Radio Wilimowski
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Anteprima del libro
Radio Wilimowski - Miljenko Jergovic
Il libro
Quando nel giugno del 1938 un professore in pensione di Cracovia parte alla volta dell’Adriatico con il figlio gravemente malato, sa soltanto che deve raggiungere un misterioso hotel nell’entroterra di Crikvenica, per cercarvi la pace.
Sono i giorni del Campionato mondiale di calcio. Tutti sono incollati alla radio: la voce commossa dello speaker racconta la magica partita in cui Ernest Wilimowski diventa leggenda. Mentre la Polonia lotta contro il Brasile, nell’animo del vecchio professore si romperà qualche cosa, e il figlio confesserà il suo sogno più bello.
Jergović ci racconta l’attimo prima dell’Apocalisse, l’attesa dell’esplosione del mondo e il rapporto struggente fra un padre e un figlio sulle rive della costa adriatica.
L’autore
Miljenko Jergović (1966), romanziere, poeta, giornalista e sceneggiatore, nonché maestro del racconto breve, è senza dubbio uno dei maggiori talenti letterari della sua generazione. Nasce a Sarajevo, dove compie studi in filosofia e sociologia. Nel 1994, durante l’assedio della sua città – magistralmente tratteggiato nella raccolta di racconti Le Marlboro di Sarajevo (premio Erich-Maria Remarque in Germania) – decide di lasciare la città natale per trasferirsi a Zagabria, dove tuttora vive e lavora. La guerra, l’assedio, la fuga, il doloroso disgregarsi di una comunità, la nostalgia, ma anche gli affreschi commoventi e fiabeschi della propria infanzia, l’intrecciarsi di destini familiari e collettivi, saranno temi ricorrenti anche nelle opere successive.
I suoi libri sono stati tradotti in una ventina di lingue e la lunga serie di premi e riconoscimenti letterari – tra cui, in Italia, il Grinzane Cavour per il libro Mama Leone e il premio Tomizza – lo consacrano non solo come autore di fama internazionale ma anche come autentico erede dell’eccellente tradizione narrativa bosniaca e della migliore letteratura del Paese che una volta è stato la Jugoslavia.
estensioni – 5
Bottega Errante Edizioni
Via Pradamano 4, 33100 Udine
www.bottegaerrante.it; [email protected]
Traduzione: Elisa Copetti
Editing: Esagramma
Grafica e impaginazione: Federica Moro
Ebook: Giuliano Boraso
Coordinamento editoriale: Mauro Daltin
Foto di copertina: Andi Weiland | wheelmap.org
Questa foto è rilasciata nei termini della licenza
Creative Commons – Condividi Allo Stesso Modo 2.0
www.creativecommons.org
Copyright © 2018 Bottega Errante Edizioni
ISBN 978-8899-3683-64
Titolo originale: Wilimowski, Fraktura, Zagreb 2016
Bottega Errante Edizioni è un marchio di proprietà
dell’Associazione culturale Bottega Errante
(sede legale: corso Garibaldi 4/C, 33170 Pordenone)
Miljenko Jergović
Radio Wilimowski
Traduzione di Elisa Copetti
Bottega Errante Edizioni
a Kathi e Gordan
Vincere o morire¹
1 In italiano nel testo.
Era sabato, mattino presto, il 4 giugno 1938, quando sulla strada che sale verso il paese comparve un’insolita colonna.
Alla testa, sorreggendosi a un lungo bastone da pastore incurvato all’estremità, simile a un apostolo pazzo, procedeva un contadino alto, robusto, scuro in volto e baffuto, come fosse l’unico a conoscere la strada e tutti gli ostacoli che avrebbero potuto capitare alla colonna su quella via.
Di seguito avanzava un uomo magro e minuto, in un abbigliamento bizzarro, evidentemente uno straniero, con un abito nero da cittadino e una bombetta, una foggia che da quelle parti si vedeva soltanto ai funerali, oppure nelle casse da morto aperte, dove giacevano i capi delle casate danarose. Di età indefinita, poteva avere quarantacinque anni, ma pure settanta, come a volte è difficile dire della gente di città. Camminava rapido e diritto, come si affrettano gli uomini minuti che con la rapidità compensano l’assenza di autorevolezza del fisico.
