Solo domani
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Anteprima del libro
Solo domani - Florinda Bruccoleri
CHISSA’ se il Paradiso è così! – pensai dentro di me osservando l’abbraccio senza fine tra il mare ed il cielo che avevo di fronte, mentre i miei piedi premevano su quei piccoli ciottoli mitigati dal sole ormai calante e mentre il mio cuore cercava di trovare la quiete proprio lì, in quel luogo che avevo scelto di incontrare. Chissà se è davvero un tunnel di luce fatto di colori tenui dalle mille sfumature del blu, se è vero che c’è un silenzio pacificante, se è attraversato da nuvole soffici e bianche, se profuma di acqua limpida e cristallina. E ancor di più, chissà se si trova veramente in cielo!
Mi ero ritrovata spesso ad immaginarlo, sebbene non sapessi dire con precisione se io ci sarei mai finita; ma farlo mi aiutava a trovare la pace interiore di cui avevo bisogno, e non era strano per una come me così credente in Dio al quale diverse volte mi ero affidata per sperare che Lui mi potesse almeno concedere quel lasciapassare utile a varcare il Suo regno. In fondo la mia vita non era stata così immorale, non avevo commesso nessuno dei sette peccati capitali e l’unica volta in cui mi ero sentita profondamente in colpa era stato confessare a mio padre di odiarlo per aver scelto un’altra donna dopo la morte di mamma.
Era come un tradimento. E i tradimenti non sono mai facili da accettare, ancor più da perdonare.
Camminavo adagio, come se proprio quel tempo che tante volte era sembrato avanzare ostinato fosse invece così lento da permettermi di vivere appieno quel momento.
Non ero più triste, non mi sentivo vuota, sapevo che aver scelto quel posto per esaudire uno dei miei più grandi e forse ultimi desideri mi dava un senso di completezza.
La spiaggia di Zlatni Rat era quasi deserta in quel pomeriggio di fine settembre. L’avevo scelta per caso, digitando su googlele spiagge più belle d’Europa
, seguendo con attenzione la lista dei miei ultimi desideri
.
Su un sito di viaggi c’era scritto che la particolarità di quella lingua di spiaggia croata era proprio la sua forma che cambia al variare delle maree, delle correnti, del vento e, quando da un lato il mare è freddo e calmo, dall’altro è molto probabile che sia caldo e mosso.
Una costa, insomma, mai uguale al giorno prima e ricca di dicotomie.
Un po’ come ogni essere umano, un po’ come me stessa in quel mio lembo di vita. Mi sentivo simile alla descrizione di quel luogo: un giorno mi nutrivo del calore dell’abbraccio di una nuova alba, il giorno dopo anche una brezza leggera mi gelava l’anima.
I colori del cielo si fondevano tra loro passando da un arancione intenso ad un caldo rosso. Il mare sembrava ancora più blu in contrasto col bianco dei sassolini e al verde della pineta, mentre il sole stava per scomparire in quella linea di confine col cielo.
Osservavo lo spettacolo della natura con addosso una emozione intensa che assomigliava ad uno scompiglio interiore, un misto tra pienezza e vuoto, una di quelle sensazioni contrastanti difficili da descrivere a parole ma che riescono a esploderti dentro con una potenza incredibile.
Non ero lì per caso, quel viaggio segnava nel calendario dei miei giorni un punto fermo, uno di quelli che rimarchi mille volte come inizio e fine di qualcosa di bello.
E se è vero che ciascun essere umano conosce la finitudine della vita, che ognuno di noi ha dentro sé - nascosto in un luogo protetto e poco raggiungibile - la consapevolezza dei limiti dell’esistenza, è pur anche vero che non è facile accettare l’idea che il tuo corpo ti abbia tradito facendo ribaltare la clessidra della vita e lasciando partire il conto alla rovescia, inesorabile e spietato.
