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Val d'Olivi
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E-book307 pagine4 ore

Val d'Olivi

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Info su questo ebook

Un tuffo nella Liguria di fine Ottocento, tra i suoi scorci unici, le montagne sul mare, e le città che si arrampicano sui crinali delle colline. Anton Giulio Barrili tesse ancora una volta le lodi della sua terra natìa, e ci ambienta un romanzo che lega indissolubilmente la geografia ai personaggi. Storie di famiglie si intrecceranno a vicende dal respiro più storico, critica sociale, e ambientazioni tipiche della tradizione— "Val d'Olivi", oltre un secolo dopo la sua pubblicazione, rimane tutt'oggi una delle più belle lettere d'amore alla Liguria.-
LinguaItaliano
Data di uscita4 lug 2022
ISBN9788728327609
Val d'Olivi

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    Val d'Olivi - Anton Giulio Barrili

    Val d'Olivi

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1871, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728327609

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    A GIUSEPPE ELIA

    Nell’anno 1867, allorquando il queto èremo di Val d’ Olivi era teatro ai casi che oggi racconto, Ella, onore e lume dell’arte salutare in Genova nostra, serbò, colle sue cure efficaci, a me ed alle mie povere fantasie, una mano fedele. D’allora in poi, non fu cortesia, che Ella, con infinita amorevolezza, non usasse a me, suo debitore di tanto.

    Non mi sdebito ora, intitolando a Lei questo libro; m’ingegno come posso, a dimostrarle la mia gratitudine.

    Anton Giulio Barrili.

    I.

    Non tutti ancora a Milano avranno per avventura dimenticato il nome di Donna Giulia d’Andrate, di quella bellissima tra le duchesse, che, apparsa un tratto, a guisa di luminosa meteora, ad offuscare il raggio di tutte le più splendide bellezze della capitale lombarda, e a sviare da queste la divota attenzione di mille adoratori, scomparve un bel dì, lasciando così vasta lacuna in quella parte del terzo cielo (il cielo di Venere, secondo gli astrologhi) e così gran vuoto nei cuori. Sei anni sono trascorsi oramai, e che non si dimentica in sei anni? Ma ell’era così bella, Donna Giulia d’Andrate; ma fu, in quel breve spazio di tempo, tanto ammirata, tanto invidiata e tanto lacerata, sopratutto per gli alti dispregi in cui pareva avvolgere la gran turba dei signori uomini, e per la molesta, uggiosa bontà, con cui ella trattava le sue sorelle in Eva che qualcheduno, tra gli abitatori della illustre metropoli, si ricorderà per fermo della bellissima donna, e a taluno di più salda memoria torneranno anco in pensiero le svariate novelle fatte correre allora, intorno alla sua sparizione improvvisa.

    Ammirata, invidiata a ragione, ma lacerata a torto fu Giulia d’Andrate. Anche qui, come in tante altre occasioni, fu menzognera la cronaca. La storia vera di quella donna, mirabile più ancora pei pregi dell’animo che non per le grazie elette della persona, la so io, e la seppero prima di me due uomini, uno dei quali è morto, morto per lei, e senza maledirla. La qual cosa è già assai, e mi pare faccia onorevole testimonianza in suo prò.

    Quantunque, ella non era donna da bisognar di difese, come quella che non si doleva per alcun verso degli storti giudizi mondani, nè s’atteggiava a codardo rammarico, nè facea mostra orgogliosa di mentito disprezzo, per le ciarle assassine del volgo elegante. Non le curava, ecco tutto; e in quella guisa che la mite sensitiva richiude le sue foglioline al tocco delle profane dita, ella s’era chiusa in sè medesima allo incalzare di quelle ruvide ammirazioni e di quegli odii sottilmente feroci che sente mai sempre dintorno a sè una donna, quando sia posta in alto per bellezza e fortuna. Epperò, tra l’altre note che le si apponevano, c’era questa, che ella fosse una donna fantastica, superbiosa, invanita di sè. Il vero si è, che la duchessa d’Andrate era d’indole grave e riflessiva più che non comportasse la età giovanile; che era entrata bensì nella vita per l’aurea porta dei sogni e delle speranze, ma colla guida d’un forte ingegno e di quel delicato sentire che precorre i frutti della esperienza, e a prima giunta, senza dolore, quasi senza stupore, s’era di molte cose ricreduta.

