Le cattedrali dell'industria: Un'insolita storia di management tra Olivetti, Fiat e Telecom
Di Mario Rosso
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Anteprima del libro
Le cattedrali dell'industria - Mario Rosso
© 2023 Guerini Next srl
via Comelico, 3 – 20135 Milano
http://www.guerini.it
e-mail: [email protected]
Prima edizione: giugno 2023
Ristampa: v iv iii ii i 2024 2025 2026 2027 2028
Publisher: Michele Spinicci
Copertina di Donatella D’Angelo
Printed in Italy
ISBN 978-88-6896-529-7
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.
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titleA David e a Giorgio
Chi ha da percorrere 100 miglia consideri 90 come la metà.
Kenzo Awa
E qual è quei che disvuol ciò che volle…
Dante, Inferno, canto II, v. 37
INDICE
Forse un epilogo
L’infiltrato
Cronaca, storia e memoria
Un tentativo di fuga: il saggio professore
Prestato al management: composto instabile
Umano, forse troppo
Olivetti
Le signore, l’officina, l’alienazione
La stanchezza dell’ideale
FIAT: nella cattedrale dell’industria
L’Istituzione Totale
Il primo mentore
La fonderia e la fabbrica
L’odore del lavoro
Un comune eroe borghese
Aspiranti sociologi e conflitto
Negli anfratti del Gruppo
L’ingegnere e il filosofo
Nelle viscere di Orléans
Un clandestino ai piani alti. Le vite degli altri
Dalla Bovisa a Pittsburgh
Il primo incarico
Le tre Italie
Capo del Personale
Il potere: vincere
San Giorgio e la Ruggine
La mia America
Un saggio errore
LA RINASCENTE: dietro le vetrine
Paradiso delle signore, ma non dei manager
Scontro di stereotipi
Un vero manager
Le corazzate della distribuzione
Un benvenuto rovente
La Voce del Padrone
Alta tensione
NEW HOLLAND: la sostenibile leggerezza del management
L’emergenza rende liberi
Strategie e narcisismo
Manager e ambizione
Globalizzar e trasumanar
Tangentopoli e la Controriforma
ROMA
Val bene una lobby?
Globuli anonimi
TELECOM: visione e illusione (great expectations)
Un decennio svanito
I mesi dimenticati
I Barbari alle porte
OPA tragica: una farsa molto seria
Golem
Ufficiale e forse gentiluomo
La scuola padana
La decisione del lupo
Transizione
Una sconfitta annunciata
Dissenso e comprensione
ANSA: un brillante futuro dietro le spalle
Avvicinamento
Via della Dataria
Integrazione frantumata
L’Ambasciatore e il Direttore
Una mission ignorata, dimenticata
Uno straordinario patrimonio. Sprecabile
Trasformarsi o agonizzare
Strategia e illusioni
Azionisti per caso
La prepotenza e la codardia
Giornalisti
TISCALI Typhoon
Imprenditore, manager, padrone e messia
Il peso del passato
La tempesta perfetta
Il ventre molle dell’UK
Negoziare e trasalire
Si salvi chi può
Non solo fenicotteri
Quando la sopravvivenza è una vittoria
Il resto
Postfazione (ed excusatio deontologica)
FORSE UN EPILOGO
Ogni due giorni un’aquila divora il fegato di Prometeo, incatenato dagli Dei alle alte rupi del Caucaso. Ogni due giorni il fegato ricresce, per consentire la ripetizione senza fine dell’eterno supplizio.
Ma di quale terribile colpa si è macchiato Prometeo per meritare una tortura così atroce e senza remissione? Ha voluto «agire a favore degli uomini», dice Eschilo; ma che significa?
