Tartaglia - Pirandello Svevo
Tartaglia - Pirandello Svevo
Tartaglia - Pirandello Svevo
e rintracciabile in altre Operette morali:2 quanto pi lindividuo dotato di intelligenza e sensibilit (quanto pi si eleva sopra il torpore degli animali bruti), tanto pi destinato allinfelicit, giacch pi intensamente avverte la distanza incolmabile fra il desiderio del piacere (proprio di ogni uomo) e la miseria della realt. Ma pi interessante, in questa Operetta, lo sviluppo del ragionamento per cui, dalle suddette premesse, la Natura giunge ad indicare per lanima grande alcune conseguenze sul piano pratico della vita quotidiana:
Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono ogni loro facolt e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dalla immaginativa; le quali creano mille dubbiet nel deliberare e mille ritegni nelleseguire. I meno atti e meno usati a ponderare seco medesimi sono i pi pronti al risolversi, e nelloperare i pi efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie facolt, e quindi impotenti di se medesime, soggiaciono il pi tempo allirresoluzione, cos deliberando come operando: la quale uno dei maggiori travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che, mentre per leccellenza delle tue disposizioni trapasserai facilmente e in poco tempo quasi tutte le altre della tua specie nelle conoscenze pi gravi, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno ti riuscir sempre impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica moltissime cose menome in s, ma necessarissime al conversare cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo.3
Si dice dunque che le qualit umane pi alte (tali sono per Leopardi la ragione e limmaginativa) sono fonte di dubbi ed esitazioni sia nel decidere che nellagire (creano mille dubbiet nel deliberare, e mille ritegni nelleseguire) e quindi condannano lindividuo intelligente e sensibile ad una perpetua irresolutezza, laddove invece prontezza nel decidere e determinazione nellagire sono proprie degli ingegni mediocri (i meno atti o meno usati a ponderare seco medesimi); e mentre tali ingegni mediocri (anzi, spregevoli in ogni modo) saranno sempre capaci di praticare con naturalezza quei comportamenti che risultano apprezzati in societ (nel conversare con gli altri uomini), lindividuo di talento apparir, al contrario, goffo e impacciato. Insomma, il privilegio della profondit di pensiero e immaginazione si sconta con lincapacit di decidere e, su un piano pi
(Zibaldone, pp. 646-50) e del 2 maggio 1822 (Zibaldone, pp. 2410-14); i riferimenti relativi allo Zibaldone, qui e in seguito, rinviano alle pagine dei quaderni autografi come riportate nelledizione mondadoriana curata da Flora). 2 Vedi Storia del genere umano, Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, Dialogo di Marcabruno e Farfarello (anche se qui posta lequazione vita-infelicit, anzich quella grandezza-infelicit). 3 G. LEOPARDI, Dialogo della Natura e di unAnima, in Tutte le opere di Giacomo Leopardi. Le poesie e le prose, vol. I, Milano 1968 [1940], p. 848.
