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Una storia comune: Sanpa: io, noi, tutti.
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E-book269 pagine3 ore

Una storia comune: Sanpa: io, noi, tutti.

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Perché occuparsi della storia di Sanpa? Perché raccontarla oggi?

È quello che si chiede Carlo Gabardini quando gli viene proposto di realizzare un documentario sulla comunità di recupero di San Patrignano e sul suo fondatore, Vincenzo Muccioli.
Una vicenda che evoca telegiornali lontani, santificazioni e demonizzazioni, opinioni e pregiudizi, polemiche, episodi mai del tutto chiariti. Ma è davvero solo questo? Iniziando a fare le ricerche Gabardini, come Alice nella tana del Bianconiglio, intraprenderà un viaggio di scoperta che è anche un viaggio nella memoria. La memoria di una generazione, i nati tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80, che in modi diversi hanno avuto a che fare con la delusione dell’eroina, con la fascinazione per la dissoluzione, con il disagio di quando, bambini, si incontrava un “drogato”, un disagio che forse sottintendeva la paura di diventare così, una volta cresciuti.
E oggi che siamo più grandi, che effetto fa rivangare il percorso educativo di un intero Paese scandito dalla televisione mentre fissa una memoria collettiva?

La storia di San Patrignano diventa davvero una storia comune, che mischia il pubblico, il racconto di quegli anni divisi tra una fiducia sconfinata nel presente e la paura che qualcosa di inesorabile stesse per accadere, e il privato quotidiano attuale della domanda: “Davvero pensiamo che la droga sia una questione risolta nel passato? E come mai quel passato abbiamo deciso collettivamente di seppellirlo?

Costruito come un collage, alternando la ricostruzione delle indagini che hanno portato alla realizzazione dell’acclamata docuserie Netflix, all’evocazione dell’Italia degli anni ’80 – che Gabardini fa rivivere in modo mirabile, evocandone atmosfere, desideri e timori –, alle proprie vicende familiari e personali, come la drammatica storia d’amore di Marco, Una storia comune è un libro unico.

Tutti abbiamo avuto un tossico in casa oppure ci siamo chiesti se il tossico eravamo noi. Far finta di dimenticare è sempre un piano fallimentare.

In parte memoir, in parte saggio, in parte inchiesta, in parte riflessione sul raccontare la realtà, il libro di Gabardini è una lettura indimenticabile, una freccia indirizzata, al tempo stesso, verso la mente e il cuore dei lettori.
LinguaItaliano
Data di uscita10 feb 2022
ISBN9788830533127
Una storia comune: Sanpa: io, noi, tutti.

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    Anteprima del libro

    Una storia comune - Carlo Gabardini

    IO

    (PRIMA)

    1

    La chiamata

    Gianluca mi scrive che facciamo prima SanPa. Non so se esserne contento. Stiamo lavorando su un’altra storia con l’idea di produrre un documentario. Anzi: una docuserie. È il formato giusto perché la vicenda si mostra sempre più intricata e anche solo il numero di colpi di scena sarebbe sprecato se non indigesto in un unico lungo episodio. È un crime puro. Una storiaccia che lentamente si mangia un intero paese fra sospetti, false piste e con la macchina della stampa che soffia sul rogo, senza nessuna pietà. Ma è un caso aperto con processi e colpevoli o presunti tali in carcere da anni, dunque anche solo il fatto di non voler assistere inermi a ciò che sembra un’ingiustizia mi pare un’ottima giustificazione di base per decidere di indagare la storia e ammettere l’urgenza di raccontarla.

    Ma SanPa? Perché occuparsi della storia della comunità di recupero di San Patrignano? Perché raccontarla oggi?

    Rispondo a Gianluca che immagino il nostro incontro resti invariato, cambi solo l’argomento della riunione. Mi scrive: Già modificata descrizione in Calendar, bastava rispondere sì alla mail di conferma.

