Stato essenziale, società vitale: Appunti sussidiari per l’Italia che verrà
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Per gli autori, le politiche non hanno solo effetti finanziari, ma anche culturali. Mettono in campo, cioè, incentivi che condizionano il comportamento delle persone. Una società responsabile non può essere una società dipendente dai pubblici poteri. Il desiderio di sicurezza può trovare soddisfazione non nello Stato pesante ma in un ritrovato dinamismo della società italiana: che a sua volta non può prescindere da uno Stato diverso. Più leggero e più affidabile.
Alberto Mingardi, è Professore associato di Storia delle dottrine politiche allo IULM di Milano. Dirige l’Istituto Bruno Leoni, di cui è stato uno dei fondatori.
Maurizio Sacconi, già Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, è presidente della associazione “Amici di Marco Biagi” e collaboratore del think tank ADAPT.
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Anteprima del libro
Stato essenziale, società vitale - ALBERTO MINGARDI
Alberto Mingardi - Maurizio Sacconi
Stato essenziale, società vitale
Appunti sussidiari per l’Italia che verrà
Copyright © 2022 by Edizioni Studium - Roma
ISSN della collana Universale 2612-2812
ISBN Digitale: 978-88-382-5272-3
ISBN Cartaceo: 978-88-382-5252-5
www.edizionistudium.it
ISBN: 9788838252723
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
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Indice dei contenuti
Introduzione
I. Verso un mondo nuovo
II. La risposta alle insicurezze: certezze pubbliche e virtù private
III. L’esperienza italiana: lo Stato essenziale è il solo che può funzionare
IV. La burocrazia difensiva e l’anomalia giudiziaria
V. Torna l’equilibrio di bilancio: meno tasse, meno spese
VI. L’Italia del PNRR da cambiare
VII. La sfida educativa nella libertà di scelta
VIII. Impresa e lavoro: pregiudizi duri a morire
IX. La salute tra universalismo teorico e spesa out of pocket
X. Il mezzogiorno come unico bacino off shore
Quasi una conclusione
Universale
Studium
140.
Nuova serie
ALBERTO MINGARDI - MAURIZIO SACCONI
STATO ESSENZIALE, SOCIETÀ VITALE
Appunti sussidiari per l’Italia che verrà
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Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura
ed Universale
sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.
A coloro secondo i quali lo Stato non deve disturbare
chi ha voglia di fare.
Introduzione
Non c’è Paese in cui il rapporto fra cittadino e Stato non dipenda sia dai principi iscritti nella sua Costituzione, che dalla sua storia: anche dai traumi profondi che l’hanno segnata. Nessuno può affrancarsi dal passato e dalle tradizioni
che esso traccia e delimita. Possiamo, però, provare a interpretarlo.
La storia repubblicana viene convenzionalmente divisa in una Prima
e in una Seconda
Repubblica, separate dallo spartiacque della riforma elettorale e delle inchieste di Manipulite. Al loro interno, guardando non alla politica internazionale o al sistema dei partiti, bensì al rapporto fra persona e Stato, soprattutto nella sfera economica, possiamo distinguere a loro volta altre due fasi. Non si tratta, sia chiaro, di un esercizio storiografico. Ci pare un modo per dare il senso di un’evoluzione nel rapporto fra Stato ed economia. Da questa evoluzione, è possibile trarre un insegnamento: la crescita arriva dove meno te lo aspetti.
La Repubblica nasce sguarnita degli strumenti necessari a essere uno Stato regolatore pesante
. Il ministro del tesoro Epicarmo Corbino, nel 1946, non sapeva nemmeno quanti impiegati avesse lo Stato, ovvero quanti fossero gli assegni che il Tesoro staccava ogni mese. Forse per questo, nelle difficoltà della ricostruzione, i governi centristi guidati da Alcide De Gasperi scelgono una strategia che potremmo definire di benign neglect. Accettano che sia necessario lasciare le briglie lasche alla società italiana, perché questa possa riprendersi dalla sberla della guerra.
I risultati sono immediati e sorprendenti: nel 1946 il PIL italiano era tornato ai livelli del 1906. Nel 1949, il PIL italiano è già di dieci punti più alto di quanto non fosse nel 1939. Nel 1953, per quanto la popolazione fosse cresciuta di circa 4 milioni di persone rispetto al periodo pre-bellico, il PIL pro capite era del 30% più alto del livello raggiunto nei vent’anni precedenti. Fra il 1948 e il 1960, il PIL cresce del 5,6% l’anno con un’inflazione media del 3%. Un Paese agricolo si industrializza e la quota delle esportazioni sul prodotto passa dall’8% del 1938 al 21% del 1965.