basso, con la mancanza di disinvoltura nella vita sociale. La riflessione sulla prima di queste conseguenze ritorna con chiarezza in alcune pagine dello Zibaldone:
cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento sono i pi difficili a risolversi tanto al credere quanto alloperare; i pi incerti, i pi barcollanti, e temporeggianti, i pi tormentati da quelleccessiva pena dellirresoluzione: i pi inclinati e soliti a lasciar le cose come stanno; i pi tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado lutilit o necessit conosciuta. E quanto maggiore labito di riflettere, e la profondit dellindole, tanto maggiore la difficolt e langustia di risolvere.4
Il secondo motivo, ovvero quello della incapacit di rendersi nella conversazione tollerabili, si ritrova anche in unaltra Operetta, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, nella quale peraltro sembrano confluire le articolate considerazioni svolte nello Zibaldone a proposito della invincibile timidit di Rousseau e di altri come lui: costoro, si dice, a differenza di unaltra categoria di persone (cui riconducibile Alfieri), non che disprezzino le cose piccole e basse che servono per risultare piacevoli in societ, ma, al contrario, vi si dedicano con un eccesso di attenzione; il che
togliendo loro la possibilit della disinvoltura, del riposo danimo, della facilit, dellabbandono, della sicurezza, della confidenza in se stessi [...] impedisce a quei rari ingegni di mai, se non imperfettissimamente, di mai, se non con grandissima difficolt e stento, adoperare ed esercitare le qualit che nel mondo si apprezzano ed amano e premiano.5
Altrove si parla invece di un eccesso di amor proprio, riconducibile alla soprabbondanza della vita interna dellanima:
La cagione si leccesso dellamor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza dellanimo; ed insieme la vivacit dellimmaginazione [...]. S, Rousseau e gli altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da uninvincibile e irrepugnabile timidit, anzi mauvaise honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non per un eccesso di amor proprio e di immaginazione. Altro danno e infelicit somma della soprabbondanza della vita interna dellanima (oltre i tanti da me altrove notati), della sensibilit, della squisitezza dellingegno, della natura riflessiva, immaginosa, ec.6
In conclusione:
[...] gli uomini di questa seconda specie, non essendo di volont punto alieni dal conversare cogli altri [...] dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui
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Zibaldone, 21 gennaio 1821 (pp. 538-9); ma si veda anche 26 luglio 1823 (p. 3040). Ibid., 18 agosto 1823 (pp. 3188-9). 6 Ibid., 3 marzo 1824 (pp. 4038-9).
si veggono essere, e di parere da meno di uomini smisuratamente inferiori a s dingegno e danimo; non vengono a capo, non ostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi alluso pratico della vita, n di rendersi nella conversazione tollerabili a s, non che altrui.7
II. Svevo: linetto Leopardi non figura nellelenco degli autori che Svevo, nel Profilo autobiografico, indica come significativi per la sua formazione. E tuttavia difficile non riconoscere nelle idee sopra esposte una sorta di diagnosi ante litteram della malattia patita dai protagonisti dei romanzi dello scrittore triestino. Che si tratti della inettitudine di Alfonso, della senilit di Emilio o della malattia di Zeno,8 la condizione che accomuna i tre personaggi, al di l delle differenze che ovviamente esistono, sembra essere quella della inadeguatezza alla vita pratica; inadeguatezza determinata da un eccesso di pensiero (una ipertrofia della coscienza) che inibisce (paralizza) la capacit di decidere e di agire. E per loro sembrano appropriati anche i corollari conseguenti cui fa riferimento Leopardi: linadatto alla vita pratica (linetto) anche goffo fino al ridicolo nei rapporti interpersonali; gli adatti, al contrario, oltre che capaci di decidere e di agire, sono anche brillanti nella vita sociale; ma lo sono, inevitabilmente, a prezzo (o in virt) della loro mediocrit intellettuale. In Una vita c un passo interessante, che consente di mettere meglio a fuoco questa affinit di pensiero fra Svevo e Leopardi. Si tratta del discorso con cui Macario (lantagonista di Alfonso) intende dare una lezione di vita allamico-nemico. I due stanno rientrando in porto dopo una gita in cutter, durante la quale Macario ha gi avuto modo di mostrare la sua perizia e sicurezza a fronte del disagio, psichico e fisico, di Alfonso. Attorno alla barca volano gabbiani, che ogni tanto si precipitano rapidissimi in mare, ad afferrare la preda. Macario invita Alfonso ad osservarli, quindi cos filosofeggia:
Fatti proprio per pescare e per mangiare. Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo piccolo. Che cosa sar la testa e che cosa sar poi il cervello? Quantit da negligersi! Quello ch la sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, lappetito formidabile, per soddisfare il quale non nulla quella caduta cos dallalto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai pi. Chi non sa per natura
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8 Qualcosa di simile si pu ritrovare anche nei protagonisti di opere minori: ad esempio, in Giorgio de Lassassinio di via Belpoggio o nel dottor Menghi de Lo specifico del dottor Menghi.
