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Un pomeriggio di primavera
Un pomeriggio di primavera
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E-book188 pagine2 ore

Un pomeriggio di primavera

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Info su questo ebook

Un gruppo di anziani habitué, una capra curiosa e un occasionale escursionista si ritrovano accanto a un pilone votivo in un bel pomeriggio di primavera e si raccontano storie. Di ambientazione valsusina, sono vicende della piccola provincia che abbracciano tutto il Novecento, mettendo in scena i personaggi più disparati, dagli sposini dei primi anni del secolo, la cui luna di miele si riduce ad una visita di mezza giornata a Torino, al periodo del fascismo e delle leggi razziali, alla Seconda guerra mondiale, al reduce dalla prigionia che ritrova l’amore della sua ragazza fino al reduce “inopportuno” che, tornato dopo anni dalla Russia, scoprirà che la sua ricomparsa nuoce alle dinamiche della famiglia e del paese… e tanti altri uomini e qualche donna, buoni e meno buoni, coraggiosi o vili, giovani o vecchi. Un insieme di situazioni, personaggi e voci che si affollano e che si presentano come l’affresco di un mondo che è sì provinciale, ma che potrebbe essere di qualsiasi provincia italiana, a raccontare il nostro passato recente che pure, per tanti aspetti, ci sembra già così lontano, quasi relegato in un’altra epoca. Per ricordarla a chi l’ha vissuta e per farla conoscere a chi non c’era.
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2023
ISBN9788855393010
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    Anteprima del libro

    Un pomeriggio di primavera - Mauro Franco

    Il vagabondo di Collombardo

    Chi visita il cimitero di Collombardo sicuramente noterà lo splendido mausoleo situato proprio nel mezzo della spianata: le lastre di abbagliante e costoso marmo bianco fanno pensare all’opulenza in cui deve essere vissuto colui che ora riposa in quel gioiello architettonico. Chiunque si sorprenderebbe sapendo che il signor Raffaele Penati, il poveretto là custodito, trascorse la sua tormentata esistenza tra i patimenti della miseria. Gli anziani che si riuniscono nella piazza del paese conoscono la storia di quell’opera d’arte, ma ogni tanto qualcuno di loro non si presenta più all’appuntamento quotidiano perché il peso degli anni lo immobilizza in casa. Pertanto la stesura di un racconto intende evitare che questa storia scompaia nell’oblio.

    All’inizio degli anni Sessanta un problema attanagliava la giunta comunale del paese di Collombardo: dopo aver investito una discreta porzione del bilancio pubblico nella costruzione di un nuovo camposanto, nessuno voleva esservi seppellito. Non erano le macabre leggende diffuse intenzionalmente dall’opposizione a spaventare i futuri inquilini, ma nessuno voleva essere il primo ospite di quelle algide mura.

    «Se mi sotterrano là chissà quanto tempo dovrà passare prima che arrivi qualcun altro»; «tutto solo come un reietto, un esiliato»; «guai a voi se vi permettete di mettermi là dentro»; i genitori minacciavano di diseredare i propri figli se avessero osato un affronto simile.

    Il sindaco, ragioniere Salvatore Viscosi, era oramai indifeso di fronte ai continui attacchi provenienti dai banchi dell’opposizione: «tutto quel denaro speso per nulla», «chissà quanto ne ha intascato lui», «forse vuole tenersi il cimitero per sé».

    Inizialmente si rivolse a don Silvio.

    «Reverendo, mi aiuti, convinca i suoi parrocchiani. Sono sempre stato un servo fedele, faccia qualcosa!»

    Il prete, in effetti, non aveva motivo per lamentarsi dell’operato del sindaco, e anche qualche suo compromesso con la sinistra lo aveva perdonato.

    «Fratelli, il nuovo cimitero reclama delle anime, e l’acqua santa utilizzata nella benedizione non può andare sprecata, coraggio!»

    Per diverse domeniche implorò i fedeli ma l’esito non fu positivo e ci fu addirittura chi, indispettito, smise di frequentare la chiesa e di elargire offerte.

    Il parroco fu molto amareggiato dal fatto che le sue parole fossero state ignorate:

    «Accidenti a quel dannato concilio! Ci ha tolto ogni autorità e noi non contiamo più nulla! Si sono messi a nominare pontefici i figli dei mezzadri, ed ecco che cosa abbiamo ottenuto!»