Erano trascorsi quasi quattro anni dalla mia operazione, da quel ricordo ghiacciato tanto quanto quella sala operatoria che mi aveva accolta. Una sequenza precaria di giorni, che però sono stati la mia miglior cura, il rimedio efficace più di ogni analgesico prescritto e assunto, un modo per far pace con me stessa, col mio corpo e con la vita in generale.
Ma non volevo pensarci adesso. Non volevo ancora una volta intossicarmi la mente.
Mi era bastato farmi avvelenare per tanto tempo le vene nel tentativo di salvare la mia vita.
Mi incamminai così verso la riva, avevo bisogno di sentire i miei piedi a contatto con l’acqua. Era tiepida, rigenerante, sembrava avere il potere di sciogliere i nodi glaciali dell’anima.
Attorno qualche ombrellone ancora aperto e gente che come me aveva forse deciso di lasciare fuori la vita per annegare in mare ogni pensiero.
Alla mia destra una sedia vuota sembrava puntata verso l’orizzonte come uno di quei posti in prima fila al cinema che assicura la visione indisturbata del più bel film del mondo. Un uomo anziano, dal fisico ricurvo e dal passo lento avanzava per raggiungerla.
Era solo, indossava un pantaloncino scuro ed una magliettina bianca un po’ sgualcita. I capelli ingrigiti venivano fuori ai lati di un cappello di paglia. Dava l’idea di uno che quel posto lo conosceva bene, sembrava una specie di custode di quel tesoro, da come si muoveva, da come accennava saluti a quei pochi che si erano trattenuti ancora lì.
Si sedette. Lo sguardo puntato verso l’infinito.
Mi incamminai avvicinandomi, sebbene avessi il timore di disturbarlo. Non sapevo neppure se parlasse la mia stessa lingua ma a volte ci si riesce a comprendere anche coi gesti, pensai.
Così gli accennai un sorriso e lui ricambiò. Si alzò quasi invitandomi a raggiungerlo. Quando fui vicina mi disse:
«Dobra večer gospođice.»
Avevo studiato per fortuna un po’ di croato prima di partire e sapevo che dobra večer significava buonasera. Così risposi anche io: «Dobra večer. Vittoria» e gli porsi la mano.
«Vittoria non è certo un nome croato» mi disse porgendomi la sua. Parlava italiano e per me fu una sorpresa e un sollievo.
«Infatti sono italiana e forse anche lei», sorrisi.
«Sì. Esatto. Piacere, Romeo.»
«Viene spesso qui?» gli chiesi d’impatto curiosa.
«Ci vengo quando ho voglia di stare un po’ con lei» disse alzando lo sguardo al cielo. «Io e mia moglie ci eravamo trasferiti qui dopo la pensione per vivere gli ultimi anni della nostra vita insieme. Eravamo felici come due giovani innamorati che fanno progetti e costruiscono sogni. Ma il futuro non è mai come lo si immagina. E’ difficile alzarsi la mattina e non riuscire a vedere lontano. Ecco perché vengo qui, ogni sera al tramonto. Perché qui riesco a vedere l’infinito. Quell’infinito che avrei voluto condividere con lei».
Mi sembrò di assistere ad una scena di un film tratta da un romanzo di Nicholas Sparks. Questo vecchio signore che senza nemmeno conoscermi era riuscito a rovesciare fuori le sue vicende e le sue emozioni, nonché i suoi vuoti.
Quanta verità in quelle parole che si agitavano dentro me come quelle onde al calar della sera.
Mi guardò stranito, avrà visto il mio imbarazzo – forse - quando in realtà la mia era più una gratitudine per quella preziosa e inattesa condivisione.
«Mi scusi, non volevo essere così inopportuno!»
«Non deve scusarsi, anzi. Sono stata io ad interrompere il suo appuntamento
. Ha ragione quando dice che è difficile alzarsi la mattina e non riuscire a vedere lontano. E’ capitato spesso anche a me.»
