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A la vecchia ferriera
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E-book180 pagine2 ore

A la vecchia ferriera

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“A la vecchia ferriera” di Anna Vertua Gentile è un romanzo avvincente che esplora la vita in un piccolo villaggio italiano, dove una vecchia ferriera, ormai in disuso, diventa il fulcro di misteri e tensioni. La storia segue le vicende di una famiglia legata a questo luogo, intrecciando tematiche di lavoro, sacrificio e relazioni familiari. L’autrice, con la sua prosa raffinata, riesce a dipingere un quadro vivido della vita rurale e delle difficoltà economiche dell’epoca, creando un racconto coinvolgente e carico di emozione. Perfetto per gli appassionati di narrativa storica e di storie ambientate in Italia.
LinguaItaliano
EditoreVentus
Data di uscita21 ago 2024
ISBN9791256330270
A la vecchia ferriera

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    Anteprima del libro

    A la vecchia ferriera - Anna Vertua Gentile

    Anna Vertua Gentile

    A la vecchia ferriera

    Se la letteratura femminile italiana contemporanea potesse contare, nelle sue legioni, parecchie scrittrici del valore, dell’elevatezza, della coscienza artistica di Anna Vertua Gentile, nulla più la nostra letteratura femminile avrebbe da invidiare alle consorelle inglesi e tedesche, così ricche di nobili intelletti e di nobile arte muliebre. Perchè, in verità, Anna Vertua Gentile ha raggiunto la perfezione nell’opera sua di scrittrice; perfezione di concetti, di intendimenti, di esposizione; i suoi libri - che ormai sono moltissimi - hanno un carattere speciale, sia che appartengano alla pura arte narrativa, sia che trattino argomenti di educazione, sia che vengano rivolti all’attenzione dell’adolescenza. Anna Vertua Gentile non ha mai scritto un libro, così, per sport, per diletto, per unico scopo di lucro o anche semplicemente - come spesso avviene - per... scrivere un libro. Ella, nelle pagine de’ suoi volumi, versa tutto il tesoro del suo ingegno e della sua esperienza, col concetto preciso che l’ingegno e l’esperienza propria debbano giovare ad altri spiriti e ad altri intelletti, debban trovare le vie del cuore e del cervello altrui e recare in essi sensazioni, conforti, incitamenti, consigli utili e preziosi. E la prosa della eletta scrittrice corrisponde alla nobiltà del concetto educativo ed artistico; perchè è prosa limpida e morbida, piana ed eloquente, spontanea tanto che se ne va via come un ruscello d’acqua di monte: e così, quando Anna Vertua Gentile parla, attraverso a’ suoi libri, alle signore od ai fanciulli è sempre ascoltata con infinito piacere e con vivo interesse, perchè la sua parola, oltre che insegnare tante cose buone, oltre che narrare tante storie ricche di verità umana e di commozione sincera, suona come una placida musica domestica e la si starebbe ad ascoltare per un tempo infinito.

    Anna Vertua ha tutti i fascini delle migliori scrittrici inglesi: il profumo di gentilezza, la confidente bonarietà, l’atteggiamento famigliare, un senno profondo e non arcigno, una esperienza che si comprende fatta a proprie spese, una festosità simpatica e un fervore di espressione tali che le opere della cara Signora occupano, nella libreria di casa, il primo palchetto, quello più comodo, più alla mano, perchè ben spesso, in ore liete o in ore tristi, ci sentiamo il bisogno di rileggere quelle pagine semplici ed eloquenti e di vivere un poco ancora nel sodalizio intellettuale e spirituale della eletta scrittrice, che sa dir così bene tante buone parole e ci sa dare tanti consigli in modo così geniale e così cortese.