    Non ho mai ben capito come si porti a termine questa operazione e soprattutto nella scelta no, sì, forse mi è davvero impossibile non preferire il terzo stato, l’incertezza, il boh. Da qui all’appuntamento potrebbe accadere qualunque cosa, mettere in forse la mia partecipazione mi sembra addirittura un atto dovuto di onestà minima. Ma nessuno apprezza, mai.

    Non mi pare il momento della polemica quindi mi limito a reagire con un sorriso; in fondo invidio a Gianluca questa fiducia cieca nella tecnologia, la sua insistenza a sfruttarla ogniqualvolta possa abbreviare i tempi, fosse anche di un solo secondo al giorno, per lui trattasi comunque di miglioria. «Un secondo al giorno fa trecentosessantacinque all’anno, sei minuti e cinque secondi di risparmio; ogni secolo ti avanzerebbero più di dieci ore libere per te» chioserebbe, inattaccabile.

    «E in quelle dieci ore, sicuro, pioverà! direbbe Woody Allen.»

    Il rapporto fra noi è così: io adoro il suo essere nerd a livelli altissimi e professionali, lui non si stanca mai di spiegarmi nemmeno come si cancella la cronologia delle ricerche o come si converte un word in pdf. Che è un po’ come avere a cena uno chef stellato e chiedergli di scegliere solo la giusta quantità di sale da mettere nella lavastoviglie.

    Gianluca mi accudisce come uno da non lasciare troppo indietro e lo apprezzo, zoppicando.

    Siamo amici da quasi vent’anni e infatti il suo primo messaggio di oggi non mi coglie impreparato. Abbiamo parlato spesso in passato della comunità per tossicodipendenti di San Patrignano e di Vincenzo Muccioli, il suo fondatore. È un argomento che tiriamo fuori soprattutto per stupirci di un fatto: che questa storia gigantesca non sia mai stata raccontata. Eppure era sulla bocca di tutti, sui giornali nazionali e locali, era argomento di discussione accesa al bar, in tv, a tavola coi genitori. Tutti ricordiamo qualcosa, nessuno sa ricostruirla per intero. Tutti ricordiamo da che parte stavamo, quando accaddero i fatti. Perché furono più di uno, e ciascuno di questi mutò o complicò qualsiasi giudizio successivo.

    Io alla fondazione di San Patrignano avevo solo cinque anni, ma alla morte di Muccioli quasi ventidue. Certo che ricordo il 1995.

    E poi c’era Cuore, settimanale di resistenza umana: fogli verdi di carta di giornale zeppi di satira, politica, cazzate, indignazione, vignette, inchieste – un Charlie Hebdo nostrano, si potrebbe sintetizzare sfruttando la sciagurata fama della rivista parigina dopo l’attentato del 2015 –, che si comprava in edicola e a una parte di noi dava la sensazione che ci spiegasse lo schifo del mondo senza perdere l’ironia. Fu Cuore che nel marzo del 1991 titolò: «Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti», per fare un esempio di satira sul dilagare della corruzione. Avevo diciassette anni, risi per due giorni di fila. Ancora oggi, ogni ultima domenica di marzo, al solo pensiero di dover spostare avanti le lancette, mi scappa un sorriso nostalgico.

    In quella parte centrale degli anni Novanta, quando io e Gianluca ancora non ci conoscevamo, lui giovanissimo lavorava nella redazione di questo settimanale e aveva assistito alla pubblicazione di sconvolgenti testimonianze del processo contro Muccioli e di gigantesche vignette a tutta pagina che lo ritraevano come un demonio. «Tutto pronto all’inferno per l’arrivo di Muccioli» fu il durissimo titolo in copertina tre giorni prima della morte di Vincenzo.

    Ogni volta che per un motivo o per l’altro si finiva a discorrere di questo argomento, la questione era come mai nessun giornale importante avesse fornito quei particolari. Stiamo parlando di testimonianze, non di pezzi di satira o di fantasiose ricostruzioni; stiamo parlando di materiale scottante per qualsiasi testata.

