Appunti Letteratura Italiana
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LE ORIGINI E
IL DUECENTO
ARTIFEX EDIZIONI
LE ORIGINI E
IL DUECENTO
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Accade molto spesso che i concetti di letteratura e di poesia vengano tra loro
confusi e considerati equivalenti; in realt essi sono ben distinti e come tali vanno tenuti
se non si vuole incorrere in errori grossolani. Rispetto a quello di poesia il concetto di
letteratura pi ampio, e quindi pi generico: accanto ai testi poetici, che non hanno un
significato necessariamente e realmente compiuto (o meglio, il significato solo una parte
della comunicazione che avviene quando si legge o si ascolta una poesia, mentre laltra
parte non verbale ma emotiva), essa ne comprende altri che nascono da un proposito di
ragionamento e di riflessione, quindi per semplificare dal desiderio di commuovere,
persuadere, esortare, satireggiare, ecc., o anche, dallistintiva esigenza di sfogo personale.
Va inoltre detto che la storia della letteratura considera sia gli scrittori che
appartengono in senso stretto alla storia della poesia, ma anche molti tra quelli che per il
contenuto delle loro opere sembrano piuttosto appartenere alla storia della filosofia, della
scienza o delle dottrine politiche. In altre parole, il concetto di storia della letteratura
tende a coincidere con quello, ancora pi generico, di storia della cultura; e se ne
differenzia solamente poich, nellanalisi di un materiale che pu sembrare a prima vista
alquanto eterogeneo, la storia letteraria circoscrive lambito delle sue competenze
dedicandosi ad esaminare, non tanto il contenuto sia esso teorico, pratico,
autobiografico, ecc. dei testi extra poetici, quanto il loro aspetto formale, lo strumento
espressivo che li accomuna (anche solo parzialmente) alle opere di poesia.
Naturalmente lelemento comune costituito dal linguaggio, che assume diverse
connotazioni a seconda che lo si consideri come strumento della conversazione
quotidiana, della scienza, delloratoria o della stessa poesia, ma che rimane pur sempre il
medesimo nella sua funzione e nella sua qualit di mezzo espressivo. Neppure le peculiari
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differenze che esistono fra il linguaggio scritto e quello parlato, tra il linguaggio filosofico
o quello scientifico, possono impedire che tra i diversi piani delluso linguistico venga ad
attuarsi un continuo scambio, e che tutti i linguaggi specializzati facciano richiamo ad
un fondo comune, senza il quale verrebbe a mancare la possibilit stessa della
comunicazione e della comprensione reciproca.
Oggetto specifico della storia letteraria che viene a coincidere con quello della
filologia, della storia della lingua, della storia delle poetiche e della stilistica dunque lo
studio delle trasformazioni e dello sviluppo del linguaggio, in quanto esso si determina
volta per volta in un sistema di forme, in un complesso di procedimenti tecnici, in un
distintivo atteggiamento del gusto, e si riflette in una retorica e in una concezione,
implicita o esplicita, dellarte. chiaro quindi che la storia della letteratura attinge il suo
pieno significato e il suo valore solo in quanto, caso per caso, si risolve in storia
individualizzante delle singole opere letterarie, e pi specialmente di quelle in senso
stretto poetiche. Queste ultime per altro richiedono, per essere veramente intese, di venire
analizzate nei loro elementi formali, di essere riportate nel quadro di una tradizione di
istituti linguistici e retorici, e pi in generale in un clima storico e culturale
chiaramente definito. Tutte le opere poetiche e ci vale ancor pi per quelle pi grandi e
significative, nelle quali sembra riassumersi la coscienza profonda di unepoca non si
capiscono se non in rapporto con la cultura del loro tempo. Anche gli eventi artistici,
insomma, come del resto tutti i fatti in cui si sviluppa la dialettica della vita spirituale, non
costituiscono una sorta di realt indipendente, con una sua evoluzione autosufficiente, ma
vivono e si evolvono nella totalit del processo storico. Per questo motivo la storia
letteraria si richiama continuamente a tutta la storia, anzi sebbene sia determinata
secondo una particolare prospettiva e sulla base di una serie specifica e circoscritta di
documenti essa stessa storia della civilt umana nel suo complesso.
I primi documenti di una certa rilevanza culturale nella nostra storia letteraria si
incentrano soltanto tra la fine del XII e linizio XIII secolo. Ma la progressiva
trasformazione in volgare del latino parlato nella tarda et imperiale era in corso gi da
parecchio tempo, tanto lidioma volgare era entrato con forza nelluso delle classi meno
colte. Se volessimo in qualche modo fissare gli estremi cronologici di tale trasformazione
possiamo scegliere in maniera del tutto convenzionale, visto che le date sono
palesemente inefficienti a determinare i fenomeni dello spirito come inizio il 476 (cio
lanno che segna la rottura definitiva dellunit politica del mondo romano e la nascita dei
regni barbarici in Italia), e come fine il 960, anno in cui compare il primo testo di una
certa ampiezza scritto nella nuova lingua. Del resto, gi dai primi secoli dellera cristiana
si poteva scorgere questo processo di trasformazione linguistica, tanto che un anonimo
maestro del III secolo correggeva nellAppendix probi gli errori pi frequenti che
venivano commessi nella lingua del suo tempo (vetulus non veclus, auris non oricla,
calida non calda, columna non colomna, ecc.).
Non certo senza curiosit che i glottologi hanno esaminato il povero latino delle
antiche carte notarili, per scoprirvi le prime tracce del linguaggio nuovo che le plebi
venivano lentamente elaborando, in margine alla loquela dotta tramandata dai padri e
sempre meno viva nelluso e nella coscienza dei parlanti. Gi nei documenti del settimo e
dellottavo secolo appaiono denominazioni di luoghi e forme sintattiche prettamente
volgari, ed il discrimine sottile che separa lidioma quotidiano dalla nuova forma
nascente, si indovina con facilit sotto landamento, che pur si sforza di mantenersi il pi
possibile corretto, di certe scritture notarili:
Wernefrit gastaldius mihi dicebat: Ecce missus venit inquirere causa ista; et tu, si
interrogatus fueris, quomodo dicere habes?. Ego respondi ei: Cave ut non interroget;
nam, si interrogatus fuero, veritatem dicere habeo. Sic respondit mihi: Ergo tace tu viro
qui est missus domni regi. Modo me invenisti et non te posso contendere.1
1
Breve de inquisitione, Siena, 715. Guarnifredo gastaldo mi diceva: Ecco arrivato il messo ad inquisire
questa causa; e tu, se sarai interrogato, come dirai?. E io gli ho risposto: Bada che non mi interroghi;
perch, se sar interrogato, dir la verit. Mi rispose cos: Taci dunque a quegli che viene come inviato
del re. Ora mi hai trovato, e non posso sottrarmi a te.
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Della fine dello stesso secolo cui appartiene il documento appena citato, o del
principio del secolo seguente, il cosiddetto Indovinello Veronese, steso sulla pagina
bianca di un codice di preghiere e allusivo allarte dello scrivere, che forse il pi antico
discorso verseggiato giunto fino a noi in un idioma romanzo:
Se pareba boves, alba pratalia araba,
albo versorio teneba, negro semen seminaba.2
Spingeva avanti i buoi [cio le dita], arava i bianco prato [il foglio di carta], e teneva il bianco aratro [la
penna doca], e seminava una nera semente [linchiostro].
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A. Roncaglia, nel volume collettivo Le origini, Ricciardi, Milano-Napoli 1956, pag. 190
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So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, le ha tenute in possesso per trentanni
lamministrazione patrimoniale di San Benedetto.
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Questa carta di Capocotto [soprannome, simile a Testacalda] e gli dia aiuto contro il ribaldo [o
addirittura il Maligno?] che malvagio consiglio gli mise in corpo.
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Poemetto giuntoci mutilo, che propone la casta virt del giovane Alessio votato a Dio e forzatamente
costretto al matrimonio.
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E perci appunto si denominava volgare, con designazione dispregiativa, che rimase poi, pi o meno
sentita e rispondente ad una profonda persuasione, fino a tutto il Cinquecento.
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rispettivamente linguaggi o gerghi dei plebei, dei proletari, dei campagnoli, dei militari; e
distinguere un sermo cotidianus, o familiare, e un sermo urbanus caratteristico
propriamente di Roma. chiaro che latino letterario e latino volgare non si pongono fra
loro come due lingue diverse, bens nello stesso modo in cui oggi, da un lato, la lingua
degli scrittori, mutevole nelle singole determinazioni, ma pur generalmente caratterizzata
da un lessico scelto, da precisione di costruzioni ed eleganza di forme; e, dallaltro lato, i
numerosi dialetti e i vari gerghi di classe e di mestiere, pi semplici e spontanei, e tanto
pi vicini a loro volta alla lingua scritta quanto pi cresce lautorit e la cultura di coloro
che ne fanno uso. Sebbene tanto gli idiomi letterari quanto quelli parlati si vengano col
tempo a poco a poco trasformando, pur le storie di queste trasformazioni si svolgono, per
cos dire, su due strade diverse e parallele. Levoluzione del latino letterario
documentata ampiamente nelle opere degli scrittori, da quelli dellet di Cesare a quelli
del Medioevo, fino agli scrittori umanisti del nostro Rinascimento, che alla tradizione pi
antica e pura vollero coscientemente e non senza sforzo collegarsi. Il latino parlato,
invece, specialmente nelle sue variet pi umili ed incontrollate, nelle sue differenziazioni
regionali, nel suo progressivo evolversi, ci sfugge quasi completamente e dobbiamo
accontentarci di ricostruirlo per frammenti, in base alle interpretazione delle notizie
fornite dalle iscrizioni e dai graffiti, dagli antichi glossari e perfino da certe opere
letterarie. Inoltre bisogna ricordare che nel momento in cui limpero romano impronta
della sua civilt tutti i paesi dellEuropa occidentale, estende ovunque luso della sua
lingua, assorbendo popolazioni allofone, che se allinizio potevano subire passivamente
linfluenza linguistico-culturale romana, in un secondo tempo, con la decentralizzazione
dellImpero e la sua conseguente perdita di prestigio, divennero forze attive nel processo
di alterazione della lingua: in altre parole, nel momento stesso in cui il latino volgare
riduceva al silenzio gli idiomi originari dei popoli vinti, doveva pure venire a patti con
talune forme peculiari della loro pronuncia o assorbire qualche vocabolo o qualche
movenza dellantico linguaggio e insomma alterarsi pi o meno profondamente.
Fin che dur la coesione strutturale della societ intorno alla classe dominante e
poterono agire con continuit ed efficacia le forze di trasmissione della cultura elaborate
da quella classe, le tendenze innovative rimasero infrenate e disciplinate, e le differenze
tra lingua letteraria e uso parlato restarono contenute entro lambito stilistico. Ma con la
crisi della societ, sallenta il circolo vitale della cultura, si restringe il pubblico letterario
sensibile al prestigio dei vecchi modelli; e di fronte al dinamismo della lingua parlata, la
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A. Roncaglia, nel volume collettivo Le origini e il Duecento, Garzanti, Milano 1965, pag. 22-23.
In riferimento alle varie lingue regionali (toscano, siciliano, umbro, ecc.), di parla qui di idiomi volgari e
non di dialetti, poich per quanto il termine dialetto identifichi un sistema linguistico di ambito geografico
limitato, che soddisfa solo alcuni aspetti e non altri delle umane esigenze espressive essi si definiscono in
rapporto ad una lingua dominante. Solo con il graduale processo di evoluzione del volgare toscano (che va
dal Tre al Cinquecento), ed il conseguente prestigio acquisito come lingua letteraria nazionale, relegher le
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notevoli: per alcuni, come quelli della Toscana, la distanza che li separava dal latino
parlato era minima, in altri invece appariva maggiore o addirittura massima. Gli urti ed i
contatti politici, nonch i frequenti rapporti commerciali, mantenevano vive e costanti le
relazioni fra le varie parti della penisola, creando luso quotidiano del linguaggio tra
uomini di terre diverse, e ci favoriva da una parte lattenuazione delle maniere pi
spiccate e delle forme pi tipiche di ciascun idioma, dallaltra lassorbimento di vocaboli
e modi dellidioma altrui, cos da giungere ad una sorta di lingua comunemente intesa.
Coloro che, nelle varie regioni dItalia, dettarono le prime scritture in volgare, furono
spinti ad adoperare un idioma che, pur mantenendo certe peculiarit locali, non
corrispondeva per esattamente a nessun determinato volgare; e ci perch intendevano
da un lato essere compresi da un pubblico pi vasto, dallaltro perch erano spinti dal
bisogno di dare alla lingua una certa uniformit di costruzioni ed un lessico scelto. In
particolar modo una tale tendenza ebbe a manifestarsi negli scrittori della corte di
Federico II di Svevia, che crearono i primi tentativi di una poesia lirica nazionale.
Sebbene il fondo della lingua da essi adoperato sia il volgare siciliano, si tratta di un
siciliano singolarmente trasformato e raffinato, ripulito di tutti quei vocaboli che potevano
sembrare troppo realistici o plebei, modellato nei costrutti sullesempio del latino,
arricchito di locuzioni tolte ad altri volgari, e infine non estraneo a certe cadenze della
lirica provenzale. La lingua poetica della scuola siciliana divenne per un certo tempo la
lingua letteraria della nazione, restandolo anche dopo la fine della potenza sveva (1266):
una lingua che per certi aspetti risultava convenzionale ed artificiosa, che per desiderio di
ricercatezza diveniva povera e monotona, e che rispondeva ai chiusi costumi di una
ristretta classe di persone colte; una lingua destinata perci ad intristire lentamente,
poich non si rinnovava di continuo nella ricchezza e freschezza inventiva delluso
popolare.
Ben presto, per, il primato dellattivit letteraria pass alla Toscana, e la lingua
poetica, pur conservando in parte le caratteristiche che gli erano state impresse dalla
scuola Siciliana, venne in vario modo arricchendosi di nuove forme e maniere: sia perch
le liriche pi antiche e veramente siciliane, trascritte in copie sempre pi numerose nella
nuova terra di adozione, vedevano alterarsi in parte e gradualmente la loro veste
linguistica, diffondendosi poi cos deformate in ogni parte dItalia; sia perch i nuovi
poeti, e sopratutto quelli del dolce stil novo che a Firenze rinnovarono i modi di quella
altre parlate al rango di dialetti.
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nostra prima poesia, non potevano non risentire di quellambiente linguistico nel quale
vivevano ed operavano. Ma per quanto fiorentina, la loro era pur sempre una lingua
idealizzata e convenzionale, uniforme e povera di rilievo, delicata ed aristocratica. Fu
Dante Alighieri che diede alla lingua italiana una maggior ricchezza di suoni e variet di
costrutti, una maggiore aderenza alluso vivo e rinnovatore della lingua del popolo,
imprimendole al tempo stesso il sigillo della tradizione fiorentina.
Dopo Dante, ovviamente, la lingua poetica ha continuato a mutare secondo lindole,
leducazione intellettuale, le compiacenze ed i diversi e originali problemi artistici dei
singoli scrittori. E la storia della lingua poetica , appunto, la storia stessa della nostra
letteratura. Tuttavia non si venuta lentamente modificando solo la lingua letteraria,
poich anche lidioma parlato dalle classi medie e colte della penisola, lo strumento
immediato dei commerci e delle relazioni intellettuali, politiche ed economiche fra le
varie parti dItalia, ha subito mutazioni: eppure ancor oggi esso , nella sostanza, quello
che Dante con lesempio addit e promosse, e cio il volgare di Firenze, che grazie ad una
maggiore severit di costrutti, di suoni, di scelta dei vocaboli, di complicazioni ed
arricchimenti dovuti agli apporti variamente determinati dagli altri idiomi regionali, pot
elevarsi al rango di lingua poetica nazionale.
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La teoria, che domina incontrastata per secoli, dellarte come imitatrice della natura
e della vita umana, quindi adeguazione parziale ed imperfetta della verit, risale agli
antichi. Da ci deriva, da un lato, limpulso a negarla, come fece Platone e come ripresero
a fare gli apologeti cristiani nel II e nel III secolo, considerandola quasi unattivit
inferiore, quando non addirittura diabolica. Dallaltro lato, invece, viene la necessit di
giustificarla nelluso pratico, poich, seducendo gli spiriti, pu contribuire a dirigerli al
bene e a perfezionarli. Questo problema di dare allarte una giustificazione era stato,
nellestetica dellantichit, considerato addirittura superiore a quello di indagarne
lessenza e la natura. Per cui, mentre Platone era giunto ad escludere la poesia dal suo
piano di ideale educazione delluomo, Aristotele invece aveva affermato che larte
purifica gli affetti dellanimo, sottraendoli allatmosfera di passione che li circonda nella
realt e sollevandoli su un piano di serena contemplazione (catarsi); ed altri avevano
supposto che larte fosse indirizzata a produrre piacere, e piacere tanto pi alto e nobile
quando della bellezza verbale si valesse a diffondere verit dottrinali e elevate esortazioni
morali (estetica pedagogica). Il problema dei rapporti fra larte e la morale, cui il nascente
cristianesimo aveva dato nuovo rilievo ed impulso, doveva far prevalere sopra tutte le
altre nel medioevo la dottrina della poesia come strumento di educazione intellettuale ed
etica, e cio la dottrina moralistica e pedagogica dellarte. La quale, mentre offriva una
nuova giustificazione alle nuove letterature cristiane, unarma di difesa contro gli arcigni
negatori della poesia, porgeva anche il mezzo di accogliere ed esaltare le grandi opere
classiche, amate ed ammirate pur sempre nonostante il loro contenuto pagano. Strumento
essenziale della giustificazione dellarte diventa allora linterpretazione allegorica, la
quale saffatica a scorgere, oltre il senso letterale delle cose e degli scritti, il significato
reale, linsegnamento profondo di verit e di virt: strumento anche questo non nuovo e
non ignoto ai classici, ma che nel medioevo acquista unimportanza che non aveva mai
avuto prima di allora. N cotali interpretazioni allegoriche si applicano soltanto agli
scrittori classici o del primo medioevo, bens lo sforzo degli esegeti si rivolge anche ad
indagare il contenuto profondo e segreto delle Sacre Scritture; a rintracciare il significato
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vero dei vocaboli con bizzarre etimologie, sulla scorta di una pseudoscienza codificata in
opere famose come quella di Isidoro da Siviglia, o laltra, di cui si valse anche Dante, di
Uguccione da Pisa; a scoprire nelle manifestazioni della natura un insegnamento religioso
e morale. Inoltre lallegoria diventa ideale e canone dellarte nuova: il contenuto religioso
e morale tiranneggia la forma, riducendola a funzione servile, puramente materiale o
tecnica; la parola non pi che segno di unidea, la quale soltanto ha importanza; il
discorso poetico veste esteriore di un discorso logico, che il lettore deve scoprire,
rivolgendo ad esso soprattutto la propria attenzione. La poesia, pertanto, considerata nella
sua essenza, finzione retorica, figura, simbolo, rivestimento bello e dilettoso duna
realt che le rimane estranea. Sotto questo aspetto allegorico vogliono essere considerate
nellintenzione degli scrittori (anche se, come accade, in alcune di esse la forza
dellispirazione trascende di gran lunga i limiti della dottrina estetica nella quale furono
concepite) le opere pi famose della letteratura europea medioevale, dal "Roman de la
rose" alla "Commedia", fino ai "Trionfi". Vero che una cos netta separazione fra il
contenuto e la forma, fra lidea profonda ed il segno esteriore, fra linsegnamento segreto
e la veste letterale, doveva portare ad una considerazione speciale della forma in s, intesa
come arte pratica, guidata e regolata da norme intellettuali. Gi gli antichi, che
loriginalit dellarte avevano riposto appunto in special modo nella novit ingegnosa
della forma, serano fermati a costruire, parallelamente alle speculazioni propriamente
estetiche, tutta una poetica o retorica, cio una sistemazione delle leggi che paiono
regolare i rapporti delle forme verso uno scopo ideale di bellezza: e si capisce che tale
teoria poetica veniva ad esser poi una traduzione in termini pseudo-scientifici delle
direttive fondamentali del gusto classico. In questi discorsi sulla tecnica dellarte, dei
quali i pi cospicui esempi ci sono offerti dalla letteratura romana, si rispecchiano, oltre
lerrore della considerazione intellettualistica, il gusto il gusto raffinato e naturalmente
elegante degli antichi e il senso aristocratico degli scrittori, che spezzando il volgo
profano tendevano a far dellarte un dono raro e prezioso riservato ai pi intelligenti ed ai
pi colti. Nel medioevo il gusto si trasforma, facendosi pi sottile e raziocinante e
giungendo spesso a confondere il bello col difficile, larte schietta con lartificio; rimane e
saccresce latteggiamento intellettualistico, che adegua larte alla tecnica e ad una sorta
di pratica meccanica; e rimane anche, nei letterati, lorgoglio aristocratico e chiuso della
loro professione accompagnato dal disprezzo della gente volgare. Le norme retoriche, che
presso gli antichi avevano serbato pi a lungo il loro carattere naturale di suggerimenti e
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un ritmo logico del pensiero, da quello tutto esteriore e musicale che appaga soltanto
lorecchio. Meno usato, forse, per la sua maggiore difficolt, pure assai ammirato era lo
stile ilariano (cos detto da un inno che si attribuiva ad Ilario di Poitiers), nel quale il
periodo era formato di tanti membri costituiti ciascuno di due spondei e mezzo e di una
parola parossitona, e si chiudeva con un quadrisillabo parossitono. Ma il pi famoso dei
quattro era lo stile romano nato nelle cancellerie papali e diffuso poi ovunque nelle
scritture medioevali: si fondava sulluso del cursus, e cio di una studiata cadenza metrica
ritornante nel seno e specie in fine di ciascun periodo. Naturalmente nelle scritture i
quattro stili non sono sempre distinti fra loro: bens agli elementi ritmici dellisidoriano e
del romano si mescolano i colori retorici del tulliano, riuscendo al risultato di una prosa
complicatissima e spesso oscura, ma sempre frondosa e adorna.
N minore importanza ha il proposito dellarte difficile, aristocratica, regolata da
rigide norme retoriche, nel campo della poesia medioevale. Domina in esso anzitutto,
come anche in quello della prosa, il principio fondamentale dellimitazione dei modelli
consacrati; donde il gusto di inserire versi interi di Virgilio o di Stazio nelle scritture
nuove e di comporre centoni con testi di emistichi e di versi classici. Vi penetra il gusto
della sottigliezza pedante; lamore dello stile metaforico, dellespressione che per esser
magniloquente riesce contorta, dei giochi di parole, delle antitesi, delle allitterazioni, delle
corrispondenze e dei parallelismi voluti di suoni e di concetti. E mentre saffievolisce,
tranne nei pi colti, il senso delle quantit metriche, che avevano regolato larmonia degli
antichi poemi, e si sostituisce ad esso quello pi facile e diffuso del ritmo, determinato dal
numero delle sillabe e dagli accenti, penetra, come nella prosa cos anche nella poesia,
luso della rima, che i classici avevano usato di rado e soltanto per ottenere particolari
effetti di musica e di stile: e la rima, che poi doveva avere tanta parte nella nuova poesia
in volgare, dapprima soltanto anchessa un ornamento, un artificio che si aggiunge agli
altri di suono o di concetto gi elencati.
Tratteggiando qui brevemente le linee essenziali dun determinato atteggiamento
del gusto e della cultura, quali si vengono forgiando nei secoli del medioevo, e
mettendone in rilievo i presupposti di arte dotta e nobile, le velleit retoriche, i pregiudizi
stilistici e gli spiriti artificiosi e complicati, s voluto soltanto preparar le basi ad una pi
attenta e precisa comprensione delle opere letterarie dei primi secoli. Erroneo sarebbe
invece dedurne un giudizio negativo della letteratura medioevale, considerata alla stregua
di una vacua e faticosa esercitazione retorica. Il gusto letterario di tutti i secoli contiene in
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Inghilterra ma non ignoti neppure in Italia cantano la vita libera spensierata e dissipata
dei goliardi o chierici vaganti, trasformati in giullari, ne espongono la facile e borghese
filosofia rivolta al godimento e agli spassi, ci trasportano nellambiente delle taverne,
dove lesistenza trascorre tra gli amori, il gioco e lebbrezza, irridendo agli ideali ascetici
e smascherando la corruzione dei costumi ecclesiastici.
Contemporaneamente, per, si svolge la ricca fioritura degli inni religiosi, taluni dei
quali aridi e dogmatici, molti densi di pensiero o di sentimento mistico, pochi ricchi di un
sentimento religioso che li rende cospicui documenti di poesia. Una poesia che, nei ritmi
goliardici, nei canti e nelle invettive politiche, negli inni religiosi, espressione di
sentimenti collettivi, semplici e largamente diffusi, canto corale, nel quale tutta una classe
di persone, tutta una citt od un popolo, ovvero lintera cristianit credente si riconosce e
si rispecchia, diventa talora, sebbene pi di rado, voce di unanima singola, sfogo di
unesperienza solitaria, e cio pi propriamente ed immediatamente lirica.