Contrariamente a quanto ci insegnano a scuola, e viene tramandato dalla tradizione letteraria e accademica, non si tratta della scoperta del fuoco e con essa della capacità tecnica di utilizzarlo. No, si parla di una, anzi della condizione fondamentale che consente agli uomini di vivere pienamente la loro vita: la facoltà di dimenticare la morte. «Ho distolto i mortali dal tenere gli occhi fissi sul loro destino», afferma Eschilo nel Prometeo Incatenato¹. Infatti solo dimenticando la propria finitezza, l’inevitabilità del destino, e quindi la vacuità di ogni cosa che facciamo (la Vanitas Vanitatum dell’Ecclesiaste), l’uomo può trovare la forza, la motivazione, e l’incoscienza, di vivere pienamente, proprio «come se…». E questo regalo della dimenticanza della morte ha funzionato egregiamente, e in modo sempre più perfezionato ed efficace. La rimozione della idea stessa (e dei luoghi dove essa si realizza), l’ospedalizzazione e la marginalizzazione della sofferenza pre-morte, il mito ossessivo della giovinezza e del wellness, la morte come un incidente inaccettabile e ingiusto, non naturale anzi. «Incredibile!», «Non ci posso credere!», «Ma come è successo?» sono le espressioni con cui si accoglie ormai sempre la notizia di un decesso, o meglio di una «scomparsa», come se fosse qualcosa di magico, virtuale. Si moltiplicano i casi di processi intentati alla classe medica da parenti che devono «incolpare» qualcuno della morte dei loro cari. Se no sarebbero costretti ad accettare l’idea che è normale, inevitabile, e quindi toccherà anche a loro…
E il fenomeno ha ricevuto un’incontenibile e moderna accelerazione dalle tecnologie e dai modelli di comportamento propri dell’attuale digital age.
Recentemente, per un importante cambiamento nelle mie attività lavorative, ho dovuto abbandonare il mio smartphone per passare a un modello nuovo, più moderno, con un diverso numero telefonico, mail, account e quant’altro.
Seguendo la procedura di migrazione dei dati e delle applicazioni da un terminale (si dice così) all’altro, che implementavo come sempre meccanicamente, mi sono questa volta bloccato di fronte a uno dei tanti step di configurazione, alla domanda: «Hai 1.065 contatti: trasferire sulla memoria integralmente o selezionare?».
Mille e sessantacinque contatti; una enormità!
O forse no, dipende. In fondo molti dei miei ultimi lavori, o incarichi, erano o avevano forti componenti di relazione, di rete, di lobby, e i contatti si sono accumulati in parecchi anni.
Ma qui non si tratta di «amicizie» da social network più o meno giovanilista, che spesso valgono poco più del relativo click su «accetta» o «connetti». No, si tratta sempre di relazioni reali, incontri, comunicazioni, riunioni, negoziazioni, spesso ripetute frequentazioni, pezzi di storie personali. Come è possibile che ne abbia 1.065? Se decidessi di rincontrarli uno alla volta, uno al giorno, ci vorrebbero tre anni!
È il momento e l’occasione di capire, di analizzare bene che cosa c’è lì dentro, di rifletterci, prima ancora che di fare pulizia… Vediamo meglio. Per primi mi saltano agli occhi nomi e riferimenti di colleghi o capi degli ultimi anni, che hanno fatto importanti passi in avanti, o grandi carriere. Come le abbiano fatte, ognuno è una storia a sé. Ora sono in vistose posizioni di vertice di grandi apparati: utilities, telecomunicazioni, editoria, trasporti… Con grande probabilità, nonostante io abbia ancora tutti i loro numeri privati, non risponderebbero alle mie chiamate. Non mi scandalizzo: conosco troppo bene la sindrome di angosciata onnipotenza indotta da certe posizioni, che costringe a sacrificare i comportamenti e i valori più umani a vantaggio dei codici di inaridimento carrieristico.
Vicino a questi nomi, diciamo così dei «vincenti», per contrasto appaiono quelli dei tanti ex potenti, nel management o nella politica, o nel mondo intermedio degli apparati di servizio al potere. Molti rimossi, alcuni rifiutati, tanti confinati nei nebbiosi territori marginali della quasi notorietà, e i più virtualmente inesistenti anche perché, in realtà, mai veramente esistiti. Certo non come persone, ma solo come ruoli e posizioni di potere sostenute dal sistema: una volta usciti dal ruolo… eccoli diventati ectoplasmi.
Per onestà, mi chiedo se in questo caso sarei io a non rispondere alle loro eventuali chiamate.