    Così, a breve andare, ella avea scorta la vanità di quell’ambiente artefatto in cui l’alto suo stato le consentiva (meglio sarebbe il dire le comandava) di vivere, e s’era fatta come una solitudine tra quella ressa di viventi; avea vissuto là dentro, tra tutti quei mostri levigati, quelle Chimere sorridenti, quelle Gorgoni sibilanti, ma chiusa in una settemplice armatura, e i vani desiderii degli uni, le livide gelosie delle altre, le avevano fruttato i mordaci epiteti, le sciocche sentenze, i sarcastici elogii, che tuttavia non avevano virtù di giungere fino a lei, e, dardi imbelli, le morivano a’ piedi. Amare non aveva voluto, o potuto, perchè nessuna donna le si era accostata che fosse buona al pari di lei, e nessun uomo le si era fatto innanzi che fosse forte com’essa, non già di quella bieca forza che ci è derivata dalla freddezza del cuore, di null’altro curante che della sconfitta altrui, bensì di quella nobile forza che dall’arcana filosofia del linguaggio fu confusa, immedesimata colla virtù; che quanto riceve altrettanto è sollecita a donare, spesso anche di più; che si consiglia nei più dilicati sentimenti nutriti nel nostro cuore fin dalla vigilata infanzia, che tempera il concetto dell’utile o del piacer nostro nelle generose utopie guidatrici dell’umanità, e ci conduce ai supremi sacrifizi, senz’altro compenso che un sorriso di donna, madre, sorella o amante che sia, e talfiata anche senza di questo, col solo e mesto conforto di una voce interna, venuta di là donde scaturiscon le lagrime, la quale ci dica: sta bene!

    Qui, poichè, gira e rigira, siam pur venuti a toccare degli uomini, occorrerà ricordare il marito. Questi era trascorso veloce, fuggevole come un nembo, sulla vita della duchessa Giulia; ma quel tanto era bastato per isterilire nel suo cuore il primo germe dell’affetto domestico. Due anni erano passati tra il matrimonio e la separazione; e fu ventura per lei, imperocchè il duca suo marito, scostumato, scialacquatore, compendio di tutte le male pieghe d’una schiatta decrepita, non l’aveva condotta in moglie che per mandare a rotoli una seconda e più larga sostanza.

    Quei due anni furono, per la duchessa Giulia, un tirocinio che ne valse molti altri. Imparò allora a raccogliersi in sè medesima, a considerare il mondo senza contaminarvisi lo spirito. Ella era spesso sovra pensieri. A che pensava ella, mentre, adagiata nella sua carrozza, trasvolava silenziosa sul Corso, o mentre facea mostra del suo tedio contegnoso dall’alto del suo palchetto, nel teatro alla Scala? Pensava ai suoi primi anni, quella superba innocenza; ravvisava sè stessa in una bella fanciullina di sette anni, che, passando per una via campestre attraverso i poderi della famiglia, avea veduto un praticello smaltato di margherite, illuminato da un lieto raggio di sole, con una scuola villereccia nel fondo, da cui sbucava una frotta di fanciulli dell’età sua, o in quel torno; e curiosa, come è costume dei bambini, avea voluto scendere di carrozza, per andare da que’ marmocchi, e vederli da presso e barattar parole con loro. Il babbo, manco severo negli ozi campestri che non fosse in città, l’avea contentata sorridendo; ma que’ bambini, cattivelli, non avean voluto parlare con lei, tutta bella, attillata, rinfronzita come una popattola. Solo allorquando il vecchio prete, tutto inchini e gonfio dell’altissimo onore, si era piegato a farla leggere nel suo libro di scuola, ed essi l’aveano udita a compitare come ogni semplice mortale, quegli orsacchiotti s’erano rabboniti, e accostatisi man mano, venian guardando con tanto d’occhi la illustrissima bambina che leggeva nel loro sillabario. E lei, a vederla, come gongolava d’aver loro mostrato che ne sapeva quant’essi, ella che ci aveva in casa la governante e la maestra di lingue, anzi già parlava il francese e balbettava il tedesco! Nè a quel punto s’erano fermate le sue contentezze. Il Conte padre, per avvezzare la figliuola alle magnificenze della sua schiatta, che non potea prendere alcun sollazzo tra inferiori, senza lasciar segno di sua liberalità (non è tuttavia da credere che la pensasse anch’ella così), avea largheggiato di doni ai piccoli scolari, alla scuola, al pedagogo, che chiamò lei da quel giorno, lei bambina settenne, la sua illustrissima protettrice.

