Salvatore Settis

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SOMMAMENTE ORIGINALE

L’ARTE CLASSICA COME SERIALE, ITERATIVA, PORTATILE


Estratto dal saggio di Salvatore Settis pubblicato nel catalogo “Serial / Portable Classic”,
pp. 276-278

Due mostre gemelle, un solo discorso: sugli usi e riusi dell’arte classica, ma anche sulla
sua natura, le sue funzioni e il suo destino. “Serial Classic”, presentata a Milano negli
spazi espositivi della Fondazione Prada progettati da Rem Koolhaas, si apre con un’assenza:
i frammenti di statue bronzee di età classica dagli scavi di Olimpia raccolti in una vetrina
rappresentano icasticamente un vuoto, una perdita, un lutto. Secondo Plinio il Vecchio, nella
sola Olimpia (come del resto ad Atene, a Delfi, a Rodi) c’erano 3000 statue di bronzo. Nella
descrizione del santuario di Olimpia che copre buona parte dei libri V e VI della Guida della
Grecia, Pausania (circa 110-180 d.C.) menziona 2000 statue di bronzo, prevalentemente di
atleti vincitori nei giochi olimpici; se si aggiungono le basi conservate si arriva a un numero
minimo di 500 statue, che però tuttavia secondo gli archeologi dev’essere ancora
accresciuto: le valutazioni vanno da 1000 a 3000 statue nella sola Olimpia. “La terra
dev’esserne ancora tutta ripiena” scriveva nel 1729 un grande erudito, Bernard de
Montfaucon; e fu anche per questo che nel 1875 si aprì la missione di scavo tedesca a
Olimpia, attiva ancora oggi. Ma gli scavi, per quanto accurati, hanno recuperato poche
decine di frammenti, spesso minuti: occhi, dita, piedi, mani, genitali, ciglia, orecchie.... Nella
lunga eclisse che chiamiamo “la fine del mondo antico”, e che milleduecento anni dopo
travolse anche la celebrazione quadriennale delle Olimpiadi, perfino le statue dei più celebri
maestri furono fatte a pezzi: il nudo metallo valeva ormai più di qualsiasi ‘opera d’arte’.
L’umile testimonianza di questi frammenti da Olimpia simboleggia bene quel che accadde in
tutto il mondo antico: i grandi bronzi greci più o meno interi oggi non sono che un centinaio
in tutto il mondo, e quasi tutti sono tornati alla luce negli ultimi centoventi anni, spesso
emergendo dal mare, millenni dopo il naufragio della nave che li trasportava altrove. Nella
mostra “Serial Classic” abbiamo rappresentato gli originali perduti con un piedistallo vuoto,
sul quale abbiamo posto in riassunto le fonti letterarie antiche che parlano del Discobolo di
Mirone, del Doriforo di Policleto o di un Satiro di Prassitele. Accanto, una selezione di copie
romane dai rispettivi originali: la tensione fra originale e copia viene così tematizzata come
uno degli assi portanti del discorso. Anche le copie, a volte, ci sono giunte in condizioni
assai lacunose: oggi ci basta una mano che impugna un disco per riconoscere un frammento
del Discobolo di Mirone, ma in passato il torso di altre copie, non identificato come tale,
poté essere ‘restaurato’ arbitrariamente, per esempio come un guerriero caduto.
La serialità, tuttavia, non era propria solo delle copie: abbiamo dedicato un’altra vetrina della
mostra a un flashback, la serie di busti di terracotta da Medma (piccola città greca della
Calabria tirrenica), realizzati fra il 500 e il 460 a.C., somigliantissimi tra loro perché prodotti a
matrice. Proprio come le costose korai di marmo dell’Acropoli di Atene, anche le terrecotte
di Medma ripetono incessantemente uno stesso tipo, eppure lo variano nella pettinatura,
negli ornamenti, nei dettagli narrativi (per esempio, un fiore in una mano); e, in antico, anche
nel colore oggi perduto (ma dipinte erano anche le korai marmoree dell’Acropoli di Atene).
Bronzo, marmo, terracotta: il ventaglio dei materiali (e delle relative tecniche) articola in
modo sempre diverso la comune tensione verso la ripetizione tipologica. Anche i grandi
originali bronzei, essendo realizzati mediante fusione a cera perduta (che presuppone l’uso
di matrici) e in pezzi separati che venivano poi assemblati, potevano essere prodotti in
serie, con o senza varianti: secondo Carol Mattusch, anche i bronzi di Riace sarebbero