piombare a tempo debito sulla preda non lo imparer giammai e inutilmente star a guardare come fanno gli altri, non li sapr imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere.9
evidente che Macario contrappone, servendosi dellesempio del gabbiano, due tipi umani: ladatto a vivere (al quale, per afferrare la preda, non occorre cervello) e linetto (il quale, invece, non sa afferrare la preda e passa la vita a nutrire un essere inutile, il cervello appunto). Davanti a tanta sicurezza, Alfonso si ritrae intimidito, anzi peggio, con una domanda quanto mai ingenua (E io ho le ali?), presta il fianco alla battuta conclusiva e liquidatoria di Macario (Per fare dei voli pindarici, s). E certo, il letterato ozioso (cos viene chiamato Emilio in Senilit), che coltiva limmaginazione e il sentimento, la fantasia e lintelletto (nutre il cervello, come dice Macario), sempre fuori fase rispetto alla realt, non pu che apparire un ridicolo sognatore alluomo di successo, orgogliosamente privo di cervello (entit da negligersi), ma ben dotato delle qualit necessarie per afferrare la preda: e sono, queste ultime, qualit quasi animalesche (lo dice gi il paragone con il gabbiano) che hanno a che fare con la rapidit di decisione e la spietatezza di esecuzione; qualit rispetto a cui il cervello di ostacolo, in quanto, implicando la facolt di concepire il possibile, immaginare lalternativa, pensare linesistente, rallenta lazione fino a bloccarla. Ma ci che nella filosofia di Macario appare come il negativo, proprio il positivo indicato da Leopardi. Quel cervello essere inutile, di cui parla Macario, la stessa grande anima di cui Leopardi dice che, soverchiata dalla grandezza delle proprie facolt, per labito di riflettere e la profondit dellindole, si rivela dimpaccio quando si tratta di decidere e di agire. E poich il cervello-anima proprio ci che distingue privilegio e maledizione luomo dagli animali bruti, rinunciarvi vorrebbe dire rinunciare alla essenza dellumanit. Da questo punto di vista, linetto sveviano perde ogni connotazione negativa per acquisire quella positiva, anzi titanica, delluomo che, a prezzo di una diversit che lo emargina dal consorzio civile, ma anche lo distingue dalla massa dei mediocri, non rinuncia al pensiero, ovvero non rinuncia allessenza del proprio essere uomo. Del resto, se leggiamo certi saggi sveviani, quali Luomo e la teoria darwiniana e La corruzione dellanima10 non possiamo che trovare riscontri a questa teoria che fa dellinadatto a vivere luomo per eccellenza. Vi si
I. SVEVO, Opera omnia, vol. II, Milano 1969, pp. 207-8. Pi che di saggi veri e propri, si ha limpressione di studi rimasti allo stato di abbozzo. Si tratta di testi di poche pagine, formalmente poco curati, a volte incompiuti, non databili con precisione, ma collocabili alla fine del primo decennio del Novecento. Si possono leggere in I. SVEVO, Opera omnia, vol. III, Milano 1968 (p. 637 e p. 641)
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sostiene anzitutto che la superiorit delluomo sullanimale data dal fatto che, mentre questultimo perde lanima (e con essa il malcontento, ovvero linsoddisfazione) nel momento in cui adatta il proprio organismo alle necessit ambientali, luomo lessere che conserva lanima e linquietudine vitale che le propria proprio perch non c adattamento che lo soddisfi. Luomo dunque, pur a prezzo dellinfelicit ( torvo e malcontento), mantiene integre le potenzialit di sviluppo ed sempre disponibile ad affrontare il mutamento ambientale, laddove lanimale vive, s, soddisfatto della funzionalit del proprio organismo, ma rimane identico a se stesso, definitivamente cristallizzato, non accorgendosi di aver perduto la vera vita (la vera vita: non sfugga il giudizio di valore). Ne consegue paradossalmente che, rovesciando lassunto