    Tipo l’ex tossico ed ex collaboratore di Muccioli, Roberto Assirelli, che dichiara: «A me Vincenzo chiese perfino se non si potesse tecnicamente sistemare una telecamera nascosta per vedere come si comportavano i tossici dentro la cabina elettorale». Oppure, sempre virgolettati pubblicati: «Un ragazzo di Torino ingoiò varechina per farsi portare all’ospedale di Rimini e da lì scappare. Ma non ci arrivò mai. Lo curarono facendogli bere litri di latte a suon di schiaffi»; «Le ragazze venivano chiuse nude o seminude e poteva succedere di tutto. Spesso erano loro stesse a prostituirsi pur di farsi benvolere»; «La magnanimità di Muccioli aveva aiutato Olindo a risolvere il complesso del brutto naso. Per aiutarlo a disintossicarsi gli aveva regalato un naso nuovo. Ma un giorno il Santone lo beccò mentre stava lamentandosi di qualcosa. Due sganassoni non sono bastati. Le manone del grande Padre lo afferrarono per il collo, lo alzarono in alto e lo sbatterono contro lo stipite di una porta. Olindo diventava viola e si giustificava. Vincenzo continuava a sbatterlo contro la porta. E urlava: Il tuo nasino io te l’ho dato e io te lo tolgo!».

    Impossibile non chiedersi perché. Per quale motivo una storia di questa portata veniva raccontata solo da un foglio di satira che per volontà del suo direttore aveva deciso di occuparsi anche d’inchieste? Non dovrebbe di per sé significare qualcosa, il fatto che nessun altro ebbe il coraggio di pubblicare il dossier che venne recapitato anche a giornali ben più autorevoli?

    Poi spesso qualcuno aggiungeva notizie o brandelli di notizie, per cui si intuiva o fantasticava che fu proprio questo sgarbo il motivo cardine della chiusura definitiva del giornale anarchico del nostro cuore. Qualcuno aveva storto il naso, il direttore aveva dovuto rispondere; in effetti Cuore poco dopo chiuse per sempre i battenti lasciando un vuoto. Di sicuro lasciò una voragine in almeno due generazioni di autori, perché posso testimoniare che in minimo quindici riunioni l’argomento, o il sottotesto taciuto ma risaputo, era sempre e comunque: dovremmo rifare un settimanale di resistenza umana. E non sono stati proposti solo progetti online in questi vent’anni, giuro, passammo anche per il più classico: «Ma vuoi mettere l’odore della carta? E poi quel verdino?!».

    Il fatto che aver raccontato, o tentato di raccontare, o ironizzato con pesantezza su Muccioli e Sanpa, fosse stato sufficiente, o forse solo una concausa, per la chiusura di un’esperienza così memorabile come Cuore era di solito la conclusione di queste nostre sporadiche ma ben distribuite chiacchiere sulla comunità e il suo fondatore. Come a sintetizzare in forma di monito: sì, vero, è una bella storia, ma non ce la faranno mai raccontare, guarda quello che è successo a Cuore.

    «Avrebbe chiuso lo stesso» diceva qualcuno.

    «Questo io non lo so e soprattutto non sono interessato a scoprirlo» rispondevano in molti.

    Insomma, questo ciclico distillato di gocce andava a farsi pozza – che poi diventerà vaso prima di traboccare – un po’ torbida, l’acquitrino di una storia più grossa di quello che potevamo immaginarci. E dunque, per deformazione professionale e per curiosità congenita, una storia che forse, prima o poi, con i mezzi giusti, sarebbe davvero importante e bello recuperare e poi raccontare. Così ci si diceva. O si pensava senza stare a dirlo.

    E si fantasticava: però stavolta tutta. Dall’inizio alla fine. Senza censure. Senza dover compiacere nessuno, senza reticenze, senza vergogna, senza troppe gentilezze. Senza telefonate che arrivano da chissà che piano e preferirebbero di no; quelli che ti dicono: «La gente non capirebbe, fidati di noi». Quelli che loro non vogliono imporre nulla ma ci tengono ad affermare la decisa contrarietà e il grosso dispiacere che ne deriverebbe se questa cosa si dovesse fare, un dispiacere che non potrà rimanere senza conseguenze e… voi capite che noi sappiamo chi siete.