    Certe ricordanze hanno peso grandissimo nella vita, e, più influenti che non fossero le costellazioni di Agrippa o di Cardano, sembrano governare il corso delle opere nostre. Ognuno che sia nulla nulla addestrato nell’amara scienza dello interrogar sè medesimo, può dirmi se ciò non è vero. Una di tali ricordanze si fa compagna, non avvertita sempre ma cara, del nostro essere; dormente a lungo nel profondo, come la virtù dei suoni nel cavo d’un liuto, ad un tratto si ridesta, e, come accordo di musica lontana portata dal vento, echeggia nell’anima nostra. Non si sa come sia rimasta, rudero così poco rilevante del passato, laddove tant’altre cose, e più gravi, son cadute in oblìo; ma a che si cercherebbe più oltre? E’ voce che si ascolta volentieri, immagine che si vagheggia, voluttà in cui si compiace lo spirito.

    E il pensiero di Giulia tornava spesso a quella scena d’infanzia. Tra le sontuosità sfolgoranti d’una splendida sala, le ricorreva alla mente quel lieto raggio di sole, che facea spiccare i cenci campestri di que’ fanciullini assai più che non a lei il raso o il velluto la fiamma di cento doppieri; e allora le avveniva di cercare tra i rabeschi d’un tappeto di Persia le margheritine stellate del suo praticello. E si richiudeva sempre più in sè medesima, ed appariva a tutti superba, a taluni fors’anche crudele, mentre era ella stessa alla tortura, sotto gli stimoli del suo segreto. Innocente segreto! Nel seno di quella donna, audacemente discinto a provocare gli sguardi, siccome è voluto dall’odierno costume, palpitava il cuore d’una bambina. La casta innocenza proseguiva inconscia le sue gioie, mentre tutto dintorno a lei era profanazione, lo sguardo invidioso delle rivali, il libero rapimento dei riguardanti, la olimpica noncuranza del marito.

    La sua separazione avea fatto chiasso negli alti ordini sociali e negli infimi; i quali seguono sempre, e, checchè vogliano dirne in contrario, pigliano l’imbeccata da quelli, imitandoli, quando per avventura non li superano, nello insultare ai caduti, siano essi meritevoli o no della loro disgrazia. Per molte settimane non fu parola che del suo processo, e fu detto naturalmente il peggio di lei, quantunque avesse trovato in sua casa la spudorata complice del marito. La duchessa era stata offesa in tutto ciò che ha di più sacro la donna; nella sua onesta alterezza di moglie, nella santità del talamo, dove forse la madre futura avrebbe invigilato la cuna, il più casto, il manco traditore degli affetti. Ma non le valse. Il mondo che non l’amava, perchè ella non s’era gittata, vittima desiderosa, nelle braccia del mondo, rise saporitamente del fatto suo, e quando il riso non parve bastante maniera di giudizio, sentenziò che la duchessa d’Andrate doveva essere la gran superbiona, la grande spigolistra, senza cuore e senz’anima, se, bella tanto, non era venuta a capo di farsi amare dal marito, se anzi lo aveva costretto, il povero duca, a cercarsi un conforto extra thorum, se non addirittura extra moenia.