    Anche nel romanzo, Anna Vertua Gentile non lascia il suo nobile e semplice atteggiamento. Ella narra limpidamente, con una eloquenza efficacissima sotto modeste spoglie, senza ricerca faticosa di vocaboli preziosi, e senza periodar convulso, come a molti ed.... a molte pare sia indispensabile perchè un romanzo sia proprio perfetto. La signora Vertua Gentile neppure cerca, nello scrivere i suoi romanzi o le novelle sue, situazioni strane, casi eccezionali, tipi patologici, o ambienti fuori del comune. Niente di tutto quanto serve oggidì alla massima parte degli scrittori di romanzi. La nostra Signora invece attinge dalla vita, così com’è, ben convinta che la vita nostra e il mondo ed ogni persona viva ed ogni anima umana, con le sue colpe e le sue virtù, con le sue gioie ed i suoi dolori, con le tragedie intime dell’individuo e le grandi tragedie della collettività, offre ogni giorno, purtroppo, materia ed argomento a infiniti romanzi di grande interesse e di profonda commozione. Epperò nei romanzi e nelle narrazioni della Vertua Gentile, noi sentiamo i palpiti di tante anime che noi conoscemmo e che ci passarono accanto nella vita: noi vediamo scorci e figure, ambienti e personaggi che non ci sono ignoti, perchè sono della vita vera e non opera d’una fantasia: noi infine, nelle situazioni di idillio o di dramma, di letizia o di angoscia, ritroviamo infinite verità, balzanti su dai nostri ricordi e riflessi e che ci rammentano casi reali uditi narrare, o ai quali fummo indiretti spettatori, o che apprendemmo dalle cronache dei giornali, o da confidenze altrui, o dalla bocca, talvolta dalla bocca stessa, dei piccoli o dei grandi eroi del palcoscenico umano.

    Il nuovo romanzo di Anna Vertua Gentile, che oggi pubblichiamo, ha, nelle sue pagine, tutti i migliori pregi d’arte e di pensiero che l’eletta scrittrice possiede: epperò credemmo fare opera degna raccogliendo il romanzo - che già ha veduto la luce in un periodico - in volume, perchè abbia a restare e possa arricchire le librerie italiane, schierandosi - come gli spetta di diritto - tra i migliori esempi di ingegno femminile.

    L’EDITORE

    Da parecchi anni abbandonata e chiusa, la vecchia ferriera si era riaperta.

    Alle antiche macchine, arrugginite nell’inazione e scartate dal progresso, erano state sostituite delle nuove, di modello recentissimo, che lavoravano accordando il loro cupo rumore ai sordi tonfi del maglio e allo scroscio ininterrotto della cascata, precipitante con schiumoso salto dalla scogliera a picco del baratro nel fiume scorrente, grosso e minaccioso, fra i ripidi e selvosi monti della vallata selvaggia.

    Lavoro e vita erano ritornati nella pittoresca gola di quelle montagne. E vi erano ritornati per l’ultima volontà di Giorgio Lanciani, l’arcigno e solitario signore, nato e cresciuto nella borgata di riva il lago.

    Giorgio Lanciani, morendo, aveva lasciato il suo al nipote, figlio del suo unico fratello minore, che, in un impeto di collera e di prepotenza, egli aveva cacciato di casa giovinetto ancora, nè più aveva voluto rivedere.

    Ora il povero abbandonato giaceva nel camposanto della lontana città, ove aveva onestamente vissuto lavorando e ove aveva dovuto lasciare la vedova e gli orfani.

    Giorgio Lanciani, nel testamento, imponeva al nipote, che pure chiamavasi Giorgio, di riaprire la ferriera e di abitare la casina a questa annessa.

    E il nipote, che non aveva mai veduto lo zio, era venuto con la madre e le sorelle; aveva riaperto la ferriera, e si era messo, con l’energia dei suoi ventisei anni e con l’abilità di intelligente ingegnere industriale, a dirigere i favori dell’officina.

    Nella borgata di riva il lago aveva fatto meraviglia l’idea del vecchio signore defunto di far lavorare un’altra volta la ferriera. Erano ormai dieci anni e più che essa era chiusa, dopo la ruina causata - tutti lo sapevano - da una crudele vendetta del Lanciani - il perchè della vendetta nessuno lo conosceva - il quale abbatteva, per mezzo della concorrenza di una ferriera nuova e grandiosa fatta costrurre nel borgo stesso, gli sforzi della ferriera piccola e vecchia.

    La gente ricordava.