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Nota Bibliografica
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BRUNO MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze, 1960.
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1953.
CARLO TAGLIAVINI, Le origini delle lingue neolatine, Patron, Bologna, 1972.
BENVENUTO TERRACINI, Conflitti di lingue e di cultura, Neri Pozza, 1957.
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riceve le stimmate e detta il Testamento. Morir due anni dopo, nel 1226, alla
Porziuncola, presso Assisi.
Oltre alle redazioni della Regola e al Testamento, ci restano di lui poche lettere e
qualche preghiera, scritte in un latino caldo e chiaro, e le Laudes creaturarum o Canticum
fratris Solis, scritto in volgare di s.
A tale proposito va ricordato che nel secolo scorso si soleva far cominciare la nostra
letteratura dal Contrasto del cosiddetto Cielo dAlcamo. Appartenendo per questo testo
al quarto o quinto decennio del duecento, un pi degno inizio della nostra poesia sembra
possano darlo appunto le Laudes creaturarum o Canticum fratris Solis di S. Francesco
dAssisi, datato da autorevoli fonti al 1224. E questo perch, sebbene esistano documenti
volgari antecedenti, le Laudes creaturarum a parte la nobilt del loro contenuto
spirituale assicurano una migliore continuit fra cultura latina cristiana e cultura
volgare, e allinterno della cultura italiana.
Il Cantico, come s detto, la sola scrittura in volgare del santo; le fonti
francescane che ne descrivono la genesi lo collegano tutte allepisodio, noto anche al
biografo Tommaso da Celano, della Certificatio: cio della celeste visione che, due anni
prima della sua morte, avrebbe garantito al santo la salute eterna, dopo una notte di
tormenti trascorsa a S. Damiano presso Assisi fra il consueto mal docchi e la molestia dei
topi nella cella di stuoie. Secondo tale versione i versetti sul perdono (23-26) sarebbero
stati aggiunti dal Santo quando fece riappacificare il Vescovo con il Podest di Assisi;
mentre quelli sulla morte sarebbero stati aggiunti pi tardi in particolari circostanze, ma
questo, probabilmente, un semplice tentativo di spiegare le asimmetrie della struttura
compositiva, tentativo che in genere non trova consenziente la critica moderna.
Vengono dette Laudes i salmi finali recitati in parte dellufficio liturgico: il
Cantico dunque come un salmo volgare in canto gregoriano, ma la musica, che doveva
essere sillabica (cio una nota per sillaba), non stata trascritta. Le stesse fonti di cui
sopra precisano anche che Francesco avrebbe voluto che fra Pacifico andasse in giro a
dirigere lesecuzione del Cantico, come se i frati fossero joculatores Domini; e
specificano che anche la musica era stata composta da Francesco.
Per ci che riguarda la sua interpretazione grammaticale, essa oscilla tra due poli: il
per di molti versetti come causale, dunque lode resa a Dio in quanto creatore; il per
come segno dagente (da), dunque lode resa dalle creature. Ma la prima e pi
tradizionale interpretazione quella pi comunemente accettata.
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Il cantico prosa rimata, abbastanza vicino alle sequenze liturgiche, che ugualmente
si dividono in versetti di pari misura assonanzati fra loro. Studi recenti hanno segnalato la
presenza, come in alcuni scritti latini del santo, del cursus planus e del cursus velox, oltre
ad altre formule retoriche. Questa, che allapparenza potrebbe sembrare una semplice
curiosit erudita, in realt ci mostra come il santo volle rivestire la lode al signore in
lingua di s del concedente ornamento retorico. Anche il linguaggio non pu considerarsi
vernacolo, poich solo qua e l spruzzato di umbro.
Bench la fortuna antica del Cantico sia stata alquanto limitata, cos che non ha
fondato una tradizione di salmi italiani, va comunque notato che luso paraliturgico del
volgare costituisce un fatto di grande rilevanza, e sembra preludere alliniziativa umbra e
francescana, qualche decennio pi tardi, delle laudi propriamente dette.
Lispirata e commossa bellezza del Cantico non deve trarci inganno, facendoci
supporre che lautore, con il suo abbandono contemplativo e sentimentale di fronte alle
bellezze del creato, avesse finalit in qualche modo estetiche: un simile atteggiamento
sarebbe inconcepibile per qualsiasi scrittore del Medioevo e, a maggior ragione, per un
uomo come Francesco, interamente e concretamente dedicato alla salvezza dellumanit.
Lintento che egli si propone con il Cantico di natura pratica: dare ai suoi fratelli un
testo da cantare in lode del Creatore e che possa essere facilmente insegnato e compreso
dalla gente devota. Questo spiega la semplicit dellimpianto, delle immagini e dei
concetti: la visione delluniverso non n drammatica n inquieta, ma una lieta distesa di
cose meravigliose che celebrano unitamente e incessantemente le lodi di Dio. Dalla
contemplazione del cosmo si scende poi alla visione dellumanit, che in terra patisce
dolori e malattie, ma da Dio riceve forza per sopportarle e perdonare le offese. Si attua
dunque, nel Cantico, un continuo passaggio dal cielo alla terra, dallinfinit degli esseri
creati alla vita spirituale del singolo uomo; secondo ununiversale riconciliazione, ma al
tempo stesso senza alcun ideale di specie panteistica, e senza che il contemplante della
vastit della suo visone tragga motivo per compiacersi di s, per sentirsi orgoglioso
protagonista di questa grandiosa vicenda di cieli e di terre.
Nellabbraccio fraterno al creato c un atto totale damore, quasi un ricambio
dellamore col quale e per il quale Iddio ha generato il mondo: e in tal ricambio la prova
di unumilt, di una soggiacenza, anzi di un annullamento nei voleri del Creatore. Eppure
il motivo dellamore non espresso da San Francesco in forme astratte, in concetti, ma
propriamente in immagini, visivamente colte e intense: Si suole solitamente riscontrare
25
nel modo squisito di dipintura di tali immagini quasi una prova indiretta della cecit dalla
quale il Santo era afflitto negli ultimi anni: le figurazioni delluniverso sono viste
piacevolmente, come accarezzate con gli occhi della mente, o come amorosamente
contemplate per lultima volta1.
26
Nota Bibliografica
27
31
Arrigo da Settimello
32
Boncompagno da Signa
Nato a Signa, nel Valdarno a valle di Firenze, tra il 1165 e il 1175 insegnante di
retorica, (prima a Bologna e poi a Padova) e gran viaggiatore, il principale
rappresentante italiano dellars dictandi, cio della teoria della prosa darte, da applicarsi
anzitutto alle lettere e alle orazioni, e quindi di rilevante interesse civile, tanto che,
almeno a Bologna, i dictatores sono anche giuristi. Salimbene da Parma ce lo descrive
come un gran burlone al pari dei suoi concittadini e ne cita i versi latini giocosi e gli
scherzi; ed sempre Salimbene a farci sapere che Boncompagno, deluso nella sua
speranza di un buon impiego presso la curia romana, mor miserabile in un ospizio presso
Firenze dopo il 1240.
Scrive di lui il Di Capua: Aveva tutte le qualit per suscitare lentusiasmo degli
studenti: ingegno, dottrina, spirito, eloquenza, grande memoria, carattere bizzarro e
insofferente. Franco, anzi sboccato e mordace, non risparmiava nessuno.
Nella sua abbondante opera, solo in parte stampata, troviamo un Liber de obsidione
Ancone, unico suo lavoro storico, un trattato di scacchi, il Libellus de malo senectutis et
senis, nel quale, con spirito arguto, prende in giro le affermazioni di Cicerone che
idealizzavano la vecchiaia; ma soprattutto spiccano la Rhetorica antiqua1 (cosiddetta
perch in contrapposizione alla Rhetorica vetus, cio il De Inventione ciceroniano) e la
Rhetorica novissima (in contrapposizione alla Rhetorica nova, cio la Rhetorica ad
Herennium).
Stilisticamente Boncompagno rifiuta la canonizzazione del cursus. Questa
canonizzazione, che lo scrittore attribuisce alla scuola retorica di Orlans, si ebbe
identicamente in quella derivazione della scuola cassinese che , attraverso Alberto da
Morra, poi Gregorio VIII, lo stile gregoriano o della Curia romana. In realt egli fa spesso
uso del cursus velox e del cursus planus; ma diversamente da quanto accade nello stile
gregoriano, egli concede ben poco spazio al cursus tardus.
Non solo: Boncompagno esprime anche delle critiche nei riguardi di Cicerone e
1
Il trattato, ricco di esempi e costellato di personali interpolazieni, coronato dalloro nel 1215 a Bologna,
viene anche chiamato col nome dellautore, Boncompagnus.
33
degli insegnamenti della retorica classica. Secondo il maestro toscano le partes rhetorice
principales non sono inventio, dispositio, elocutio, memoria e pronuntiatio, ma piuttosto
causa, persuasio e dissuasio; inoltre la salutatio e la conclusio sono eliminate dallo
schema dellorazione, la quale consister dunque di tre parti fondamentali: exordium,
narratio e petitio. Nella Rhetorica novissima, egli propone se stesso come modello:
questo atteggiamento di distacco rispetto alla tradizione dei classici condiviso da altri
maestri dellepoca e rappresenta un indice importante della cultura del tempo, incline
sovente ad esaltare la novit e la superiorit del presente rispetto al passato.
34
Tommaso da Celano
Nato nel 1190 circa, fu uno dei primi discepoli del Santo di Assisi, entrando
nellOrdine francescano attorno al 1215. Nel 1221 si propose per partecipare a una
missione in Germania con Cesario di Spira per promuovere il nuovo ordine francescano, e
nel 1223 fu nominato custos unicus della Provincia renana dellordine, che includeva
Colonia, Magonza, Worms, e Spira. Dopo un paio danni torn in Italia e fu presente a
due importanti eventi della biografia di San Francesco dAssisi: la morte, avvenuta il 3
ottobre 1226, e la sua proclamazione a Santo, avvenuta il 16 luglio 1228. Nel 1260
Tommaso ottenne il suo ultimo incarico: direttore spirituale di un convento di Clarisse a
Tagliacozzo, ove mor attorno al 1265.
Lopera letteraria di Tommaso da Celano indissolubilmente legata al movimento
francescano. Egli fu infatti incaricato dal papa Gregorio IX di stendere una biografia del
santo di Assisi, la Legenda prima (1228-1229); ma essendo risultata questa
insoddisfacente per una parte dei francescani (che si dividevano tra Spirituali e
Conventuali), la biografia ebbe una nuova redazione, la Legenda secunda (1244-1247),
supportata da testimonianze di altri francescani che avevano seguito Francesco da vicino.
Diverso invece il De contemplatione Creatoris in creaturis, una novellistica di
grande fattura letteraria, in cui gli animali costituiscono, in dialogo, il mondo della natura
parlante con lindividuo, e San Francesco diventa un modello di comportamento, un
interprete dellecosistema spirituale che affiora da quelle bellissime pagine.
A Tommaso da Celano era anche estesamente attribuito il Dies irae, una delle vette
poetico-musicali della liturgia cattolica, ma anche uno degli inni pi suggestivi e famosi,
essendo entrato a far parte dellufficio dei defunti. Oggi, per, questa attribuzione appare
compromessa dalla scoperta di un codice abruzzese della fine del secolo precedente, nel
quale non compare ancora la parte finale in distici, palese aggiunta posteriore. Il verso
identico allo stico dispari del Pange lingua, associato in strofette di tre versi monorimi; la
melodia varia per tre sole, ripetute ciascuna singolarmente e poi ordinatamente riprese. La
penultima strofa della parte originale in rima ricca, anzi derivativa (v. 46-47-48); una
rima, invece, imperfetta (v.43-44-45). La piccola appendice in distici, lultimo dei
35
36
Si dice che un giorno del 1263, celebrando messa in una grotta annessa alla Chiesa di Santa Cristina a
Bolsena, un prete boemo, che dubitava della transustanziazione, vedesse uscire sangue dallostia consacrata:
il miracolo celebrato da un famoso affresco di Raffaello nella stanza dEliodoro in Vaticano. Il corporale
cio la pezzuola su cui il sacerdote posa il calice e lostia durante la messa macchiato di quel sangue, il
19 giugno 1264, fu portato solennemente nel duomo di Orvieto, dove ancora si venera, per volere del papa
Urbano IV; questi era stato arcidiacono di Liegi, citt nella quale era stata proposta e poi celebrata una
speciale festa per lEucarestia.
3
Venanzio Onorio Clemenziano Fortunato (Duplavilis, odierna Valdobbiadene, 530-Poitiers, 607) studi
grammatica, retorica e diritto ad Aquileia e a Ravenna; fu uno degli ultimi autori di poesie in lingua latina,
biografo di santi, vescovo; venerato come Santo dalla Chiesa cattolica. La sua opera letteraria comprende
circa trecento composizioni, in alcune delle quali racconta le esperienze dei suoi viaggi, con gli incontri con
persone e luoghi diversi. Nel De excidio Thuringiae narra le vicende della dinastia della regina Radegonda.
Altre opere hanno un carattere prettamente religioso, come i poemi e gli inni sacri alla Croce di Cristo,
scritti per larrivo al monastero di Poitiers di una reliquia donata dallimperatore Giustino II. Tra questi inni,
il Pange lingua ed il Vexilla regis prodeunt. a lui attribuito anche linno pasquale Salve festa dies. Scrisse
unagiografia in versi in onore di san Martino, il poema in quattro libri De vita sancti Martini. Altre
biografie in prosa riguardano la vita di vescovi, e le agiografie di vari santi e di Radegonda, che sar in
seguito proclamata santa.
37
acquista una rima tanto nellemistichio dispari, piano, quanto nel pari, sdrucciolo: in
questo gli elementi fonetici sono uguali solo a partire dalla prima vocale post tonica, ma
spesso la rima ricca, oppure identica anche la vocale accentata, determinando cos
assonanza.
38
Salimbene, della nobile famiglia parmense detta dal nome del suo bisnonno De
Adam, nato nel 1221 e morto alla fine del 1287 o poco oltre, il pi vivace memorialista
del secolo e un testimone caratteristico della spiritualit francescana. Dopo avere assistito
alle grandi manifestazioni di piet collettiva tenutesi nellanno dellAlleluia (1233),
appena quindicenne entr fra i Minori, con grande ira del padre, a cui frate Elia da
Cortona, Ministro generale dellOrdine dei Frati Minori, concesse di sondare la volont
del figlio4; ma questi agli interrogativi del padre rispose con le pi dure regole del
Vangelo, gi messe in pratica dal fondatore. Incline dunque a posizioni radicali, era
disponibile allestremismo degli Spirituali e per vari anni segu lescatologia di
Gioacchino da Fiore, che poi abbandon per il mancato avverarsi delle profezie
gioachimite. Risiedette in vari conventi delle Marche, della Toscana, della Francia e
dellEmilia-Romagna, senza peraltro mai rivestire cariche: il che pu essere indizio, data
la sua non ordinaria cultura e la sua conoscenza del mondo, di qualche diffidenza verso di
lui nella parte pi ortodossa dellordine.
La sua Cronica, che ci resta mutila e nel suo probabile autografo, una raccolta,
fondamentalmente aneddotica, della vita religiosa e politica italiana nei 120 anni che
vanno dal 1168 al 1287, traguardata, anche dove tocca eventi di grande rilevanza, dalla
cella del suo convento emiliano e, a quanto si pu giudicare dalle memorie familiari
raccolte sullinizio del libro, essa era destinata allistruzione di una nipote monaca: suor
Agnese. Non si tratta certo di unopera propriamente storiografica, ma per un verso essa
la summa autobiografica (quanto era consentito da quella cultura) dun temperamento
appassionato, complesso e multiforme, colto e pure portato al realismo pi illimitato
(magari plebeo) e non ancora ingabbiato in una costumatezza istituzionale e in una
razionalit umanistica, spirituale e focoso, attento alla storia e cultore della Bibbia; per
altro verso, invece, anche pi importante, unopera che ci restituisce in modo vivido il
flagello delle guerre nello scontro tra Chiesa ed Impero, e che tratteggia le figure di papi e
4
Salimbene stesso riferisce anche di un interessamento dellImperatore Federico II che, in una lettera a
Frate Elia, avrebbe chiesto la restituzione di Salimbene al padre, contrario alla decisione del figlio.
39
cardinali, come di donne e popolani, mendicanti e profeti, tutti visti da lui da vicino, in
una galleria di ritratti e di episodi, insieme coloratissimi e sobri, da avvicinare alla
migliore novellistica del tempo, quella del Novellino, senza dimenticare comunque
che una tecnica uguale veniva usata dai predicatori nei loro exempla. Interessante, da
questo punto di vista il ritratto che egli fa di Federico II di Svevia: lImperatore qui
dipinto come uomo avaro, che combatt la Chiesa solo perch voleva impadronirsi dei
suoi beni. Ma pur subendo il condizionamento del pregiudizio ideologico anti-imperiale
della Sede Apostolica, Salimbene tuttavia, non sfugge completamente al fascino della
figura dello Svevo, da lui in passato conosciuto e stimato, e del quale non manca di
annotare le qualit positive.
Il latino di Salimbene ricalca nella sintassi e spesso nel lessico il volgare, e pi
specificamente il volgare padano, ma il contato delle due sfere linguistiche si inquadra nel
tipo di predicazione usato dal clero soprattutto regolare. Tuttavia, per tensione espressiva,
Salimbene appare il maggiore fra gli scrittori dellItalia padana nel suo tempo, dei quali
egli, praticissimo di letteratura volgare dItalia e di Francia, predilige Girardo Patecchio;
ma le sfumature di favella e daccento, oltre che licasticit delle definizioni e la buona
costruzione dei motti, diventano anche materia continua della sua osservazione fedele
della verit.
40
Jacopo da Varazze
41
Sordello
Planh per Blacatz, che tratta con sarcasmo i potenti dEuropa. Da un passo del De vulgari
eloquentia sembra si ricavi che Dante conoscesse di Sordello anche poesie in volgare
lombardo, ed una si perfino creduto di ravvisarla. Sta di fatto, comunque, che la poesia
provenzale nutr, non solo i Siciliani ed altri minori, ma anche Dante e Petrarca; e che per
la tradizione erudita nostra, tanto rinascimentale quanto moderna, essa costitu un oggetto
domestico di studio, non un corpo estraneo, come fu ed ancora accade, per la
centralizzazione linguistica e la forte evoluzione grammaticale intervenuta dopo il
medioevo, in Francia.
Un fatto di rilievo leggendario nella biografia di Sordello fu il ratto di una dama del
gran mondo, Cunizza da Romano, ratto avvenuto per istigazione o col consenso della
famiglia della rapita, tra cui il feroce Ezzelino. Non mancano voci che attribuiscono a
Sordello una passione non platonica per la navigatissima signora, la quale doveva finire la
sua vita in Toscana, dove Dante, che la celebr nel Paradiso, si ritiene possa averla
conosciuta di persona. Alle conseguenze di questimpresa, e forse di questo amore, va
ricondotta la successiva fuga di Sordello che nel frattempo aveva sposato Otta degli
Strasso, donna appartente a una nobile famiglia di Cneda5 da Treviso verso la Spagna,
il Portogallo e la Francia: sua dimora delezione fu la Provenza, dove dal conte Raimondo
Berengario IV fu insignito del titolo di cavaliere e gli furono donati alcuni feudi. Nel
1245, quando mor il conte Raimondo, Sordello rimase con il suo erede Carlo I dAngi
fino al 1265 quando, al suo seguito, pot fare ritorno in Italia, dove gli vennero donati
dallo stesso alcuni feudi abruzzesi. Mor probabilmente nel 1269.
Di Sordello ci restano 42 liriche di argomenti vari, con presenza significativa sia del
tema amoroso, sia del tema politico, e un poemetto didascalico, Ensenhamen donor
(Precetti donore). Il suo componimento pi famoso il Planh per Blacatz (Compianto in
morte di ser Blacatz), elogio funebre di un barone provenzale che proteggeva i trovatori e
trovatore lui stesso, scritto intorno al 1237 in stile satirico. Nel Planh Sordello applica il
tema folclorico del cuore mangiato, che in altra forma si ritrover poi nella Vita nova e
nel Decamedone. Il cuore, sede de coraggio, comunica le sue virt a chi se ne ciba: ci
anima Sordello ad una violenta satira politica alla quale non si sottrae nessun sovrano. Dal
punto di vista metrico, il componimento una canzone in ottave monorime di
alessandrini, divisi dalla cesura in emistichi di sei o di sette sillabe (se piani), con due
tornadas (congedi), che riproducono come di norma il finale dellultima strofa.
5
Sobborgo di Vittorio Veneto, che ne rappresenta oggi la parte meridionale, fu libero comune fino al 1866.
43
Nota Bibliografica
44
LA SCUOLA SICILIANA
48
51
Giacomo da Lentini
52
Federico II di Svevia
53
Re Enzo
Figlio naturale di Federico II, nato verso il 1220 non si sa con certezza da quale
madre, nel 1239, presumibilmente non ancora ventenne, fu sposato ad Adelasia, vedova
del pisano Ubaldo Visconti, giudice (cio regolo) di Gallura e di Torres, potendo cos
essere investito re di Sardegna. Fu, per concorde riconoscimento, quello che plus valuit
fra tutti i figli dellimperatore svevo, prode combattente e collaboratore politico del padre,
in particolare come suo vicario nellItalia settentrionale. Combatte contro Milano e Parma
al fianco di Ezzelino da Romano, il famoso signore della Marca Trevigiana al quale la
propaganda guelfa attribuiva unefferata crudelt5. Catturato dai guelfi bolognesi nel 1249
alla battaglia di Fossalta presso Modena, rimase prigioniero in Bologna fino alla morte
avvenuta nel 1272, sopravvivendo al disastro di tutti gli Hohenstaufen. Scrive a tal
proposito il Santangelo: noto che il Comune di Bologna, se anche custod
rigorosamente laugusto prigioniero, con la ferma risoluzione di non pi cederlo e di non
lasciarlo scappare, nondimeno lo tratt con molto onore; ed oltre ad assegnargli un ricco
palazzo, gli permise di tenere con s strumenti e canzonieri e di ricevere chi volesse; onde
egli fu continuamente visitato da nobili, frati, letterati, rimatori e uomini di corte, e si fece
amare da chi allora lo conobbe; e quando mor ebbe splendidi funerali.
Rimatore come il padre, e come gran parte degli appartenenti alla dinastia sveva
(che tuttavia da Arrigo VI a Corradino poetarono nella loro lingua dorigine), Enzo
appartiene al filone aulico, in special modo per lelevatezza stilistico-retorica della
canzone Seo trovasse Pietanza, che fu poi probabilmente rimaneggiata dal rimatore
bolognese Semprebene, il quale vi aggiunse due stanze. Sono documentati, ma
variamente interpretati, rapporti della sua poesia con rimatori bolognesi, fra cui lo stesso
Guinizzelli. Per tale motivo Enzo viene presentato da alcuni critici come colui che
introdusse la poesia siciliana in Bologna, che si apprestava a divenire il centro dello Stil
Novo, favorendo la nascita di un cenacolo di poeti siculo-bolognesi. Qualunque opinione
si abbia di questa ipotesi, comunque interessante constatare come un principe di cui si
ignora persino se sia mai stato in Sicilia, abbia scritto in siciliano.
5
54
Giudice, cio alto funzionario, messinese, oggetto di atti scaglionati fra il 1243 e il
1280, dubbiosamente identificato con lomonimo scrittore che mette in prosa latina6 un
poema francese del secolo precedente (il Roman de Troie, di Benot de Sainte-More),
Guido Delle Colonne7, rimatore di qualit eccellente, citato da Dante con gran lode nel
De vulgari eloquentia, che nomina pure Rinaldo dAquino e rammenta un componimento
del Notaro. Il favore di Dante si spiega sia con lalta perizia retorica del rimatore in
special modo per la sua spiccata attitudine al periodare di tipo pi elevato sia, come
scrive il Contini, per leuristica delle immagini, in particolare delle scientifiche di tipo
guinizzelliano. Di lui ci rimangono cinque canzoni, di cui la pi conosciuta Ancor che
laigua per lo foco lassi.
Historia destructionis Troiae, scritta su ordinazione dellArcivescovo di Salerno Matteo della Porta tra il
1272 circa e il 1287.
7
Forse appartenente alla stessa famiglia del rimatore, pure messinese, Odo delle Colonne, del quale ci resta
una canzone.
55
Stefano Protonotaro
La veste originale della poesia siciliana serbata in alcuni testi che un filologo del
Cinquecento, Giovanni Maria Barbieri, ricav da un codice oggi perduto e introdusse in
un suo trattato. Questo usc postumo solo alla fine del Settecento, ma il manoscritto ne
tornato alla luce in epoca recente, determinando una vivace polemica, dalla quale uscita
confermata non solo lautenticit, ma anche la sostanziale genuinit della lezione.
Nellambito di questi testi genuini va inclusa senza dubbio la canzone Pir meu cori
alligrari di Stefano Protonotaro di Messina, che visse probabilmente nella seconda met
del Duecento e potrebbe identificarsi con uno Stefano da Messina che tradusse in latino
dal greco due trattati arabi di astronomia, dedicandoli al re Manfredi. Stefano un buon
verseggiatore del tipo manieristico (di qualit vicina a Guido delle Colonne) e che,
almeno per quanto riguarda la sopra citata canzone, si tiene ben stretto al gusto
provenzale.