    E lì, nell’arguzia d’uno scapolo, s’era affogata, dimenticata la colpa capitale del marito. Povero marito! o non meritava egli un miccino di compassione? In fondo in fondo, come si sarebbe potuto dimostrare ch’ei non avesse amata la moglie? La presunzione doveva essere tutta in favor suo. Certo egli aveva dovuto provarsi ad una impresa nella quale tanti altri, anzi tutti, e primo il ragionatore, avrieno fatto volentieri ogni lor possa, lavorato con mani e piedi, aguzzato i ferri e l’ingegno. Non n’era venuto a capo, il poverino; e a quant’altri non era occorso lo stesso, sebbene per la bella e schifiltosa duchessa non avessero il grave difetto d’essere il duca? Povero marito! Pari a Pigmalione, ci aveva avuto a dirla con una statua; ma più savio di Pigmalione, segnatamente dopo che fu chiusa la cascatella dei miracoli, s’era vôlto ad un’altra, che non fosse di marmo.

    Così giudica il mondo, il mondo che non sa, o non vuole sapere, che certe creature infrollite non hanno più sentimento degli amori semplici e schietti. Vivande sciapite son queste; ai guasti palati occorre il pepe della colpa, anzi meglio, la senapa della corruzione. Del resto, gli è sempre l’ambiente che comanda alle cose. Nella civil compagnia, fatte le debite eccezioni (veda il lettore ed ammiri la profumata ipocrisia d’una penna d’acciaio), provano amori feroci, turbinosi a volte, profondi mai. Uno schietto amore portato nel gran mondo (così detto forse per antifrasi, perchè nè è la parte più piccola) fa pensare ad un mazzolino di violette, smarrito in un fumatoio.

    La duchessa non rimase che due anni legalmente separata dal marito. A ventidue anni era vedova. Il duca, decrepito a quarantacinque, era morto sfinito, nè importa dir come. Rimasta sola ed arbitra di sè stessa, Donna Giulia d’Andrate si diportò in guisa da non lasciar argomento di speranza a nessuno. I signori uomini finirono col non accostarsi più a lei. Così avrebbero dovuto cominciare. Ma non la fecero finita le donne, più tenaci per avventura di noi, nell’amore e nell’odio. Esse, che pure avrebbero potuto dimenticarla, dappoichè non rapiva adoratori a nessuna, non seppero perdonarle ch’ella s’imputasse a rimanere, da quella, divinità di marmo ch’ella era, sul suo piedistallo.

    Così sola sola, tra per deliberato proposito suo e per diserzione degli altri, la duchessa d’Andrate si ritrasse in campagna, dove le fu caro il vivere co’ suoi libri, co’ suoi fiori, e colle sue ricordanze. Ben le fecero ressa i parenti perchè accettasse da capo i vincoli d’Imeneo; ma ella stette salda sul no, e non ci fu verso a persuaderla. Vivea così bene da sola! che altro le bisognava, a lei libera e ricca? Un padrone, forse? L’avea sperimentato, quel giogo, e n’avea. di soperchio.

    E non c’era di mezzo un amante, un di que’ trovatori discreti che piacciono tanto alle castellane infastidite, un di que’ paggi modesti che desiderano a mala pena le buone grazie celate, senz’altro conforto alla vanità mascolina? A Milano, tra le anime caritatevoli, era un desiderio, una voglia, un’agonia di scovare il romanzetto consueto da quella solitudine della bella duchessa. E il romanzetto ci fu, sebbene di pochi e smilzi capitoli. Un povero diavolo, Jacopo Ortis di villaggio, innamorò perdutamente di lei; la seguiva da lunge dovunque ella andasse; la sua zazzera era una foresta vergine (s’intende di pettine e di manteca); i suoi occhi, fontane di lagrime; il suo petto, un Mongibello di sospiri. Fu veduto una notte scavalcare il muro del giardino; che più? Quelle visite si ripetevano ogni notte; le streghe del villaggio avevano tralasciato di andare alla tregenda, per godersi lo scandalo.

