Le confessioni di fra Gualberto: storia del secolo XIV
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Le confessioni di fra Gualberto - Anton Giulio Barrili
A LUIGI LUZZATTI
Onorarsi ed amarsi, anco se combattendo in campi contrarii, parve fiore di gentilezza agli antichi. Diomede e Glauco insegnino, dei quali racconta Omero, nel VI dell’Iliade, il generoso colloquio:
«... Or nella pugna
«Evitiamci l’un l’altro....
«... Di nostr’armi il cambio
«Mostri intanto a costor che l’uno e l’altro
«Siam ospiti paterni. Così detto,
«Dal cocchio entrambi dismontâr d’un salto;
«Strinser le destre e si dier mutua fede.
«Ma nel cambio dell’armi a Glauco tolse
«Giove lo senno. Aveale Glauco d’oro,
«Diomede di bronzo; eran di quelle
«Cento tauri il valor, nove di queste».
A te il mio libro e l’affetto; a me la tua grazia costante. Son Diomede in cotesto, che troppo più ci guadagno nel cambio.
Di Genova, il 30 Aprile del 1873.
ANTON GIULIO BARRILI.
PROLOGO.
Nessuna cosa ad uno scrittore, dopo il titolo del suo libro, è più bisognevole d’una buona pròtasi, o cominciamento che dir si voglia. Anche un adagio, prezioso stillato di scienza popolare, ammonisce che «chi ben comincia è alla metà dell’opra»; il che per fermo non s’intenderà esser vero, se non ammettendo che si possa tirare innanzi a furia di sciocchezze, pur di aver fatto bella comparsa in principio. Facciamoci vivi alle mosse; per tutto il rimanente della via è lecito impoltronire, appisolarsi a cassetta (vedete Orazio che ne concede larga perdonanza ad Omero); l’essenziale sta nello svegliarsi, da bravi cocchieri, in prossimità della posta, e, con alto schioccar di frusta e galoppar di cornipedi, mettere il borgo a romore.
Mano dunque alla pròtasi! Ma qui pur troppo le invenzioni scarseggiano; testimone la repubblica letteraria tutta quanta, che, da forse tremila anni, non ha saputo far altro che andare sulle pedate d’un cieco. Egli è vero bensì che costui ci vede assai meglio di tutti i suoi successori; tantochè nessuno è giunto così lontano com’egli, orbo cantastorie di Grecia. Per ristringerci ai sommi, vediamo Virgilio aver copiato da lui, l’Ariosto da Virgilio, il Tasso da ambidue. «Canto l’armi pietose e il capitano», scrive Torquato. «Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori — Le cortesie, le audaci imprese io canto», ha scritto messer Lodovico. E Virgilio, quindici secoli avanti, aveva lasciato il suo Arma virumque cano che fa riscontro all’Iram cane, Dea, dell’Iliade, e al Dic mihi, Musa, virum, dell’Odissea. Insomma, già prima che mi sgoccioli dalla penna, lo avrete pensato voi, lettori umanissimi: o canti tu, o canto io, gli è come a dir zuppa o pan molle.
A me, per aver aria di novità, converrebbe far capo alla Divina Commedia o salire più in su fino al Ramàiana. Ma potrei io raccontarvi con Dante che ero «nel mezzo del cammin di nostra vita» e che avevo smarrito la strada? E ardirei giurarvi con Valmichi che sulle sponde di un’altra Saraiù è una vasta e ridente contrada, ricca di biade e d’armenti con un’altra città d’Aiodìa, bella ed avventurosa, celebrata per tutto il mondo e fondata da Manù, padre del genere umano, se la cronaca del Gange non mente? D’anni, a voler mettere in conto il cominciato, ne avevo i miei trenta, e, lungi dallo aver perduto la tramontana, ci diguazzavo per entro, a mia posta, in una di quelle valli (meglio sarebbe dir forre) dell’Apennino, che quel dabben uomo di Eolo ha lasciate in governo al primo ed al più turbolento de’ suoi figli, Aquilone. Ero, per farvela breve, in val di Trebbia, e, poichè si ragiona di venti, aggiungerò che me ne stavo al riparo in una cittadella murata, trenta miglia a libeccio da Piacenza e ventotto a scirocco da Voghera.