56
Rinaldo dAquino
Nato tra il 1227/28 e morto tra il 1279/81, appartiene forse alla stessa famiglia di un
altro rimatore siciliano, Jacopo dAquino8, e di San Tommaso, del quale, secondo alcuni
critici, sarebbe addirittura fratello. Di lui ci restano un sonetto e dodici canzoni, una delle
quali, Per fin amore vao si allegramente, il cui registro stilistico assai elevato (come
quello, del resto, di quasi tutta la sua produzione), viene citata da Dante nel De vulgari
eloquentia. Tuttavia, siccome la critica romantica, fondata sul mito dellarte come
creazione spontanea e popolare, scorgeva la poesia e loriginalit della Scuola Siciliana
nelle tonalit pi facili ed immediate, classificandone come artificiose e provenzaleggianti
le forme pi auliche ed intellettualmente impegnate, la fama di Rinaldo dAquino resta
curiosamente legata ad un modesto Lamento per la partenza del crociato, dal tono
modestamente popolareggiante. A tale proposito scrive il De Sanctis: Sentimenti gentili
e affettuosi sono qui espressi in lingua schietta e di un pretto stampo italiano, con
semplicit e verit di stile, con melodia soave.. E ancora: Lamante che prega e chiede
amore, linnamorata che lamenta la lontananza dellamato, o che teme di essere
abbandonata, le punture o le gioie dellamore, sono i temi semplici de canti popolari, la
prima effusione del cuore messo in agitazione dallamore. E queste poesie, come le pi
semplici e spontanee, sono anche le pi affettuose e le pi sincere. Sono le prime
impressioni, sentimenti giovani e nuovi, poetici per se stessi, non ancora analizzati e
raffinati. La critica moderna, in questo daccordo con Dante, non solo ha rivalutato
lesperienza poetica ed intellettuale dei Siciliani, ma ha anche segnalato contro ci che
sosteneva il De Sanctis: Migliori poeti son quelli che scrivono senza guardare alleffetto
e senza pretensione, a diletto e a sfogo, e come viene come i toni che sembrano
spontanei e popolareschi siano spesso il risultato del rovesciamento, cosciente e
stilisticamente sorvegliato, di quelle forme e di quegli spiriti che sono tipici della poesia
dotta.
JACOPO DAQUINO, combatt con Manfredi a Benevento nel 1266. Di lui ci resta una sola canzone: Al cor
m nato e prende uno disio.
57
Cielo dAlcamo
58
Nota Bibliografica
60
I SICULO-TOSCANI
Con le vittorie di Carlo dAngi contro Manfredi, morto sul campo a Benevento
(1266) e contro Corradino1 a Tagliacozzo (1268), crolla definitivamente la potenza Sveva
in Italia, ma si sfascia anche lunitario organismo statale che Federico II aveva costituito
in Sicilia e nel mezzogiorno; e ci fece venire meno anche quelle condizioni che avevano
permesso alla poesia della Magna Curia di affermarsi e diffondersi. La parte continentale
del regno cade sotto la dominazione degli angioini; la Sicilia, invece, con lorgogliosa
impennata dei Vespri, evita di condividerne le sorti e diventa aragonese: la cultura
insulare, presa nel suo sforzo antifrancese, lascia cadere unesperienza lirica che rifugge
dallimpegno civile e che ha le sue radici proprio in Provenza ed in Francia.
Uninnovazione capitale, per le sorti della nostra lingua letteraria, fu il trasporto
della poesia aulica siciliana in volgare di tipo toscano, anche se non subito solo fiorentino:
si ha per esempio a Pisa un gruppo notevole di rimatori, cos come, oltre che a Firenze, a
Lucca a Siena e ad Arezzo. Del resto, come abbiamo gi detto, tra i poeti della scuola
siciliana vera e propria, verseggianti dunque in siciliano illustre, erano pure degli
italiani del nord insigne su tutti il genovese Percivalle Doria e in particolare Toscani,
come un altro importante personaggio politico, Arrigo Testa dArezzo, un Compagnetto
da Prato, forse Jacopo Mostacci, se veramente era pisano, e Paganino da Sarzana, se
Sarzana in Toscana. Quanto resta dei siciliani il risultato dellopera di selezione e di
sistemazione compiuto dalla colta borghesia toscana, che, uscita trionfante dalla lotta
contro vescovi e conti e libera dai bisogni strettamente pratici, pu ora rivolgersi ad
interessi largamente ideali, religiosi artistici filosofici: non un caso che i tre canzonieri
pi antichi che hanno conservato fino a noi la poesia siciliana (strettamente unita, si noti,
a quella siculo-toscana) furono compilati, tra la fine del duecento e i primi del secolo
seguente, a Firenze ed in un centro della Toscana occidentale, forse Pisa2.
1
Corrado V di Svevia (Landshut, 25 marzo 1252 Napoli, 29 ottobre 1268), figli di Corrado IV e di
Elisabetta di Wittelsbach, successe al padre allet di due anni. Nel 1267, a seguito delle preghiere dei
ghibellini italiani, scese in Italia e lanno successivo si scontr a Tagliacozzo, nellAbruzzo, con Carlo
dAngi. Sconfitto, fugg nellItalia centrale ma fu catturato e consegnato a Carlo, che lo fece decapitare a
Napoli nella Piazza del Mercato.
2
NellItalia settentrionale di quegli anni si produce pochissima poesia lirica, e quel poco scritto in una
lingua che si distingue appena dal toscano; i centri principali sono Bologna, con Semprebene e pochi altri
rimatori, e Faenza, con Ugolino e Tomaso. Dal nord viene il Serventese lombardesco, che si attribuisce a
63
I toscani non rinnegano, negli spiriti della poesia damore e nella tecnica formale,
lesperienza della scuola siciliana, alla quale anzi si attaccano strettamente; ma la seguono
con una certa indipendenza, risalendo spesso essi stessi alle fonti provenzali e
cimentandosi in tutti i campi che i trovatori avevano esplorato, compresi quelli ove i
siciliani serano guardati dallavventurarsi.
Questi rimatori siculo-toscani che, nonostante la stroncatura di Dante, tentano
di forgiare una lingua toscana illustre non danno comunque origine, nonostante le
numerose affinit culturali e stilistiche, ad una vera e propria scuola, anche perch le
citt in cui essi operano sono molteplici: prima fra tutte Firenze (dove troviamo, fra gli
altri, Chiaro Davanzati, Monte Andrea, Neri de Visdomini, Carnino Ghiberti, Bondie
Dietaiuti, Pacino Angiulieri, Dante da Maiano e la Compiuta Donzella), poi Pisa (con
Meo Abbracciavacca, Lemmo Orlandi e Paolo Lanfranchi), Lucca (Bonagiunta), Siena ed
Arezzo.
Fra tutti costoro emerge, per forza dingegno e vastit di cultura, la figura di
Guittone dArezzo che, nonostante i suoi numerosi disistimatori (primi fra tutti Dante e
Petrarca), viene riconosciuto dalla critica odierna, ad esempio con Giuseppe De Robertis,
come artista daltissimo spessore. Tutti i siculo-toscani, eccetto Bonagiunta e pochi altri,
hanno subito la sua influenza ed hanno gravitato pi o meno durevolmente nella sua
orbita, ripetendone i moduli formali e le idee, orientandosi sul suo esempio verso soggetti
morali, politici o religiosi. E per quanto la tematica amorosa rimanga quella prevalente,
continuando a sviluppare luoghi comuni sul fino amore, non mancano i tentativi di
modernizzazione in senso realistico-borghese.
Sordello.
64
Guittone dArezzo
Tesoriere.
Citato da Dante in Purgatorio, VI, 18.
65
amorose e un fra Guittone delle rime morali potrebbe erroneamente suggerire una
contrapposizione di modi stilistici e di sensibilit poetica. Nellopera di Guittone non
esiste traccia alcuna di una crisi spirituale strettamente intesa e la condanna, pi volte
proclamata nei componimenti, della sua vita passata ha pi laria di un atteggiamento
letterario, sebbene rifletta in tutta genuinit le ansie e le attese che profondamente
percorrono lo spiritualismo ed il moralismo del Medioevo. Le ragioni della conversione
Guittoniana di l dalle sue motivazioni biografiche e sentimentali, a noi del resto quasi
inafferrabili vanno ricercate non tanto in unimprovvisa scoperta del divino, quanto nel
maturarsi di unidealit civile e politica protesa alla conquista di valori eterni, capaci di
assicurare lordine al quale laretino aspira tenacemente5.
Accanto alle Rime di Guittone ci sono le Lettere, che nascono dalle stesse radici e
con le stesse istanze della sua produzione in versi: lettere amorose giovanili (ma gi
disposte al ragionativo ed al sermocinante) e lettere moralistiche della maturit. Il
fondamento culturale il medesimo: una vasta conoscenza della poesia provenzale e
siciliana e della letteratura latina religiosa e mistica, in modo particolare di S. Agostino e
S. Bernardo. La finalit una sola: insegnare il bene, non tanto al singolo cui la lettera
indirizzata, ma idealmente allintera umanit. Dunque, esse sono come prediche, che
recano il segno profondo di una personalit vigorosa che conosce i propri obiettivi e mette
in opera con consapevole raziocinio, tutti i mezzi retorici per conseguirli.
Guittone , con Brunetto latini, ma nellambito della poesia cortese e della poesia e
prosa darte morale, il principale esponente letterario dellagiata borghesia guelfa, anzi il
fondatore, in quellambito, della sua espressione volgare. Per loltranza del suo zelo
formale, nutrito di cultura provenzale non meno che latina, e spinto in qualche parte della
sua produzione a eccessi verbalistici, non di rado enigmistici, molto di l dal punto
raggiunto in alcuni sonetti del notaio, Guittone sembra trasferire alla sua regione e alla
sua classe e parte, ingigantendola, lambizione retorica degli aristocratici e ghibellini
siciliani. La sua stessa ascrizione ai Frati Godenti, congregazione ispirata ad un
francescanesimo moderato e sempre pi lassista, significativa. Ancor pi che la canzone
lo alimenta il serventese occitanico: egli il vero cantor rectitudinis italiano, per usare
la definizione che il De vulgari applica a Giraut de Bornelh (ma a livello pi alto), e senza
il suo precedente sarebbero incomprensibili le canzoni morali di Dante6.
5
6
Achille Tartaro, nel vol. collettivo Le origini e il Duecento, Milano, 1965, pag. 354.
Gianfranco Contini, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, Firenze, 1978, pag. 75.
66
Consiste nellopposizione di due affermazioni, o di due termini, luna a correzione dellaltra (non
ma).
8
Replicazione, cio ripetizione ossessiva di un lemma, anche con variazioni equivoche di significato.
9
Nel De vulgari Dante critica aspramente queste rime imperfette, giudicandole plebee, quindi dialettali ed
incolte; ma la rima detta aretina, ma ora guittoniana, sul fondamento delle abitudini siciliane
congiunge insieme, non solo separatamente, con e , e con e , insomma un fatto culturale e non
dialettale. (Gianfranco Contini, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, Firenze, 1978, pag. 76)
10
Gianfranco Contini, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, Firenze, 1978, pag. 76.
67
11
Gianfranco Contini, Poeti del duecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, pag. 190-191.
68
Bonagiunta Orbicciani
Notaio di Lucca (nei canzonieri viene chiamato ser), attivo fra il 1242 ed il 1257 e
quindi, sebbene passi per un guittoniano (probabilmente in virt della consecuzione dei
capiscuola nellepisodio del Purgatorio, ma anche allordine dei canzonieri antichi e per
la sua corrispondenza con Guinizzelli e forse Cavalcanti), egli era pi anziano di
Guittone. Ed infatti la sua maniera non massicciamente guittoniana, ma vicinissima ai
Siciliani e, particolarmente, ai modi del Notaro, tuttavia mai imitato servilmente. Anzi, la
voce di Bonagiunta bene individuata, caratterizzandosi per la fusione di modi aulici con
forme agili e ben distese. Molto incline alla canzonetta e alla ballata, nelle quali introduce
delle novit metrico-prosodiche rimaste per lo pi senza svolgimento, non rifugge dalla
poesia morale, ma alleggerita da un ritmo gradevole, agli antipodi del moralismo cupo di
Guittone.
La sua attivit poetica si protrasse molto avanti nella seconda met del Duecento,
come prova fra laltro il suo carteggio con Guinizzelli, del cui stil novo fu
probabilmente il primo ad accusare il colpo. Portarne addietro gli inizi non significa
affatto allontanarlo dagli stilnovisti: significa, anzi, sottraendo liniziativa del suo poetare
al capitale ma ingombrante trobar clus di Guittone, farne pi agevolmente un ponte fra
Siciliani e Dolce Stile fiorentino12.
12
Gianfranco Contini, Poeti del duecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, pag. 258.
69
Chiaro Davanzati
incerto se sia il Chiaro Davanzati del popolo di Santa Maria soprArno, morto nel
1280, o lomonimo del popolo di San Frediano, capitano di Or San Michele nel 1294 e
morto nel 1303, e comunque entrambi combattenti fiorentini guelfi a Monteaperti nel
1260. Di sicuro egli , dopo Guittone, il pi fecondo tra i rimatori duecenteschi. Di lui ci
restano 61 canzoni e oltre 100 sonetti, molti dei quali indirizzati o responsivi ad altri
rimatori; ma tutta questa mole di componimenti pesa ben poco, come dice il Contini,
sulle bilance della gloria, visto che il suo nome, o anche ogni allusione indiretta ad
esso, scompare completamente nella generazione successiva. E ci avviene perch
Davanzati, che pure il maggior rappresentante della lirica fiorentina prima di Dante,
percorse strade che non portavano ad alcun futuro, anche quando ne tent di nuove.
Persino le notevoli innovazioni da lui introdotte nella stanza di canzone, sotto forma di
asimmetrie nella corrispondenza delle misure e delle rime, non ebbero alcun seguito. La
sua poesia fu caratterizzata da eccezionali doti ricettive nei confronti di siciliani e
provenzali, sulle cui tematiche riusc ad effettuare talvolta variazioni brillanti, e a guisa
di Guinizzelli fu uno specialista delle comparazioni naturalistiche; ma alla sua opera
mancano sia oasi liriche romanticamente e tecnicamente intese, sia le qualit di oratoria e
di iniziativa linguistica che avevano caratterizzato fino alleccesso la personalit di
Guittone dArezzo. Mondo immobile, a priori letterario, sottratto alla dialettica; se c
unazione originale di Chiaro, essa deve svolgersi entro questi confini. E lazione c.
Letteratura per letteratura, il Davanzati attacca la compagine stessa della canzone
trobadorica. Il chiaro presumibilmente pi maturo [], rinuncia agli artifici pi visibili
dellunitariet, quali le coblas capfinidas13 o quel segno di chiusa che il congedo-sirma
guittoniano. In cambio (e non bisogna sottovalutarne lardimento), egli varia da stanza a
stanza la misura di determinate sedi; o la natura della rima da irrelata a relata (e le irrelate
hanno in lui gran rilievo); o addirittura la forma stessa della sirma. [] per quanto
consenta di vedere lunicit del manoscritto, anche le andature accentuative non ordinarie
13
Ciascuna strofa ripete allinizio del primo verso lultima parola (o parte di essa) dellultimo verso della
strofa precedente.
70
dellendecasillabo si fanno luce in Chiaro con qualche abbondanza. Sono fatti importanti,
almeno negativamente, per la mancanza dudienza reale, e anzi per secoli potenziale. Si
pu in qualche modo considerare il Davanzati come un Guidi che non abbia poi trovato il
suo Leopardi14.
14
Gianfranco Contini, Poeti del duecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, pag. 401.
71
Monte Andrea
72
Dante da Maiano
73
Panuccio del Bagno, al quale si riferiscono documenti tra il 1254 e il 1276 (anno in
cui risulta essere morto), il principale rappresentante della poesia pisana del Duecento:
nobile la sua famiglia abitava nel quartiere pi signorile di Pisa, quello di San Lorenzo
in Kinzeca e partecipe delle vicende della sua terra, fra canzoni e sonetti morali o
amorosi15, anche una canzone politica contro Pisa, rovinata dalle lotte politiche di fazione
e dalla disonesta signoria che la regge. un imitatore di Guittone, molto attento alla
forma e tendente al ragionativo, i cui prodotti, eccellenti a livello retorico, sono tuttavia
invischiati in una sintassi troppo elaborata, ricca di inversioni e di iperbati, che li opprime
e ne offusca la forza poetica e la sincerit sentimentale.
15
In tutto 22 componimenti.
74
Compiuta Donzella
75
Nota Bibliografica
QUAGLIO,
76
in I, xi, 3.
79
La poesia burlesca toscana del secondo Duecento ha, come lo Stilnovo (della cui
poetica intellettualistica si prende gioco), radici colte che affondano nella letteratura
mediolatina. I burleschi riprendono atteggiamenti e motivi dei canti spregiudicati,
maliziosi e mordaci di quei poeti che scrivono in un latino irregolare (talvolta quasi
premaccheronico): sono tirate misogine, satire di costume, attacchi alla viziosit del clero,
esaltazioni del vino, del gioco e dellamore godereccio, lamenti per la volubilit della dea
Fortuna; un materiale, insomma, che pu addirittura coincidere talvolta con i temi trattati
dalla letteratura moralistica, ma che viene presentato in modo umoristico e bellicosamente
sfrontato.
I burleschi non sono per degli istintivi che rifuggono una consapevole ricerca
stilistica ed una precisa elaborazione formale. Essi saggiano le possibilit offerte
dallutilizzazione in poesia del registro popolaresco, della lingua colorita di tutti i giorni,
dei toni grossolani; mescolano a fini comici le formule del linguaggio poetico aulico con
il vocabolario corrente, cos come, accettando alcune locuzioni stilnovistiche, ne
rovesciano parodisticamente il valore, in quanto le inseriscono in un contesto sguaiato e
plebeo. Questa sperimentazione stilistica si traduce in un insieme di atteggiamenti, di
immagini, di temi, di toni, di formule che tendono a divenire tipici, organizzandosi in un
insieme di regole pratiche costituenti lo stile comico, uno stile che gi i retori medievali
avevano definito teoricamente nei loro trattati2, ma di cui nella tradizione letteraria
italiana mancava finora lattuazione: questo insieme di atteggiamenti comuni, di
convenzioni osservate da tutti permette di parlare di una vera e propria scuola realistica,
relativamente unitaria, le cui fonti dispirazione sono la vita popolana e la mentalit
borghese, non idealizzate, ma anzi ritratte con robusta e scanzonata immediatezza, con il
gusto del reale e del pittoresco, della trovata ridanciana e dello schizzo caricaturale.
Lesistenza di un retroterra colto e il riconoscimento dellabilit formale dei giocosi
non comportano evidentemente il loro degradamento n ad esclusivi ricettori del
repertorio tematico tradizionale n a freddi letterati, chiusi fra una cultura libresca ed
attitudini meramente stilistiche; anzi, questi poeti traducono in termini personali e caldi,
accanto agli elementi utilizzabili della cultura precedente, gli spunti nuovi avvertibili
2
Anche Dante nel De vulgari eloquentia perpetua la dottrina tradizionale della tripartizione degli stili, ed in
particolare oppone alla maniera tragica dellEneide e delle grandi canzoni volgari, trattata in lingua illustre,
la maniera comica, da trattarsi in lingua mediocre o umile. In fatto la soluzione di Dante sarebbe poi stata
quella duna Commedia il cui linguaggio potesse toccare lintera gamma del reale dal sublime allabbietto.
La Commedia fra laltro comica per il suo metro, dinvenzione certamente dantesca, in cui si suol
riconoscere limpronta del serventese, ma dove pur visibile lesperienza di certe terzine incatenate di sonetti.
80
nella societ borghese del loro tempo: costumanze pi libere, un atteggiamento meno
pedissequo verso le idealit politiche e spirituali dei padri, un contatto pi frequente con
ambienti sociali daltre regioni e nazioni dEuropa, insomma un complesso pi acuto di
spregiudicatezza e di critica contro i vincoli di una societ tramontante, chiusa nel suo
sogno di purezza spirituale e di entusiasmo politico3.
Tra i burleschi troviamo, in posizione un poco isolata, in quanto fiorentino,
anzitutto Rustico Filippi che ha un repertorio di sonetti per met satirico-caricaturale, e
per met cortese nel modulo siciliano; gli altri, attivi anche nel primo Trecento, sono per
lo pi senesi, a cominciare da Cecco Angiolieri, a cui si deve riconoscere senzaltro una
parte non indifferente nella codificazione dei modi giocosi; senese Meo de Tolomei,
che fu aspro vituperatore della madre e del fratello Mino, detto Zeppa, suo concorrente in
politica e in affari; senese, lautore anonimo della Canzone del fi Aldobrandino (cio del
figlio di Aldobrandino); cos come Jacomo de Tolomei detto Granfione, il Musa, fino a
Bindo Bonichi (1260 circa-1338) e a Folgre da San Gimignano (1280 circa-1330 circa).
Toscani, e personaggi ragguardevoli, sono Jacopo da Lona (la cui morte, avvenuta nel
1277, fu pianta con sincera commozione da Guittone dArezzo), Forese Donati, laretino
Cenne dalla Chitarra, il lucchese Pietro de Faitinelli (1280 circa-1349), energico ed
appassionato, specie nei sonetti politici, il fiorentino Pieraccio Tedaldi (1290 circa-1350
circa).
La tradizione giocosa si estende per anche al di fuori della Toscana, con centri
principali nel Veneto (il trevigiano Niccol de Rossi, nato nel 1285 circa) ed a Perugia
(Marino Ceccoli, Cecco Nuccoli).
Lesperienza burlesca, non fu sdegnata dagli stilnovisti (almeno come diversivo,
come un gioco per saggiare la propria bravura nel registro realistico), e costituir invece
per Dante4 una tappa fondamentale per lacquisizione dei mezzi stilistici necessari al
realismo dellInferno. Poesie comiche, per lo pi sonetti, galleggiano nellopera del
Bolognese Guinizzelli, del Cavalcanti, di Cino. Dante, oltre che essere poeta comico in
proprio, corrisponde con il pi noto dei cosiddetti giocosi, Cecco Angiolieri (veramente ci
sono conservati solo i sonetti di Cecco a Dante, non quelli di Dante a Cecco), nonch con
il senese Meo Tolomei (Meuccio). Laspetto vernacolo del linguaggio comico
naturalmente meno appariscente in Toscana, regione destinata allelaborazione della
3
G. Petrocchi:
Ci si riferisce alla Tenzone con Forese Donati, la cui paternit comunque contestata da qualche
studioso, quasi fosse indegna di Dante.
81
G. Contini, Letteratura italiana delle origini, pag. 113, Sansoni, Firenze, 1978.
82
Rustico Filippi
83
Cecco Angiolieri
antitesi al luogo comune danconiano dello sventurato che piange, quello del puro
letterato, indubbiamente non meno unilaterale6.
Fermo restando, comunque, che la realt della sua sregolatezza provata tanto dai
documenti che lo concernono, quanto dal tono di esperienza vissuta che caratterizza la sua
produzione, la sincerit di Cecco va valutata tenendosi equidistanti dallinterpretazione
immediatamente autobiografica cara alla critica romantica, come da un totale
rovesciamento di questa impostazione, quasi che Cecco, e con lui i burleschi, non
compissero altro che unoperazione letteraria a freddo, o per mero gusto del
divertissement o dello scandalo.
G. Contini, Letteratura italiana delle origini, pag. 116, Sansoni, Firenze, 1978.
85
Le due serie di sonetti derivano dal genere provenzale detto anche del plazer che consiste in
componimenti in cui si elencavano una serie di situazioni piacevoli nellambito laico e mondano; il
contrario del plazer era lenueg, cio la noia, il fastidio.
8
G. Contini, Poeti del Duecento, Tomo II, pag. 403, Ricciardi, Milano, 1960.
86
Cenne da la Chitarra
Cenne
porta
alle
estreme
conseguenze
la
parodia,
rovesciando
completamente la visione, tanto che i protagonisti divengono una brigata avara e senza
arnese, quindi una comunit di corrotti e pervertiti, che abitano in tuguri e paludi.
Chiaramente, quello di Cenne, un discorso polemico verso un mondo cortese ormai
avviato ad un declino inevitabile e la sua opera si rivela preziosa, non tanto dal punto di
vista letterario, quanto da quello culturale e dei costumi.
87
Nota Bibliografica
FABIAN ALFIE, Comedy and Culture. Cecco Angiolieris Poetry and Late Medieval
Society, Northern Universities Press, Leeds, 2001.
GIANFRANCO CONTINI, Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960.
GIANFRANCO CONTINI, Letteratura Italiana delle Origini, Sansoni, Firenze, 1978.
BRUNO MAIER, La personalit e la poesia di Cecco Angiolieri, Cappelli, Bologna,
1947.