    E certo che noi capiamo, non siamo mica stupidi. Si intendono al volo quelle voci anonime che chiedono: perché proprio un documentario? Perché proprio questa comunità? E poi perché proprio oggi dopo così tanto tempo? La gente non vuole ricordare, non vuole sapere, non lo sapete? Ma con tutte le storie che ci sono perché fissarsi su questa? E al dolore degli ospiti attuali non ci pensate? Perché rivangare il passato?

    Me lo immagino, Gianluca, per cui il campionato fare qualcosa per primo è un hobby irrinunciabile, che di fronte agli americani deve aver pensato: carissimi, ho una storia osteggiata qui in Italia che possiamo raccontare solo se a produrla sono degli stranieri con le spalle così larghe da non farsi intimidire. Che ne dite?

    Loro han detto sì, lui ha incassato la vittoria e mi ha scritto: "Facciamo prima SanPa".

    2

    Il desiderio

    Mica lo so se ho voglia di scrivere un documentario. In certi momenti mi sembra quasi che non desideri nemmeno chiedermelo. Ho già iniziato un quaderno. Il passaggio da fogli sparsi a quaderno dedicato è sempre un punto cruciale in qualsiasi progetto, per me. Ma l’ho cominciato sulla docuserie sbagliata. Sulla storiaccia crime.

    Dunque, ora la domanda è se iniziare un quaderno per SanPa o se attendere la prima riunione prendendo appunti preparatori su fogli volanti. Nel tempo, conoscendo questo dilemma e amando molto le volte che per errore ho iniziato taccuini su progetti arenati poco dopo, ho trovato quaderni molto economici – devono stare sotto l’euro, se possibile sotto il mezzo euro, le mille lire di una volta, ed essere di cartaccia strariciclata – e ne ho accumulati un numero importante. Molto meno di «un armadio pieno», come sostiene fazioso il mio amore. Sono in realtà giusto sufficienti perché la scelta sia libera da pensieri di carattere economico o ecologico. Quindi non ci metto molto a raggiungere l’armadio, constatare, anche a conferma vostra, che contiene palesemente anche altri oggetti di cancelleria – rendendo tecnicamente impossibile affermare che ci sia un armadio colmo di soli quaderni –, afferrarne uno, mettermi al tavolo, aprirlo, scriverci in prima pagina SANPA col pennarello, lasciare una pagina bianca libera, compilare su quella successiva in alto a destra la data. E iniziare a studiare sapendo dove annotare dubbi, certezze, ipotesi, affermazioni, domande, quel che viene, quel che trovo, ciò che penso.

    Senza voler strafare, inizio a leggere qualunque cosa che parli di Muccioli e di San Patrignano, che siano articoli, interviste, brani di libri, libri interi, video su You-Tube, testimonianze di chi l’ha conosciuto, amici, nemici, commentatori. E prendo appunti. E poi sintetizzo. E poi ricopio solo i titoli e i virgolettati. E aggiungo spunti. E costruisco un mosaico che in realtà andrò a rimaneggiare di continuo, perfezionare, rimontare, precisare, riscrivere dall’inizio. E lo farò fino all’ultimo giorno di lavorazione. Una mappa mai sazia di indagare anche zone inesplorate.

    3

    Una mappa

    Vincenzo Muccioli.

    Un santo. Il demonio.

    Sono solo dicerie.