Ognuno, che abbia vissuto qualche giorno in quei luoghi, ricorderà che dorsi di montagne, culmini e scoscendimenti, c’è n’ha in buon dato, ma che la pianura si conta a palmi, pur troppo; che gli armenti vi abbondano, ma solo di bestie lanose, e le messi non bastano pel logorare d’una popolazione di quarantamil’anime, che tante ne dà la provincia, spartite in ventisette comuni e sessantaquattro parrocchie; che le più svariate famiglie d’erbe medicinali vi fioriscono in copia, le industrie non già; nè magona, nè gualchiera, nè cartiera vi fa udire il grato martellar de’ suoi mazzi scorrenti; che due fonti d’acque minerali, l’una salsa, l’altra sulfurea, aspettando un imprenditore di bagni, hanno tempo a seccarsi; che, per contro, i torrenti s’industriano a rifare, con largo tributo di saporitissime trote, i danni di lor piene invernali; che i tartufi amano qua e là disvelarsi ai mortali collo svaporare delle fragranze natìe; che, finalmente, la città capoluogo, se non è bella, nè avventurosa, nè celebre, non si lagna altrimenti del fato, nè del governo centrale, e vive abbastanza contenta de’ suoi quattromila abitanti, del suo sottoprefetto, del suo vescovo suffraganeo, de’ suoi dodici canonici e de’ suoi otto carabinieri.
Anch’essa, del resto, se guarda al passato, ci ha da insuperbire la sua parte. A chi, dei caduti in basso stato, non è mai occorso di rinvergare le pergamene, di frugare per entro alle memorie domestiche, di almanaccare sulle tradizioni orali della famiglia, per rintracciarvi la nobiltà di sua stirpe? Il passato, assai più del presente, e quasi come il futuro, è il grattacapo dei miseri umani. E Bobbio (ecco, m’è uscito dalla penna il suo nome) si consola spesso della sua umile condizione, ripensando ai re longobardi, al diploma d’Agilulfo e a san Colombano, il quale la reputò degna di accogliere in prima il suo glorioso monastero e quindi le sue ossa, perseguitate dagli sdegni di Brunechilde. Mettetevi a dirla colle donne! Ma allora i santi erano così fatti e pigliavano male gatte a pelare; donde i travagli in vita e dopo morti la gloria.
Io bene intendo che di questi archeologici fumi si ha poco costrutto oggidì. Per la gente che tira al sodo, vogliono essere istituti di educazione, di carità e di credito; pe’ buontemponi, alberghi, botteghe da caffè, teatri e casini; pe’ trafficanti, manifatture e mercati. Rispetto a ciò, Bobbio è ancora bambina; ma neanco Roma è stata fatta in un giorno, e quando per val di Trebbia scorra la vaporiera invocata, anche alla prediletta di San Colombano deriverà qualche pagliuola del nuovo Pàttolo, che dee rifar d’oro l’Italia. Così la pensa il notaio Malinverni-Tidone, ottimo cittadino, a cui mi gode l’animo di poter dare pubblica testimonianza di lode, per l’amore grandissimo ch’ei porta alla sua terra natale, e di gratitudine insieme, per la nobile ospitalità e per gli utili cenni di cui mi fu largo. Egli non si ricorderà forse più del suo giovine e curioso ospite del giugno 1867; a me intanto premeva di mostrargli come io non avessi dimenticato lui nè fra Gualberto, che mi ha insegnato a conoscere, e del quale il mio libro gli recherà più estesa notizia, che egli medesimo non avesse finora.
Che diancine era io andato a fare laggiù? Certamente il lettore s’aspetta che glielo dica; ma, quantunque io senta la necessità d’entrargli in grazia, non mi farò a contentarlo. Sappia egli che feci un viaggio e due servizi, e che il secondo servizio fu quello di visitare il famoso convento.