darwiniano, il vero vincitore nella lotta per la sopravvivenza luomo in quanto animale che non si adatta, e cio luomo in quanto inetto (etimologicamente inaptus, ovvero non-atto, che non si adatta); ma, di pi, trasponendo questa verit sul piano della vita sociale, si ha un corollario altrettanto paradossale, perch si conclude che luomo di successo il mediocre che ha perduto lanima (e con essa la vera vita), assimilando, con istinto quasi animalesco, i valori dominanti (appunto, adattandovisi),11 laddove linetto, in quanto incapace di far propri quei valori (in quanto renitente ad adattarvisi), luomo che vive la vera vita, luomo in senso pieno, dotato di anima, dunque eternamente insoddisfatto, straniero in ogni tempo e in ogni luogo, mai in pace con se stesso e con gli altri. E che questa sia lottica giusta con cui guardare i protagonisti dei suoi romanzi, ce lo conferma lo stesso autore quando, nella lettera a Valerio Jahier del 27 dicembre 1927, parla del contemplatore12 come delluomo pi umano che sia stato creato, quindi si chiede:
E perch voler curare la nostra malattia? Davvero dobbiamo togliere allumanit ci che essa ha di meglio?13
Per altro, il confronto fra la condizione dellanimale, naturalmente felice, e quella delluomo, tormentato dalle contraddizioni del pensiero, torna in altri momenti dellopera sveviana. Oltre al passo sopra citato, in cui a contrasto con linettitudine di Alfonso descritta la perfetta attitudine alla vita del gabbiano, ben nota la pagina finale de La coscienza di Zeno, dove alla salute della rondine (ma anche della talpa e del cavallo), che non conosce altro progresso che quello del proprio organismo, si contrappone la malattia dellocchialuto uomo che inventa ordigni fuori del suo
In questa tipologia umana saranno da riconoscere, pur con le debite differenze, gli antagonisti dellinetto nei diversi romanzi: Macario, Stefano Balli, Guido Speier. 12 Si tratta, come noto, del termine (contrapposto a lottatore) che Svevo desume da Schopenhauer per indicare il tipo umano dellinetto. 13 I. SVEVO, Opera omnia, vol. I, Milano 1966, p. 860.
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corpo, sottraendosi cos alla selezione naturale. Il fatto che la rondine lo apprendiamo da una delle favole, Rapporti difficili14 non ha spazio nel cervello per contenere due concezioni della vita: questa la sua fortuna, ma anche il suo limite. Viceversa, dobbiamo intendere, la sfortuna (ma anche la superiorit) delluomo proporzionale allo spazio che c nel suo cervello, uno spazio che pu contenere due (o pi, ovviamente) concezioni della vita: , insomma, lo spazio della ragione e della immaginativa che condanna i pi dotati fra gli uomini alla irresoluzione, per dirla con parole leopardiane; alla inettitudine (alla senilit, alla malattia) per dirla con Svevo. III. Montale: lombra A tale problematica sembrano ricondurci anche alcuni motivi presenti nella poesia di Montale. E non dovremo stupircene: una vicinanza di sensibilit fra i due autori facilmente presumibile, se si pensa che Montale, come noto, stato il primo lettore italiano a segnalare la novit e limportanza di Svevo. Ebbene, quel senso di totale disarmonia con la realt che mi circondava (sono parole dello stesso Montale),15 o inadattamento (davvero significativo il termine usato), rintracciabile in tanti componimenti delle sue raccolte, non appare diverso dal senso di estraneit al mondo circostante che caratterizza, e tormenta, colui che non si adatta nei romanzi sveviani; e simile sembra anche il sentimento contraddittorio, di ammirazione e disprezzo, espresso nei confronti di chi si dimostra adatto alla vita. Si rileggano i seguenti versi:
Ah, luomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico e lombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro!