MARIO MARTI, Cecco Angiolieri, in Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di
Dante, Nistri-Lischi, Pisa, 1953.
MARIO MARTI, La coscienza stilistica di Rustico di Filippo e la sua poesia, in
Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di Dante, Nistri-Lischi, Pisa, 1953.
LUIGI PEIRONE, La coscienza dello stile "comico" in Cecco Angiolieri, Sabatelli,
Savona, 1979.
GIORGIO PETROCCHI, I poeti realisti, in La letteratura italiana, a cura di EMILIO
CECCHI e NATALINO SAPEGNO, Garzanti, Milano, 1965.
FRANCO SUITNER, La poesia satirica e giocosa nellet dei comuni, Editrice
Antenore, Padova, 1983.
ANTONIO E.
QUAGLIO,
88
NellItalia settentrionale si sviluppa, a partire dalla fine del XII secolo, una
letteratura in versi di carattere moralistico o edificante, la cui tematica e i cui modi
espressivi sono tali da interpretare le idealit e da accontentare i gusti di un pubblico assai
largo. Sono sermoni contro il vino, contro il giuoco, contro i vizi in genere, aneddoti
morali, regole di galateo, tirate misogine, rappresentazioni terrificanti e grossolane delle
pene infernali: una materia che, se alla lontana risale in gran parte alla Bibbia, non
esclude lutilizzazione di materiale contemporaneo e, soprattutto, si presenta
sostanzialmente conforme ai moduli e ai temi della tradizione moraleggiante mediolatina
e francese.
Si tratta di un insieme poeticamente non molto rilevante e dispirazione collettiva,
in cui infatti abbondano gli scritti anonimi, come gli Insegnamenti a Guglielmo,
provenienti da Verona; i veneti Proverbia quae dicuntur super natura feminarum lungo
elenco di malefatte del genere femminino, da Eva a Medea, dalle figlie di Lot a Erodiade;
il poemetto su La caducit della vita umana; gli scritti, anche in latino e talvolta di
materia civile, oltre che agiografica e moraleggiante, del cosiddetto Anonimo genovese,
la cui vena pi personale si manifesta per nella poesia personale doccasione, cio nella
tagliente epigrammaticit dei motti.
A parte il caso di Bonvesin, la produzione firmata non raggiunge livelli pi alti: n
lo Splanamento de li Proverbii di Salamone o le Noie lista disordinata e piatta degli
aspetti spiacevoli del mondo del cremonese Girardo Patecchio; n la serie di esempi
morali che costituiscono il Libro di Uguccione da Lodi; n le infantili descrizioni del
Paradiso e dellInferno che danno materia al De Jerusalem caelesti e al De Babilonia
civitate infernali del frate minore Giacomino da Verona; n tanto meno i 2500 versi del
Sermone di Pietro da Bescap (intorno al 1260), possono aspirare a rompere il
complessivo grigiore della poesia didattica settentrionale.
91
Se nel Nord le istanze religiose appaiono come sommerse dagli intenti moralistici e
educativi, esse si manifestano allo stato puro nella poesia umbra della lauda. La
spiritualit del XIII secolo pi che da forme raccolte e individualistiche di devozione
caratterizzata, specie nellItalia centrale, da tendenze espansive e collettive, che si
esprimono in manifestazioni di massa, nella costituzione di larghe comunit di devoti,
nellardente spirito di proselitismo, nella esplosiva diffusione degli ordini mendicanti:
quello Domenicano, pi impegnato sul piano della cultura ( lepoca in cui leterno
contrasto fra scienza e fede, cio fra aristotelismo e rivelazione, trova la sua sistemazione
razionalistica nellimmensa opera di san Tommaso dAquino), e quello Francescano, pi
istintivamente vicino alle classi umili e dottrinariamente fedele allimpostazione
agostiniana e quindi fiducioso in un contatto spontaneo e semplice con Dio. San
Francesco non introduce nella spiritualit cristiana tradizionale vistose innovazioni, ma
organizza in una severa disciplina e in una forma comunitaria pi moderna le diverse e
spesso confuse aspirazioni che egli trovava vive nellambiente religioso tra il secolo XII e
il XIII1: il suo programma moderato riesce ad evitare il conflitto con lautorit papale.
Con quella domenicana (si ricordi la Legenda aurea di Jacopo da Varazze, una raccolta di
vite di santi che incontr larghissimo successo) nasce la letteratura francescana, un filone
vitalissimo di opere ascetiche, devote, agiografiche (come la Legenda prima, 1229, e
lampliata Legenda secunda, 1246-1447, di Tommaso da Celano, in cui narrata la vita
del santo), che, scritte per lo pi in latino, raggiungono per spesso ampia diffusione
grazie a fortunati volgarizzamenti. Soprattutto, lo spirito francescano agisce assai presto
sulla letteratura della lauda, promossa, a partire dal 1259-1260 dalle compagnie di
Disciplinati umbri.
Tecnicamente riceve il nome di lauda (piuttosto che di laude) una canzone a
ballo di argomento sacro, con le stanze destinate a un solista o a un gruppo, la ripresa,
ovviamente ripetuta dopo ogni stanza, al coro2. Esempi di lauda di tipo arcaico, cio in
1
2
92
forma di giaculatorie, erano in uso gi sugli inizi del Duecento presso confraternite
fiorentine e bolognesi; una lauda il Cantico di San Francesco; laude di tipo particolare si
recitarono anche durante lanno dellAlleluia (1233), quando, a seguito della predicazione
degli ordini mendicanti, un vasto moto di manifestazioni religiose si produsse in Italia, da
Parma a Cassino: si recitavano pubblicamente versetti a glorificazione della Trinit
intercalati dalla ripetizione di Alleluia. Ma la storia della lauda vera e propria si fa
risalire, con colore pi o meno leggendario, a un perugino di formazione francescana,
Ranieri Fasani, e allanno 1260, cio con lanno che le profezie di un abate cistercense
calabrese, Gioacchino da Fiore (1145 circa-1202) profezie raccolte soprattutto
dallambiente francescano indicavano come data dinizio del regno dello Spirito Santo o
del Quinto Vangelo, succeduto al regno del Padre (epoca dellAntico Testamento) e a
quello del Figlio: lavvento della terza et, che sarebbe stata contraddistinta dal trionfo del
perfetto amore, segn linizio di un vasto movimento di penitenza pubblica e di
autoflagellazione che, partito da Perugia, si diffuse rapidamente in tutta lUmbria, per poi
estendersi in direzione di Roma, dellEmilia e del Veneto. I devoti, riuniti in confraternite
laiche (i Flagellanti o Battuti o Disciplinati), accompagnavano le loro pratiche ascetiche
con il canto corale di laude, la cui struttura riproduceva, non senza intenzione
implicitamente polemica, quella della canzone a ballo profana, di argomento sovente
licenzioso. Anche quando la disciplina corporale cess, il canto delle laude rest
lattivit principale delle innumerevoli compagnie sorte un po dappertutto; da ci la
comodit, per ogni gruppo, di avere registrati in compilazioni scritte i canti diffusi
dapprima solo oralmente: nascono cos i laudari.
93
I Laudari
Il laudario pi antico che ci resti, poich cade ben addietro nel Duecento, quello di
Cortona: tanto prezioso poich fornito di melodie; duecenteschi sono anche quelli di
Borgo San Sepolcro e di Gubbio, cos come duecentesco quello jacoponico. Gli altri
laudari, anche se eventualmente conservano qua e l testi arcaici, sono trecenteschi e
quattrocenteschi. Le laude sono generalmente anonime e traducono una spiritualit in
genere rudimentale ma ardente, unispirazione impersonale ma infuocata di mistico
ardore: si ispirano ad episodi evangelici, intessono lodi della Vergine, dei martiri, dei
santi, invocano la Trinit, lamentano la corruzione del secolo, predicano lamore verso il
prossimo. Il loro carattere responsoriale, cio il fatto che siano cantate alternativamente
da un solista (o da un piccolo gruppo di solisti) e dallinsieme dei fedeli, spiega il
progressivo diffondersi, accanto alle tradizionali, di laude drammatiche, includenti cio
dialoghi fra due o pi personaggi, su cui viene presto ad inserirsi una rudimentale messa
in scena. La prima di queste laude drammatiche il Pianto della Madonna di Jacopone:
ma levoluzione verso vere e proprie forme teatrali un fenomeno trecentesco, che
muove presumibilmente da Perugia e il cui peso determinante per la nascita della sacra
rappresentazione.
94
Anonimo veneto
Lalessandrino deve il suo nome al poema francese Roman dAlexandre di Alexandre de Bernay della fine
del XII secolo, dove questo tipo di verso venne utilizzato per la prima volta. Nella metrica francese e
provenzale un verso composto da un doppio senario (o esasillabo, cio di sei sillabe); nella metrica
italiana, invece, al senario si sostituisce il settenario (verso di sette sillabe); quindi lalessandrino detto
anche martelliano altro non che un verso di quattordici sillabe formato da due parti giustapposte (due
settenari, appunto), indipendenti luna dallaltra, che si dicono emistichi. Alcuni studiosi chiamano questo
metro anche con il nome di tetradecasillabo.
4
Gianfranco Contini, La letteratura delle Origini, Sansoni, Firenze, 1978, pag. 127.
95
Girardo Patecchio
Lautore del Liber Taediorum (citato con gran lode da fra Salimbene da Parma),
Girardo Patecchio, fu notaio a Cremona e viene considerato come uno dei rappresentanti
del Comune di Cremona in occasione, il 9 luglio 1228, della stipulazione di un trattato di
alleanza con Parma a danno di Piacenza. Oltre al Liber taediorum, di lui si conserva
anche uno Splanamento de li proverbi de Salomone, in distici di alessandrini, un po sul
genere dei Proverbia dellanonimo veneto che Girardo evidentemente ben conosceva.
Questo capitolo cremonese della vecchia letteratura in volgare settentrionale, del quale il
Patecchio il principale esponente (ma non il solo rappresentante), ha infatti un aspetto
didattico-moraleggiante, non senza venature umoristiche, e la lingua rispetto a quella
dei Proverbia assai pi lombarda, ed inclina spesso verso una caduta delle vocali
finali.
Per quanto attiene alle materie trattate, lo Splanamento un poemetto di argomento
biblico, costituito da 606 versi alessandrini rimati a coppie. Raccoglie insieme una serie di
insegnamenti morali divisi per argomento, in cui i proverbi biblici attribuiti al re
Salomone sono mescolati con altri testi simili di argomento popolare; il Liber taediorum
(o De taediis), invece, unopera che raccoglie e presenta in versi i fastidi della vita,
ispirandosi al genere provenzale dellenueg; non ci si sofferma eccessivamente su
indicazioni moralistiche, ma al contrario viene proposta vivacemente la passione tipica
dellautore per i costumi cortesi. Lenueg provenzale (da cui il nostro noio o enoio, con
la relativa famiglia lessicale) una canzone-serventese che elenca cose fastidiose il
rovescio del cosiddetto plazer: ne fu specialista un rimatore alverniate dellultimo
Millecento, il Monaco di Montaudon, a cui il Patecchio, pur non servilmente, si tiene
vicino, anche nella forma5.
Gianfranco Contini, La letteratura delle Origini, Sansoni, Firenze, 1978, pag. 130.
96
Giacomino Da Verona
Gianfranco Contini, La letteratura delle Origini, Sansoni, Firenze, 1978, pag. 134.
98
Bonvesin da la Riva
Bonvesin da la Riva nasce con ogni probabilit a Milano dopo il 1240 (la Riva
certo quella di Porta Ticinese, dove risulta abitasse la sua famiglia e dove egli stesso
comperer una casa nel 1291) la maggiore personalit letteraria dellItalia settentrionale
del Duecento. Terziario (quindi frate ma coniugato pi volte) nellOrdine degli Umiliati
(ordine sospetto di eterodossia per estremismo proletario, dovuto ai suoi rapporti con le
maestranze dellindustria tessile), fece parte dei decani dellOspedale nuovo e fu attivo
come scrittore soprattutto nei decenni dal 1270 al 1290; la sua morte va collocata fra il
1313 e il 1315. Era un insegnante privato di grammatica, proprietario, come risulta da un
suo testamento, non solo della propria scuola ma anche degli arredi e dei libri. Questa
professione di insegnante privato, che ampiamente documentata anche in tempi
precedenti nei maggiori centri commerciali della penisola (Genova, Venezia, Firenze,
ecc.), era evidentemente rivolta ai figli della ricca borghesia. Un dato questo che si ricava
anche dal poemetto latino De vita scholastica, che Bonvesin dedic alla propria
professione e che godette di una larga diffusione, tanto da giungere alla stampa ancora in
epoca umanistica.
Fra i suoi scritti in latino eccelle, per perizia retorica nel maneggio della prosa, il
trattato elogiastico De magnalibus urbis Mediolani che, scritto nel 1288, costituisce forse
il coronamento della sua carriera di scrittore: vi si celebrano con orgoglio campanilistico i
fasti civili e religiosi di Milano, con descrizioni minuziose di questa citt e dei suoi
abitanti.
Pi interessanti per noi sono gli scritti in milanese, cio i vulgaria, destinati ad una
borghesia morigerata, ma tuttaltro che priva di umorismo: si tratta di una ventina di
poemetti, tutti in corrette quartine di alessandrini per lo pi monorime, fra i quali
troviamo, da un lato, opere in forma di contrasto o dispute dialogiche a carattere morale,
allegorico, teologico fra lanima e il corpo, la morte e luomo, la Madonna e Satana, la
rosa e la viola, la mosca e la formica oppure fra i mesi dellanno, impreziositi dallabile
alternanza dei toni descrittivi, a volte grotteschi e leggeri, a volte meditati ed esemplari;
dallaltro, opere morali (come lExpositiones Catonis, traduzione dei Disticha Catonis) o
99
agiografiche (come la Vita beati Alexi e quella di Giobbe) e sulle cortesie conviviali (De
quinquaginta curialitatibus ad mensam, una specie di galateo medievale, vivace e
realistico, inserito nella tradizione manualistica del tempo).
Ma il pi celebre dei vulgaria il Libro delle Tre Scritture, in cui sono descritte le
miserie delluomo e le dodici pene dellInferno (scrittura nera), la passione di Cristo
(scrittura rossa) e il Paradiso (scrittura dorata): sempre accuratissimo dal punto di
vista retorico il Libro tocca momenti di vera poesia nella narrazione di miracoli o
esempi inseriti a illustrazione delle parti teoriche e dottrinarie.
Quanto alla lingua adoperata (e si tratta di unimpresa meritoria, sprovvista per
quel che pare di precedenti autorevoli, almeno in Milano) essa conferma il carattere
insieme colto e ben municipale dellautore. La ricopre un velo latineggiante, ma che
spesso non va oltre la grafia. [] Tutte le vocali finali, tranne le pi facilmente caduche,
sono scritte; ma il metro prova che esse, a parte la salda -a si conservano a fin di verso e
in genere davanti a forte pausa, mentre sono suscettibili di caduta allinterno
dellemistichio7.
Gianfranco Contini, La letteratura delle Origini, Sansoni, Firenze, 1978, pag. 139-140.
100
Anonimo Genovese
Colto poeta (insieme a Bonvesin il pi importante del Nord Italia) del primo
Trecento che compone non solo in volgare, ma anche in latino, e che ci ha lasciato dei
Motti sentenziosi, e spesso scanzonati, nei quali si avverte lorgoglioso confronto tra
Genova e Venezia e leco delle contese marinaresche. Infatti, come Bonvesin, anche
lAnonimo partecipa intensamente alla vita comunale, esaltando la sua citt, ma non nella
separata sede dun trattato elogiastico, bens in rime politiche, le quali si mescolano alle
agiografiche e sermoneggianti (dove appunto non mancano i contrasti, fra Estate e
Inverno, fra Gola e Ragione, fra Venerd e Carnevale), e ora fanno lencomio generale di
Genova, ora glorificano i suoi maggiori fatti darme nella vittoriosa lotta con Venezia
sulla fine del secolo, eliminata la concorrenza di Pisa. Questi versi [] non sono tuttavia
la cima della produzione dellAnonimo, che andr riconosciuta piuttosto nella poesia
doccasione s, ma privata, nellepigramma, in quello che egli stesso chiama motto.
Poesia doccasione ed epigramma, attestato dun umore vivace, risentito ed episodico,
definiscono un temperamento assolutamente incomparabile nellItalia duecentesca (ove
non si voglia, rompendo i quadri della letteratura e del puro volgare, ricorrere a fra
Salimbene); e si capisce che, guardando ancor pi alla sostanza estemporanea della
raccolta che al suo aspetto inorganico (tolto il pio inizio), si sia potuto discorrere di
diario. Il fatto tanto pi rilevante perch lAnonimo adopera un linguaggio, a quanto
se ne sa, vergine dogni uso poetico (se si eccettua quello fattone un secolo avanti dal
trovatore provenzale Rambaut de Vaqueiras nel contrasto bilingue con la donna
precisamente genovese e nel discorso plurilingue). La sua cultura volgare, daltronde, non
sembra attenersi allo schema di altri volgari italiani, ma alla filigrana occitanica, come
prova quel suo componimento (De quodam provinciali translato in lingua nostra) in cui il
Lega ha mostrato una parafrasi di Falquet de Romans, operoso nellItalia settentrionale un
po pi di mezzo secolo prima8.
La lingua utilizzata dallAnonimo , pi che un volgare italiano (dal quale la lingua
genovese prender le distanze anche nei secoli successivi), un vero e proprio volgare
8
Gianfranco Contini, Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, Tomo I, pag. 713-714
101
ligure (cio unarcaica base della moderna lingua genovese): molti termini da lui
utilizzati, anche inusuali, sono presenti ancor oggi; altri, invece, se ne discosteranno. Va
comunque notato che per quanto lAnonimo si esprima in un genovese arcaico il
linguaggio appare gi ben delineato e definito, segnale che la Repubblica di Genova, oltre
che autonomia politica, era riuscita a donare al suo popolo anche una lingua che avrebbe
dato origine ad una letteratura durata pi di settecento anni e ancora ininterrotta.
Per ci che attiene pi propriamente al metro dei versi, lAnonimo rifugge la
quartina di alessandrini (tanto cara a Bonvesin) e sceglie lottonario-novenario,
organizzato in quartine a rime alterne o incrociate (abab, abba), o addirittura monorime.
Non mancano poi strofette organizzate sulle stesse rime, come le coblas unissonas della
lirica provenzale.
102
Jacopone da Todi
Secondo unantica biografia, certo per buona parte leggendaria, fra Jacopone, al
secolo Jacopo de Benedetti, nacque da Iacobello tra il 1230 e il 1236 a Todi, studi legge
probabilmente alluniversit di Bologna ed intraprese la professione di notaio e
procuratore legale, conducendo una vita mondana e godereccia. Nel 1267 spos Vanna,
figlia di Bernardino di Guidone conte di Coldimezzo. La moglie mor lanno seguente per
il crollo di un soffitto durante una festa da ballo, ed al ritrovamento sul corpo di lei di un
cilicio, portato per penitenza allinsaputa del marito fo s percosso nella mente e
compunto nel core e alienato de tutti li sentimenti che mai pi parve omo razionale, ma
como ensensato e attonito andava fra la gente: abbandon dunque la vita mondana, la
professione, la famiglia, donando tutto ai poveri, perfino alli panni de colore che isso
usava, e pigli per vestimento uno certo abito romito, secondo uno bizocone (cio come
un bizzoco, un frate laico). Ebbe cos inizio quella che venne chiamata la sua santa
pazzia e per dieci anni condusse vita di penitenza. nel 1278 fu accolto, non senza
difficolt certo dipendenti dalle incredibili stranezze a cui 1o portava il suo assillante
desiderio di umiliarsi, nellordine dei Minori francescani ed entr nel convento di
Pontanelli, presso Terni. Era lepoca delle aspre lotte fra i Conventuali, moderati, e gli
Spirituali (o "fraticelli"), favorevoli ad uninterpretazione estremistica, dura, rigorista
della regola di San Francesco: Jacopone si schier con questi ultimi e nel 1294 fu tra i
fautori della scissione dellordine, che inviarono in merito una legazione a Celestino V, il
quale riconobbe ufficialmente gli Spirituali come Ordine con il nome di Pauperes
heremitae domini Celestini. Ma il nuovo papa Bonifacio VIII9, acerrimo nemico delle
correnti pi radicali della Chiesa, non appena eletto, abrog le disposizioni del suo
predecessore e la congregazione dei Pauperes venne cos sciolta. Nel maggio 1297
Jacopone fu tra i firmatari del Manifesto di Lunghezza, ispirato dai cardinali Jacopo e
Piero Colonna, che contestava la validit dellelezione di Bonifacio VIII10 e chiedeva la
9
Dieci giorni dopo labdicazione di Celestino V, secondo le disposizioni gregoriane stabilite dallo stesso, il
Conclave si radun nel Castelnuovo di Napoli il 23 dicembre 1294; fu brevissimo perch gi il 24 si
raggiunse la maggioranza dei due terzi e fu eletto il cardinale Benedetto Caetani, che assunse il nome di
Bonifacio VIII.
10
Si ricordi Inf. XIX.
103
104
13
Gianfranco Contini, La letteratura delle Origini, Sansoni, Firenze, 1978, pag. 200-201.
105
Nota Bibliografica
107
Il dolce stil novo, dopo la scuola siciliana e le sue propaggini nellItalia centrale,
il secondo importante momento nella storia della formazione del gusto letterario in
Italia. E il suo influsso, pur mescolato intorbidato diviso, durer, oltre il Petrarca, fin nella
prima met del XV secolo: modella di disciplina artistica, di gusto raffinato, di lingua
aristocratica e preziosa1.
noto che, come gi la scuola siciliana, anche il Dolce Stil Novo deve il suo nome
a Dante. Infatti, nel XXIV del Purgatorio2 il poeta fiorentino immagina di incontrare, fra i
golosi, Bonagiunta Orbicciani da Lucca e di esser da lui riconosciuto:
Ma di si veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
Donne chavete intelletto damore.
(cio quella che ora la prima canzone della Vita nuova); a queste parole, che suonano
alta lode nei suoi confronti in quanto gli attribuiscono linvenzione di una nuova maniera
di poetare, Dante risponde che tutto il suo merito si riduce in fondo alla capacit di
trascrivere alla lettera e di manifestare fedelmente quanto Amore gli detta:
E io a lui: I mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
che ditta dentro vo significando.
Bonagiunta ora (issa) in grado di valutare il salto di qualit che stacca lo stile di Dante
da quello della tradizione siciliana e guittoniana, ed esclama:
O frate, issa veggio , disselli, il nodo
che 1 Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo chi odo.
Bonagiunta dichiara allora di scorgere il nodo che aveva trattenuto il Notaio, Guittone e
lui Bonagiunta di qua dal dolce stil novo cos descritto; e soggiunge: Io veggio ben
1
Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. I, La Nuova Italia, Firenze, 1981,
pag. 67-68.
2
Verso 49 e sg.
111
come le vostre penne [da scrivere, sintende] / di retro al dittator sen vanno rette / che de
le nostre certo non avvenne. Il vero autore, dunque (poich questo vale dittatore), ,
interiormente, Amore, che lo stilnovista trascrive in segni comunicabili3. Dante, quindi,
ci avverte che lamore al centro del mondo poetico del stilnovisti: quellamore intorno
al quale sera venuta a raccogliere, per tutta let media, tanta attivit intellettuale di
filosofici mistici scienziati e poeti, in un travagli di indagini psicologiche, di meditazioni,
di confessioni, di slanci lirici, attraverso i quali lidea damore sera arricchita di
contenuto, approfondita ed elaborata, fin quasi a divenire la sintesi di tutta la vita
multiforme e segreta della coscienza4.
a partire da questo episodio della Commedia che si imposta, nella storiografia
letteraria, la consuetudine di designare come Dolce Stil Novo lesperienza poetica iniziata
a Bologna da Guinizzelli a cui Dante conferisce il prestigio di un caposcuola5, che gli
deriva dalla canzone, quasi il manifesto dello Stil Novo, Al cor gentil rempaira sempre
amore e continuata ed approfondita a Firenze da Cavalcanti, Cino e Dante stesso.
Gli atteggiamenti, le idee, i temi, le immagini, le forme di cui il nuovo stile si serve
non presentano, in complesso, un carattere innovativo o tanto meno eversivo nei confronti
della tradizione: esaminati pezzo a pezzo, concetti e modi della poesia stilnovistica
risultano anzi essere lestremo frutto di unevoluzione che ha radici varie e remote.
Il nucleo centrale del mondo poetico degli stilnovisti lAmore, unica forza capace,
nella sua purezza, di elevare spiritualmente luomo: ebbene, il primo manifestarsi di
questo sentimento, il suo straordinario potere, lestasi, lo sbigottimento o lo sgomento che
provoca nello spirito, la spinta che imprime verso la perfezione non sono analizzati ed
interpretati dagli stilnovisti secondo canoni inventati espressamente, bens attraverso
formule e mediante schemi preesistenti, quali li aveva lentamente elaborati, da un lato, la
secolare meditazione di filosofi, teologi e mistici intorno alle varie forme di amore (basti
citare il Tractatus de gradibus Amoris di Riccardo da San Vittore, morto nel 1137),
dallaltro, e soprattutto, lesperienza poetica precedente, attraverso le sottili indagini
psicologiche, le osservazioni minuziose, le innumerevoli dispute sulla natura e sugli
effetti damore che avevano costellato la lirica occitanica, la narrativa francese e la poesia
siciliana e toscana fino a Guittone e che, gi dal 1180 circa, avevano ricevuto anche una
sistemazione dottrinaria nel trattato De Amore di Andrea Cappellano.