    «Ma reverendo, che cosa sta dicendo, non vorrà mancare di rispetto al povero Papa Giovanni, il nostro ‘Papa Buono’!»

    Il prete fece con la mano un gesto indispettito:

    «Alma, stattene zitta! Ma che cosa ne vuoi sapere tu!»

    La perpetua, conoscendo il sacerdote da molti anni, sapeva che da furibondo era meglio non contraddirlo, ma non intendeva comunque permettere venisse meno la dovuta deferenza nei confronti del pontefice, scomparso da alcuni anni.

    «Intanto, grazie a quel papa e al suo concilio, ora io capisco cosa lei dice durante la messa.»

    «E allora, era proprio necessario? Non bisogna mai infrangere le tradizioni, oramai erano secoli che officiavamo messa in latino.»

    «Sì, lo so, ma io non capivo niente.»

    «Alma, Alma, ma non vedi che cosa sta succedendo a causa di quel concilio. Sono comparsi questi preti operai e ci sono dei laici che hanno l’ardire di pretendere, all’interno della Chiesa, dello spazio a cui mai dovrebbero avere accesso.»

    Alma, non sapendo come replicare, tacque per alcuni secondi, poi chiosò:

    «I pontefici sono infallibili, quindi se è stato deciso così vuol dire che questa era la via giusta!»

    «Dicendo così mi stai dando ragione. Essendovi il dogma della infallibilità del papa non vi era la necessità di riunire tutti quei vescovi a Roma, facendoli arrivare da tutto il mondo. Adesso dobbiamo sottostare a delle decisioni prese da vescovi africani o asiatici! Continuando così, prima o poi, non riusciremo nemmeno più ad avere un papa italiano. Inoltre hanno invitato persino dei protestanti, e non riesco a capire che cosa c’entrassero!»

    «Ma, don Silvio, papa Giovanni aveva proprio detto che bisogna ricercare ciò che unisce, tralasciando ciò che divide.»

    La donna era orgogliosa di aver menzionato, alla lettera, quella famosa citazione del pontefice.

    «E brava Alma! Ora dimmi che bisogna aprire le finestre per far entrare aria nuova nella Chiesa, e poi comincia con il discorso della luna, così mi riporti pari pari tutte le parole di Papa Giovanni.»

    La perpetua assunse un’espressione offesa:

    «Don Silvio, mi senta bene! Io sua santità Papa Giovanni lo venero, e sono sicura che le sue parole brilleranno fino alla fine dei tempi».

    «Pensala come vuoi, grazie al cielo non tutti la pensano come te. Sicuramente non avrai ancora sentito di quel vescovo francese che sta lottando affinché tutte queste riforme vengano abrogate, e sono già in molti a seguirlo.»

    «E chi sarebbe mai questo vescovo che pensa di fare guerra al Papa?»

    «Lafebre, Lefebe... insomma... adesso il nome non è così importante... l’importante è che si stia opponendo a questa moda all’ecumenismo, che sta dando a tutte le false religioni la libertà d’espressione.»

    Alma abbassò lo sguardo poi, quasi con un accenno di sfida:

    «Staremo proprio a vedere se questo francese riesce a imporsi sulle decisioni prese dal vicario di Cristo».

    «Vedremo, vedremo. Ora muoviti, che questa sera vorrei anche cenare.»

    Don Silvio si ritirò nel suo studio deluso dal fatto che, a dispetto della sua cultura, non fosse riuscito a convincere delle sue idee una donna poco colta, e poco competente sui temi teologici, come Alma.

    «Non riesco a convincere delle mie opinioni una servetta ignorante, come potevo pensare di persuadere questi senzadio di Collombardo a farsi seppellire nel nuovo cimitero!» bofonchiò tra sé il sacerdote.

    Il sindaco, rivolgendosi a don Silvio, non era conscio di quanto il religioso si sentisse oramai esautorato all’interno della comunità. Il prete aveva vissuto in un’epoca in cui l’abito talare era sinonimo di autorità e non riusciva a capacitarsi di come i tempi stessero cambiando.