Vero luogo di meditazione gli è questo! A Bobbio il sole tramonta un’ora prima che sui borghi vicini, e cotesto a cagione dei monti che gli si stringono a’ fianchi. Così ravvolto nella tetraggine delle sovrastanti alture, il monastero è malinconico tuttavia a vedersi, sebbene l’architettura sua faccia fede di una ristaurazione leggiadramente condotta nello stile del risorgimento; ora argomentate quanto più melanconico e’ non avesse ad apparire in sui primordi del medio-evo, allorquando l’austero monaco irlandese venne ad alzarne le mura e a mettervi stanza. Ciò fu intorno al 596, dopo che egli, sceso in Italia a combattervi l’arianesimo longobardo, otteneva il favore della bella e pietosa vedova di Autari, la quale aveva dato poco dianzi la mano e lo scettro al duca di Torino, Agilulfo. Frutto di tal favore, un diploma del re concedeva a Colombano, monaco di Benchor, il luogo di Bobbio, con quattro miglia di terre all’intorno, per fondarvi un monastero del suo ordine, siccome aveva già fatto egli in tre luoghi di Francia, e Gallo, il suo ardente compagno, era per fare in un angolo della Svizzera.
Nè a tali prove si rattenne l’affetto di Teodolinda pel monaco illustre. Imperocchè, essendo egli nel 613 ritornato dalle sue fortunose peregrinazioni di Francia e di Svizzera, a vivere nella pace del chiostro i due anni che furono gli ultimi di sua vita, la regina andò a visitarlo, con orrevole compagnia, nella sua tranquilla dimora. È fama viva tra i terrazzani che in questa occasione la regal donna salisse fino all’estrema vetta del Pènice, donde si scopre la più vasta distesa di monti e pianure che sguardo umano possa abbracciare. Lassù, quando l’aere sia puro e limpido l’orizzonte, vi si para dinanzi la mirabil veduta di tutta la catena delle nevose Alpi, girata ad arco dal mar Tirreno fino alle giogaie del lontano Tirolo. Più in basso, a manca, tondeggiano i colli del Monferrato, da Valenza a Superga; più sotto ancora si stendono i campi di Novi, di Marengo e della Trebbia, e, seguitando a destra, la vasta pianura lombarda, stagliata qua e là dai tributari del Po, del gran padre Bodinco, che scorre, immensa striscia d’argento, a’ suoi piedi, e tratto tratto si nasconde allo sguardo e vedesi ricomparire in uno sfumato orizzonte, che si confonde col cielo, là verso l’Adriatico. La gran tela è stupendamente istoriata; Voghera, Alessandria, Novi, Piacenza, biancheggiano di qua dalla lunga e tortuosa zona fluviale, a cui concorrono, più umili tributari discesi dalle balze apennine, il Tidone, la Staffora, la Scrivia, la Nure, il Taro e la Trebbia; di là, Milano, Pavia, Cremona, e Bergamo, con ampio corteggio di città minori e borgate, poco in vista più grandi d’un chicco di frumento, ma nitide e di contorni ricise. Volgetevi indietro; il Lesima, il Penna, l’Alfeo, con gli altri gioghi dell’Apennino, vi contendono il mare lontano; ma, per mezzo alla fosca merlatura delle loro ripide coste, si dipingono in tinte più chiare i balzi di Rapallo, di Chiavari e di Spezia, mentre in fondo alle lor gole si discernono, pe’ soavi lumi interfusi, le fertili valli di Nure, di Enza e di Taro.
La bella longobarda, che la fantasia del poeta ama raffigurarsi alta della persona e flessibile, come donna che è nata al comando, ma può inchinarsi a sollevar gl’infelici, mirabile nel volto per nobiltà di severi contorni, rammorbiditi da un riso di dolcezza ineffabile e dall’aureola dei biondi capegli cresciuti alle nebbie del settentrione, ma indorati ai raggi del sole d’Italia, potè da quel sommo vertice contemplare il vasto suo regno, mentre in lei l’ossequio immaginoso dei riguardanti forse credè di vedere l’angelo della pace, librato in alto tra vincitori e vinti. E veramente fu cosa di cielo quella soave anima di donna, che, rattemprando la ingenita ferocia de’ suoi, valse a fondare, più assai che non avessero fatto le armi, un regno migliore a gran pezza delle sue origini, dalla cui caduta ebbero principio le millenarie sciagure della penisola.
Che non possono le donne! Il detto è antico, e più vero eziandio che non pensassero gli antichi, nello incenso de’ quali, così per le donne come