3
Gianfranco Contini, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, Firenze, 1978, pag. 149.
Natalino Sapegno.
5
Purgatorio, XXVI, vv. 97 e sg.
4
112
Anche altri spunti stilnovistici come il motivo della donna-angelo, mediatrice fra
luomo e la virt, sorgente di perfezione spirituale, guida dellanima a Dio; o quello della
donna-luce, che, come dice Guinizzelli tutta la rivera [contrada] fa lucere [risplendere] /
e ci che l dincerchio [intorno] allegro torna; o il tema dellAmore armato che d
battaglia al cuore, che assalta ed uccide, e che pertanto richiama lassociazione
cavalcantiana e dantesca di Amore e Morte; o del saluto dellamata che fonte di salute;
o il principio dellidentit di gentilezza (nobilt) con virt e di Amore con gentilezza;
o la definizione di nobilt come elevatezza morale, senza rapporto con la purezza del
sangue e tutto il bagaglio di idee e di metafore che costituiscono il fondo tematico della
poesia stilnovistica, non rappresentano certo una novit assoluta nella letteratura in
volgare; e difatti di ogni spunto possibile tracciare la storia, indicandone gli antecedenti,
consapevoli o inconsci, cronologicamente e concettualmente prossimi o remoti. Nuova
per la rigorosa concentrazione di questi concetti attorno a due perni:
il rapporto, necessario e assoluto, fra amore e gentilezza di cuore;
adeguamento dellamore e della donna ai sentimenti ed al linguaggio della
religione.
Il contingente di novit nella poesia di Guinizzelli e dei suoi prosecutori reale e
immediatamente percepibile: esso consiste prima di tutto, come stato detto dal Parodi,
nella profonda persuasione sentimentale che anima gli stilnovisti, nella ferma
convinzione che essi hanno di possedere un complesso di schemi psicologici originali,
pi profondi pi sottili pi agili di quelli offerti dalla precedente tradizione e, in secondo
luogo, un complesso di atteggiamenti e dimmagini meglio adatti ad esprimerli6.
Gi a livello formale lo stilnovismo si traduce in un progresso effettivo, consistente
nelluso duna lingua pi schiva e delicata, pi limpida e pi sensibile, atta ad esprimere
in immagini nuove le pieghe pi recondite e meno afferrabili della coscienza; una lingua
capace di adattarsi alla ricerca di levit fantastica e di rarefazione spirituale a cui gli
stilnovisti mirano e per cui ogni immagine e ogni parola ci trasportano in un mondo
ideale e raffinato, nel quale i sentimenti si sviluppano nella purezza incontrastata della
loro linea e nulla di corporeo viene mai a toccarli e sminuirli7. I nuovi poeti
abbandonano le vecchie espressioni della cultura provenzale, e adottano i termini pi atti
a rappresentare le intime situazioni angosciose dellanima dinanzi al peccato e alla virt:
6
7
114
angeliche risenta delle contemporanee riflessioni dei teologi sulla natura e la funzione
degli angeli nel creato; e che la tematica della donna-luce non sia del tutto indipendente
dalle conclusioni a cui frattanto perveniva la metafisica circa lessenza luminosa di Dio
(lintellettuale luce divina penetra dovunque e illumina ogni creatura pi o meno
intensamente a seconda che ogni creatura ne pi o meno degna): ma lo stilnovismo non
si presenta come una filosofia neppure in quelle canzoni e in quei sonetti, singolari tra
gli altri e non numerosi, nei quali un problema posto per se stesso e risoluto nei suoi
termini con una vera e propria argomentazione dialettica: neppure, per prender lesempio
pi noto ed evidente, nella canzone di Guido Donna mi prega. In tal caso, meglio che di
filosofia, potremo parlare duna specie di scienza empirica; la quale si raccoglie s intorno
ad una materia in largo senso amorosa, erede daltronde duna assai antica tradizione
letteraria, ma non mai coordinazione ed unificazione di problemi, e assume aspetti
diversi ne diversi poeti 11.
Questo stile detto dolce, nella definizione di Dante, che un vocabolo quasi
tecnico volto a indicare un ideale di fusione melodica; e novo, cio (bench qualche
critico temperi lidentit) ispirato alliniziativa che detta le nove rime, allintenzione di
prendere per materia de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa
gentilissima (Vita nuova)12. Questi due requisiti gi si ritrovano in Guinizzelli, che con
i sonetti Lo vostro bel saluto e l gentil sguardo e Io vogl del ver la mia donna laudare
introduce un tema chiave nella poesia stilnovistica: gli effetti di elevazione che la bellezza
e la gentilezza dellamata suscitano in chi la guarda. Un tema che sar poi ripreso e
variato da Cavalcanti e da Dante in due famosissimi sonetti: Chi questa che ven,
chognom la mira e Tanto gentile e tanto onesta pare.
Non bisogna poi dimenticare che se lo stilnovo pu tranquillamente essere iscritto
fra le scuole letterarie, nel senso che comuni a tutti i suoi seguaci sono le componenti
culturali, lorientamento del gusto, la persuasione di creare tutto ex novo, il giovanile
entusiasmo con cui perseguito un identico ideale di perfezionamento sentimentale e
letterario attraverso il superamento delle vecchie poetiche occitanizzanti e guidoniane, la
capacit di approfondire poeticamente il dialogo interiore, la consapevolezza, infine, di
possedere uno strumento linguistico ormai perfetto e flessibile, capace di adattarsi alle pi
diverse esigenze dellespressione poetica esso tuttavia laggregato di sensibilit e
11
12
Natalino Sapegno.
Gianfranco Contini, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, Firenze, 1978, pag. 149.
115
personalit diversissime.
Lo stacco pi forte certo quello esistente fra gli stilnovisti toscani e il primo
Guinizelli, ancora cos invischiato di amore terreno e di senso del peccato, ancora cos
legato a procedimenti guittoniani, tanto che, come ha scritto di lui il Contini, fu meno un
maestro che un predecessore e un antenato. Anche tra il linguaggio guinizelliano e
quello dei discepoli toscani savverte una mutazione profonda di lessico, di gusto, di tono.
Le aeree morbidezze della Vita nuova, il repertorio drammatico del Cavalcanti, lampia
agibilit del lessico di Cino determinano un corpus di fatti linguistici numerosi e vari, in
gran parte ignoti al Bolognese. Ma sarebbe erroneo concludere che lo stilnovismo toscano
operi uno stacco netto, nella terminologia e nellespressione, dallo stilo del Guinizelli. Il
progresso piuttosto nel tempo, che ha arrecato una maggiore esperienza della parola,
una sensibilit acuta, e quella naturale evoluzione che nellordine della lingua italiana
alle soglie del Petrarca. Il quale sentiva nel vecchio Cino un trecentista, un suo
contemporaneo, rispetto al Guinizelli13.
13
Giorgio Petrocchi.
116
Guido Guinizzelli
Nella Bologna del secondo Duecento troviamo due personaggi con questo nome:
uno un Guido di Guinizzello14 della famiglia dei Principi, che fu podest di Castelfranco
Emilia (presso Modena) nella seconda met del Duecento; laltro quello in cui gli
studiosi moderni tendono oggi a riconoscere il poeta un omonimo giudice o
giurisperito, figlio di Guinizzello da Magnano, che troviamo nominato in documenti a
partire dal 1266: questo personaggio parente per parte di madre di quel Guido
Ghisilieri15, poeta bolognese, che Dante loda nel De vulgari eloquentia16 venne esiliato
da Bologna nel 1274 insieme ad altri cittadini, in seguito alla sconfitta della famiglia
ghibellina dei Lambertazzi, sopraffatta dalla famiglia guelfa dei Geremei. I Guinizzelli
il padre impazz per la disgrazia scelsero come luogo desilio Monselice (sui Colli
Euganei, in provincia di Padova) ed ivi Guido mor in giovane et probabilmente nel
1276, visto che un documento notarile, risalente al 14 novembre 1276, affida alla moglie
di Guido, Bice della Fratta, la tutela del figlio minorenne.
Sebbene sia impossibile ordinare cronologicamente il canzoniere guinizzelliano (5
canzoni e 15 sonetti di sicura attribuzione), appartengono certamente alla sua prima
maniera i componimenti sicilianeggianti e guittoniani: a Guittone il giovane poeta invia
una canzone, pregandolo di correggerla; a Guittone si rivolge chiamandolo caro padre
meo; di Guittone riprende motivi e procedimenti tecnici. Poeta di alta cultura, il suo
interesse naturalmente rivolto ai classici e soprattutto ai poeti occitanici, ma anche
attratto in quella Bologna che ferve di unanimata attivit speculativa dalla
problematica naturalistica, teologica e mistica su cui si esercita in quegli anni la
riflessione dei filosofi: pi che spinto dalla preoccupazione di inserire il proprio mondo
fantastico entro i confini di una precisa corrente di pensiero, il giovane poeta tuttavia
affascinato dalla terminologia alla moda e dai suggerimenti tematico-immaginativi che le
dottrine tomistiche e neoplatoniche possono offrirgli.
limmissione nel tessuto poetico delle sue canzoni di tali suggestioni di ascen14
117
denza filosofica, con lastrusit che di fatto ne deriverebbe, a suscitare la prima reazione
della vecchia scuola contro i nuovi modi: Bonagiunta lo accusa di voler estrarre poesia
dai manuali scientifico-filosofici. In realt alla base della poesia di Guinizzelli c uno
sforzo di rimeditazione che si applica alle idee ed alle metafore tradizionali per scavarvi
dentro con giovanile entusiasmo, per controllarne caso per caso la veridicit e la portata.
Questo vaglio, questo ripensamento di un materiale che i suoi predecessori avevano
sovente accolto senza approfondimenti personali, si traduce in un reale affinamento
dellanalisi psicologica e nellacquisizione di una capacit di introspezione quale i
siculo-toscani non avevano mai conosciuto. N, daltra parte, tale operazione viene
condotta a freddo, in maniera intellettualistica, ma anzi con partecipazione vivissima e
con lentusiasmo giovanile che accompagna e pervade di s il contenuto culturale
derivato dalla tradizione, creando ad esso unespressione immaginosa e poetica,
facendone una cosa tutta fresca e affatto aliena da pedanteria. Questo fervore di
giovinezza, quasi il sorriso di un mondo che si apre alla luce, correr poi le rime tutte dei
poeti dello stil novo, ma che in nessuno appare cos schietto e primaverile come nel
primo Guido17. Le metafore ridiventano immagini, la lingua stessa abbandona via via
lasprezza guittoniana, quella che Dante condannava come espressivit plebea, per
divenire una sostanza aerea, armoniosa ed equilibrata, atta a tradurre le fantasie interiori
in segni limpidi e nitidi, quali la poesia del Duecento ancora non conosceva: questa la
dolcezza dellimpasto melodico guinizzelliano, e poi stilnovistico, su cui insiste Dante
nei gi citati brani del Purgatorio. Lentusiasmo di possedere qualcosa di nuovo da dire si
tradotto in una novit espressiva che influir profondamente sul gusto dei
contemporanei.
17
Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. I, La Nuova Italia, Firenze, 1981,
pag. 70.
118
Guido Cavalcanti
Figlio di Cavalcante Cavalcanti, che Dante pone fra gli epicurei18, cio fra i negatori
dellimmortalit dellanima, Guido nacque a Firenze prima del 1260. Apparteneva ad una
delle pi potenti e temute casate guelfe, che fu molto danneggiata dalla vittoria Ghibellina
a Monteaperti, battaglia in cui Cavalcante aveva combattuto, guadagnandosi lesilio. Nel
1267, un anno dopo la battaglia di Benevento, che aveva rovesciato la situazione, tra i
molti fidanzamenti di giovani fiorentini con una giovane di parte avversa, conclusi con la
speranza che ci riducesse lattrito fra le fazioni, ci fu anche, secondo Giovanni Villani19,
quello di Guido con Bice, figlia di Farinata degli Uberti20, che pi tardi spos. Nel 1280
troviamo Guido fra i mallevadori guelfi in occasione della pace detta del cardinal
Latino21, stipulata fra guelfi e ghibellini. Quattro anni dopo, quando la situazione si fece
di nuovo incandescente, Guido guelfo di parte bianca, come Dante divenne membro
del Consiglio Generale del Comune, a fianco di Brunetto Latini e di Dino Compagni. A
questepoca risale il suo pellegrinaggio a Santiago di Compostela, interrotto per a Nmes
nel 129222: ed forse in questa occasione che Guido visit Tolosa e vi conobbe la
Mandetta23. Da tempo un odio violento lo opponeva al nero Corso Donati, che forte lo
temea, perch lo conoscea di grande animo24; Corso tent di far assassinare il poeta
durante il viaggio a Compostela; rientrato a Firenze, Guido volle vendicarsi e tese un
agguato al rivale: ma la freccia and a vuoto e Guido fu inseguito e ferito alla mano da
una sassata avversaria. Gli anni che seguirono videro Guido mischiato a tumulti e risse
faziose; finch, il 24 giugno 1300, i Priori, fra i quali vi era anche lamico Dante
Alighieri, decisero di allontanare i rappresentanti pi animosi delle parti in lotta per
riportare la pace a Firenze: Guido, insieme agli altri Guelfi di parte bianca, se
18
Inferno, X, 52 e sg.
Giovanni Villani (Firenze, 1276-1348) fu mercante, scrittore e cronista italiano, noto soprattutto per aver
scritto la Nuova Cronica, un resoconto storico della citt di Firenze e delle vicende a lui coeve.
20
Dante colloca anche lui tra gli epicurei, Inferno, X, 39 sg.
21
Il frate francescano Francesco Frangipani Malabranca.
22
Lo racconta Nicola Muscia in un suo sonetto faceto: va per notato che Nmes, venendo dalla Provenza,
molto prima di Tolosa.
23
O lAmandetta, giacch Amande era un nome molto diffuso in Francia.
24
Dino Compagni.
19
119
Decameron, IV, 9.
Inferno, X, 62-63: Virgilio attraverso questo luogo mi conduce forse, se potr arrivarci [e la cosa
tuttora incerta], da colei [Beatrice] a cui il vostro Guido ebbe a disdegno, rifiut, di esser menato [o di
venire], (Natalino Sapegno).
27
Gianfranco Contini, Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, Tomo II, pag. 489.
26
120
Gianfranco Contini, Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, Tomo II, pag. 490.
121
122
Cino da Pistoia
Cino, cio Guittoncino di ser Francesco dei Sigisbuldi (detti per spesso Sigibuldi o
Sinibuldi) nacque a Pistoia verso il 1270. Secondo i moderni eruditi, appartenente ad una
nobile e ricca famiglia di parte nera29, studi grammatica e diritto prima nella sua citt,
poi a Bologna, dove segu fra laltro le lezioni di Francesco figlio del grande Accursio;
completando poi i suoi studi di giurisprudenza in Francia, ad Orlans, sotto la guida di
Pierre de Belleperche. Nel 1300 ottenne le prime cariche pubbliche a Pistoia; ma fu
esiliato da questa citt nel 1303 e si rifugi forse a Prato e Firenze. Nel 1306, con la
sconfitta dei Bianchi, pot rientrare ed esplic lattivit di giudice fino al 1306;
circostanza patetica, fra i Bianchi cacciati cera lamata del poeta, Selvaggia dei
Vergiolesi, che mor in esilio prima del 1310. In questo periodo Cino fu, per ragioni
politiche e professionali, in stretti rapporti con lambiente fiorentino, col quale del resto
era stato in contatto fin dagli anni della giovinezza; si rec anche a Roma, assessore del
conte Ludovico di Savoia, per prepararvi lincoronazione di Arrigo VII. La morte di
questo sovrano (1313), nel cui intervento anche Dante aveva riposto tante speranze, lo
sconvolse e lo risospinse verso gli studi di giurisprudenza; la sua produzione in questo
settore imponente: celeberrima la sua Lectura in codicem (1314), commento al codice
giustinianeo. La sua fama di giurisperito era immensa: insegn negli Studi di Siena,
Perugia, Napoli e forse anche di Firenze, e gli specialisti sottolineano la sua fisionomia di
precursore e la sua lotta contro i canonisti a sostegno del potere civile. Nel 1332 torn a
Pistoia, dove ebbe la carica onorifica di gonfaloniere e fece parte del Consiglio del
Popolo. Mor nel 1337, e fu pianto dal Petrarca nel commosso sonetto Piangete, donne, e
con voi pianga Amore.
Dante lo stim moltissimo e lo cit a pi riprese con lode nel De vulgari eloquentia.
Anche i rapporti poetici fra i due furono molto fitti: erano forse iniziati gi prima del
1290, quando Cino indirizz a Dante una canzone consolatoria per la morte di Beatrice;
numerosi sono anche i sonetti che Cino scambi con Dante, sia quando questi si trovava
ancora a Firenze sia al tempo dellesilio: da queste rime di corrispondenza esce
29
La tradizione invece (forse per sintonizzare Cino con Dante) ne fa un famiglia di parte bianca.
123
limmagine di un Cino volubile, che passa da un amore allaltro, che, come dice Dante, si
lascia pigliar... a ogni uncino. Cino compose anche un pianto in forma di canzone per la
morte di Dante (1321; Su per la costa, Amor, de lalto monte), intessuto di ricordi della
Commedia.
Lampia produzione ciniana, i cui limiti del resto rimangono da determinare con
esattezza perch moltissime sono le rime che gli si attribuiscono solo dubbiosamente,
caratterizzato in genere da una monotona insistenza sui temi ormai tradizionali dello
stilnovismo e da modi alquanto prosastici, lontani dalle fantasiose levit dei suoi amici
fiorentini. Guinizzelli, Cavalcanti, ma soprattutto Dante sono le sue fonti. Pi che da una
reale ansia di approfondimento psicologico e stilistico, Cino mosso dal gusto di variare
allinfinito le combinazioni di motivi: motivi ormai stanchi e che egli non rinnova. I suoi
versi non si dispongono secondo la linea di una storia interiore, il suo mondo poetico resta
privo di un vero centro. Ci non vuol dire che in Cino non si accenda mai il calore della
poesia: dalla combinazione di due facolt, la memoria e lintelletto, nascono qua e l cose
vive e alte. Con il giuoco della memoria siamo gi sulla via del Petrarca, e in questo senso
Cino prepara i tempi nuovi, fungendo da mediatore fra lo stilnovismo e la poesia del
Trecento: ma, in Cino, al giuoco assiste sempre lintelletto, che al limite inferiore , certo,
raziocinio, al livello pi alto accensione dellintelligenza: quasi un emblema di questa
poetica che combina rimembranza e facolt intellettiva ci offerto, come ha rilevato il
Contini30, dal verso ciniano imaginando intelligibilmente.
30
Gianfranco Contini, Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, Tomo II, pag. 630.
124
Lapo Gianni
31
32
Gianfranco Contini, Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, Tomo II, pag. 570.
Gianfranco Contini, Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, Tomo II, pag. 570.
125
Gianni Alfani
126
Dino Frescobaldi
Nato dopo il 1271 e morto prima del 1316, Dino Frescobaldi descritto dal cronista
del trecento Donato Velluti come uomo bello del corpo e piacevole e gran
vagheggiatore; il Boccaccio, invece, nella sua Vita di Dante, ci dice che era in quegli
tempi famosissimo dicitore per rima in Firenze e uomo dalto intelletto e narra anche
il famoso aneddoto dei primi sette canti della Commedia ritrovati dopo che Dante ebbe
preso la via dellesilio, mostrati a Dino con sua somma ammirazione, e da lui inviati
insieme allo scopritore al Marchese Moroello Malaspina, presso cui risiedeva in quel
momento lAlighieri. Questo episodio palesemente leggendario, ma qualunque sia il
credito che gli si voglia attribuire riflette perlomeno una circostanza indubbia: che nel
linguaggio frescobaldiano, impastato gi di elementi cavalcantiani e della Vita Nuova, si
viene poi introducendo lesperienza dei primi canti dellInferno, tratta, come quei dati
stilnovistici, a una interpretazione singolarmente irrazionale, sfuggente33.
Va detto anche che larte della poesia non era estranea a questo ramo della famiglia
Frescobaldi: il padre di Dino, infatti, messer Lambertuccio di Ghino, guelfo nero, potente
mercante laniero e banchiere, aveva scritto in giovent sonetti guittoniani, parteggiando
per Corradino di Svevia contro Carlo dAngi; inoltre Matteo, uno dei figli di Dino,
morto durante la peste del 1348, viene solitamente annoverato tra gli epigoni dello Stil
Novo.
Due concetti sostengono la sua immaginazione poetica: laffratellamento con la
Morte, e lincapacit ad istituire un rapporto di comunicazione con la donna sdegnosa34:
concetti non nuovi, che appaiono tuttavia sofferti e rivissuti e sui quali Dino innesta la sua
cupa immaginazione, fatta di un metaforeggiare ardito e sensuale; in lui evidente un
proposito di novit e di originalit, che, se pur non arriva a tradursi in poesia, non senza
importanza nella storia del gusto poetico. Quello che nello stil novo vi era di sforzato e di
artificioso, di sottile e di ricercato, nel Frescobaldi si accentua e si esaspera, diventa
stranezza voluta, tensione retorica. Ma in questo bisogno di novit si palesa il fastidio
33
34
Gianfranco Contini, Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960, Tomo II, pag. 614.
Giorgio Petrocchi, Le Origini e il Duecento, pag. 768.
127
degli angusti confini che la scuola imponeva, il desiderio duna materia meno fragile ed
eterea, pi concreta e drammatica35.
35
Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. I, La Nuova Italia, Firenze, 1981,
pag. 74.
128
Nota Bibliografica
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Feltrinelli, Milano, 1960.
PIERO BIGONGIARI, La poesia di Guido Cavalcanti, in Secoli vari, Sansoni, Firenze,
1958.
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1968.
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1958.
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Commedia, Neri Pozza, Venezia, 1965.
GIORGIO PETROCCHI, Il Dolce stil novo, in Storia della letteratura italiana, a cura di
129
130
DANTE ALIGHIERI
Linea biografica
1 - La giovinezza
Dante, accorciativo di Durante, nacque a Firenze nel maggio 1265 da Alaghiero di
Bellincione degli Alaghieri (tale la grafia esatta del cognome; quella moderna prevalse
solo con la seconda met del Trecento) e da una Bella, forse degli Abati, che mor quando
il figlio era piccolissimo. Anche il padre, che si era risposato, mor presto, prima che
Dante toccasse i diciotto anni, Gli Alighieri vantavano origini illustri, ritenendosi
discendenti da una delle famiglie romane che, secondo la leggenda, avrebbero fondato
Firenze (Inf. XV 71-78); il trisavolo di Dante, Cacciaguida, era stato fatto cavaliere
dellimperatore Corrado III e laveva seguito in Terrasanta, dove era morto verso il 1147,
nel corso della seconda Crociata (Par. XV 139-48). Del nonno Bellincione sappiamo che
era cambiavalute; del padre Alighiero, che era dedito a modeste attivit finanziarie, non
esclusa, secondo le male lingue, lusura.
Quando Dante nacque, la situazione economica della famiglia non era certo florida:
per questo egli, appresi i rudimenti della grammatica, cio del latino, e della retorica,
dovette approfondire la propria cultura soprattutto da s. I suoi interessi erano
naturalmente rivolti alla poesia, sia a quella in volgare, di cui Firenze era il centro pi
importante ed attivo, sia a quella in latino: a questi anni risalgono certo i suoi primi
contatti con i grandi classici: Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano, che cos robustamente
contribuirono alla sua maturazione intellettuale. A diciotto anni Dante indirizzo ai pi
famosi rimatori del tempo quello che ora il primo sonetto della Vita nuova: A
ciascunalma presa e gentil core, che segn forse linizio della sua notoriet; al sonetto
rispose fra gli altri Guido Cavalcanti, e questo dir poi il poeta fue quasi lo principio
dellamist tra lui e me, quando elli seppe chio era quelli che li avea ci mandato.
Incoraggiamenti e consigli, pi che un vero e proprio insegnamento di tipo scolastico,
riceve da Brunetto Latini, la cui figura dominava in quegli anni la scena politica e
intellettuale di Firenze: da lui Dante dichiarer di aver appreso come luom setterna
(Inf. XV 85).
Verso il 1287 fu a Bologna, non si sa se per studi o altro, come testimonia il sonetto
133
Non mi poriano gi mai fare ammenda, in cui si allude alla torre Garisenda. A questo
periodo giovanile appartengono il Detto dAmore e il Fiore, che, ispirandosi al Roman de
la rose, provano linteresse di Dante per la cultura in lingua francese; ed questa anche
lepoca in cui matura lamore per Beatrice, esperienza capitale che materier di s non la
Vita nuova soltanto ma, mediante la trasposizione simbolica dellamata (Beatrice = la
Teologia), tutto l`itinerario spirituale della Commedia.