    Deluso dall’insuccesso del sacerdote, il ragioniere Viscosi si rivolse al medico, il dottor Aldo Chechiotti, in modo che cercasse di convincere gli abitanti di Collombardo della necessità di servirsi del nuovo cimitero. Il sindaco sperava che il carisma e il prestigio del camice bianco avrebbero esercitato la loro autorevolezza sulla ingenuità dei paesani.

    Il dottor Chechiotti, in realtà, non poteva essere considerato un medico che onorasse il camice bianco che indossava, infatti svolgeva malvolentieri la sua professione, senza interesse né passione. Si era laureato in seguito alle insistenze di una vecchia zia che, smaniosa di avere un nipote col camice bianco, aveva minacciato di escluderlo dal testamento se il suo desiderio non fosse stato esaudito.

    Aldo, a dispetto della gelida scientificità della medicina, era molto appassionato di pittura e avrebbe voluto trascorrere la propria esistenza tra tele e pennelli. Nei fine settimana, infatti, saliva sulla sua Lancia Fulvia e girovagava per la Valle di Susa, ricercando qualche scorcio di paesaggio agreste da ritrarre.

    Il suo stile pittorico, in realtà, era scialbo e ordinario, privo di qualsiasi originalità e, quelle poche volte in cui si era arrischiato a esporre i suoi quadri in una mostra, le reazioni dei rari visitatori erano state molto tiepide. Il dottore cercava di giustificarsi dichiarando di essere un discepolo dell’arte naïf, ma la mediocrità del suo dipingere traspariva da ogni tela, e senza alcuna esitazione si poteva dichiarare che a Collombardo non vi fosse un novello Antonio Ligabue.

    Il medico era intento a lavare con l’acquaragia i suoi pennelli quando il sindaco irruppe trafelato nella sua abitazione:

    «Dottore, lei è un uomo di scienza, convinca questi bifolchi, il mio futuro politico è nelle sue mani!»

    Il medico, colpito dalla veemenza del primo cittadino, si fece spiegare la natura del problema. Poi, approfittando anche dello stato di turbamento del ragioniere Viscosi, contrattò la propria disponibilità ad aiutarlo con una mostra espositiva dei suoi quadri presso la sala consigliare del municipio.

    Da quel giorno iniziò ad accompagnare ogni visita con:

    «Quando ero studente ho osservato sezionare molti corpi, e non ho mai visto un’anima; non dobbiamo temere ciò che ci aspetta dopo la morte, abbiamo solo il nulla davanti a noi. Quindi un luogo di sepoltura vale l’altro!»

    In questo modo, smentendo la dimensione spirituale della vita, confidava che nessuno avrebbe più temuto di essere il primo inumato nel nuovo cimitero. Poco alla volta, però, i compaesani cominciarono a disertare il suo studio. A scandalizzarli non fu l’attestato di ateismo, ma quel continuo contrastare le loro volontà. Che ci fosse una vita eterna oppure no, nessuno intendeva essere accolto per primo tra quelle mura.

    Il politico, realizzando che né l’autorità spirituale della Chiesa né l’ascendente della scienza riuscivano ad aver ragione sulla superstizione dei cittadini, ritenne che solamente l’inveterata istituzione dei Carabinieri potesse imporre un tale obbligo.

    «Maresciallo, lei in paese è un’autorità e tutti l’ascolteranno, cerchi di convincerli!» Questa fu la supplica del sindaco.

    Il milite allora si cimentò in alcune arringhe:

    «Il riempire a dismisura il vecchio cimitero è un attentato alla salute pubblica, sono costretto a imporvi l’utilizzo della nuova costruzione».

    Il maresciallo Ortofresco ripeteva questa ingiunzione sulla piazza di Collombardo e, non abbastanza soddisfatto dal numero di uditori, sovente si affacciava sull’uscio dell’osteria per intimare agli astanti di seguire le sue disposizioni.

    Il maresciallo era giunto a Collombardo ben quindici anni prima, salito in valle da un quartiere operaio di Torino, vestito con l’uniforme elegante da brigadiere. I genitori, un nerboruto battilastra e un’energica casalinga, lo avevano immaginato in divisa sin da bambino, lui, figlio di umili lavoratori, sarebbe diventato un devoto servitore dello Stato, senza più il bisogno di avere le mani callose come il padre.