    È nato nel 1934, a Rimini. Figlio primogenito di un assicuratore. Più che un vitellone era un farfallone. Suo fratello Piero era bravo a scuola, lui una zappa, ma alla fine è il piccolo, il geologo, che va a stipendio da Vincenzo, hai capito? Andava più d’accordo con la mamma, col papà non si prendeva. Vincenzo ha fondato il cenacolo, faceva le sedute spiritiche, parlava per voce del Raggio Cristico. È lì che ha conosciuto i Moratti. I Moratti arrivano molto dopo. Non ha mai fatto l’università, anche perché non ha finito il liceo. Ha sposato Antonietta che aveva un albergo, che aveva un podere a San Patrignano. Una volta si è mangiato una cambiale in banca, allo sportello: niente cambiale, niente pagare! È un uomo che ha stomaco, oltre a un bel po’ di pelo sopra. Ha avuto due figli. Ha avuto migliaia di figli. C’è chi è vivo grazie a lui. Molti sono morti. È un santone. Ha salvato vite umane. Si faceva le stimmate per finta, per impressionare. È un truffatore. Nel 1979 ha fondato San Patrignano, una comunità per tossicodipendenti intenzionati a smettere con la droga. Era il 1978. Educava drogati. Ha fondato la più grande comunità di recupero per tossicodipendenti d’Europa. Vincenzo è alto uno e novanta, pesa cento e passa chili e arriverà a pesarne centonovanta, un chilo a centimetro. È un omone. Un vocione. Uno sguardo che trapassa l’aria. Ti attraversa. Ti legge. Sei trasparente per lui. Muccioli sa tutto. È caldo. Accogliente. Le donne gli piacciono poco. Andava in stazione a parlare coi tossici, per capire perché; è iniziata così. Ha visto una generazione distruggersi con l’eroina e ha deciso che bisognava fare qualcosa, reagire. Lo Stato non faceva nulla per i tossicodipendenti, c’era solo Vincenzo Muccioli. È stato un pioniere. Un allevatore di polli, cani, maiali, vacche, cavalli, questo era. Ha raddrizzato tossici. Ma quali soldi, che Sanpa è sempre stata totalmente gratuita?! Nessun ospite pagava. Sarebbe potuto diventare ricchissimo e ha regalato ogni proprietà alla fondazione che è dei tossici stessi, appartiene a loro. Li faceva lavorare, ’sti poveri ragazzi, finché il lavoro non li rendeva liberi. L’educazione è crudeltà. Finché erano quattro o cinque è un conto, ma se cominciano a essere venti, è ovvio che volano gli schiaffoni. Se poi diventano duemila, anche la violenza si moltiplica e le regole devono cambiare. Si discuteva intorno al fuoco, parlargli era trasformare il casino che avevi in testa in qualcosa di simile a un percorso o che comunque ti faceva venire voglia di provarci. Dormiva nella mansarda con ventitré tossici e parlava con ognuno di loro. Era violento, urlava, esagerava. Il patto per smettere era che se te ne volevi andare lui ti tratteneva, in qualunque modo, partendo dalle parole e arrivando alle catene. Era un sequestratore. Cosa non ti è chiaro dell’espressione patto?! Un martire che non si è fermato davanti a nessuno, era. I carabinieri hanno visto solo le catene, gli stanzini, la merda di topo e hanno arrestato tutti senza capire niente. Gli han puntato la canna del mitra alla tempia e per svegliarlo gli hanno detto: «Alzati, stronzo!». Dovevano buttare la chiave, altro che farlo uscire dopo un mese. Trentatré giorni di carcere si è fatto, assieme ai suoi collaboratori, per salvare i drogati; anche solo per questo dovrebbero fargli una statua. Trentatré giorni, come Cristo! No, veramente quelli di Cristo sono gli anni. Il processo fu un evento: cameramen, folla, le mamme dei tossicodipendenti fuori a urlare, la prima pagina ogni santo giorno, la radio, la tv, le domande per strada; abbasso le catene! Evviva le catene! Ma lo volete capire o no che se condannate Muccioli noi tossici siamo tutti morti?! Ci volete tutti morti?! Perde il primo grado del processo ma si porta a casa l’opinione pubblica. Sì, ha usato le catene perché non c’era nient’altro da fare. Stato di necessità. Con la prima condanna, Sanpa esplode: quelli che volevano smettere con la roba hanno pensato che forse c’era un