Dante comincia intanto ad interessarsi alle vicende politiche della sua citt: il suo
spirito, assillato da problemi dordine pratico e morale pi che speculativo, rifuggiva
infatti dalla meditazione astratta e chiusa; tutta la sua esistenza appare dominata
dallappassionata ricerca della giustizia, del bene pubblico, della definizione dei rapporti
fra autorit civile e spirituale. Agivano certo su di lui sia lammirazione per limpegno
civile di Cavalcanti, sia, soprattutto, linsegnamento di Brunetto, che aveva definito la
politica la scienza pi nobile ed alta; del resto, a parte il padre, che sembra abbia
condotto vita appartata, i suoi familiari avevano preso parte attiva alla vita politica di
Firenze, anche se nelle tradizionali forme faziose che Dante condannava. La famiglia era
guelfa, come in genere la piccola nobilt cittadina e il popolo artigiano, in opposizione
alla nobilt feudale, di parte ghibellina, che della protezione dellImpero si valeva per
dominare nel comune (Barbi); Dante fu guelfo bianco, appartenne cio al partito
moderato, che era capeggiato con pavida indecisione da Vieri de` Cerchi: ma prefer
sempre considerarsi uomo senza parte.
L11 giugno 1289 Dante fu tra i combattenti guelfi a Campaldino, contro gli Aretini
e i fuorusciti ghibellini (Inf. XXII 4-5; in questa battaglia mor Buonconte da Montefeltro,
di cui scomparve misteriosamente il cadavere: Purg. V 91-93); prese parte anche alla
campagna contro Pisa, che frutt alla Lega guelfa, comandata da Nino Visconti (Purg.
VIII 52-55), il castello di Caprona (agosto 1289: Inf. XXI 94-96).
settembre 1296 poi eletto membro del Consiglio dei Cento, cio dell`organo che
deliberava sulle spese del Comune: incarico di fiducia, che prova la stima di onest di cui
Dante godeva. La sua partecipazione a questi incarichi non si manifesta tuttavia in forme
vistose; la relativa tranquillit della situazione consente che ancora prevalgano gli
interessi letterari, sono di questi anni le cosiddette petrose, momento importantissimo
nellevoluzione della tecnica dellAlighieri, che rivelano in lui lintento di entrare in gara
con le pi ardue difficolt espressive della lirica occitanica e di tentare un registro
statistico ben pi corposo di quello usato dagli stilnovisti.
Intanto per gli eventi precipitano e richiedono il pi totale impegno di Dante
cittadino. Nel 1300 egli chiamato a far parte di unambasceria spedita a San Gimignano
per rinsaldare la Lega guelfa, in una fase particolarmente delicata dei rapporti tra Firenze
e il papa Bonifacio VIII, la cui fino allora subdola ingerenza negli affari del Comune
stava trasformandosi in una scoperta manovra annessionistica, con grave minaccia per la
libert stessa della citt toscana.
Grazie certo al fermo atteggiamento antipapale di cui d prova in questa
circostanza, Dante eletto priore da met giugno a met agosto 1300 e tocca cos lapice
della sua carriera, come dir in una lettera in latino, di cui stata conservata solo la
traduzione, tutti li mali e tutti linconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato
ebbono cagione e principio. Dagli incarichi ricevuti non deriva nemmeno prova della
sua onest un consolidamento economico: Dante anzi costretto a contrarre nuovi
debiti nei confronti del fratellastro Francesco.
Durante il suo priorato una delle solite mischie fra Bianchi e Neri obbliga i
magistrati a dar prova dimparzialit esiliando otto capiparte di entrambe le fazioni: fra gli
esiliati il primo amico di Dante, Guido Cavalcanti, che, confinato a Sarzana, vi
contrae il male che lo condurr presto a morte. Nel settembre 1300 il Pontefice, irritato
per la resistenza che i Fiorentini oppongono alle sue mire espansionistiche, scaglia contro
la citt linterdetto; unambasceria solenne parte allora per Roma; di essa forse anche
Dante fa parte; in ogni caso probabile che il poeta visiti Roma nellanno del giubileo
(come pare dimostrare lesatta descrizione del movimento dei pellegrini sul Ponte
SantAngelo in Inf. XVIII 28-33).
Dallaprile al settembre 1301 Dante fa di nuovo parte del Consiglio dei Cento ed ha
nuove occasioni per mostrare pubblicamente, in ripetuti interventi, il suo atteggiamento
tuttaltro che conciliante nei confronti delle illecite pretese papali. Tuttavia Bonifacio ha
136
trovato entro le mura di Firenze un alleato potente e deciso a tutto nella persona di Corso
Donati (Purg. XXIV 82-84), capo della fazione nera, e con lui saccorda per schiacciare la
parte avversa; con la scusa di metter fine alle sanguinose lotte che dividono la citt ma col
segreto intento di fiaccare i Bianchi, fa muovere alla volta di Firenze il paciere Carlo di
Valois. I Fiorentini sono incerti sul da farsi e, per esplorare le reali intenzioni del
pontefice, decidono di inviargli tre ambasciatori, uno dei quali Dante. Secondo
unantica tradizione Dante sarebbe rimasto perplesso alla notizia della nomina e si
sarebbe chiesto: Se io vo, chi rimane?, e se io rimango, chi va?, Nellottobre del 1301 il
poeta dunque presso Bonifacio ed ha agio di conoscere il pontefice contro cui
pronunzier nella Commedia le pi tremende requisitorie (Inf. XIX 52 e ss., XXVII 85 e
ss., Par. XXVII 22, ecc.). Costui, conoscendone le idee e la fermezza, pensa bene di
trattenerlo presso di s, mentre rinvia subito gli altri ambasciatori con rassicurazioni
generiche. Cos Carlo di Valois lasciato entrare in Firenze e i Neri prendono presto il
sopravvento, scatenandosi in ogni sorta di soperchierie: le case degli Alighieri sono fra le
prime ad esser saccheggiate e devastate.
Dante non potr pi rientrare in Firenze: giunto per lui il momento di lasciare
ogni cosa diletta / pi caramente (Par. XVII 55-56). A Siena sapr del rovescio della
sua
parte
prender
conoscenza
della
sua
condanna.
Accusato
di
frode
4 - Lesilio
Cominciano per Dante le amare, spesso umilianti peregrinazioni di corte in corte, i
duri tempi in cui, escluso dalla sua amatissima citt, sperimenter in prima persona come
sa di sale / lo pane altrui (Par. XVII 58-59, e cfr, Purg. XI 140-141).
Il desiderio di rientrare in Firenze e di vendicarsi faceva sembrare sopiti gli antichi
odi ed accomunava in unazione relativamente unitaria fuoriusciti bianchi e Ghibellini.
Dante partecipa dapprima attivamente alle manovre che questa accozzaglia di sbandati
compie, appoggiandosi a questo o a quel signore ghibellino, per impadronirsi della citt
137
con la forza. Con tale politica in rapporto il suo soggiorno a Forl presso gli Ordelaffi
nel 1303 e, subito dopo, forse anche a Verona presso Bartolomeo della Scala. Ma i
tentativi non hanno buon esito. Cade anche, ben presto, la speranza di essere accolti
fraternamente nella citt pacificata: i buoni uffici di mediatore del nuovo papa Benedetto
XI e del suo legato, il cardinale Nicol da Prato, si risolvono in un fallimento e provocano
anzi nuovo sangue. Bianchi e Ghihellini decidono allora di muovere armati contro
Firenze, ma subiscono la disastrosa disfatta della Lastra (1304).
A questo punto Dante si stacca dalla compagnia malvagia e scempia (Par. XVII
62), certo per seri disaccordi sopravvenuti circa la politica da adottare. I fuorusciti, mossi
solo dal rancore e dallo spirito di vendetta, non sono alla1tezza di comprendere i
superiori ideali di riconciliazione, di amor di patria, di giustizia universale che ispirano
Dante: i Bianchi come i Ghibellini lo prendono per un traditore e proferiscono nei suoi
confronti oscure minacce (Inf. XV 71-72).
Dante peregrina allora fra Padova (dove Giotto sta lavorando alla cappella degli
Scrovegni) e Treviso (presso quel Gherardo da Camino di cui tesser altissime lodi in
Conv. IV xiv 12-13, e nel Purg. XVI 124), fra Venezia (loperosit di marinai e calafati
nellarsenale gli ispirer la mirabile comparazione di Inf. XXI 7-15) e Bologna: ma da
questa citt, conformemente con la politica di amicizia che la lega in questi anni al
Comune toscano, tutti i fuorusciti fiorentini sono espulsi nel 1306.
Frattanto, nel 1304, Dante ha messo mano al Convivio e subito dopo, come una
parentesi nella stesura di questo trattato, ha cominciato anche il De vulgari eloquentia,
che per lascia presto interrotto: e interromper, fra il marzo 1306 e il novembre 1308,
anche il Convivio.
Nel 1306 in Lunigiana presso i Malaspina, nobilissimi signori la cui grandezza
morale esalter in Purg. VIII 121-32. Sono grandi nemici dei Bianchi, ma ormai Dante si
considera fuori della mischia: ha fatto parte per se stesso (Par. XVII 69). La stima che
essi hanno per lui provata dal fatto che gli assegnano la funzione di loro procuratore
nella pace che stipulano con un loro tradizionale nemico, il vescovo-conte di Luni.
Nel 1308 troviamo Dante a Lucca, forse presso quella nobildonna, Gentucca, a cui
si riferiscono alcuni versi di lode nel XXIV del Purgatorio (37-45).
Era forse in Casentino, presso i conti Guidi, quando fu eletto Imperatore Arrigo VII
di Lussemburgo: sostenuto dal nuovo papa, il guascone Clemente V, egli si accingeva a
discendere in Italia come rex pacificus, per riportare la concordia fra le citt e le fazioni,
138
fra i vincitori e gli esuli: pareva potesse alfine realizzarsi, nel miracoloso accordo fra
Papato e Impero, il grande sogno di Dante. Una diffusa commozione si sparse per la
penisola: quasi in ogni citt ci si apprestava a ricevere lImperatore con grandi onori, nella
segreta speranza che il suo intervento potesse davvero segnare la fine di tutti i mali che
affliggevano lItalia. Quando Arrigo varc le Alpi, Dante indirizzo unepistola a tutti i
potenti e a tutti i popoli della terra, facendosi portavoce delle entusiastiche speranze che
in lui ognuno riponeva; e subito accorse nel Nord a rendergli onore. Ma Firenze restava
ostile: tramava contro Arrigo appoggiandosi al re di Napoli Roberto dAngi, suscitava
ribellioni in Lombardia, si apprestava apertamente alla difesa armata: lo sdegno di Dante
esplode allora nella violenta lettera agli scelleratissimi Fiorentini del 31 marzo 1311 e
subito dopo (17 aprile) in quella, diretta allImperatore, in cui chiede che sia schiacciata
per sempre la vipera che morde il seno della sua stessa madre e che non cessa di soffiar
sul fuoco dellopposizione anti-imperiale.
Frattanto per Clemente V, che aveva trasportato la sede papale ad Avignone
(1309), sotto le pressioni di Roberto dAngi e di Filippo il Bello re di Francia, mutava
radicalmente il suo atteggiamento nei confronti di Arrigo VII, si rifiutava di incoronarlo e
rinfocolava cos un po dappertutto lostilit contro colui che fino a poco prima era stato il
suo protetto, Dante avr parole di fuoco contro il Guasco traditore (Inf. XIX 82-84).
Quando Arrigo porta vanamente la minaccia del suo modesto esercito sotto le mura
di Firenze, Dante non fra gli assedianti: sotto la spinta degli eventi attende alla stesura
del De monarchia, in cui difende il diritto imperiale, sostenendone lindipendenza dalla
suprema autorit religiosa. Nel 1313 Arrigo muore a Buonconvento presso Siena,
portando con s le estreme speranze di un rinnovamento politico della societ cristiana
(Sapegno).
140
Il Fiore
Ricchezza laiuto di cui ha bisogno per superare la resistenza dei suoi avversari. Trova
soccorso invece in Amore, che chiama a raccolta i suoi baroni: Franchigia, Cortesia,
Piet, Larghezza, Ardimento, Onore, Diletto, Letizia, Sollazzo, e via dicendo. Tra questi
sono anche i rappresentanti dellastuzia e della simulazione: Falsembiante e CostrettaAstinenza, personificazioni dellipocrisia e dellinframmettenza dei monaci. Ad essi
spetta il compito di uccidere Malabocca. Larghezza e Cortesia corrompono la Vecchia e
trovano in lei un docile strumento per completar lopera di seduzione presso
Bellaccoglienza. Quindi la baronia dAmore assale il castello e Venere lo mette a fuoco.
Amante riesce cos a conquistare il Fiore (Sapegno).
Non c dubbio che chi scrisse il Fiore scrisse anche, suppergi negli stessi anni, il
Detto dAmore, altra parafrasi, pervenutaci frammentaria (480 versi), del Roman de la
Rose in coppie di settenari a rime equivoche (in cui cio alla rima si trovano sempre
due omofoni di significato differente, esempio; La bocca e l naso e l mento / ha pi
belli, e non mento, / chunque [mai] non ebbe Alna [Elena], / e ha pi dolce alena
[alito] / che nessuna pantera, vv. 71-75). Se si accetta, come pare indubitabile,
lascrizione a Dante del Fiore, bisogna attribuire alla sua giovinezza anche questo
poemetto, il cui autore del resto, per riconoscimento unanime, mostra di sapersi muovere
con una disinvoltura non comune e riesce anche a tratti ad esprimere la sua arguta fantasia
e la sua intelligenza vivace e spregiudicata (Sapegno), superando con eccellente
virtuosismo gli scogli della tecnica adottata.
142
La Vita nuova
autobiografia lirica, in cui i fatti sono immersi in una luce miracolosa e trasposti in
termini di trasognata eleganza e levit secondo i canoni della poetica stilnovistica.
Nel suo insieme la Vita nuova si presenta come un capolavoro di raffinato,
intellettualistico lirismo: la materia di cui fatta un impasto prezioso, che esclude
rigorosamente i toni crudi e riesce a tradurre in poeticit, anche se a volte un po vaga e
fredda, ogni dato troppo immediato e concreto, smussando cos nellatmosfera pacata ed
estatica di un itinerario mistico ogni tormento, ogni dolore terreno: in questo senso essa
unopera ancora tipicamente stilnovistica. Tale risultato espressivo conseguito a prezzo
di una strenua applicazione formale: e infatti la sostanza aerea e lievissima si rivela essere
il risultato di unaccorta concertazione di valori fonici, di unattentissima cernita degli
elementi lessicali, di un ricercato gusto delle ripetizioni, di una studiata armonizzazione
dei periodi, che spesso si modellano come veri e propri versi. Questa cura formale non
pu tuttavia rimediare a certe innegabili debolezze del libretto: l anzi larte diviene
artificio, scoprendo il suo carattere di elemento sovrapposte dallesterno. Si vede allora
che le parti teoriche e didascaliche sono costruite a freddo e non si integrano, nonostante
il livellamento esteriore, con quelle narrative; che lutilizzazione di un registro invariabile
rischia spesso la monotonia; che il periodare nel suo insieme, rifuggendo dalla
concitazione e dal rilievo, incapace di esprimere sentimenti, emozioni, idealit forti. In
questo senso, la Vita nuova si rivela opera giovanile, ancora lontanissima dallampia
complessit espressiva e dalla matura profondit del Convivio.
145
Le Rime
Con questo titolo, meglio che con quello di Canzoniere, si indica l`insieme delle
liriche dantesche giunte fino a noi, fatta esclusione beninteso di quelle giovanili che
Dante stesso inser nellarchitettura della Vita nuova e delle tre canzoni allegoriche
commentate nel Convivio: il secondo termine infatti pi opportuno riserbarlo per opere
organiche che, come il Canzoniere di Petrarca, traccino in forma unitaria, cio seguendo
il filo dellevoluzione psicologica, la storia di unanima. Nel caso di Dante siamo invece
in presenza di un insieme fluido, i cui singoli elementi, dispersi in numerosissimi
manoscritti antichi, sono stati riuniti sotto un unico titolo non dal loro autore ma dai
filologi moderni, che hanno cercato di disporli in ordine grosso modo cronologico e
secondo una coerente progressione stilistica.
Si tratta, fra sonetti, canzoni e ballate, di 54 componimenti sicuramente danteschi, ai
quali non escluso che si possa aggiungere qualcun altro dei testi che la critica ha
preferito prudentemente raccogliere, per varie ragioni, fra le rime di dubbia attribuzione:
testi anonimi nella maniera di Dante ma che potrebbero essere opera di qualche imitatore,
oppure testi assegnati a Dante solo da manoscritti molto tardi e poco attendibili, oppure
ancora componimenti incerti fra lAlighieri e Cino da Pistoia, ai cui moduli Dante si
accost in una fase del suo stilnovismo, o fra lAlighieri e un rimatore omonimo e di poco
precedente, Dante da Maiano (con cui fra laltro egli scambi, giovanissimo, alcuni
sonetti di corrispondenza). La grande maggioranza della produzione sicura appartiene agli
anni che precedono lesilio.
Pur se scritte in tempi diversi da un poeta cos pronto a sperimentare tecniche
sempre nuove, cos ansiosamente desideroso di saggiare le proprie forze sui pi disparati
terreni, cos teso al continuo adeguamento dei mezzi espressivi al proprio mondo
interiore, le Rime rispondono ad una fondamentale unitariet dispirazione e ad una
profonda coerenza: Dante assorbe le esperienze pi contrastanti, le rivive e ne fa cosa sua,
imprimendo loro il marchio inconfondibile della sua vigorosa
personalit. E tuttavia esse sono estremamente varie, assecondando il procedere
inquieto (Contini) del loro autore da unesperienza allaltra. Quello che distingue la sua
146
vigore stilistico che caratterizzer il Dante maturo e soprattutto lInferno; in linea con la
poesia borghese il gusto del reale che movimenta linizio di Sonar bracchetti, e
cacciatori aizzare; un altro sonetto, ancora di materia amorosa (Com pi mi fere Amor
co suoi vincastri), rivela nellenergia lessicale che lo contraddistingue un riflesso
dellinteresse di Dante per i modi aspri e metaforici di certa poesia occitanica. Ma
lesperienza in questo senso pi significativa, perfino sconcertante per il registro crudo e
ingiurioso che mette in opera, senza dubbio la tenzone con Forese Donati (fra il 1293 e
1296), a cui stilisticamente si avvicinano le cosiddette petrose (1296 circa) con il tema
della donna dura, spietata, refrattaria, che si nega pervicacemente allamore: il loro stile
aspro e corposo gi lesatto contrario dei modi eterei e delicati dello stilnovismo.
Altre rime sono ispirate ad altre donne: ad una Lisetta, alla pargoletta la donna
giovane e fiera della sua bellezza, forse quella stessa che Beatrice rimprovera a Dante di
aver amato dopo la sua morte, in Purg. XXXI 58-60 e alla donna gentile, la giovane
e bella consolatrice della Vita nuova, a cui il Convivio toglier ogni concretezza
trasformandola in simbolo della Filosofia. Con questo siamo gi nellambito delle grandi
canzoni allegoriche, morali e dottrinarie, di cui alcune sarebbero certamente poi entrate
nel vasto disegno del Convivio accanto a Voi che ntendendo il terzo ciel movete, Amor
che nella mente mi ragiona e Le dolci rime damor chi solia se questopera fosse stata
portata a compimento: Amor, che muovi tua vert da cielo; Io sento s dAmor la gran
possanza; nonch, ma con queste siamo ormai alle poche rime composte durante lesilio,
Tre donne intorno al cor mi son venute (probabilmente del 1302 e che avrebbe dovuto
esser commentata nel XIV capitolo del Convivio, dedicato alla Giustizia) e Donna mi
reca ne lo core ardire, la canzone della liberalit (destinata al XV capitolo).
148
Il Convivio
procedimento era imposto dalla tradizione filosofica del tempo, soprattutto dallesempio
della scolastica, che affrontava i problemi frantumandoli in una serie di quaestiones, a
loro volta suddivise in infiniti articula e corollari, che dovevano tutti essere discussi e
vagliati a norma di sillogismo. Dalla scuola dipendono sia il frequente aprirsi di
digressioni che, talvolta lunghissime, fanno dimenticare il tema principale, sia il continuo
ricorso alle autoritadi, cio alla citazione di testi di autorit riconosciuta per corroborare
postulati e conclusioni: Dante ricorre soprattutto ai testi biblici e ad Aristotele ma non di
rado anche ad altri pensatori e poeti, sia cristiani sia pagani, quali SantAgostino,
SantAlberto Magno, San Tommaso, Cicerone, Virgilio, Boezio, Stazio.
Quello che anzi rivela il vigore della personalit di Dante sono gli scatti veementi
con cui egli rompe, a volte solo per un attimo, altre volte in lunghe digressioni
landamento pacato e impassibile del suo ragionare liberandosi dun sol colpo dei freddi
schemi scolastici e dellimpegno raziocinante per lasciar prorompere un animo ora
commosso ora esacerbato, ora sdegnato ora fervido, ora polemico ora contemplativo: in
questi scatti energici, in queste impennate profetiche, in queste invettive, in questi
frammenti ispirati c gi, piena, la complessa umanit del poeta della Commedia; e
quando si leggono le pagine pi personali e immediate, in cui lanima di Dante ha modo
di manifestarsi pi distesamente, libera dimpacci, con il suo intenso, trascinante calore,
ci si rende conto dellenorme balzo in avanti che la tradizione prosastica italiana ha
compiuto con il Convivio.
151
Il De vulgari eloquentia
esiste e ci sono autori che lhanno usato, riuscendo cos a superare il provincialismo del
dialetto loro proprio; sicch si pu dire che esso manda in ogni luogo il suo profumo e in
nessun luogo appare; di questo linguaggio Dante tenta una definizione. Esso detto
curiale in quanto se esistesse in Italia ununica corte che raccogliesse tutti i migliori
ingegni (come per esempio c in Germania laula imperiale), sarebbe questo il
linguaggio che in essa si userebbe.
Nel secondo libro Dante fissa una teoria degli stili letterari; c uno stile elegiaco,
che deve utilizzare la lingua di livello umile, uno stile comico, che deve ricorrere alla
lingua umile o a quella mediocre (a questo stile appartiene la Commedia), ed infine lo
stile tragico o sublime, a cui soltanto compete lidioma illustre; questo stile si addice
esclusivamente alla trattazione di soggetti nobili: lamore, le armi (la poesia epica) e la
virt (la poesia morale); esso deve essere usato nel genere metrico pi raffinato e nobile,
che la canzone, di cui descritta minuziosamente la struttura (in stile illustre sono
dunque le canzoni di Dante).
Dante utilizza nel trattato idee e procedimenti tradizionali, che provengono dal De
invenzione di Cicerone dallArs poetica di Orazio, da SantAgostino, da Isidoro di
Siviglia, da San Tommaso, dalle artes dictandi medievali ecc.: ma da questi sparsi
elementi trae una sintesi organica e personalissima, nettamente diversa dai trattati
stilistico-metrici mediolatini e volgari. Vi hanno ampio sviluppo idee nuove e
completamente originali, frutto certamente della sua esperienza personale: notevole, per
questepoca, lintuizione del perpetuo, inarrestabile trasformarsi delle lingue e il chiaro
riconoscimento dellesistenza di una tradizione letteraria che, partendo dai Siciliani e
attraverso rimatori eccellenti di tutte le regioni dItalia e specialmente Guinizelli, giunge a
dare i suoi frutti pi maturi presso gli Stilnovisti e soprattutto presso Cino da Pistoia e
Dante stesso. Anche il tentativo di classificare e descrivere i dialetti italiani , a questo
livello cronologico, un esperimento nuovissimo e quasi inaudito.
