Comunque mamma: Storia di una ferita ancora aperta
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Info su questo ebook
Antonella Ferrari ha la sclerosi multipla. Sfidando giorno dopo giorno le difficoltà della malattia, è diventata attrice, ha avuto successo, ha scritto un libro in cui racconta la sua storia e che le ha permesso di entrare in contatto con tante persone che avevano bisogno di leggere le sue parole. Ma c’è un sogno che non ha potuto realizzare: diventare madre.
Ogni strada, fino a qualche anno fa, sembrava essere sbarrata. Era difficile, se non impossibile, per esempio, accedere alla fecondazione assistita o adottare un bambino, tanto che alcuni medici, ciechi e incapaci di pensare ad altro che alla diagnosi di sclerosi, le si rivolgevano dicendole di pensare piuttosto alla malattia, alla urgenza di combattere per non perdere terreno contro il Male. Così lei ha cercato, con l’energia positiva e l’entusiasmo contagioso che la contraddistinguono, altri modi per considerarsi mamma. Attraverso la realizzazione artistica, l’amore per chi le sta più vicino, il contatto prezioso e unico con Grisù, il suo inseparabile “bambino peloso”.
Partendo da “una ferita ancora aperta”, dalla necessità di venire a patti con il dolore, Antonella Ferrari ha deciso di mettersi a nudo e raccontarsi senza far mancare mai l’ironia e la leggerezza. Comunque mamma è la storia di un sogno negato, ingiustamente, a lei e molte donne, ma al tempo stesso è la storia di una donna che sta cercando di imparare a vivere bene anche senza essere madre di un essere umano, che sta provando a inseguire vie alternative, e belle, alla maternità, senza arrendersi, così da rendere la sua vita piena… nonostante tutto.
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Anteprima del libro
Comunque mamma - Antonella Ferrari
1
«MA LEI SI PREOCCUPA
DI AVERE FIGLI?»
La prima volta che chiesi se avessi possibilità di rimanere incinta avevo circa trent’anni. Avevo pensato tante volte alla maternità, ma mai concretamente come in quel periodo. Nel corso degli anni mi ero già sentita dire dai medici che le gravidanze non erano consigliate alle persone con Sclerosi Multipla. Tuttavia era passato molto tempo, la ricerca aveva fatto passi da gigante e io avevo da poco conosciuto il mio principe azzurro.
Non sapevo bene come affrontare l’argomento, ma avevo letto su internet che si erano registrate novità importanti sul rapporto fra gravidanza e Sclerosi Multipla. Volevo saperne di più. Così, timidamente, azzardai una domanda esplicita. La risposta mi gelò il sangue: «Ma lei si preoccupa di avere figli?».
La neurologa dallo sguardo arcigno mi scrutò, fra il sorpreso e l’indignato, dietro a un paio di lenti spesse. Mi guardò come se, interessandomi a una possibile maternità, stessi dimostrando una scarsa consapevolezza della mia condizione e del ruolo che spettava a loro, i medici, chiamati soprattutto a evitare che la malattia progredisse.
Riconosco a quell’episodio un valore di pietra miliare, perché racchiude in poche parole ciò che gli specialisti hanno pensato ogni volta che, negli anni, ho parlato del mio desiderio di essere madre.
La diagnosi di Sclerosi Multipla era arrivata, nel mio caso, con vent’anni di ritardo dalla comparsa dei primi sintomi. La malattia aveva intrapreso la sua corsa indisturbata: per questa ragione i medici, quando finalmente compresero contro cosa dovessimo combattere, avevano corso per recuperare il tempo perduto. Nessuno avrebbe potuto perdere di vista l’obiettivo, che era quello di fermare l’evoluzione della malattia per farmi sopravvivere nelle migliori condizioni possibili.
Ne ero cosciente. Quando cerco un’immagine che ben rappresenti quei mesi, mi viene in mente un formicaio. Tutti, intorno a me, si erano affaccendati in un susseguirsi di esami, consulti, prescrizioni, controlli.