A seguire veniva la cosa più insolita, senza la quale non ci sarebbe stato neppure questo racconto: una portantina, simile a quella vista l’inverno precedente, al cinegiornale su Lawrence d’Arabia, trasportata da quattro uomini di Crikvenica, tre giovani e un vecchio, già quasi ottantenne, che qualcuno più tardi aveva riconosciuto.
Quel che stava sulla portantina non si vedeva perché era coperto di garza bianca. Si intuiva soltanto una figura in posizione seduta, dalla testa enorme e le spalle strette, che di tanto in tanto si stirava, e allora sembrava non avesse braccia e gambe, bensì zampe, sottili e fragili, come di un polpo disseccato.
Dietro alla portantina camminava una ragazza che non poteva avere più di venticinque anni e che a bassa voce, in una lingua straniera incomprensibile, conversava con la figura sotto la garza, mentre poi, alzando la voce, in tedesco, si accordava con il signore magro.
Dietro di lei camminavano sei contadini, in fila, conosciuti, dei paesi circostanti oppure di Crikvenica, che trasportavano valigie piene di cose. Le valigie erano giganti e ingombranti, come se in esse si trasportasse l’archivio di una ditta importante che fosse andata in bancarotta o fosse in fuga dalla guerra, o come se appartenessero a dei ricchi, che in treno non viaggiano mai soli ma hanno sempre accanto una folla di portantini e di aiutanti che si prenderanno la briga di far arrivare ogni cosa a destinazione, di disporre, sistemare e posizionare in modo che tutto sia ordinato come lo era a casa, così che al termine del viaggio non si noti affatto di aver viaggiato, e che ogni luogo al quale si arriva sembri proprio quello dal quale si è partiti. Forse anche per questo i signori più ricchi sembrano un po’ annoiarsi sempre e dovunque.
In coda alla colonna, né vivo né morto, si trascinava un vecchio dalla barba bianca. Henrik.
Di lui per primo si seppe il nome, perché l’uomo magro si voltò alcune volte e gli chiese, prima nella sua lingua incomprensibile, e poi anche in tedesco, probabilmente perché lo capissero anche i locali e non pensassero che stava nascondendo qualcosa: «Henrik, siete vivo?». Al che il vecchio annuiva e annuendo dava conferma, ripetendo nel mentre alcune incomprensibili parole, sempre le stesse.
Albeggiava appena quando la colonna con la portantina attraversò il paese e proseguì, verso la montagna, alla Casa sveva.
Anche se sembrava che tutti dormissero ancora, e per strada non c’era nessuno, come pure per le valli e tra le vigne vicine, alla messa del mattino, nonostante fosse sabato, si affollò mezzo paese. La gente era venuta a sentire che cosa era accaduto all’alba. E non uno che domandasse per primo, ma tutti tendevano l’orecchio sperando che qualcun altro cominciasse a parlare. O non erano sicuri di aver avuto un’allucinazione, oppure volevano nascondere di non sapere qualcosa che, magari, avrebbero dovuto sapere. Tutti erano cauti e timorosi, non soltanto quel sabato, ma già da mesi e anni. Stavano arrivando tempi torbidi. Maček², il capo popolo, come loro tendeva l’orecchio; a Belgrado, il premier Stojanović giocava all’Hitler jugoslavo: mentre il popolo gli scandiva vo-đa, vo-đa, vo-đa, e come di fronte a uno specchio sonoro si udiva đa-vo, đa-vo, đa-vo³, doveva essere cauto, molto cauto, non scegliere precipitosamente una parte, fare attenzione a non dire tutto quel che sapeva. E alla fine apparire a tutti e a ciascuno come avesse scelto proprio la loro parte e di starci con tutta l’anima, ma tanto in sordina che gli altri, ai quali invece si contrapponeva, non lo notassero, per poter mostrare anche a quelli, non visto dai primi, di essere dei loro con tutto il cuore.
In quel silenzio, negli sguardi indagatori e in un racconto fatto di volti, di braccia forti da contadino e di dita robuste, lente nei movimenti, di un linguaggio che non si lascia tradurre in parole comprensibili a tutti, sebbene per quella gente, evidentemente, significasse e traducesse qualcosa, e a modo loro raccontasse fantasticando con la lingua delle dita, delle orecchie e dei volti e spiegasse gli insoliti accadimenti di quella mattina, l’unico che osò dire qualche cosa ad alta voce fu Aldo, detto l’Americano, che dopo trent’anni di lavoro in acciaieria, l’anno precedente era ritornato dall’estero, da Pittsburgh.