    Argomenti il lettore se in paese non se ne ciarlasse a dilungo. La illustrissima signora duchessa innamorata del figlio del Menico, di quel coso lungo, allampanato, più capelluto di Assalonne, che avea studiato cento inutili cose a Pavia ed era tornato a far l’arte di Michelaccio, alle spalle d’un padre babbeo! Nè andò molto che la cosa si riseppe a Milano, donde tornò pepata e salata agli orecchi della duchessa.

    Che fare? Offesa da tutto quel chiacchierìo stomacata da tutto quel viluppo di ornate bugie, la duchessa chiamò presso di sè i parenti, invitò alla sua villa alcune tra le più linguacciute sue attinenti, e ferì un colpo maestro. Il notturno visitatore fu colto nel giardino, dietro una siepe di bosso, mentre stava a piuolo dinanzi alle finestre di lei, strabuzzando gli occhi come un ossesso e sospirando peggio d’un mantice.

    Condotto dinanzi alla signoril comitiva, il povero diavolo si sciolse in lagrime; confessò di essere penetrato più e più volte di soppiatto là dentro per virtù irresistibile d’amore, ma d’amore senza speranza, poichè egli non aveva mai parlato alla bella duchessa, e sperava in un miracolo, foss’anco di magnetismo, che la traesse a quell’ora, fuor del palazzo, all’incantesimo delle sue giaculatorie. Non disse proprio così, ma lo si capiva, e la medesima sconnessione del discorso, il suo rimanersi trasognato a guardar la duchessa, avrebbe fatto testimonianza agl’increduli com’ei la vedesse per la prima volta da presso.

    Donna Giulia d’Andrate sentì compassione e gli condonò il suo fallo, a patto non si mettesse un’altra volta all’impresa, che ella, per la sua quiete campestre, pel suo buon nome e per quello di casa sua, non avrebbe potuto più oltre recarsela in pace. Il poveraccio, a cui quella ripassata avea fatto il senso d’un catino d’acqua rovesciato sulla testa ad un ebbro, giurò tutto quello che si volle da lui; ma, per esser più sicura del fatto suo, la famiglia s’indettò col povero padre, gli fe’ scorrere eziandio tra le dita qualche centinaio di scudi, e il giorno appresso quel sospiroso principiante fu spedito, senz’altri discorsi, a Milano.

    Per tal guisa apparve chiarissimo che Donna Giulia non amava costui. Ma che vuol dir ciò? perfidiarono alcune dame, che pareva la sapessero lunga nel fatto d’amore. Non lo ama adesso; lo amerà poi. Una donna non può non amare chi scavalca i muri e risica le schioppettate dei castaldi per lei. Egli non è brutto, infine; un po’ lungo, un tal poco arruffato e sciatto; ma si farà, si farà; l’aria e il vivere di Milano ripuliranno quell’arfasatto provinciale; sospirerà meno, non piangerà più, e in cambio di arrampicarsi pe’ muri, salirà comodamente le scale.

    Intanto, quella ingrata faccenda avea reso uggioso il luogo alla duchessa d’Andrate. Vi rimase tuttavia un mese, soletta come prima; indi sparì, proprio sul primo freddo, che tutti l’attendeano a Milano, dov’era il suo Jacopo Ortis a imparar l’arte presso più volenterose dirozzatrici d’uomini ch’ella non fosse. E per quella volta, le caritatevoli dame ebbero a farlo colla voglia.