153
Il De Monarchia
154
Le lettere
Ci restano di Dante tredici lettere tutte in latino, alcune delle quali di discussa
autenticit; la prima indirizzata al cardinale Nicol da Prato, inviato inutilmente come
paciere in Toscana da papa Benedetto XI; fu scritta nel 1304 da Dante in nome del
consiglio di parte bianca; la seconda, dello stesso anno, una lettera di condoglianze la
cui autenticit appare per assai dubbia; la terza (1308) accompagna una canzone al
marchese Moroello Malaspina, di cui Dante era stato ospite in Lunigiana; la quarta
1308-1310) indirizzata ad un esule da Pistoia, certamente Cino, per incoraggiarlo a
sopportare con animo saldo le avversit; la quinta, la sesta e la settima sono quelle che
con animo assai diverso, a seconda degli eventi, Dante scrisse in occasione della discesa
in Italia dellImperatore: la quinta (autunno 1310) riflette le speranze e lentusiasmo del
poeta alla notizia che Arrigo VII ha deciso di calare nella penisola per pacificare gli animi
e comporre le discordie tra le fazioni; la sesta (marzo 1311) una violenta requisitoria
contro i fiorentini che, non solo non hanno fatto atto di omaggio e di sudditanza feudale
allImperatore, ma stringono anche patti di mutua difesa con il Re di Napoli Roberto
dAngi e sobillano corrompendole con il loro oro citt come Lucca, Siena, Perugia e
Bologna; la settima rivolta direttamente allImperatore e dispiega il massimo di
sapienza retorica: Dante ha ormai ben chiaro il presentimento che limpresa di Arrigo
destinata a fallire e con animo ferito e dolente, pur se non ancora rassegnato richiama
rispettosamente il sovrano ai suoi doveri e a colpire Firenze che regge le fila del
complotto; lottava, la nona e la decima, tutte del 1311, sono scritte da Dante, ma in nome
della contessa Gheradesca di Battifolle, allImperatrice Margherita di Brabante, moglie di
Arrigo VII; lundicesima, assai bella e commossa, risale al 1314: vi si chiede ai cardinali,
riuniti in conclave a Carpentras in Provenza dopo la morte di Clemente V, che sia eletto
un pontefice italiano che riporti a Roma la sede apostolica (che era stata trasferita ad
Avignone); la dodicesima (1315), la risposta ad un amico fiorentino probabilmente un
religioso, giacch nella lettera viene appellato padre che gli aveva dato notizia di un
provvedimento del Comune che concedeva lamnistia e il ritorno in Firenze a quegli esuli
che avessero accettato di pagare una somma in denaro alla Chiesa di San Giovanni: una
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lettera sobria, povera di ornamenti retorici, priva di citazioni, la cui efficacia risiede tutta
in questa nudit e nella quale il poeta ribadisce la propria innocenza e la sua probit di
cittadino, che lo spingono a rifiutare con sdegno un perdono che suonerebbe come
ammissione di colpa; la tredicesima (1319 circa) dedica a Cangrande della Scala il
Paradiso,dando preziosi ragguagli su come si debba leggere e intendere la Commedia.
Pur nella loro variet, si tratta sempre di testi scritti con la massima accuratezza,
conformemente ai canoni imposti al genere epistolare dalla trattatistica medievale, tanto
pi che i destinatari sono sempre personaggi eminenti. La loro perfezione retorica non fa
beninteso ostacolo allespressione dei sentimenti pi forti e delle idealit pi profonde di
Dante, ma anzi contribuisce ad arricchirli di dignit ed efficacia, colorandoli spesso di
toni magniloquenti e profetici, dando sostenutezza alle parti oratorie e polemiche,
caricando di nobile e sdegnoso distacco le parti pi commosse. Come sempre, Dante non
si lascia imprigionare dalle forme imposte dalla tradizione, ma, pur senza ribellarvisi, ne
ricava anzi nuova forza espressiva, riuscendo a piegarle allesigenze della sua personalit.
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La Commedia
1 - La composizione ed il metro
Secondo quanto ci dice il Boccaccio nella sua Vita di Dante, la Commedia fu
cominciata a Firenze, ma pare assai pi probabile che il suo inizio vada spostato ai primi
anni dellesilio (circa il 1307). Resta comunque il fatto che lidea prima dalla quale essa
nasce si rivela come noto nellultimo paragrafo della Vita nova, come proposito di
esaltare Beatrice apparsagli in una mirabile visione - dicendo di lei quello che mai
non fu detto dalcuna. Vi sono poi indizi, desumibili sempre dal Boccaccio, che portano
a pensare che nel 1306, quando dimorava presso il marchese Moroello Malaspina, il poeta
riesca a recuperare da Firenze parti di unopera, iniziata prima dellesilio, in lode di
Beatrice. Certo non possibile stabilire fino a che punto essa potesse coincidere con i
primi canti dellInferno, dei quali era gi nota lesistenza nel 1315-1315, mentre
documenti sicuri attestano lormai avvenuta divulgazione delle prime due cantiche
rispettivamente nel 1317 (un memoriale bolognese di quellanno riporta dei versi) e nel
1319, mentre il pi antico codice conservato risale al 1326. Frutto della fatica degli ultimi
anni di vita dellAlighieri invece il Paradiso, la cui divulgazione avvenne dopo la sua
morte.
Dal punto di vista strettamente formale,
la Commedia un poema
formatosi agli antipodi della materia ritratta, fino a toccarne la sommit, sede del Paradiso
terrestre; di l, purificato, muove verso i cieli del Paradiso, fino allEmpireo, o non-spazio,
giungendo alla contemplazione dellineffabile Divinit. Lo guidano nel mistico
pellegrinaggio prima Virgilio, che rappresenta lumana ragione o la filosofia, indi
Beatrice, segno della grazia divina o della teologia. Dunque la Commedia non solo un
tesoro di frammenti poetici: un viaggio mentale e morale che ha la grande forza del
racconto-avventura.
originale, i fanciulli morti prima di aver potuto ricevere il battesimo e coloro che vissero
virtuosamente prima della venuta di Cristo. Queste anime non soffrono alcun tormento
fisico, ma solo linappagabile desiderio della visione di Dio. In un castello sono alloggiati
gli spiriti dei grandi del pensiero e dellazione (fra questi Platone, Aristotele, Socrate,
Enea, Cicerone); ma lattenzione particolare e affettuosa di Dante per i poeti: Omero,
Orazio, Ovidio, Lucano e lo stesso Virgilio, che da l si mosso per andare in suo aiuto.
Il castello un bagliore di nobilt e finezza nel buio totale di questo regno del dolore,
dove la pena stravolge e avvilisce la figura umana.
Allentrata del secondo cerchio sta Minosse, demone ringhioso, che esamina le
colpe di ciascuno, giudica e decreta irrevocabilmente il luogo di pena, cingendosi con la
lunga coda tante volte quanti sono i cerchi per i quali vuole che lanima sia precipitata.
Nel secondo cerchio sono puniti i lussuriosi, travolti come s detto da uneterna e
violentissima bufera. Nel terzo vi sono i golosi che giacciono nel fango, percossi da
grandine grossa, acqua sudicia e neve, e sono contemporaneamente scuoiati e squartati
dalle zampe artigliate del demone Cerbero, cane mostruoso che latra da tre gole. Nel
quarto si trovano gli avari e i prodighi, divisi in due schiere: essi si muovono in cerchio,
rotolando col petto enormi massi, e quando si incontrano si insultano a vicenda; poi si
volgono e ricominciano allindietro il loro inutile sforzo sino a reincontrarsi. Il quinto
costituito dalla palude Stige che circonda la citt di Dite, chiusa da mura e con alte torri,
contenente gli ultimi quattro cerchi; nelle sue acque fangose sono immersi gli iracondi,
mentre gli accidiosi vi giacciono sommersi. Flegias, demone custode del quinto cerchio e
nocchiero della palude, traghetta Dante e Virgilio sotto le mura di Dite, ma pi di mille
diavoli si oppongono allentrata dei due poeti nella citt, finch un messo celeste non ne
spalanca loro le porte.
Nel sesto cerchio, la cui barriera estrema sono le mura di Dite, in un paesaggio
silenzioso e cimiteriale, sono puniti gli eretici, rinchiusi dentro tombe infuocate che
appaiono scoperchiate. Nel settimo cerchio, vigilato dal Minotauro, demone rabbioso e
repellente, dalla figura per met umana e per met taurina, scontano la pena i violenti,
distribuiti in tre gironi concentrici. Nel primo i violenti contro il prossimo, nelle persone e
nelle cose (tirarmi, omicidi, rapinatori), stanno diversamente immersi, secondo la gravit
della colpa, nel Flegetonte, un fiume di sangue bollente; lattenta sorveglianza di questi
dannati affidata a centauri altrettanto violenti. Nel secondo girone sono puniti i violenti
contro la propria persona (suicidi) e le proprie cose (scialacquatori). I suicidi sono mutati
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come s detto in arboscelli dai rami nodosi e contorti e dalle fronde nerastre; le
Arpie, mostri alati e rapaci, strappando per proprio cibo queste fronde, procurano loro
indicibili sofferenze. Gli scialacquatori, invece, in questa allucinante foresta, sono
inseguiti, addentati e sbranati da nere e fameliche cagne. Il terzo girone una distesa di
sabbia resa ardente da larghe e lente falde di fuoco che vi cadono: su di essa vi sono i
violenti contro Dio (bestemmiatori) che giacciono supini, i violenti contro natura
(sodomiti) che corrono continuamente, i violenti contro il lavoro umano (usurai) che sono
seduti.
Continuando il cammino sugli argini del Flegetonte, i due poeti si avvicinano alla
cascata del fiume. Qui salgono in groppa a Gerione, guardiano dellottavo cerchio, un
mostro che ha volto umano, corpo di serpente, coda di scorpione e zampe leonine; questi,
quasi nuotando nellaria, li depone ai piedi duna roccia tagliata a picco, sullestremit
esterna di Malebolge, appunto lottavo cerchio. Questo costituito da dieci bolge, fosse
concentriche attraversate da ponti, i quali partendo dallorlo esterno della parete rocciosa
uniscono uno dopo laltro gli argini che dividono le fosse, finch oltre largine interno
della decima si apre un pozzo, occupato dal lago gelato di Cocito.
Nella prima bolgia i seduttori e i ruffiani, in due schiere, corrono incessantemente in
cerchio sferzati da una moltitudine di diavoli. Nella seconda, immersi nello sterco umano,
gli adulatori sbuffano e si dibattono tra loro disperatamente. Nella terza i simoniaci
giacciono confitti a capo allingi in fori scavati nella roccia, coi piedi e le gambe fuori
fino al polpaccio e le piante dei piedi arroventate. Nella quarta gli indovini camminano
allindietro, con il capo stravolto sulla schiena, lentamente, in silenzio e in lacrime. Nella
quinta i barattieri sono immersi in una pece densa e bollente; non appena tentano di
emergere sono infilzati e ricacciati gi con bastoni uncinati da una schiera di diavoli
beffardi e triviali. Nella sesta gli ipocriti camminano lentamente, piangendo, con il volto
coperto da cappe esternamente dorate, ma in realt di piombo, pesantissime. Nella settima
bolgia i ladri corrono fra un groviglio di orribili serpenti, di tutte le specie, con le mani
legate (sempre da serpi) dietro la schiena. Essi si trasformano incessantemente da uomini
in serpenti e da serpenti in uomini. Nellottava bolgia i consiglieri di frode procedono
avvolti da una fiamma che non li lascia scorgere. Nella nona i seminatori di scandali e di
scismi hanno ferite orrendamente mutilanti che un diavolo, ferocemente, pronto a
riaprire; vi un corpo spaccato con le interiora pendenti allesterno e un tronco decapitato
che cammina tenendo in mano la propria testa a guisa di lanterna. Nella decima i falsari di
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metalli, seduti o striscianti, si grattano le membra infestate dalla lebbra e dalla scabbia; i
falsari di persone corrono mordendosi bestialmente lun laltro; i falsari di monete sono
idropici e assetati; i falsari di parole hanno membra fumanti per laltissima febbre.
Lasciato largine interno dellultima fossa, Dante e Virgilio giungono, attraverso un
vasto ripiano, sullorlo del pozzo centrale. Qui si ergono, con tutto il busto sulla proda
dellabisso e piantati con i piedi sul fondo ghiacciato del pozzo, i Giganti, mostri dalla
forma umana ma di statura straordinaria, enormi masse di carne ma senza luce
dellintelligenza. Uno di questi, Anteo, pregato da Virgilio, tende la mano, prende i due
poeti e li depone sul fondo oscuro, un lago gelato che sembra vetro. Il lago gelato di
Cocito diviso in quattro zone concentriche: nella prima, detta Caina, sono puniti i
traditori dei congiunti, tutti immersi nel ghiaccio fuorch il volto, livido e rivolto in basso,
dove i denti battono in modo sinistro; nella seconda, lAntenora, vi sono i traditori della
patria, negli occhi dei quali per il freddo gelano le lacrime spaccandoli; nella terza, la
Tolomea, stanno distesi supini i traditori degli ospiti; infine nella quarta, la Giudecca, vi
sono i traditori dei benefattori, totalmente coperti di ghiaccio, quasi come sotto vetro,
alcuni ritti, altri supini, altri capovolti, altri ricurvi.
Al centro del pozzo infernale, che anche il centro della terra e, secondo la
cosmologia tolemaica, il centro delluniverso creato, sta Lucifero, conficcato nel ghiaccio
dalla met del petto in gi. Il principe del male ha nella sua testa tre facce (una vermiglia,
una tra il bianco e il giallo, una nera) e sei enormi ali di pipistrello, che con il loro moto
continuo provocano il vento che agghiaccia il lago. Le lacrime di Lucifero sgorgano da
sei occhi, scendono lungo tre menti e si mescolano alla bava rossa per il sangue dei tre
dannati che mastica nelle sue tre bocche: Giuda, traditore di Cristo da cui deriva lautorit
dei papi; Bruto e Cassio, traditori di Cesare, fondatore dellautorit imperiale.
Poi Virgilio, tenendo in braccio Dante, si appiglia al pelo di Lucifero ed inizia a
discendere lungo una stretta fessura ch tra il corpo del diavolo e la roccia. Giunto
allanca di questi (il centro della Terra) si capovolge e ricomincia faticosamente a salire
lungo le gambe del mostro. I due poeti sbucano in una grotta dove la fessura sallarga,
riposano, quindi, attraverso una stretta caverna emergono sulla spiaggia che circonda
laltissima montagna del Purgatorio.
Nel Purgatorio le anime sono distribuite secondo le loro inclinazioni peccaminose,
ossia secondo che il loro amore, durante la vita, sia stato rivolto al male del prossimo,
abbia trascurato di venerare lautentico bene cho Dio o sia stato troppo intenso versoi
161
beni terreni.
Le anime che prima di ascendere al Paradiso debbono purificarsi nel Purgatorio si
raccolgono alla foce del Tevere, presso Roma, dove attendono una navicella, guidata da
un angelo, che di l le conduce alle radici della Montagna dove situato lAntipurgatorio,
luogo dove sostano le anime di coloro che tardano a pentirsi sino al termine della vita.
Alle sue falde si muovono lentamente gli scomunicati che qui debbono attendere,
prima di oltrepassare la porta del Purgatorio, trenta volte il tempo in cui rimasero
disobbedienti alla Chiesa.
Un sentiero attraverso una cavit del monte conduce Dante e Virgilio in una valletta
fiorita e profumata, dove sono alloggiate le anime dei principi che sulla Terra
trascurarono il proprio dovere di governanti. Poi, attraverso una stretta e ripida spaccatura
della roccia, i due pellegrini salgono sul margine superiore della base del monte, aperta
allesterno; qui sostano i negligenti, che vi sono fermati per un tempo pari alla loro colpa
in vita. Da questo luogo, mentre dorme, Dante sollevato da Santa Lucia fin dinnanzi alla
porta del Purgatorio vero e proprio, dove poi i due poeti vengono introdotti da un angelo.
Un difficile passaggio attraverso la fenditura della roccia permette loro di salire alla
prima cornice, ripiano circolare che cinge il monte, il cui lato interno la roccia, mentre
quello esterno aperto sul vuoto: qui i superbi si muovono lentamente sotto il peso di
enormi massi che portano sulle spalle. Il fianco roccioso tagliato a modo di scala, che
consente di salire al girone superiore.
Ogni cornice custodita da un angelo, simbolo della virt positiva stravolta in vita
dagli espianti in quel luogo; costui indica ai pellegrini il passaggio alla cornice superiore:
in quella dei superbi langelo dellumilt. Nella seconda cornice gli invidiosi, seduti, si
appoggiano, spalla a spalla, alla roccia; sono coperti da un rozzo mantello del colore della
pietra, le loro palpebre sono cucite da un filo di ferro e attraverso queste orribili cuciture
scendono sui loro visi le lacrime del pentimento. Langelo della misericordia invita poi a
salire alla cornice superiore; il passaggio (sempre indicato da un angelo, successivamente
della pace, della sollecitudine, della temperanza, della castit), pi si sale, pi diviene
agevole.
Nella terza cornice gli iracondi camminano avvolti da una nube di fumo denso e
fuligginoso. Nella quarta gli accidiosi corrono senza mai un attimo di sosta e gridano, fra
le lacrime, esempi della virt da loro trascurata: la sollecitudine. Nella quinta, figure
immobili, giacenti bocconi con mani e piedi legati, piangono: sono gli avari. Nella sesta i
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golosi procedono con passo veloce e in silenzio; il loro viso dun pallore cadaverico, gli
occhi sono incavati e solo la pelle ne ricopre le ossa; a ridurli in tal stato sono fame e sete
implacabili.
Nella settima, dal fianco roccioso del monte scaturiscono verso lesterno violente
fiamme; dallorlo opposto muove un vento che le fa ripiegare, sicch solo uno stretto
passaggio, utile per una sola persona, ne risparmiato. In mezzo a queste fiamme
camminano i lussuriosi, in due schiere, dei peccatori secondo e contro natura, procedenti
in opposte direzioni: questi si incontrano, si baciano e gridano esempi di lussuria punita.
Lespiazione non consiste infatti unicamente nella sofferta mortificazione fisica
della figura umana, ma pure nel dar voce al tormento interiore: cos le anime che vanno
purificandosi gridano celebri esempi di colpa punita (quella di cui si macchiarono in vita:
invidia, accidia, avarizia e prodigalit, lussuria) e di virt opposta premiata (carit,
sollecitudine, povert, castit).
Nella prima e sesta cornice invece il paesaggio, diversamente, a celebrare la virt
e a biasimare la colpa: esempi di umilt sono scolpiti in bassorilievi di candido marmo
sulla parete della Montagna, esempi di superbia sul pavimento; esempi di temperanza
sono narrati da una voce che esce da un misterioso albero carico di frutti profumati,
esempi di golosit da unaltra voce che esce da un altrettanto misterioso albero. Esempi di
mansuetudine e di ira sono invece contemplati da Dante in una stupefacente visione
interiore.
Dopo aver attraversato la barriera di fuoco, Dante e Virgilio salgono ancora,
attraverso una scala ormai facile. Ai loro occhi appare un paesaggio straordinariamente
diverso, una foresta fitta e verdeggiante: il Paradiso terrestre. Ai margini della foresta
Virgilio si congeda, la sua missione si conclusa perch Dante ha ormai raggiunto la
piena libert morale dopo aver spezzato le catene che lo tenevano schiavo del peccato. Il
pellegrino ha quindi toccato la prima meta cui luomo provvidenzialmente ordinato: la
felicit terrena.
Beatrice, colei che lo guider alla seconda, la felicit eterna, si sostituisce a Virgilio.
Dopo limmersione nelle acque di due fiumi che scorrono nella lussureggiante foresta, il
Lete, che fa scordare le colpe commesse, e lEuno, che dona il ricordo del bene
compiuto, Dante, cos purificato, ormai pronto a salire alle stelle.
Il poeta volge i suoi occhi agli occhi di Beatrice e nellamorosa intensit di questo
atto prova unincredibile trasformazione di tutto il suo essere: egli si sente trasumanar,
163
si sente pi che uomo. Insieme a questa straordinaria sensazione il suo volo dal Paradiso
terrestre, attraverso la sfera del fuoco, verso i cieli. Lascesa di cielo in cielo trae sempre
impulso da Beatrice: guarda nei suoi irripetibili occhi e si sente proiettato sempre pi in
alto; questo un atto delicatamente umano, ma che riveste una notevole importanza
strutturale.
La vera dimora dei beati lEmpireo, cielo di pura luce, fuori dello spazio e del
tempo, che avvolge lintero universo; tuttavia, per mostrare unimmagine del loro
differente grado di beatitudine, i beati sono ripartiti nei nove cieli in cui il Paradiso
dantesco distinto a seconda che il loro amore verso Dio sia stato turbato da affetti
terreni, oppure volto a Dio mediante lesercizio della virt attiva o di quella
contemplativa.
Il primo cielo in cui Dante giunge quello della Luna, una nube lucida e solida
come un diamante colpito da un raggio di sole. Qui i beati hanno figure evanescenti,
paiono immagini riflesse nell`acqua: sono le anime di coloro che in vita, per una violenza
esterna alla loro volont, vennero meno ai voti.
Nel cielo di Mercurio, che accresce la sua luce accogliendo Dante e Beatrice, le
anime che in vita operarono il bene per amore di gloria e donore sono scintille
luminosissime che danzano cantando Osanna. Le indicibili coreografie e melodie celesti
sono interrotte dai colloqui di Dante con i beati. La luminosit accresciuta di Beatrice
rende poi Dante consapevole dessere asceso al cielo di Venere. Qui ardono e danzano,
cantando Osanna, le anime che in terra indulsero allamore terreno; la luce le fascia
impedendone la visione.
Nel cielo del Sole i beati, duna luminosit vincente quella solare, si dispongono a
corona, danzando, intorno a Dante e Beatrice, e cantano una dolcissima melodia: sono gli
spiriti amanti della sapienza. Unaltra ghirlanda danime scintillanti circonda
successivamente la prima, accordando con questa moto e canto.
Sempre fissando gli occhi di Beatrice Dante riprende impulso allascesa: ora nel
cielo di Marte, rosseggiante, Qui gli spiriti luminosissimi dei combattenti e dei martiri
della fede si dispongono a formare una croce greca, entro la quale balena a tratti,
indescrivibile, la luce di Cristo. Da unestremit allaltra sia della lista orizzontale sia di
quella verticale della croce i beati si muovono pi o meno velocemente, cantando in modo
ineffabile.
Contemplando laccresciuta bellezza di Beatrice Dante saccorge dessere salito al
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cielo superiore di Giove, brillante di luce argentea. Le anime sfavillanti, sempre cantando,
volano qua e l finch si dispongono in figura di lettere del linguaggio umano che si
susseguono a formare una frase esortante alla giustizia. Sullultima lettera, una M, si
posano altre luci, poi dalla sua sommit una miriade di nuove luci variamente si leva, si
muove, ricade. Quando il moto cessa, sulla luce bianca di Giove le luci dorate di queste
anime, che in vita amarono la giustizia e lamministrarono con rettitudine, hanno
disegnato la testa, il collo e poi la figura completa di unaquila, simbolo dellImpero e
della sua giustizia.
Nel cielo di Saturno, il settimo, un cristallo terso e trasparente, Dante vede una
scala, la cui sommit si perde invisibile nel cielo abbagliante, del colore delloro quando
vi si riflette un raggio di sole, sopra i gradini della quale si muovono, sfolgoranti, le anime
dei contemplanti. Beatrice, vestita di luce sempre pi splendente, con un cenno sospinge
Dante sulla scala; il moto sempre rapidissimo cosicch in un baleno egli nellottavo
cielo, quello stellato, nella costellazione dei Gemelli.
Nel cielo stellato gli appare il trionfo di Cristo glorioso, la cui luce paragona a
quella della luna fra le stelle in una notte tersa; fra i bagliori a Cristo pi vicini e vividi
brillano quelli di Maria e degli Apostoli. Qui San Pietro esamina Dante sulla virt della
fede, San Giacomo sulla speranza, San Giovanni sulla carit; Dante risponde loro in modo
adeguato meritando cos la gloria celeste. Poi, i beati in forma di vapori accesi ascendenti,
quasi un Fioccare inverso, salgono allEmpireo. Di nuovo guardando negli occhi di
Beatrice Dante si sente elevato, con velocit incommensurabile, in un cielo superiore, il
Primo Mobile. Di qui ha una prima visione di Dio: un punto geometrico, di luminosit
abbagliante, dal quale si trasmettono luce e moto alle gerarchie angeliche che,
concentriche, vi ruotano attorno.
LEmpireo e la visione finale. Dante ascende infine allEmpireo che accoglie tutte
le luci dei beati, specchiantisi in quella divina. Qui San Bernardo si sostituisce a Beatrice
e lo guida a conquistare il fine ultimo delluomo: la felicit soprannaturale. Il santo
supplica Maria, e con lui Beatrice e gli altri beati, perch ottenga da Dio per Dante la
visione finale. E lineffabile visione conclude il suo viaggio oltremondano e suggella il
suo divino poema.
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nelle leggende celtiche, e trattato nei poemi classici, particolarmente nel VI canto di
quellEneide la cui vicenda Dante credeva storicamente vera; il tema del viaggio come
ricerca di verit interiore o di salvezza (si pensi allOdissea, nota nel Medio Evo
attraverso versioni latine, o a testi mediolatini come la Navigatio S. Brandani, ai romanzi
francesi come la Qute du Saint Graal di Chrtien de Troyes, alla stessa pratica del
pellegrinaggio; e la metafora del viaggio reggeva testi di ascesi mistica come Itinerarium
mentis in Deum di S. Bonaventura); il genere della visione e le rappresentazioni
dellaldil operate in testi divulgativi o rozzamente realistici (Bonvesin, Giacomino da
Verona) e frequentissime nella pittura e nelle miniature.