Mi sentii di ricambiare la sua intima confessione con quello che era riuscito a far risuonare dentro di me con le sue parole.
«Buon proseguimento signor Romeo.»
«Grazie. Buona vita Vittoria.»
Mi voltai allontanandomi quasi di corsa, avvertendo una strana sensazione che quello appena vissuto non fosse altro che un sogno, una illusione, uno scherzo della mia memoria e del mio desiderio di riuscire a sperare che, in fondo, io avevo ancora un futuro, un lungo futuro.
Mi fermai guardando indietro, come a voler appurare i miei pensieri. Lui era lì. Aveva in una spalla la sacca col suo ombrellone blu cobalto e nell’altra mano la sua spiaggina pieghevole.
Era scaduto il suo tempo, mentre il mio continuava a scorrere imperterrito.
L’INDOMANI mattina mi svegliai ancora prima del suono della sveglia che sul comodino segnava le 6.45.
Attesi ancora qualche minuto prima di tirarmi su. Le tende bianche di cotone leggero svolazzavano spinte da una delicata brezza mattutina e anche i miei pensieri sembravano fluttuare con loro.
Stavo andando incontro ad una bellissima giornata, insolita per me ma carica di aspettative positive.
Mi alzai camminando a piedi scalzi su quel pavimento in ceramica grigio dirigendomi verso il bagno.
Incrociai lo specchio, mi riflessi interamente in lui.
Avevo da poco imparato a non rifuggirlo, avevo anche imparato a riprendere confidenza con la mia immagine che era ben diversa da come ero abituata a pensarla.
Avevo messo su qualche chilo, che in realtà sul mio fisico già asciutto stava anche bene, se non fosse per il gonfiore della mia pelle che si notava ancor più del peso.
I miei capelli erano tornati finalmente ad essere lunghi e ben curati dopo che per tanto tempo erano stati corti, rasati: uno di quei tagli che sembrano essere stati fatti come simbolo di ribellione alla vita se non fosse che questa si era ribellata a me.
C’erano tanti altri segni che riflettevano i miei cambiamenti, le mie trasformazioni, le mie sofferenze. Ma tutto ormai faceva meno male perché io avevo deciso che sarei stata più forte di loro.
Feci una doccia, le mie dita accarezzavano con la schiuma la mia femminilità amputata mentre una lacrima si confuse con il getto d’acqua potente sopra la mia testa.
Mi vestii, scelsi un abbigliamento sportivo che raramente avevo indossato nella mia vita, preferendo spesso i tacchi alle sneakers.
Ma quel giorno mi aspettava qualcosa di estremamente straordinario, quello che nella mia lista dei desideri avevo segnato con fare qualcosa di estremo
.
Se qualcuno dei miei amici o conoscenti avesse letto quel mio proposito non ci avrebbe mai creduto, data la mia attitudine a rimanere coi piedi per terra e a non farmi trasportare da situazioni fuori limite.
Non avevo mai fatto esperienze adrenaliniche di chissà quale entità. L’unica e sola volta che ricordo aver sentito una forte scarica elettrica dentro me era stata sulle montagne russe in un luna park in Spagna dove andai insieme ai miei compagni della quinta F del Liceo. Ero passata dal divertimento alla paura in un secondo e da lì avevo capito che l’adrenalina non era l’ormone preferito dal mio corpo.
Ecco perché in quel momento mi faceva strano sentirmi energica e anche un po’ emozionata. Non sapevo neppure io come avevo fatto a scegliere di lanciarmi col paracadute!
Io, che non potevo di certo definirmi una donna coraggiosa, né tantomeno spericolata, piena com’ero di paure e fragilità. Prudente da sempre alla guida, terrorizzata dai piccioni e dai volatili tutti, insicura persino sul mio modo di sorridere. Eppure stavo per andare a lanciarmi da 4200 mt di altezza!