Non tutti i medici, però, mostrarono la sensibilità della dottoressa Santoro nel mettermi di fronte alla verità con cui dovevo fare i conti. Quando era toccato a lei darmi la peggiore notizia della mia vita, aveva saputo trovare le parole giuste per farlo: «Sappiamo finalmente contro chi combattere, Antonella».
Lo aveva detto con un sorriso tenero che non avrei più dimenticato, trasformando in qualche modo quell’orribile diagnosi in un primo passo verso la vittoria. No, decisamente non tutti i medici sono uguali, e ben pochi furono alla sua altezza. Il responsabile del reparto di immunologia e Sclerosi Multipla all’ospedale San Gerardo di Monza, di cui parlerò come del Dottor X
perché non ha mai voluto che si pubblicizzasse il suo nome, era una persona molto seria, benché asciutta nei modi e poco incline ai gesti di affetto. La dottoressa Santoro mi aveva affidato a lui ammettendo di non essere una specialista nel campo della mia malattia, con l’intenzione di consegnarmi nelle mani di qualcuno che invece lo fosse.
Così, a distanza di anni, quel «lei si preoccupa di avere figli?» – pronunciato con malcelata e sarcastica indignazione dalla neurologa che aveva momentaneamente sostituito il Dottor X – rispecchiò un po’ la reazione che la maggior parte delle persone ebbe quando, per la prima volta nella mia vita, provai ad andare oltre
l’obiettivo della sopravvivenza imposto dalla malattia. Da allora ho potuto raccogliere un campionario di diverse sensibilità e livelli di empatia che definirò, per eleganza, molto vari
.
A quell’epoca, pur non esistendo prove relative a un legame diretto con la malattia, i medici tendevano a sconsigliare la gravidanza alle donne con Sclerosi Multipla, considerandola potenzialmente pericolosa per la salute. Dagli studi di quel periodo, infatti, emergeva che una donna con questa patologia, stressata
da nove mesi di gestazione, potesse in qualche modo pagare con gli interessi quel magico momento. Un peggioramento delle condizioni cliniche post-parto era considerato più che probabile, mentre non emergevano sospetti su una sofferenza del feto, né sulla trasmissibilità della malattia al bambino. Inoltre, restava l’incognita sugli effetti che i farmaci più comuni impiegati per il contrasto alla Sclerosi Multipla potevano avere sulla fertilità.
Già, i farmaci… Gli specialisti erano partiti da subito con la somministrazione di potenti immunosoppressori. Si trattava in pratica di cure chemioterapiche, il cui obiettivo era stato mettere a dormire gli anticorpi impazziti
che avevano attaccato indisturbati per tanto tempo la mielina dei miei nervi. Il primo farmaco era stata la ciclofosfamide: un incubo che procurava nausea, vomito e una stanchezza invincibile. Questi sintomi si accompagnavano a quello che per me, allora, era il più temibile dei rischi, di cui ero venuta a conoscenza proprio grazie alle mie ricerche condotte in rete, mentre cercavo di sapere qualcosa di più sui malesseri di cui soffrivo da quando avevo iniziato ad assumere il farmaco. Fu così che lessi, alla voce Effetti collaterali della ciclofosfamide
:
temporanea riduzione della produzione di cellule ematiche da parte del midollo osseo – globuli rossi, globuli bianchi e piastrine – che porta ad anemia e spossatezza fisica; infezioni; lividi o emorragie; vomito e nausea; PERDITA DEI CAPELLI.
Non lo potevo accettare. Avevo deciso di prendere appuntamento con il mio neurologo, che nel frattempo era tornato, e mi ero precipitata in ospedale come una furia. Ero talmente agitata che non avevo preparato neanche un discorso, qualcosa di compiuto da dire per far valere le mie ragioni. Il tempo, in sala d’attesa, sembrava non passare mai. Non vedevo l’ora di aprirmi con lui. Quando si era affacciato dallo studio per farmi entrare aveva notato il mio volto preoccupato.
«Tutto bene, Antonella?»
«Sì, prof… è che ho delle cose importanti da chiederle.» Dopo essermi accomodata, ero esplosa. «Ma la ciclofosfamide fa perdere i capelli? Perché io non me lo posso proprio permettere!»