Vi è poi un piccolo gruppo, ma emotivamente impegnativo, i veri perdenti, puniti, i reietti: chissà per quali errori, superficialità, furbizie, talvolta solo per essersi trovati nel posto o nel momento sbagliato, sono stati spazzati via e ora qualcuno è fuggito, espatriato, qualcuno già rovinato come professionista, e spesso come uomo, qualcuno sta espiando duramente i propri errori con la privazione della libertà. Più passa il tempo più per molti di loro mi sento di mantenere un ricordo umano di comprensione e di assoluzione. Mah!
Poi c’è la grande categoria dei clientes, massa composita di clienti, collaboratori, giornalisti, commerciali, consulenti e varia umanità, tutti uniti da una comune facoltà: l’attitudine a sparire e rendersi assolutamente irreperibili nei momenti in cui si è in difficoltà, o anche solo quando non si ricoprono posizioni di potere direttamente spendibili, utili o utilizzabili. Facoltà compensata però dalla capacità altrettanto magica di riapparire – appena il vento cambia, o dà segni di poter cambiare – sull’onda di un entusiastico e per certi versi pateticamente autentico rigurgito di ammirazione, amicizia, familiarità, disponibilità.
Ma in fondo, devo essere sincero, tra tutti questi la scelta non è difficile tra save e delete. Nessuno ha l’esclusiva della valutazione morale, o la legittimazione a giudicare bocciando o promuovendo. In fondo si è tutti nello stesso sistema, nello stesso gioco e ambiguità; il criterio è chiaro: manterrò quelli che in qualsiasi futuro e a qualsiasi titolo mi potranno essere utili, e cancellerò gli altri. Cinico? Ebbene sì, forse cinico, o solo un saggio disilluso.
Ma ora sul fondo rimane un’ultima categoria di nomi, insospettati e più silenziosi degli altri, e tuttavia in attesa ineludibile di una risposta. Mi sorprendo di trovarli ancora lì, non sono pochi, parecchie decine, mi paiono tantissimi: ognuno di loro pesa come un macigno. Sono quelli che non ci sono più, i morti che hanno lasciato il loro segno, il loro testardo sigillo digitale sulla mia lista: numero di telefono, indirizzo, mail, incarico… Alcuni risalgono a qualche anno fa. Perché non li ho cancellati? Forse il dono di Prometeo ha funzionato troppo bene se è vero, e lo so, che mi sono comparsi davanti innumerevoli volte e io non li ho mai più veramente visti, li ho ignorati, resi inesistenti, trasparenti, impalpabili.
Ecco il nome di un famoso giornalista e scrittore, conosciuto bene ai tempi del mio incarico editoriale, già osannato e oggi completamente rimosso. Ecco un brillante e saggio direttore di giornale, colto e vitale; un grande diplomatico, ricco di cultura e di nobiltà d’animo, e mio stimato Presidente; consulenti direzionali; miei mentori d’altri tempi e amici; un giovane collaboratore portato via in pochi mesi da un cancro feroce di cui conservo anche le ultime profonde e dolorose mail; un Presidente della Repubblica che ho frequentato con continuità –e qualche disagio – e tanti altri straordinari colleghi, altri amici e parenti, naturalmente. Riconosco anche il numero di telefono di mia madre, scomparsa più di dieci anni fa.
La cultura e la tecnologia digitale ci hanno progressivamente espropriato della necessità e del privilegio di avere la nostra memoria profonda e la conoscenza. Ci vogliono far credere, e ci stanno riuscendo, che l’avremo sempre disponibile e pronta al nostro servizio: basterà un semplice click su Google.
Eppure pian piano la memoria non è più nostra, l’abbiamo delegata, outsourced ai nostri smartphones e alle loro applicazioni, archivi, memorie e supporti digitali.
E così il gesto tecnico e operativo di razionalizzare i nostri file, e di scegliere tra salva e cancella (save/delete), ha sostituito, ma banalizzandolo e svuotandolo di senso etico, il processo interiore e sociale che ci spinge e ci pressa in continuo a scegliere tra ricordare (ancora)/dimenticare (per sempre).
Forse per questo finora non ho avuto la fermezza di affrontare la scelta, le scelte.
Mi è mancato il coraggio di sancire, con la cancellazione del contatto, l’accettazione del fatto che ho già dimenticato, confessare che li ho già abbandonati, ho completato i seppellimenti, ho riconosciuto la necessità, e la colpa, dell’ultimo tradimento.