    Giudizii temerarii su quella fuga non c’era modo di farne. La duchessa viaggiava per suo diporto con gran codazzo di famigli e con una vecchia dama di compagnia, scelta con molta cura, passata sto per dire allo staccio tra le più riputate. Finalmente, come a Dio piacque, il gran mondo si stancò di badare a lei. Più saporite imbandigioni fece la cronaca all’illustrissimo volgo; altre regine furono sollevate sugli scudi, altre dee sugli altari, e fu messa in disparte, al tutto dimenticata, la duchessa d’Andrate.

    II.

    Ora egli avvenne che un bel giovinotto, Flaviano Delaìti, andato a Parigi, volesse tornarsene in Italia, passando pel mezzodì della Francia. Così chiamano laggiù le loro provincie meridionali.

    Ma forse, innanzi di raccontare come egli fosse partito da Parigi, sarà bene accennare perchè vi fosse andato. Diciamolo dunque, e sgabelliamcene alla lesta.

    Flaviano Delaìti era un di que’ giovani di cui non è penuria a Milano; ornato di quella fiorente bellezza che è un privilegio del buon seme longobardo, cioè a dire, non breve di statura, nè mingherlino, nè tozzo di membra; il viso in carne e di sano colore; l’occhio aperto e leonino: il labbro tumido e sorridente, con gran gusto di due file di denti di avorio polito; i capegli folti, d’un biondo traente al castagno, e ben piantati sul fronte spazioso, sebbene un tal poco più largo che alto: il mento ovale e leggiadramente ritondato: i baffi cadenti con grazia, a mo’ di festoncini, per rialzarsi naturalmente in due punte orgogliose, e morbidi, lucenti, come la barba che gli scendeva dai lati delle guancie in due ventole crespate e prolisse.

    Nè, poichè sono ai contrassegni del suo passaporto, va dimenticato il naso, fine, diritto e più smilzo per avventura che non comportasse la floridezza del’volto, un naso insomma che dinotava superbamente la nobiltà del lignaggio. Imperocche il Delaìti era nobile, e poteva pretendere ad essere chiamato, nelle occasioni di cerimoniosa dimestichezza, col nome di Don Flaviano.

    Questo l’involucro; ma la sostanza, ma l’anima? In verità, fino ad ora non saprei dirne gran che. Egli stesso non s’era mai tolto a disamina su questo particolare; che potevano gli altri saperne? L’anima è un quid (dico bene?), che si mostra spesso bensì, ma mescolato con altri, e, come certi corpi che non appaiono ai chimici se non in combinazione con altre sostanze, ella si manifesta altrui nelle gioie, nei dolori e negli sdegni, metallo sfavillante fra mezzo alla scoria degli affetti, quando prorompono tumultuosi dalle inesplorate profondità di questo vulcano vivente che è l’uomo. Ora, occasioni di veder l’anima di Don Flaviano non ce n’erano state. Il suo volto senza una grinza, la sua aria contenta, mostravano come l’ascosa sostanza non fosse passata ancora per la orribile storta delle amarezze, e chi avrebbe potuto giurare che fosse per passarvi mai?

    Nè ciò gli facea mancamento; certo non sentia la lacuna. Ingegno ne avea tanto, e sottile, quanto occorre nella civil compagnia, per deciferare un rebus, o dichiarare una sciarada, anco in lingua francese; per ragionare dell’ultimo romanzo, e anteporre Feydeau a Balzac, venerando, s’intende, Manzoni, senza aver più riletto i Promessi Sposi, nè l’Adelchi, dopo l’uscita di collegio; per disputare finalmente alla bottega da caffè del Martini intorno alla necessità d’un sussidio ai teatri, promettendo un fine conoscitore di cose coreografiche alle future adunanze del palazzo Marino. Per quanto poi si ragguardava alla controversia dei portoni di Porta Nuova, ei la scioglieva da gentiluomo a cassetta, dicendo che invero e’ davano molestia grandissima alle carrozze, ma che al postutto, anzichè far piangere gli antiquarii, si poteano pigliare altre vie per giungere al Corso in sui bastioni.