Dante stringe per le suggestioni delle fonti nella salda struttura intellettuale e
teologica del suo poema, sigillandole con una originale innovazione in tutta la letteratura
romanza: la scrittura in prima persona, e dunque lassunzione personale e individuale
della ideale vicenda del viaggio rigeneratore. Sdoppiatosi fra autore e personaggio, Dante
protagonista attivo del viaggio, non giudice esterno: in rapporto sempre vivo coi dannati
o coi beati che man mano incontra, partecipe ora commosso ora polemico dei loro affetti
e delle loro vicende, egli percorre un suo interiore itinerario di purificazione morale e
intellettuale. Ma con lui lumanit tutta che si danna, si pente, si bea. Nel simbolismo
medievale, come ben dice Dante, le cose significano insieme s ed altro; tale e la lettura
figurale degli eventi per i quali, ad esempio, il sacrificio di Isacco ha una sua verit che
non smentita, ma anzi arricchita e completata dal sacrificio di Cristo chesso prefigura.
Come Virgilio il prediletto autore di unEneide cristianamente sentita ma anche
emblema dellumana ragione, cos Dante uomo singolo e universale umanit. Basta
rileggere i primi versi delle tre cantiche per cogliere il senso di un progresso dallIo
allAltro: Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura
(Inferno, I, 1-2; e nel II canto: Lo giorno se nandava (...) e io sol uno / mapparecchiava
a sostener la guerra); Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio
ingegno (Purgatorio, I); La gloria di Colui che tutto move (Paradiso, I). NellInferno
lanima e lo stile dellautore sembran prigionieri dellio, in una prospettiva angusta,
soffertamente egoistica; nel Purgatorio lio si oggettiva in una metafora di terza persona
che ne rivendica la fragile dignit, col diminutivo navicella irrobustito dal decoroso
latinismo ingegno; nel Paradiso lio si annulla nella contemplazione di un Dio
ineffabile, che pu esser designato solo per riflessione, per perifrasi, nellattributo della
sua gloria onnipotente.
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posta in alto da un autore che oseremmo definire malato di onnivora curiosit per tutti gli
aspetti dellumanit e del pensiero; un plurilinguismo espressionista che non esita a
inserire accenti lirici nella bolgia infernale e aspre invettive nellincanto dei cieli, tanto
diverso dal linguaggio deliberatamente eletto da Petrarca: caro questo ai secoli di
predominante poetica classico-aristocratica, amato quello nelle et di pi fervida
sperimentazione. La terzina, che dalla variet dei registri usati dar vita da un lato al
capitolo colloquiale o scherzoso, dallaltro si far metro obbligato del poema nobilmente
allegorico, da Petrarca a Monti (ma suscettibile anche duso parodico, specie nella
Toscana del Quattrocento), felice invenzione dantesca, ispirata da certi tratti del
serventese, dallesperienza delle petrose, forsanche dai terzetti dei sonetti del Fiore, e
metro che consente una serrata progressione ad infinitum, giusta la divina prospettiva del
poema, e insieme sa stringere nel giro breve di un terzetto, talvolta di un solo verso o di
una rilevata parola-rima, quellenergia sintetica e potente che da allora in poi non
sappiamo chiamare altro che dantesca.
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Nota Bibliografica
Condizioni storico-culturali
Nel suo insieme il panorama immenso e vario della prosa duecentesca appare
largamente dominato dalla produzione in latino: una schiacciante superiorit quantitativa (ci, beninteso, anche nella seconda met del secolo, quando la prosa volgare ha
ormai superato con ampio successo lo stadio sperimentale) ma anche, quel che pi
conta, una supremazia di carattere tecnico-letterario: il latino medievale, grazie al
progressivo affinamento cui la scuola e le conquiste dei singoli scrittori lo hanno via via
sottoposto, capace di raggiungere, e di fatto raggiunge con sicurezza nelle sue
espressioni pi vigilate e di pi alta destinazione (bolle pontificie, atti emananti dalle
principali cancellerie, opere teologiche, scientifiche ecc.), unelevatezza stilistica e una
perfezione formale straordinarie: esso dispone ormai di un complesso e flessibile sistema
di regole di stile, di ornamenti retorici, di formule, di moduli che, elaborati da tempo e via
via perfezionati con luso, assicurano dignit al dettato, nobilitandolo ed imprimendogli
un andamento ordinato e sostenuto. Linsegnamento di questo sistema, spesso
convenzionale ed ai nostri occhi alquanto artificioso, il compito specifico dei maestri di
stile, o dettatori, e costituisce loggetto di appositi manuali teorico-esemplificativi, le
artes dictandi.
Appare quindi logico che la prosa latina, gi cos inquadrata e disciplinata, assurga
a modello stilistico per i primi prosatori volgari, che appunto di dignit formale e di
norme capaci di guidarli soprattutto abbisognano: questi scrittori hanno netto il
sentimento del superiore prestigio del latino, di cui si sforzano quindi di riprodurre,
almeno negli esperimenti pi ambiziosi e di intonazione pi alta, landamento, la
ricchezza sintattica e le procedure tecniche. proprio questo nutrimento latino che
permette alla prosa volgare di superare celermente le iniziali incertezze e di arrivare, gi a
fine secolo, ad espressioni mature e ferme, che preparano e preannunciano lo stile di
Dante.
Un altro modello di arte scrittoria la letteratura dol, che a questepoca ha gi una
sua solida tradizione e che va diffondendo nel mondo romanzo prodotti di largo successo
(la letteratura doc agisce invece solo sulla produzione lirica): queste opere, di tipo
175
177
Riepilogando e completando, la prosa italiana di questo secolo presenta una straordinaria variet di aspetti:
1. dal punto di vista linguistico allestesissima produzione in latino si
affiancano casi isolati ma significativi di scrittori che adoperano laltra
lingua di cultura, il volgare dol; verso la met del secolo nasce la prima
prosa italiana letteraria, che si avvia celermente a conquistare una sua
posizione dignitosa: il volgare del s, utilizzato anche per opere originali,
serve primariamente a tradurre e rielaborare opere latine e francesi;
2. dal rispetto stilistico il latino, come il francese, capace di attingere uno
stile elevato, grazie allinsieme di regole, formule ed artifici tradizionali e
universalmente riconosciuti di cui pu giovarsi. Naturalmente possiede
anche un livello umile, come quello, intriso di volgarismi, che da risultati
brillanti nella Cronica di Salimbene da Parma, la pi vivace, la pi
divertente, la pi colorita e pettegola cronaca italiana del medioevo1.
Litaliano non possiede nessuna regola acquisita: ma ha davanti i prestigiosi
esemplari latini (e, in subordine, quelli francesi) e su di essi cerca di
modellarsi;
3. dal punto di vista contenutistico possiamo distinguere:
a) scritti giuridico-letterari una produzione in latino che muove da
Bologna, dove i rapporti fra ars dictandi ed ars notaria erano strettissimi in
quanto la prima aveva intenti pratici, mirava cio piuttosto a formar
prosatori che sapessero scriver storie e redigere epistole, anzi che a educare
poeti2. A Bologna emerge nel campo del diritto la figura di Accursio
(1182-1259), ideale continuatore di Irnerio; maestri insigni di retorica in
quellUniversit sono Boncompagno da Signa (morto poco dopo il 1240) e
Bene da Firenze (morto nel 1239). A Bologna studia Pier delle Vigne e vi
1
2
Natalino Sapegno.
Monteverdi.
178
basti rammentare
aspetto della realt in enciclopedie organiche e complete sta alla base della
Composizione del mondo di Ristoro dArezzo, del Tresor di Brunetto Latini
e della traduzione mantovana, ad opera di Vivaldo Belcalzer (morto nel
1312), del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico;
f) scritti storici il panorama in latino estesissimo: pi delle solite
compilazioni di tipo sovente cronachistico, che partono monotonamente da
Adamo e mirano a dimostrare i fini provvidenziali della storia, cio la vigile,
indefettibile presenza di Dio sulla terra, interessante la produzione
impegnata, che si ispira agli eventi coevi, si mischia alle lotte fra papi e
imperatori (cos le frequenti celebrazioni ghibelline degli Svevi e di
Ezzelino da Romano), partecipa delle passioni municipali, mira a dare un
blasone di nobilt ai nuovi Comuni (come il De magnalibus urbis Mediolani
di Bonvesin). Freschissima e amena, ricca di aneddoti gustosi, la Cronica
di Salimbene de Adam (Parma 1221-Monfalcone presso Reggio Emilia
1287). In lingua dol, perch possa universalmente esser conosciuta, stesa
da Martino da Canale quellapologia di Venezia attraverso i secoli che va
sotto il titolo di Estoires de Venise. In volgare ci resta una discreta
produzione, quasi solo toscana, in mezzo alla quale spiccano lanonima
Cronica fiorentina, la narrazione della Sconfitta di Monte Aperto e lIstoria
fiorentina di Ricordano Malispini;
g) letteratura dimmaginazione e dintrattenimento, tutta in volgare da un
lato la narrativa aneddotica che abbandona progressivamente gli scopi
educativi o edificanti (ancora ben manifesti, per esempio, nei Conti morali
di anonimo senese, gi assai meno nel Libro dei Sette Savi, utilizzante fonti
orientali ed inserito in una cornice che rammenta quella delle Mille e una
notte) per divenire un puro giuoco della fantasia (il Novellino); dallaltro, la
narrativa romanzesca di origine francese, che diffonde il gusto per
lavventura immaginaria, intesa come un perfezionamento della personalit
attraverso lesercizio delle virt cavalleresche e cortesi ed in cui prevalgono
gli spiriti mondani e galanti: ecco i vari Tristani e la Tavola ritonda, ecco la
materia classica, rielaborata e adattata alle nuove idealit, che informa i
Conti di antichi cavalieri, i Fatti di Cesare, le Storie de Troia e de Roma (si
rammenti anche, sul versante latino, lHistoria destructionis Troiae di Guido
180
181
Guido Faba
Bolognese, attivo dal 1213 circa, prima come maestro di retorica e poi come notaio
(le due attivit andavano strettamente unite a Bologna, dato il carattere utilitario dellars
dictandi), Guido Faba, allo stato delle odierne conoscenze, il fondatore siamo alla
prima
meta
del
duecento
della
prosa
letteraria
italiana
di
intonazione
3
4
Schiaffini.
Gianfranco Contini, Letteratura Italiana delle Origini, Sansoni, Firenze, 1976, pag. 237.
182
Guittone DArezzo
183
Brunetto Latini
Figlio del giudice Bonaccorso Latini della Lastra, Brunetto nacque a Firenze verso
il 1230. A partire dal 1254 vi esercit la professione di notaio. Nel 1260 fu mandato come
ambasciatore dei guelfi fiorentini presso Alfonso X7, re di Castiglia e di Leon (detto il
Savio per i suoi meriti culturali), che il 1 aprile 1257 coi voti dei grandi elettori di
Treviri, Sassonia e Brandeburgo8 era stato eletto a Francoforte Re dei Romani (cio
Imperatore del Sacro Romano Impero)9. Quella di Brunetto fu una missione sterile, al
ritorno dalla quale apprese che i ghibellini, con la vittoria nella battaglia di Montaperti,
avevano nel frattempo ripreso il sopravvento in Firenze. Decise allora di fermarsi in
Francia, fra Parigi e la Champagne, dove esercit, come gi a Firenze, la professione di
notaio, e ci dimostrato dagli atti da lui rogati. Con la sconfitta dei ghibellini nella
battaglia di Benevento (1266) e la conseguente affermazione degli Angioini, Brunetto
pot fare ritorno a Firenze, ricevendo incarichi politici importantissimi, anche per conto
degli Angioini: fra laltro fu dettatore, cio epistolografo ufficiale, del Comune. Nel
1273 fu nominato Segretario del Consiglio della repubblica e ben presto la sua influenza
divenne tale che, a partire dal 1279, si trova a malapena nella storia di Firenze un
avvenimento pubblico importante al quale egli non abbia preso parte. Nel 1280 contribu
notevolmente alla riconciliazione temporanea tra guelfi e ghibellini in quella che fu detta
pace del Cardinal Latino. Nel 1284 appartenne al Consiglio del Podest, con Guido
Cavalcanti e Dino Compagni, e presiedette il congresso dei sindaci in cui fu decisa la
rovina di Pisa. Nel 1287 Brunetto Latini fu elevato alla dignit di Priore. La sua parola si
faceva frequentemente sentire nei Consigli generali della repubblica ed era uno degli
arringatori, od oratori, pi frequentemente designati. Conserv integre le sue facolt
anche in et avanzata e mor nel 1294 (secondo quanto dice il Villani) o nel 1295 (come
7
Nel 1256, essendo rimasta vacante la corona imperiale alla morte di Guglielmo dOlanda, Alfonso X in
quanto discendente, per parte di madre, della famiglia Hohenstaufen fu uno dei pretendenti al trono,
cercando appoggi presso il re di Francia e in Provenza.
8
Alfonso X ottenne lappoggio del Brandeburgo non solo con il denaro, ma anche con il fidanzamento della
figlia legittima Beatrice con Giovanni di Brandeburgo, il pi vecchio dei figli del margravio.
9
In contrapposizione ad Alfonso fu eletto Riccardo di Cornovaglia, che era stato sostenuto dai principi
elettori di Colonia, Magonza e del Palatinato, mentre il settimo elettore, il re di Boemia, Ottocaro II, diede
appoggio, in tempi diversi, ad ambedue i pretendenti.
184
affermato da altre fonti), lasciando una figlia, Bianca Latini, che aveva sposato Guido Di
Filippo De Castiglionchi.
Brunetto ricordato da Dante nel De vulgari eloquentia10 per la sua lingua poetica
di tipo municipalistico, ben lontana dallideale perfezione cui Dante aspirava; soprattutto
egli al centro di un episodio dellInferno11, dove Dante ne rievoca con viva commozione
linsegnamento a Firenze:
ch n la mente m fitta, e or maccora,
la cara e buona imagine paterna
di voi, quando nel mondo ad ora ad ora
minsegnavate come luom setterna12
insegnamento non regolare e scolastico, ma da intendersi piuttosto nel quadro
dunamicizia reverente, da giovane ad anziano, da letterato esordiente a letterato gi
famoso13.
Anche il Villani ricorda Brunetto come gran filosofo e sommo maestro in rettorica,
tanto in bene saper dire come in bene dittare, e cominciatore e maestro in digrossare i
Fiorentini e fargli scorti in bene parlare, e in sapere bene guidare e reggere la nostra
repubblica secondo la politica.
Secondo lacuta ipotesi di alcuni di alcuni filologi (Novati, Schiaffini), ci che
Brunetto avrebbe insegnato a Dante sarebbero stati i segreti dellars dictandi; e lo storico
dellantica Firenze, il Davidsohn, ha ravvisato la responsabilit del Latini nellestensione
della tecnica epistolografica (lo stile alto), introdotta da Pier della Vigna nella curia
imperiale, alla cancelleria della guelfa Firenze. Per di pi, e in questo precorre la cultura
propriamente umanistica, egli propone a modello lo stesso Cicerone, volgarizzandone
alcune orazioni (la pro Ligario, la pro Marcello, la pro Deiotaro, forse la prima
Catilinaria) per uso dei borghesi non letterati. E aveva pure impreso a divulgare il
Cicerone teorico della retorica, traducendo e largamente commentando, ma non pot
procedere oltre i primi capitoli, il De inventione, allora chiamato Rhetorica vetus (in
opposizione alla nova, cio quella ad Herennium, anchessa, ma erroneamente, attribuita
a Cicerone, e che sta alla base del Fiore di Rettorica, nella sua redazione pi antica
dedicata da un fra Guidotto da Bologna a Manfredi)14. La Rettorica di Latini cio,
10
I, XIII, 1.
Canto XV, violenti contro natura.
12
Versi 82-85.
13
Natalino Sapegno.
14
Gianfranco Contini, Letteratura Italiana delle Origini, Sansoni, Firenze, 1976, pag. 239-240.
11
185
15
186
nellambiente stilnovistico19.
Ricordiamo da ultimo un altro piccolo componimento, forse acefalo, il Favolello,
scritto come il Tesoretto in distici di settenari, ove si discorre, sulle orme di
Boncompagno da Signa, delle varie specie di amicizia. Non ci noto il periodo della
composizione di questo poemetto, che dedicato a Rustico di Filippo20, con onorevole
menzione di un altro rimatore fiorentino contemporaneo, Pallamidesse di Bellindote.
Tuttavia, poich Rustico di Filippo era di parte ghibellina, stato ipotizzato che il
Favolello sia stato scritto sempre nel periodo in cui Brunetto Latini era esule in Francia,
con lintento di raccomandare allamico Rustico i beni e i familiari rimasti a Firenze.
19
Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. I, La Nuova Italia, Firenze, 1981,
pag. 66.
20
Poeta meglio noto come Rustico Filippi (si veda anche Cap. 08 La poesia comica).
187
Lanonimo Libro della natura degli animali uno dei numerosissimi bestiari che il
Medioevo ci ha tramandati. Scritti in latino o nelle varie lingue neolatine, i bestiari sono
raccolte di storie, per lo pi immaginarie, sulle propriet degli animali. Queste storie
hanno talvolta carattere puramente descrittivo, ma pi spesso sono utilizzate
sistematicamente come base per allegorie etico-religiose, venendo cos a costituire i
bestiari moralizzati: di questo tipo appunto il Libro. Singole immagini di bestiario
entrano anche nella poesia lirica gi presso i trovatori, e dalla poesia occitanica si
diffondono nella tradizione italiana. Del Libro abbiamo una redazione in dialetto veneto
ed una in toscano occidentale (pisano o lucchese).
188
Marco Polo
Marco Polo nacque a Venezia nel 1254 o 1255 da una famiglia di ricchi e ardimentosi mercanti che avevano aperto attive succursali a Costantinopoli e sul Mar Nero. Il
padre Niccol e lo zio Matteo, spinti dallo spirito di avventura e dal desiderio di allargare
larea dei loro commerci, si erano uniti ad unambasceria persiana diretta alla corte di
Kubilai, il gran kan dei Tartari, attraversarono lAsia nel 1255 e raggiunsero la Cina nel
1262, passando per Bukhara e il Turkestan cinese, arrivando a Khanbaliq (il nome
mongolo dellodierna Pechino). Ripartirono nel 1266 arrivando a Roma nel 1269 come
ambasciatori di Kubilai Khan, con una lettera, da consegnare al Papa, nella quale Kubilai
chiedeva di mandare chierici istruiti ad evangelizzare le popolazioni mongole pagane.
Nel 1271 i fratelli Polo, accompagnati dal giovane Marco, intrapresero un secondo
viaggio che, dallArmenia, con una cavalcata di oltre settemila chilometri attraverso tutta
lAsia, li port nuovamente alla corte del Gran Khan (1275). Marco conquist subito la
simpatia del sovrano dei Tartari, al punto che divenne suo consigliere e suo ambasciatore:
Kubilai gli affid diverse missioni diplomatiche in Tibet, Birmania, Yunnan, ecc. e lo
nomin anche per tre anni governatore di una importante citt nel centro della Cina.
Soltanto dopo 17 anni, nel 1292, il Gran Khan permise ai tre veneziani di ripartire ed
affid loro una sua nipote, la principessa Kocacin, che andava sposa al re di Persia. Il
viaggio per mare fu lungo e difficile e si concluse con il ritorno a Venezia nel 1295.
Tre anni dopo Marco venne fatto prigioniero dai Genovesi nella battaglia navale di
Curzola, e in carcere conobbe un letterato pisano, Rustichello (autore di un Meliadus,
compilazione prosastica in francese di materia arturiana), catturato tanti anni prima alla
Meloria, a cui detta quello che, scritto appunto in francese (o piuttosto franco-italiano),
sar Li Devisement dou monde, La descrizione del mondo, meglio noto come il
Milione21. Liberato lanno dopo, con la pace fra le due repubbliche marinare, Marco pot
tornare a Venezia (dove suo padre e suo zio avevano comprato, coi profitti derivanti dalla
loro compagnia, una grande casa nel centro storico lagunare, in contrada San Giovanni
21
Forse da Emilione, che era il soprannome dei Polo, interpretato poi, per falsa etimologia, come simbolo
delle ricchezze di cui si parla nellopera.
189
Francesco Pipino (Bologna, intorno al 1270 - Bologna, dopo il 1328), religioso, archivista italiano e
autore di opere a carattere storico, geografico e giuridico. Fu archivista e vicepriore nel convento della
basilica di San Domenico a Bologna; nel 1320 comp un pellegrinaggio in Terrasanta ed a Costantinopoli. Il
suo Iter Marci Pauli Veneti, traduzione de Il Milione di Marco Polo (che Pipino conobbe personalmente),
eseguita su mandato del Capitolo Generale dellOrdine Domenicano ebbe un tale successo da soppiantare
per alcuni secoli il testo originale; un suo esemplare annotato era in possesso di Cristoforo Colombo.
Scrisse inoltre il Tractatus de Locis Terrae Santae, (circa 1320), elenco dei luoghi visitati durante il
pellegrinaggio del 1320; il Chronicon (circa 1322), compilazione di opere storiche sul periodo da Carlo
Magno a papa Clemente V; la Tabula privilegiorum Ordinis Fratis Praedicatorum (circa 1327), repertorio
dei privilegi giuridici concessi dai papi allordine domenicano. Nei suoi scritti, Pipino d prova di enorme
erudizione, ma non di particolari doti letterarie od intellettuali; gli va tuttavia riconosciuto il merito di aver
favorito la conoscenza dellopera di Marco Polo, grazie alla sua traduzione.
190
fantastica. E lansia del conoscere tiene insieme la descrizione dei luoghi conosciuti dal
narratore con quella dei luoghi mai visti, i discorsi personali con quelli altrui. Che le
fantasie, le creazioni dellimmaginario, le falsificazioni e le testimonianze indirette
trovino eguale spazio nellopera pu rappresentare un motivo di diffidenza soltanto per
coloro che non conoscono la mentalit del viaggiatore medievale, incline a porre sullo
stesso piano delle testimonianze certe anche le semplici credenze popolari o gli spunti
leggendari. Del resto, gi la critica ottocentesca, il cui pi erudito rappresentante fu il
colonnello inglese Henry Yule, ha dimostrato la sostanziale genuinit delle notizie
raccolte da Marco Polo, alla cui credibilit pareva contrastare il tono favoloso, la candida
aura di miracolo. Ma appunto questa tonalit stupita di primitivo, doppiamente
comprensibile perch il redattore fu un romanziere e perch il traduttore toscano operava
con gli strumenti linguistici dei favolatori e agiografi relativamente popolari, che assicura
alla versione un posto prossimo alla vera e propria narrativa locale dellultimo
Duecento23.
Come accade a certi libri molto fortunati, il testo originale di Rustichello andato
perduto: quello che generalmente si legge un rimaneggiamento toscano, anteriore al
1309, detto comunemente lOttimo, poich considerato per lungo tempo il migliore. A
tale testo si riconoscono oggi numerosi difetti, dovuti per lo pi ad una rilettura, compiuta
nellambiente mercantile, interessato ad evidenziare sia le notizie ed i dati commerciali,
sia gli aspetti novellistici contenuti nellopera. Per tali motivi, dopo la magistrale
ricostruzione per il testo franco-italiano fatta nel 1928 da Luigi Foscolo Benedetto, della
versione toscana stata recentemente fornita, da Valeria Bertolucci Pizzorusso, una
nuova edizione critica condotta su una fonte differente.
23
Gianfranco Contini, Letteratura Italiana delle Origini, Sansoni, Firenze, 1976, pag. 288.
191
Bono Giamboni
XIII, XXXVI.
Cesare Segre.
192
26
Cesare Segre.
193
Il Novellino
Gianfranco Contini, Letteratura Italiana delle Origini, Sansoni, Firenze, 1976, pag. 258.
194
che informava analoghe precedenti raccolte di exempla in latino o nelle varie lingue
romanze: alcune novelle sono ormai un puro giuoco della fantasia, svincolato da ogni
preoccupazione educativa.
Le strutture sono elementari, a volte addirittura spoglie, appoggiate sullallineamento paratattico dei vari segmenti narrativi: la subordinazione vi ridottissima; in
compenso i fatti sono esposti con ordine e chiarezza, il lessico preciso ed efficace. Le
intrusioni dellautore nel racconto, per commentare o sottolineare o divagare, sono
rarissime: leffetto affidato alla successione lineare dei fatti, senza deviazioni
descrittive, senza intenti di caratterizzazione psicologica dei personaggi.
Bisogna tuttavia guardarsi dal considerare le novelle, anche le pi brevi, come
semplici tracce di novelle, schemi o canovacci da sviluppare a voce o da rimpolpare: la
scheletricit deriva dalla tradizione novellistica in cui il Novellino si inserisce; la
secchezza, la riduzione a ci che strettamente essenziale, tipica di tutto il filone degli
exempla e seguiter a lungo a caratterizzare il genere: ancora in epoca umanistica le
raccolte di facezie presentano unanaloga, estrema riduzione.
195
28
Mario Marti, in La prosa del Duecento, a cura di Cesare Segre e Mario Marti, Milano-Napoli, 1959, p.
937
196
Ristoro dArezzo
197
Il Tristano Riccardiano
29
Gianfranco Contini, Letteratura Italiana delle Origini, Sansoni, Firenze, 1976, pag. 282.
198
La Tavola ritonda
199
200
Cronica fiorentina
201
Ricordano Malispini
202
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INDICE
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