posto al mondo anche per loro. Muccioli sa parlare, convincerebbe anche un sasso a galleggiare. È ipnotico. Ha gli avvocati migliori, di Milano. Muccioli dopo il processo è l’uomo più conosciuto d’Italia. L’ha detto anche Mike Bongiorno, lo dice anche Pippo Baudo. Poco tempo dopo è diventato il più potente. Ai cancelli di Sanpa centinaia di persone aspettavano anche solo un suo gesto, una parola, una benedizione: col sole, con la neve, sottozero nei sacchi a pelo e nelle automobili, file e file di tossici accompagnati dai genitori. I drogati bisognerebbe ammazzarli tutti! Se li vuole prendere Muccioli, faccia pure. Aveva la jeep. Girava sempre con la Land Rover verde. Non mi faceva paura, era Dio che salutava dalla jeep. Abbracciava. Baciava. Baciava sempre sulla bocca. Mangiava a tavola con noi ogni giorno. In mensa, prima del pasto, faceva un discorso: tutti e mille lo ascoltavano muti, per ore, non volava una mosca. Non si muove foglia che Muccioli non voglia: decideva tutto lui. Venivamo da tutta Italia, da tutta Europa. Per un tossico entrare a Sanpa era come per un intellettuale entrare alla Sorbona. Da quando l’ho incontrato non mi sono mai più fatto. Dalla comunità non usciva o entrava lettera senza essere stata letta riga per riga e vagliata. Tutte le telefonate venivano registrate, in uscita e in entrata. Se leggi prima il diario di una ragazza e poi vai a dirle: «Secondo me sei depressa perché tuo padre non ti considera all’altezza di tua sorella Francesca», non è che sei un veggente e nemmeno uno psicologo e neanche un medium. È un cialtrone. Vincenzo aveva davvero dei poteri superiori, lui capiva, non c’entra niente la successiva mania di controllo, lui sapeva prima. Era sempre in tv ma era una brava persona. Era un padre deciso, assertivo, difficile da convincere. Cattivo. Sapeva esser duro come il cemento armato, ma anche dolce, comprensivo, non ho mai visto nessuno perdonare così tanto. Nell’85 due terzi degli ospiti erano sieropositivi. Vincenzo non si drogava. Vincenzo beveva. Le catene divennero contenzione, lui ti chiudeva e lì dentro capivi chi eri oppure impazzivi. Per Muccioli la donna è geneticamente caratterizzata dall’egoismo. Era più gentile con gli uomini che con le femmine, ma ha salvato gli uni e le altre. Ognuno aveva il suo lavoro e lo faceva con passione, perché Vincenzo ci faceva arrivare in cima, ci occupavamo di eccellenze, mica infilavamo perline come carcerati: il miglior vino, i migliori cavalli, la carta da parati che compravano anche i Rothschild per metterla in America. Era un megalomane. Quando la sua creatura è cresciuta troppo non è più stato in grado di governarla. Era gay?, e allora? Ti faceva il solepiatti da dietro, con due mani, forte sulle orecchie, come nella réclame del detersivo; un botto, il vuoto, uno scoppio sui timpani. Il solepiatti è un male che non scordi; e se ti esplode il timpano poi non ci senti nemmeno più, è successo. Era manesco, e se hai due badili al posto delle mani, si nota maggiormente. Il ciocco era una sgridata pubblica, poteva durare ore, era devastante per chi stava sotto. I ciocchi son botte dalle quali non ci si riprende più oppure ci si riprende per sempre, come una seconda nascita. Come l’elettroshock. Il ciocco raddrizzava il cioccato ma allo stesso tempo rafforzava la comunità nelle proprie convinzioni, era rito collettivo. I Moratti venivano ogni weekend e alle feste comandate; arrivavano in elicottero o con l’autista, ma poi mangiavano con noi per tutto il fine settimana: sia Letizia sia Gian Marco. Sapeste il bene che ha fatto Letizia Moratti qui, non parlereste in questa maniera; come sindaco magari ha fatto malissimo, ma San Patrignano è la sua opera. Il problema è l’emulazione: se tu guarisci con gli schiaffi, poi i malati che diventeranno medici daranno schiaffi pure loro. Vincenzo è omeopata. Guru. Ha costruito con le sue mani dentro Sanpa il miglior ospedale specializzato nella cura

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