È stato il tempo di un diffuso capitalismo popolare favorito dalla bassa pressione fiscale e da un approccio largamente favorevole all’impresa e alla creazione di lavoro. La cultura sussidiaria, espressione della fiducia nelle comunità come la famiglia, l’impresa o le associazioni di rappresentanza di interessi, si tradusse nello sviluppo sociale. Nel periodo della ricostruzione il laissez faire è stato praticato tanto dallo Stato quanto dai poteri locali. L’applicazione delle regole seguiva modalità tali da non disturbare la voglia di riscatto di una società povera o impoverita che aveva costretto molti a emigrare. Emblematica è stata la disciplina urbanistica limitata per anni in molte comunità alle norme di salvaguardia con l’adozione più tardi dei programmi di fabbricazione e dei piani regolatori. La crescita è stata spesso disordinata ma nel loro complesso gli anni Cinquanta e Sessanta registrano non solo una robusta produzione di ricchezza, ma una ancor più robusta produzione di opportunità per chi avesse voglia di riscatto. Basti pensare alla fine della mezzadria e alla promozione di una moltitudine di coltivatori diretti in agricoltura.
È vero che, negli stessi anni, venivano gettati i semi di un approccio diverso: l’apparato di nazionalizzazioni del vecchio regime veniva conservato pressoché indenne, con la Cassa del Mezzogiorno si cercava di stimolare
artatamente la dotazione di capitale nel Sud del Paese, immaginando che ciò avrebbe portato a un aumento del prodotto pro capite anche in quelle aree. Ma, in linea generale, lo sviluppo in Italia venne dalla febbrile attività di imprese manifatturiere medie e piccole, lontane dallo schema (tipico della particolare strategia di modernizzazione
perseguita da certi segmenti delle nostre classi dirigenti) del sostegno allo sviluppo attraverso l’impresa pesante, managerializzata e tendenzialmente pubblica.
Nel corso di qualche anno, però, le cose cominciano a cambiare. Negli anni Settanta si afferma l’illusione presto smentita di uno sviluppo acquisito, una sorta di Bancomat di nuovi diritti
da distribuire, e con essa una forte pressione ideologica che conduce a un primo salto nella dimensione dello Stato regolatore. Con esso, cresce anche lo Stato provvidenza. Le regole si fanno più complicate e portano con sé crescenti impegni di spesa immediata e ancor maggiori promesse di spesa future. Il numero degli impiegati dello Stato, in un decennio, triplica. L’inflazione cresce e comincia ad aumentare anche il debito pubblico. È in questo periodo che si produce una degenerazione assistenziale dell’intervento pubblico che arriva fino all’intervento sostitutivo nei fallimenti o nei vuoti di mercato, dalle seconde e terze lavorazioni dei materiali alle produzioni agroalimentari di largo consumo. In quel tempo si determina persino la pretesa pubblica di decidere quali settori industriali debbano crescere e quali siano destinati al declino. Peccato che tra questi figurassero la moda e l’arredo presto protagonisti del Made in Italy.
Nel decennio successivo, alcuni trend proseguono per inerzia: la crescente complicazione del diritto (che segna tutti i Paesi avanzati) e l’estrema generosità della previdenza. Ma ci sono anche segnali in controtendenza: l’intelligente manovra antinflazionistica che ha il suo culmine nel referendum sulla scala mobile, il contenimento dei tendenziali di spesa pubblica, la modernizzazione di molti ambiti come il mercato creditizio e quello mobiliare, riportano l’Italia a uno straordinario sviluppo soprattutto dell’industria manifatturiera.
Con l’operazione mani pulite
uno tsunami si abbatte su una società non priva di tensioni interne, ma in crescita. Se è vero che il sistema politico tutto, nel Paese con il più grande partito comunista dell’Occidente e con una sorta di Italia dell’Est
all’interno dei suoi confini, è chiamato ad adattarsi alla fine della guerra fredda, il carattere asimmetrico delle inchieste colpisce chirurgicamente alcuni e ne salva altri. Il trauma è profondo e non riguarda soltanto le classi dirigenti perché la combinazione mediatico-giudiziaria descrive una nazione divisa tra buoni
e cattivi
con la pretesa di favorire la vittoria elettorale dei presunti primi. Si insinua nella società un pericoloso moralismo che da allora in poi, quando più quando meno, condiziona la produzione delle regole, la loro applicazione burocratica e giurisprudenziale, la narrazione di fatti veri o solo supposti, le dinamiche del