    L’ingegnere Ferrara viveva tranquillo nella casina presso la ferriera; passava la vita fra il lavoro e la famiglia: la giovine moglie e un amore di bambina.

    La piccola ferriera lavorava e l’ingegnere era su la via del guadagno.

    Che cosa fece il poveretto per inimicarsi il signor Lanciani? per destargli in cuore un così violento bisogno di vendicarsi, di ruinarlo?... Nessuno lo seppe mai.

    Quello che tutti videro fu la conseguenza fatale di quella inimicizia; una concorrenza sleale e schiacciante.

    Il signor Lanciani, lì per lì, aveva fatto costruire una ferriera nuova, grandissima, con macchine moderne; aveva chiamato di foravia meccanici e operai con l’esca della paga superiore, aveva attirato a sè i migliori lavoratori della vecchia ferriera. E il lavoro fervette, dopo soli pochi mesi, nella officina modello.

    L’ingegnere Ferrara aveva lottato con disperata energia, facendo sforzi prodigiosi per difendersi, per sostenersi nella impari lotta crudele. Ma, in fine, aveva dovuto soccombere.

    La vecchia ferriera venne chiusa. L’ingegnere rimase povero e quindi nella impossibilità di riprendere il lavoro.

    Fu uno sfacelo. Il povero giovine, a l’urto tremendo contro una forza tanto superiore a la sua, si abbiasciò; non ebbe l’energia di ricominciare altrove la vita di intelligente operosità; non ebbe il coraggio di ritrarre con uno sforzo supremo la moglie e la figlia dall’abisso. E lo scoraggiamento, il dolore, forse lo strazio di non poter salvare le sue adorate dall’orribile tuffo nella miseria, gli annebbiarono il sentimento. In un momento di disperazione si uccise, giù sulla sponda rocciosa del fiume, di faccia a la ferriera chiusa e silenziosa.

    I pietosi avevano eretto una croce di ferro su la roccia ove il poveretto era stramazzato.

    La gente ricordava il fatto triste e doloroso. Ricordava la subita partenza della vedova e della piccina e lo sdegno della disgraziata donna, quando il Lanciani, forse tocco dal rimorso, le aveva fatto offrire un soccorso.

    «La fame piuttosto dell’aiuto di quel miserabile! - aveva risposto la poveretta con gli occhi lampeggianti di sdegno per l’oltraggio di quell’offerta. E aveva soggiunto: - ditegli che nè io nè mia figlia non gli perdoneremo mai, mai!»

    E esasperata e pallida come una morta, aveva lasciato la casa, che era stato il suo dolce nido d’amore e che era già passata in possesso del Lanciani. Ed era partita, strascinandosi dietro la piccina spaurita e singhiozzante.

    Era stata una scena da far piangere i sassi... E tutto per la bieca, incomprensibile opera di Giorgio Lanciani.

    Da allora, della vedova Ferrara nè della figliuoletta non si era saputo più nulla. Erano forestiere; nel paese e nei dintorni non avevano parenti.

    Alcuni mesi dopo, il Lanciani chiudeva senza apparente ragione la ferriera e vendeva il fabbricato, che servì poi per una grande filanda.

    Ma da quel tempo il Lanciani divenne più taciturno e cupo di prima. Si ritirò dagli affari che lo avevano arricchito, facendo di lui, nato quasi povero, uno dei primi signori del borgo. Si staccò dai pochi amici che gli si conoscevano, si ridusse a vivere una vita silenziosa e solitaria.

    - Lo rode il rimorso! - si dicevano la gente fra di loro.

    - Si nasconde per ruminare il male nell’ombra! - mormoravano altri.

    - È un cane ringhioso; non può stare senza mordere - soggiungevano alcuni.

    - Non è altri che un disgraziato! - lo compativa il parroco, che era uomo di cuore e di senno.

    Che Giorgio Lanciani non fosse quel crudele egoista che dicevano parecchi, lo dicevano le molte opere di beneficenza che aveva fatto e che faceva ancora di quando in quando. Ma pur troppo, un niente bastava a cacciargli in petto l’acredine e il desiderio della vendetta. E allora cominciava la persecuzione sorda, costante fino all’estremo; e le sue vittime non erano poche. Lui danaroso, riusciva presto e facilmente a intralciare la via del guadagno ai malaccorti, che l’avevano, in qualsiasi modo, urtato; e aveva un’abilità tutta sua propria per piombarli nell’imbarazzo e nella povertà.