E forse, nell’egoismo meschino ma troppo umano della persona che nell’atto del «cancella» intravede e rifiuta il gesto di chi un giorno, inevitabilmente, per lo stesso motivo cancellerà il nostro «contatto».
Are you sure you want to delete the contact «Mario Rosso»? (sostituire il nome a piacere)
Answer: YES/NO
¹ Eschilo, Prometeo Incatenato, v. 238, in AAVV, Il volto della Gorgone, a cura di Umberto Curi, Mondadori, Milano 2001.
L’INFILTRATO
Cronaca, storia e memoria
Come ho avuto modo di raccontare¹, è stato per me molto difficile ricostruire, anche in linee generali, la storia della mia famiglia, specialmente per la ritrosia dei miei genitori, l’occultamento che hanno sempre operato del loro passato, la coltre di buio che hanno testardamente steso sulla propria storia e delle loro famiglie. Per molto tempo ho attribuito questo atteggiamento al loro carattere riservato, austero, geloso, comune d’altra parte a tutti i sardi. Più recentemente invece, non so se ho improvvisamente capito oppure ho solo cambiato idea, mi pare di avervi ritrovato una logica. La stessa delle motivazioni con le quali, ai miei tempi di scuola, si spiegava il fatto che la Storia, materia di insegnamento, dovesse fermarsi alla fine del secolo precedente, l’Ottocento. Sì, forse nei casi più azzardati si sarebbe potuto arrivare al 1910, mantenendosi ben lontani però dalla Prima guerra mondiale. Figuriamoci dalla Seconda. Non si può parlare in modo corretto e obiettivo di avvenimenti troppo recenti – spiegavano i professori – perché ne siamo tutti direttamente o indirettamente coinvolti e quindi testimoni di parte, giudici inaffidabili. Cui manca la necessaria lucidità per vedere distintamente, capire, accettare, ed evitare di fare errori, accreditare ingiustizie, rinfocolare inutili passioni. Gli anni recenti non decantati non costituiscono tema di storia, ma cronaca e come tale turbolenta e manipolabile. Mi è tornato prepotente alla coscienza questo problema perché ora anche io, senza saperlo o volerlo, ho dovuto attendere almeno qualche anno prima di tornare con la memoria e con il cervello sul mio passato manageriale. Senza questo, il libro sarebbe stato un pamphlet, un instant book, una cronaca vissuta, appunto. E la saggezza di questo approccio è confermata anche dal disagio che mi è ancora rimasto nel parlare delle mie ultime e più fresche esperienze: quelle in ANSA e alla Tiscali, nei confronti delle quali il raffreddamento delle passioni e la messa a fuoco dello sguardo – analitico, storico, scientifico – non si sono del tutto compiuti. Non ancora «spettatore disinteressato», o indifferente, l’atteggiamento che Husserl raccomandava ai suoi discepoli aspiranti fenomenologi (unbeteiliger zuschauer).
Forse è vero che il tempo è per la memoria un provvidenziale disinfettante: sterilizza le passioni, fa decantare i ribollimenti interiori, aiuta la messa a fuoco. Come l’alcol, se in dose giusta disinfetta, se troppo brucia. Veritas filia temporis.
Lo stesso senso del tempo che faceva dire a Borges, credo, che chi non ha passioni a vent’anni non ha cuore, chi ha ancora passioni a sessanta non ha cervello…
Un tentativo di fuga: il saggio professore
Nel periodo tra la conclusione degli esami universitari e la discussione della tesi decisi di affrontare il servizio militare, un passaggio che avevo quasi totalmente rimosso. Credo che implicitamente l’avessi sempre considerato un adempimento inadatto, alieno, e quindi incompatibile con il mio futuro da filosofo: nel percorso della fenomenologia del mio spirito mi era evidente che non c’entrava nulla. E dunque in qualche modo mi sarebbe stato risparmiato. Mi sbagliavo. Dunque presentai, con una certa ritrosia e senza grandi speranze, la domanda per essere ammesso al corso allievi ufficiali. Sostenni tutti gli esami e i test e dopo poche settimane ottenni una inaspettata risposta positiva. Unico laureato in filosofia tra la divertita sorpresa dei miei compagni di corso, tutti ingegneri, fisici, matematici, venni accettato e inviato alla scuola ufficiali di Bracciano, per diventare sottotenente di Artiglieria Corazzata.