Stavo recitando a teatro e lavoravo a Mediaset come autrice televisiva: a poco a poco ero insomma riuscita a farmi strada nel mondo dello spettacolo, dopo anni di lotte e sacrifici. L’immagine è tutto, purtroppo, sul palcoscenico come nella vita reale. Questo vale per gli uomini ma, soprattutto, per le donne. Si tratta di una legge orribile con cui tutte facciamo i conti quotidianamente e che forse un domani, in un mondo migliore, riusciremo a sovvertire. La perdita dei capelli avrebbe significato il drammatico tramonto di qualunque possibilità di carriera.
Lui non ci aveva girato intorno: «Sì, è possibile».
Gli avevo spiegato che queste controindicazioni avrebbero avuto un cattivo impatto sul mio futuro artistico e lui aveva capito al volo. Senza batter ciglio, mi aveva proposto un altro immunosoppressore, l’azatioprina, che non aveva questo effetto indesiderato. Avevo accettato con entusiasmo, manco mi avessero proposto una parte in un film. Ero felice di iniziare a curarmi e ancor più felice di non perdere i capelli. Certo, avrei avuto la nausea e la stanchezza, ma la cosa non mi spaventava più di tanto. Dovevo iniziare a combattere questa stronza di malattia e non potevo più perdere neanche un giorno.
Per natura sono sempre stata molto curiosa. Seguendo l’abitudine da ficcanaso
che avevo sviluppato in anni precedenti, quando cercavo di capire cosa stesse accadendo al mio corpo senza ancora conoscere il nome della malattia, mi ero poi informata autonomamente anche su questo nuovo farmaco: riviste, internet, biblioteche… No, anche in questo caso non c’era da stare tranquilli. L’azatioprina poteva avere effetti collaterali inquietanti, ma io preferivo pensare positivo e iniziare a combattere il nemico. Tra le controindicazioni, scritto in piccolo tra mille altri concetti importanti, compariva anche la sterilità.
Ammetto che a quest’effetto non avevo fatto caso più di tanto, forse perché non avevo un fidanzato, l’orizzonte della maternità era molto lontano e, per raggiungerlo, avrei dovuto prima di tutto rimanere viva e sana. Ero concentrata sul mio lavoro e sulla malattia, che andava messa a tacere. E poi c’erano i medici: loro mi avrebbero avvertita e tutelata, pensai.
La domanda che suscitò la reazione sconcertata della neurologa che aveva sostituito il Dottor X arrivò cinque anni dopo quei giorni tanto complicati, quando conobbi qualcuno con cui, per la prima volta, pensai di costruire una famiglia.
Roberto entrò nella mia vita nell’estate del 2004. Allora lavoravo sul set di CentoVetrine e facevo la spola fra Torino e Milano. In una sera infrasettimanale come tante, la mia amica Cristina mi chiamò per propormi di uscire dopo cena. Saremmo stati in tre: io, lei e quello che mi presentò come il suo migliore amico. Arrivai al pub un po’ dopo di loro e li trovai già seduti. Lui aveva i capelli cortissimi e occhi tra l’azzurro e il verde; parlava con Cristina e il suo sorriso mi parve contagioso. Perché diamine Cristina non mi aveva mai detto che il suo amico, così sensibile
, così simpatico
, era anche un bel ragazzo?
In realtà non pensai subito a lui con malizia. Quella sera avevo voglia di rilassarmi in amicizia, non avevo intenzione di ingaggiare alcuna battaglia di seduzione, anzi… Aggiornai, come facciamo tutte, la mia amica sui miei incontri e sui flirt del momento, con buona pace di ciò che il galateo avrebbe imposto a una dama che per la prima volta incontra un galantuomo. Non lesinai particolari, ma lui stette al gioco. Con molta ironia commentò, replicò… Mi piacque la sua disinvoltura, la capacità di rispondere a tono, il suo capire il momento e la situazione.
Il giorno seguente Cristina mi confidò che Roberto aveva fatto mille domande sul mio conto e che sembrava molto interessato a me. La cosa era reciproca e lo comunicai alla mia amica, cercando di celare quel sorrisino che mi veniva ogni volta che mi piaceva qualcuno.
Passò qualche settimana. Mi stavo concedendo una bella "vacanza