la strofa centrale di uno dei pi noti fra gli ossi di seppia, quello in cui il poeta, enunciando i principi della sua poetica, dichiara di non avere parole forti e chiare (splendenti come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato) che possano comunicare certezze, trasmettere valori, proporre, in positivo, ideali; al contrario, egli pu soltanto pronunciare qualche storta sillaba e secca come un ramo e limitarsi a constatare, in negativo, che siamo costretti ad una condizione di inautenticit (e insoddisfazione), che la vita che viviamo vuota e falsa, ci estranea, non quella che vorremmo (Codesto solo oggi possiamo dirti, / ci che non siamo, ci che non vogliamo).
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I. SVEVO, Opera omnia, vol. III, Milano 1968, pp. 755-9. E. MONTALE, Il secondo mestiere. Arte, musica, societ, Milano 1996, p. 1592.
Al centro, la strofa sopra citata esprime contemporaneamente, con grande ambiguit, il desiderio e la deprecazione (tale mi sembra il doppio valore dellesclamativo iniziale) di un atteggiamento esistenziale diverso, quello delluomo che se ne va sicuro perch non avverte, e quindi non patisce, il vuoto e il falso della propria condizione. un uomo felice, e quindi invidiabile, perch non si guarda vivere, ma vive con immediatezza, in sintonia con la realt; ma, proprio perci, anche un uomo mediocre, e quindi da commiserarsi, perch incapace di riflettere sul senso del proprio esistere e del proprio rapporto col mondo; proprio perch vive aderendo pienamente alla realt, al suo sguardo manca la distanza necessaria per vedere e comprendere; laltra faccia della sua felice immediatezza appunto questa mancanza di distacco critico, ovvero lincapacit di guardare dallesterno, anche solo per un momento, se stesso e la totalit. Ma certo, nel momento in cui si guardasse dallesterno, si sarebbe gi sdoppiato e il dubbio comincerebbe a corrodere le sue sicurezze, prima fra tutte quella sulla compattezza e la unicit del suo stesso io. Proprio questo indica la bella immagine di colui che lombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro: non prestare attenzione ad un evento usuale, e naturalissimo, quale la proiezione della propria ombra su un muro sgretolato dal sole, quanto di pi normale ci si possa aspettare; ridicolo, fino al patologico, appare invece latteggiamento contrario. Ma quelluomo ridicolo e malato, nel quale il poeta si rispecchia, luomo che non rinuncia allintelligenza critica, e paga alla volont di comprensione il prezzo dello sdoppiamento. Costui, di fronte alla propria ombra, si ferma stupefatto: su quello scalcinato muro non vede uninsignificante macchia scura, ma riconosce se stesso fuori di s: vede se stesso che vive, ed una vista indimenticabile. Da quel momento, accanto a un io che vive c un io che si interroga sul senso di quel vivere, e per ci stesso rallenta, fino a paralizzarli, i movimenti della vita: lo sguardo su se stesso, denso di interrogativi ormai ineludibili, uno sguardo che pietrifica come quello della Medusa. La vita, immediata e irriflessa, non pi possibile, ogni solida certezza si dissolve; resta un uomo perplesso e dolente, che non si riconosce nella normalit dominante, e da questa non riconosciuto; un uomo che non pu essere agli altri ed a se stesso amico, perch fra lui e gli altri c una diversit che non consente amicizia, cos come non c pi pace fra lui e se stesso. un uomo goffo nei rapporti con le persone, impacciato nei comportamenti, ormai incapace di compiere le pi semplici azioni della quotidianit: un inetto.