«È arrivato Karađoz⁴».
«È arrivato Karađoz» ripeterono confusi tra sé e sé e cercando di non dimenticare quel nome, così da saperlo riportare, una volta tornati a casa, ai più savi e anziani: al nonno paralizzato, alla nonna, allo zio paterno o materno, che sicuramente sapevano tutto dell’ospite senza nome, e di certo anche se per il paese era un bene o un male, e quanto male, per quale motivo fosse venuto proprio da loro e nel loro paese, perso lì, lontano dal mare e da ogni strada più importante, piantato ed edificato proprio in quel punto per non piacere a nessuno e perché nessun conquistatore sentisse la necessità di visitarlo, sottometterlo e appiccarvi il fuoco. Che significato poteva avere per un villaggio come quello e per i suoi abitanti l’arrivo dell’essere sulla portantina?
Tutti fecero finta di aver capito Aldo l’Americano e di sapere bene che cosa fosse un Karađoz. Annuivano preoccupati, ma non fecero domande. Le domande possono nuocere all’uomo peggio delle risposte. Dalle domande di solito si capisce chi non sa, in che punto è più vulnerabile e come lo si può ingannare.
Fino al tardo pomeriggio, quando il sole nel mese di giugno tramonta rapido e sparisce dietro ai monti, ed è piacevole sedere in cortile o sotto la pergola davanti all’osteria, nel paese si diffuse la notizia di Karađoz e del suo seguito, alla quale si mescolarono credenze popolari e informazioni recentissime, che qualcuno aveva letto sul quotidiano zagabrese Novosti o sul belgradese Politika, o che aveva riportato dai viaggi a Rijeka, Opatija, Trieste.
In questa storia alla fine ci sarà anche la verità più duratura su questo avvenimento, che verrà ricordato e tramandato con una sola parola una settantina di anni dopo, quando tutto ciò che accadde davvero sarà dimenticato, e nessuno in paese ricorderà più l’insolita colonna che passò diretta alla Casa sveva di primo mattino, il 4 giugno del 1938. Della casa sono rimaste soltanto rovine e all’interno le fondazioni, nelle quali, in mezzo a un enorme cespuglio di more, vivono solo le vipere, mentre in una grande vasca bianca, in cui un tempo si conservava l’olio d’oliva, oggi, su quel poco di terra che vi si è accumulata, cresce un piccolo fico, già piuttosto vecchio, che per mancanza di terra e di luce non prospera, ma che ogni agosto getta piccoli frutti vizzi. Tra le spine si insinua, sempre più raramente, qualche farfalla dalle fragili ali. Qui non c’è più niente e nessuno. A oggi tutto è dimenticato, tranne il nome Karađoz.
Tomasz Mieroszewski, così si chiamava il signore magro e minuto, era un professore in pensione dell’accademia mineraria di Cracovia. L’estate precedente gli era morta la moglie, Estera di nome, ed era ancora in lutto profondo. Senza di lei non se la cavava, e forse anche la sua venuta in quello sperduto luogo jugoslavo, lontano chilometri dalla nota Opatija, era un omaggio a quel disorientamento.
Si era sposato in età matura, quando lui stesso era convinto che sarebbe rimasto celibe, con lei, una bellezza galiziana che aveva quasi rapito ai genitori, portandola via da Czerniowce⁵, con la promessa che ne avrebbe avuto cura come del più grande tesoro della sua vita. Si era innamorato repentinamente, durante un viaggio più di lavoro che di piacere, in un’età in cui un uomo si riappacifica col fatto di aver mancato l’amore della vita e in cui impara a vivere solo, seguito da tutti i pregiudizi sociali e le maldicenze che seguono gli uomini soli.
Doveva essersi allentata la guardia che lo manteneva sano di mente e sufficientemente distante dalle altre persone, specie dalle donne, e in un attimo, in tre giorni passati in Bucovina, l’aristocratico professore di Cracovia, ben consapevole di tutte le conseguenze e degli effetti sulla sua discendenza, era mutato in un funambolo che, al cospetto di una città pazza, pronta a ogni farsa, dove ciascuno sa tutto dell’altro, sebbene tutti parlino con un’unica voce ma in una decina di