    - È più da compiangere che da maledire! - aveva esclamato il parroco dopo di averlo assistito negli ultimi momenti. -Ha vissuto senza affetti e senza intime e vere compiacenze, soprafatto da un carattere ombroso, irascibile e vendicativo. Nessuna mano pietosa gli chiuse gli occhi; nessuno lo rimpiange.

    E, schiettamente, non lo rimpiangeva neppure lui. Nonostante la sua caritatevole indulgenza e il suo cristiano compatimento, egli non poteva dimenticare il male fatto a non pochi poveretti; e sopra tutto non poteva dimenticare, che egli era stato causa della ruina della famiglia Ferrara, da lui amata e stimata.

    Il pensiero della vedova e dell’orfanella gli mandava ancora assai spesso in cuore un sentimento di turbamento e di angustia, che lo affliggevano.

    - Che sarà stato di quelle poverine? - si andava chiedendo. E le raccomandava a Dio con tacita e fervida preghiera.

    Ricordava con mesto rammarico le intime e serene ore della sera, passate alla casina della ferriera in compagnia dell’ingegnere, della sua signora, tanto colta e gentile e della bambina. Oh quella piccina, tutta bianca, biondissima, dalla personcina elegante e così cara nella sua innocenza!... Che non avrebbe egli dato per rivederla, per sapere almeno ove ella fosse, per sentirsi ancora chiamare da quella soave vocina penetrante: «Don Popò» come aveva imparato a cianciugliare il suo nome di Don Paolo!

    Quel «Don Popò» egli se lo sentiva spesso nelle orecchie, come una musica di affettuosi ricordi; una musica, che sempre trovava la via del suo cuore e lo rammolliva.

    - Deve avere vent’anni adesso - pensava. - Sarà cresciuta bene?... Vivrà?... O è forse morta? - sospirava. - Era così delicata!... Se vivesse e un giorno avesse da incontrarmi - soggiungeva -scommetto che mi riconoscerebbe subito e mi chiamerebbe «Don Popò!» come nei vecchi tempi!

    Quando seppe che la vecchia ferriera si era riaperta per volontà del defunto, e che nella casina erano venuti ad abitare l’ingegnere Giorgio Lanciani con la madre e due sorelle, egli aveva sentito un vivo desiderio di rientrare in quella casa, di rivedere i mobili lasciati dalla povera vedova ruinata; quei mobili che gli avrebbero rammentati tanti momenti di dolce intimità; aveva sentito il desiderio di vedere specialmente i ritratti appesi alle pareti del salottino, e in particolar modo quello ad olio, grande, al naturale, della piccola Maria. «Per quei signori - s’era trovato a pensare - quel ritratto non può fare nè caldo nè freddo; mentre a me sarebbe tanto tanto caro!»

    Ecco perchè, da che si era riaperta la ferriera, Don Paolo aveva preso a fare la sua passeggiata d’ogni giorno, lungo la stradetta della valle; ed ecco perchè egli si fermava spesso davanti la casina, con il breviario in mano e gli occhi pieni di desiderio e di curiosità.

    Quel giorno, uno splendido meriggio d’aprile, le due sorelle dell’ingegnere, intente ad annaffiare i i fiori sboccianti, lo videro fermo al di là del cancello.

    - Veh! - fece Ida additando a la sorella - Guarda chi c’è fuori del cancello, Paolina.

    Questa, posato l’innaffiatoio, corse al cancello, lo aperse, e invitò con timida insistenza il prete a entrare.

    - Resti servito signor Parroco!.... Favorisca di passare. La mamma sarà contenta di fare la sua conoscenza! e anche noi!

    Don Paolo, manco a dirlo, non si fece ripetere l’invito e seguì subito la fanciulla.

    La mamma, avvertita da Ida, che era corsa in casa ad annunciare la visita, apparve subito su la soglia della porta a vetri e ricevette il sacerdote con deferenza

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