    Donde si chiarisce che Don Flaviano, se non era un profondo pensatore, potea passare tuttavia per un uomo di buon senso. E ciò non è poco, pei tempi che corrono. Cavaliere, poi, come il centauro Chirone, che dicesi fosse maestro ad Achille; giuocatore calmo e sereno, più che altri mai; insuperabile nell’artistica negligenza con cui dava il nodo alla cravatta, o una piega alla giubba, perchè non sembrasse incignata quel dì; infine, che vi dirò? un uomo perfetto.

    E tuttavia non era felice. Ma chi lo è, in questa valle di lagrime? Un giorno gli era parso di amare; cioè, mi spiego; già molte volte gli era parso cotesto, ma questa di cui si ragiona era la più recente, epperciò la piú grave. Or dunque, gli era parso di amare; ma, tre mesi dopo, credette di essere tradito. La rea ballava pro forma alla Scala. Che fare? Uccidersi? Non si muore, per una alunna di Tersicore. Uccider lei? Il Codice penale, raffazzonato da uomini che tutti hanno varcato la cinquantina, è pieno di agguati, di tagliuole e di trabocchelli pei violenti. Incrociar la spada col rivale? Era un amico, siccome quasi sempre interviene. Meditò a lungo, rimuginò la sua vendetta, e partì per alla volta di Parigi. Ricco non era più tanto; ci aveva a mala pena da vivere largamente, aspettando due eredità cremonesi; un viaggio di parecchi mesi non era il peggior guaio del mondo; però, diede un tacito addio al caffè Martini, fece un’ultima trottata al Corso, un’ultima sosta allo smontatoio di parecchie contesse o marchesane più in voga, e, insalutato hospite, s’avviò alla terra straniera, in cerca d’un oblio, che trovò, credo, alla prima stazione.

    « Eccoti alfine in Babilonia, Arsace disse Flaviano, quando fu giunto nella capitale di Francia, anzi d’Europa, siccome è da credersi rimarrà lunga pezza, con buona pace nostra e d’altrui, imperocchè Roma ha troppo passato, e Berlino ne ha troppo poco. Di Londra non si parla nemmanco, che è fuori di mano e ci ha troppa fuliggine.

    In Babilonia visse Flaviano tutto il rimanente della fredda stagione. Imperocchè s’ha da sapere che il tradimento della ingrata donna gli era occorso in sul cominciar dell’inverno. Fu notato dai pratici esser questo il tempo dell’anno in cui il sottil veleno della seduzione penetra più facilmente e si diffonde sotto la cute alle povere figlie d’Eva. Pretendono alcuni che ciò sia perchè nell’inverno il veleno dell’uomo, diversamente da quello degli altri crotali, ha maggiore efficacia. La cosa a me non pare provata abbastanza; tengo anzi per fermo che l’uomo sia sciocco d’inverno come d’estate, e similmente nelle stagioni di mezzo. La ragione, secondo me, va cercata nei tessuti delicatissimi delle povere creature morsicate. Le manco coperte hanno freddo; le più coperte vorrebbero avere più caldo. La vita offre maggior copia di passatempi; l’ebbrezza ha più fumi; gli ardori della danza e del simposio, del teatro e dell’orgia, od anche il desiderio di tutte queste voluttà, tanto più possente quanto più è combattuto, flagellano il sangue, lo fanno scorrere più veloce; qual meraviglia se una particella del tossico umano, filtratosi appena nei vasi capillari, va subito al cuore?

    Io poi, se la teorica non garba, la lascio lì e torno a Flaviano, che visse sulle rive della Senna due mesi di matta allegria. Amici ne trovò quanti volle e d’ambi i sessi, facili tutti nel venire, facilissimi nello andarsene lontani; donde è agevole argomentare che in fatto di costanza e di fedeltà trovasse il rimedio di Giocondo e del re suo

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