Scesi nella hall per fare colazione mentre attendevo una piccola navetta che mi avrebbe portata sul luogo dell’appuntamento: un non molto distante aeroporto sportivo.
Eravamo un gruppo di otto persone pronte a sfidare il coraggio. Ascoltavamo con attenzione le istruzioni di sicurezza pre-salto in tandem, spiegate con diligenza dal team di paracadutisti davanti a noi: due donne e tre uomini. Erano estremamente professionali, ma molto divertenti e coinvolgenti.
Ero stata giorni interi a immaginarmi quel momento, ma sentire il mio cuore sobbalzare dentro al mio petto mi dava l’idea di essere viva.
Goran sarebbe stato il mio istruttore, quello con cui avrei fatto un salto nel vuoto e quindi colui di cui avrei dovuto fidarmi ciecamente.
Salimmo su un aeromobile turboelica che in poco meno di quindici minuti avrebbe raggiunto la quota di lancio. Quell’imbragatura mi stringeva lo stomaco ma sapevo che sarebbe stata la mia certezza che tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Goran era un ragazzo giovane ma esperto, uno di quelli che sfidava il vuoto forse anche più volte al giorno, il fisico da body builder, i capelli biondi ossigenati e il pizzetto scuro.
«Sei pronta?» mi chiese facendo un gran sorriso.
«Non proprio, ma non ci penso e mi lancio. Quindi sì, pronta!».
Il suo sorriso si fece ancora più largo, mi fece posizionare davanti a lui e attaccò il suo moschettone alla mia imbragatura. Ero rivolta verso il portellone di lancio.
Da lì a poco avrei sfiorato le nuvole. E chissà se avrei anche intravisto un pezzo di Paradiso!
Il portellone si aprì, una spinta di vento potente ci urtò.
Goran mi spostò in avanti e mi vennero in mente le sue parole di qualche ora prima: goditi lo spettacolo perché non c’è pericolo che tu commetta errori. Devi solo fidarti di me!
.
Così feci, ma la paura fu talmente forte da spingermi a serrare gli occhi mentre sentivo il mio corpo librarsi nel vuoto. Li aprii solo quando l’urlo di Goran mi informò che stavamo viaggiando a 200 km/h. Cinquanta secondi di emozionante caduta libera. Poi una maniglia di sgancio fece gonfiare il paracadute che come una vela spiegata in mezzo al mare ci fece scivolare con grazia verso terra.
Un’abbondante iniezione d’adrenalina, ecco quale fu la sensazione una volta arrivati giù. Un incredibile senso di libertà che riuscì a spazzare via ogni mia paura per lasciare spazio al piacere.
Non pensavo che ci si potesse sentire incredibilmente a proprio agio tra le nuvole, il vento e l’azzurro del cielo.
Che fortuna che possiedono gli uccelli che ogni giorno della loro vita possono godersi la bellezza del mondo, pensai. Quella fu per me l’esperienza più intensa mai provata in quasi quarant’anni.
La mia lista dei desideri era ormai completa.
O quasi.
TUTTO iniziò da qui.
«Buongiorno Vittoria.»
«Buongiorno Isabella.»
Mi accolse con un sorriso molto materno, con quello sguardo di chi sa che stai combattendo una battaglia con la vita, ma che ti fa sentire leggera come un soffio d’aria.
Isabella era la caposala del reparto di Oncologia.
Era una donna robusta e graziosa, di bassa statura, avrà avuto poco meno di sessant’anni. I suoi capelli color miele erano sempre in ordine, tirati indietro in una piccola coda di cavallo. Sembrava quasi che non li sciogliesse mai tanto erano perfetti e sempre identici alla volta precedente.
Da quando l’avevo conosciuta non mi era mai capitato di vederla stanca, collerica, distrutta, nonostante l’immensa mole di lavoro che generava quel reparto.
Lo dirigeva con solerzia, con