    Il bambino, con la mente libera e un po’ anarchica tipica dei fanciulli, non era molto convinto della scelta dei genitori. Come molti dei coetanei avrebbe ambito a divenire un audace calciatore o un ciclista vigoroso, e non avrebbe voluto conoscere la rude disciplina di una caserma. Crescendo, però, capì che i sogni di un bambino sono destinati a dissolversi appena deve chiedersi, giudiziosamente, quale lavoro intenda effettivamente svolgere per il resto della sua vita. Fu così che da giovanotto entrò nella scuola sottufficiali dove, non volendo deludere i suoi genitori, riuscì a divenire un ligio carabiniere.

    Con gli anni, sulle spalline della sua divisa apparvero i gradi di maresciallo, non tanto come riconoscimento per particolari meriti, ma per gli automatismi tipici della burocrazia italiana. Il maresciallo Ortofresco non si era mai distinto in acute attività investigative o in gloriosi atti di coraggio, ma si barcamenava annoiato tra le monotone consuetudini delle caserme situate in paesi sperduti e pacifici. Ogni mattina prendeva servizio confidando che nessuno avesse l’azzardo di commettere qualche reato, in modo da poter trascorrere la giornata seduto alla sua scrivania o sul sedile della campagnola.

    Anche quella volta non si distinse per l’impegno con il quale cercò di essere utile alla causa del sindaco. Dopo alcuni giorni il sottufficiale decise di sospendere quei fervorini perché tra i paesani iniziò a serpeggiare un malumore nei confronti dell’«Arma», e il fuoristrada dei Carabinieri fu addirittura oggetto di una breve, ma violenta, sassaiola.

    Il sindaco, ormai rassegnato, aveva convocato il consiglio in una seduta straordinaria ed era deciso a presentare le proprie dimissioni ma, quella stessa mattina, il dottore si presentò alla sua abitazione.

    «Il signor Raffaele è molto malato, sta morendo!»

    Il politicante rimase impassibile nell’udire la notizia.

    «Ma che cosa me ne importa di quel vecchio vagabondo, ma che si tolga finalmente dai piedi!»

    «Sindaco, potrebbe essere lui il primo inumato.»

    «Dottore, lei è un genio! Ma è sicuro? Come fa a sapere che sta per morire?»

    «Questa mattina ero impegnato nel consueto giro di visite quando ho visto quel vagabondo che boccheggiava steso vicino alla fontana del municipio. Anche se non potrà mai pagarmi, l’ho visitato con lo stetoscopio e non si preoccupi, signor sindaco, in anni di professione non ho imparato a salvaguardare una vita ma a prevederne la morte sì. Raffaele si sta spegnendo piano piano, non riuscirà a vedere il prossimo inverno. Oramai le pareti del suo cuore sono fatte di carta velina.»

    «Fatelo venire qua e lo convincerò a farsi seppellire nel nuovo camposanto.»

    Il povero Raffaele era sempre vissuto ai margini di quella comunità. Il padre non si era mai fatto conoscere e la madre lo aveva abbandonato quando lui era ancora bambino, la sorella si era sposata con un perdigiorno e si era trasferita in un altro paese. Raffaele sopravviveva chiedendo l’elemosina e rubacchiando negli orticelli un po’ isolati, non poche volte era stato costretto a portar via il cibo a dei cani.

    Aveva trascorso la sua grama vita errando da un angolo all’altro sempre sperando di trovare la pace e la quiete, ma il freddo e la fame non avevano mai smesso di tormentarlo.

    Era frequente vederlo, solo e ramingo, addossato a qualche muro mentre teneva in mano un cappello vecchio e sfondato. I suoi occhi, arrossati dalle pene e dalla polvere, erano tenuti perennemente bassi, come se un’ultima stilla di orgoglio volesse evitargli di incontrare lo sguardo di coloro che in modo disdegnoso lo squadravano.

    Raffaele, ogni domenica mattina, osservava le coppie che, sottobraccio, si recavano a messa.

    «Avere una donna deve essere bello!» pensava il buonuomo guardando quelle signore, eleganti e imbellettate, che si accompagnavano con i loro mariti.

    Alcuni anni prima, Raffaele aveva

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