Un’esperienza molto impegnativa che ricordo anche interessante, divertente e molto emancipatoria. È così che, quasi obtorto collo, mi trovai a misurarmi con un impegno a forti contenuti manageriali, trascorrendo quindici mesi di vero confronto con l’indipendenza, la solitudine, la responsabilità, l’esercizio dell’autorità, buona e meno buona, esercitata e subita. Ha inciso profondamente nella mia maturazione e contribuito a solidificare capacità e sensibilità che si sono rivelate essenziali nel corso del mio futuro lavorativo. Avevo dovuto e anche voluto, per forza di cose, scartare l’idea e l’ambizione originaria, quella di continuare nel mondo della «cultura», all’università, come ricercatore o docente, opzione totalmente affondata nel disorientante colloquio avuto con il Professor Pareyson. Alla fine non mi rimase che cercarmi e trovarmi un lavoro.
In un primo tempo avevo preso in considerazione un periodo di iniziazione come professore in qualche liceo, confortato dal fatto che contemporaneamente Gavina, la mia futura moglie, aveva cominciato a fare esperienza di insegnamento. Avevamo di fronte, in modo un po’ confuso, un ideale di vita e di serenità modesto e sentimentale, sperduto e con connotazioni avventurose, un po’ romantiche. E se possibile con risvolti sfruttabili letterariamente. Nel retropensiero non rinunciavo però a prospettive di successo e di gloria: non mi vedevo come un professore coscienzioso e ingrigente, ma come un luminare apportatore di cultura e saggezza in luoghi lontani, ingiustamente trascurati, la cui grandezza sarebbe rifulsa ancora più limpida proprio perché modestamente appartata, in attesa della giusta scoperta. Un diamante prezioso in una scatola di cartone. Forse avevo in mente la figura oleografica del medico condotto di paese, in struggenti paesaggi rustici e depressi, apportatore di saggezza e umanità, in certi racconti del primo Novecento, come il dottor Manson de La cittadella, allora serie televisiva di successo. Certo, anche rispetto agli ideali fanciulleschi, seguendo i quali avrei aspirato a diventare il Corsaro Nero, o Ivanhoe, o anche Aiace Telamonio, non si sarebbe potuto negare un ripiegamento riduttivo. D’altra parte avevo capito già da tempo che la mia dote principale non era il coraggio fisico (che uno, dopotutto, «non se lo può dare»), neppure il gusto dello scontro, la gestione del conflitto, e mi orientavo naturalmente verso modelli di successo o di affermazione che non richiedessero lotte, contrasti o l’uso esplicito della forza e della sopraffazione; piuttosto quello del grande saggio, atarassico ma nondimeno ammirato e rispettato, un riferimento per ampi e differenziati ambiti culturali. Forse fu la fortuna, la provvidenza (quella minuscola), il caso, o l’effetto di qualche deprimente e spoetizzante esperienza di insegnamento come supplente nei licei di Torino, sta di fatto che una improvvisa ma tempestiva illuminazione mi svelò di colpo il livello di disastro cui sarei, e saremmo, andati incontro se avessimo proseguito su questa abborracciata idea. Tra i tanti, uno dei sentieri interrotti nella vita, Holzwege, per il quale non sento né la curiosità né il bisogno di sapere dove mi avrebbe portato.
Rassegnato, e trascinato dalla forza inerziale che allora a Torino risucchiava le nuove leve dei laureati verso il mondo del lavoro nell’industria, mi assoggettai all’inevitabile prova di realtà, le «domande» di assunzione: non on line, naturalmente, internet e smartphone erano di là da venire; dunque, moduli e lettere, ordinate, formali, burocratiche. Attraverso la domanda indirizzata alla Fiat ricevetti l’offerta di una borsa di studio annuale, una specie di master ante litteram della Unione Industriali di Torino per la Gestione del Personale, e frequentai stage di qualche mese in GFT (Gruppo Finanziario Tessile), all’Olivetti di Ivrea e alla Fiat. Era il primo incontro