascisti cresciuti con Delle Chiaie: Mario Merlino, Aldo Pennisi, Luciano Paulon, Pietro «Gregorio» Maulorico, Elio Guarino, Alfredo Sestili, Lucio Aragona. E nel giugno successivo, secondo il Raggruppamento Centri di Roma del Sid, c’erano stati contatti tra gli universitari della Fgc e del Psiup con Delle Chiaie per un azione di disturbo a una veglia pubblica del Psu, i socialisti uniti e governativi⁴¹.
Poi, tra autunno e inverno ’68, il capo carismatico dei neofascisti era tornato ad attività e sigle più «classiche», e più clandestine, nei suoi territori tra Porta Metronia e l’Appio Latino: Avanguardia Europea era l’erede non ufficiale dell’Avanguardia Nazionale Giovanile sciolta nel 1966, formazione che per polizia e ministero degli Interni sopravviveva grazie agli sforzi del «Caccola» e dei fedeli Serafino Di Luia, Roberto Palotto, Flavio Campo e Attilio Strippoli⁴².
C’è magma, sotto la crosta di Roma. Mario Michele Merlino, figlio di Aldo (un dipendente del Vaticano con rispettabile posizione e villa sulla riviera di Riccione), incarna la sintesi di questi tempi ambigui e fluidi. Ed è, con i suoi capelli lunghi e la barba alla Augusto Daolio sotto gli occhiali dalla montatura spessa, un prototipo di Zelig neofascista molto sui generis. Capace di mischiarsi con estrema disinvoltura in ogni tumulto di piazza, nero o rosso che sia. Proviene da Caravella e Nuova Caravella, le articolazioni locali del Fuan egemoni della destra universitaria romana. Ma già il 3 marzo ’68, due giorni dopo gli scontri di Valle Giulia, Merlino era stato pizzicato ad attaccare manifesti dal titolo esplicito: «Fuori dall’Università la polizia clerico-fascista». Il pendolo, dopo la crociera greca, era tornato a destra, l’8 maggio in piazza di Siena a volantinare durante il concorso ippico contro l’esclusione del Sudafrica dalle Olimpiadi di Mexico ’68; nove giorni dopo era finito in mezzo al corteo che dal comizio di Michelini al Colosseo era sfilato giù per i Fori Imperiali, bloccato dalla polizia in piazza Venezia appena in tempo, prima che arrivasse a Botteghe Oscure coi bastoni in mano. Nuova virata a sinistra il 31 maggio ’68, Merlino figurava tra i denunciati – con Enzo Maria Dantini, studente fascista di Ingegneria Mineraria, e Massimiliano Fuksas, studente rosso di Architettura – per il tentato assalto all’Ambasciata di Francia in piazza Farnese, dopo un comizio del Psiup. Il giorno dopo era ad occupare la Sapienza coi neri Dantini, Bruno e Serafino Di Luia e Lamberto Roch, e a lanciare sassi dai cancelli contro i rossi che premevano per entrare. Altra curva in questo schizofrenico slalom, il 22 giugno ecco Merlino in strada con Oreste Scalzone, Gianni Pennacchi, Paolo Ceriani Sebregondi e altri duecento militanti del Movimento a battagliare e fare blocco stradale⁴³.
Ma non era, quello di Merlino, un libero esercizio di trasformismo. C’era del metodo, in quella follia. Lo si era capito quando per Roma erano cominciate a scoppiare bombe in serie, come mortaretti a capodanno. Sei in sette giorni. I primi attentati a tarda sera del 19 novembre ’68 al Mamiani, il primo liceo classico occupato d’Italia, e all’Istituto tecnico Verrazzano, a Cinecittà. La sera successiva il botto aveva incrinato il portone dell’elementare Vittorino da Feltre, a Colle Oppio. Ventiquattr’ore ed era toccato a due benzinai, un Mobil a Primavalle e un Agip all’Eur, fatti deflagrare con esplosivo da mina in un sacchetto di plastica, collegato con un lungo pezzo di miccia a lenta combustione. Il finale provvisorio di questa scia di attentati era stato scritto nella notte tra 25 e 26 novembre al Flaminio, con una doppia bomba sotto due pullman dell’Accademia di PS: una però non era scoppiata perché la miccia s’era spenta e aveva lasciato una traccia preziosa. Un ordigno composto da 300 grammi di dinamite nel solito sacchetto di cellophane, con detonatore e miccia, dentro un barattolo di latta⁴⁴.
L’indagine della questura romana aveva puntato decisa sul gruppo Delle Chiaie e non era approdata a nulla di concreto, in termini di denunce e colpevoli. Ma aveva svelato parecchio altro. Scoperchiato una strategia. Trovato non una, ma tre brecce nella cerchia più stretta di Delle Chiaie.
Il primo a cantare, davanti al commissario Umberto Improta, era stato Sandro Pisano. Dicendo che il «Caccola» lo aveva incaricato di «seguire soltanto l’attività politica degli altri gruppi studenteschi». Di fare, cioè, «attività informativa». E non da solo, ma «in collaborazione con Mario Merlino». Per poi andare a riferire «ad una persona da tutti conosciuta come il vecchio
e che si identifica per Di Chiappari Alfredo». Diceva ancora, Pisano, che «nell’ambiente universitario Stefano Delle Chiaie viene indicato come il bombardiere
di Roma». Non sapeva nulla degli attentati, non direttamente almeno, ma aveva riportato una frase di Serafino Di Luia, fedelissimo del bombardiere: «All’indomani