IV. Pirandello: il doppio Dunque, curarsi della propria ombra, segno di una pi alta umanit, che pu appartenere solo a chi ha acquisito la consapevolezza del proprio sdoppiamento; o a chi, per dirla con Svevo, ha lo spazio nel proprio cervello per contenere due concezioni della vita, e perci si differenzia doloroso privilegio in natura dallanimale, in societ dalluomo che se ne va sicuro. Ma il motivo dellombra come manifestazione concreta (o correlativo oggettivo) dello sdoppiamento, ci rimanda ad un altro significativo autore del Novecento, a Pirandello, che del resto ha fatto della crisi didentit, e della connessa perdita delle certezze, il tema centrale della sua produzione. Si pensi alla condizione patita da Mattia Pascal, il protagonista del pi famoso dei romanzi pirandelliani. Costui non solo sdoppiato per definizione, in quanto titolare di una doppia identit (Mattia Pascal / Adriano Meis), ma emblematicamente si ritrova, a un certo punto della storia, proprio a combattere con la sua stessa ombra (cap. XV, Io e lombra mia). Frustrato nella sua aspirazione a vivere pienamente la vita (si accorge di essere stato derubato, ma non pu denunciare il ladro, per la stessa ragione per cui non pu legalizzare il suo amore: non ha identit anagrafica) esce di casa e passeggia per Roma. Alla vista della propria ombra, comincia a parlarle rabbiosamente come se fosse unentit reale, un altro se stesso che vorrebbe annientare, ma da cui non riesce a separarsi (se mi metto a correre, mi seguir):
Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far l? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi saffisarono su lombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, lombra mia. Chi era pi ombra di noi due? io o lei? Due ombre! L, l per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; lombra, zitta. Lombra dun morto: ecco la mia vita... Pass un carro: rimasi l fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le ruote del carro. L, cos! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? S, da bravo, s: alza unanca! alza unanca! Scoppiai a ridere dun maligno riso; il cagnolino scapp via, spaventato; il carrettiere si volt a guardarmi. Allora mi mossi; e lombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, sotto i piedi de viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine, non potei pi vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora. E se mi metto a correre, pensai, mi seguir! Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene una fissazione. Ma s! cos era! il simbolo, lo spettro della mia vita
era quell'ombra: ero io, l per terra, esposto alla merc dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Sta: la sua ombra per le vie di Roma. Ma aveva un cuore, quellombra, e non poteva amare; aveva denari, quellombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere chera la testa di unombra, e non lombra duna testa. Proprio cos! Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi de viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla pi l, esposta, per terra. Pass un tram, e vi montai.16
Lombra dunque lemblema visibile della scissione dellio, ma anche il corrispettivo dellanima. Chi se ne avvede (chi si cura della propria ombra), ha perso limmediatezza che la vita richiede, spezzato fra un io che vive e un io che riflette su quel vivere, dunque irrimediabilmente inibito alla vita. Ma chi non se ne avvede (chi non si cura della propria ombra, o, che lo stesso, chi per una storia straordinaria lavesse persa), ha perso lanima. appunto questo il senso che si ricava da quel racconto di Chamisso (Storia straordinaria di Peter Schlemihl), vero e proprio archetipo letterario costruito sul motivo, fantastico e inquietante, della perdita dellombra: troppo tardi lo sventurato Peter si rende conto che, cedendo al diavolo la propria ombra in cambio di ricchezza e successo, si privato della propria umanit (la mancanza dellombra una deformit che lo esclude dal consorzio umano); e troppo tardi riconosce lequivalenza dellombra con lanima, visto che solo in cambio dellanima il diavolo disposto a restituirgliela. Il cerchio si chiude. Se lombra lanima, non accorgersi della propria ombra che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro vuol dire non accorgersi della propria anima. E non ci si accorge della propria anima perch la si persa, adattandosi alla realt. Chi lha persa, se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico. Ma perdere lanima significa perdere ci che le pi proprio, cio, come avvertiva Leopardi, soprabbondanza di vita interna, capacit di ponderare seco medesimi, vivacit di immaginazione. E solo chi conserva tutto ci, conserva integra, pur a prezzo del malcontento e dellinettitudine, la propria umanit.
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