“senza dubbio prodotti per dedicare molto più di due sole immagini”, tutte prodotte in serie
sulla base di uno stesso modello e con le stesse matrici, probabilmente in terracotta; “solo
nel momento in cui ciascun modello venne rifinito in dettaglio, prima della fusione, le due
figure devono avere acquisito caratteristiche a loro peculiari, pur mantenendo virtualmente
misure e fattezze identiche”.
Se questa ipotesi fosse vera (ma, almeno nel caso dei bronzi di Riace, molti non sono
d’accordo), gli originali di bronzo, in quanto nati da una ripetizione meccanica a matrice,
sarebbero – paradossalmente – ancor più ‘seriali’ delle copie marmoree, dove il processo di
riproduzione richiede la mano e lo scalpello del copista sul blocco di marmo, e dunque
comporta una più ampia diversificazione delle singole copie l’una dall’altra e dall’originale.
Per un occhio greco, la differenza di materiale comportava una gerarchia di valori e aveva
dunque anche un significato narrativo. Il bronzo veniva ritenuto più prezioso del marmo, più
adatto a esprimere pienamente la dignità e il carattere (ethos) di un dio, di un eroe, di un
atleta vittorioso, di un sovrano. In greco questo apprezzamento si esprimeva con una parola
difficile da tradurre, prepon: cioè “quel che risalta”, che “è appropriato” o “che conviene”
rispetto a una situazione data e al relativo orizzonte di valori. Prepon è dunque un termine
relazionale: indica quello che, in una determinata immagine, è appropriato rispetto a
ciò che essa intende rappresentare. Anche la materia di una statua ricade sotto questa
tassonomia, ed è in questo senso che per un Discobolo o un personaggio mitologico
(come, assai probabilmente, i bronzi di Riace) il bronzo è più appropriato del marmo.
In questo equilibrio fra le costanti e le varianti, oltre ai materiali e alle tipologie, c’è un terzo
polo: il colore. Siamo abituati a pensare i marmi antichi come bianchi, i bronzi antichi con la
loro patina verde scuro: ma in antico i marmi erano per lo più colorati, anche vivacemente, e i
bronzi avevano non solo un trattamento polimaterico (labbra di rame, denti d’argento, occhi
compositi, con varie pietre o pasta vitrea), ma una ‘pelle’ resa luminosa da coloranti e altri
artifizi. Lo studio della policromia antica è oggi fra le più attive e mobili frontiere della ricerca
archeologica: la mostra “Serial Classic” vi allude raccogliendo la ricostruzione sperimentale
in bronzo del Doriforo di Policleto (con capelli ‘biondi’) fatta a Stettino nel 1910–1912 e le
‘prove’ di colore – del bronzo e del marmo – realizzate nel 1991 su due calchi dell’Apollo di
Kassel, celebre copia di un originale attico del V secolo a.C. Accanto a questi esperimenti
ormai ‘storici’, possiamo offrire in questa mostra la nuovissima ricostruzione di uno
dei bronzi di Riace (detto “Riace A”), che abbiamo menzionato sopra. Questo rifacimento
sperimentale mostra tutte le sue potenzialità estetiche ed emozionali: rifusa nel bronzo,
integrata degli elementi mancanti (elmo, scudo e lancia) e con la superficie riccamente
colorata secondo il costume antico, questa statua pur celeberrima conquista un’inedita
pregnanza narrativa, che sarà ancor più esaltata e moltiplicata quando sarà possibile
realizzare anche la ricostruzione del (simile eppur diverso) bronzo di “Riace B”.
Un esperimento come questo non ha precedenti, eppure ha il suo antefatto in due procedure
che, a distanza di secoli, hanno fatto centro sull’arte classica e sulla sua iterabilità. La prima
è la pratica (già diffusa in età romana) di fare dei calchi in gesso di originali bronzei, per poi
produrne copie di marmo; la seconda, l’abitudine degli archeologi di ricostruire nel gesso, in
laboratorio, qualche originale antico noto solo dalle copie. Nella mostra “Serial Classic”, le
due procedure vengono tematizzate e dispiegate nel loro intrecciarsi.
Apprezzata dai collezionisti di età romana, come mostra la sezione “A Passion for
Seriality” della mostra milanese, la ripetizione / seriazione delle sculture antiche non era
limitata alle copie, ma nemmeno alle terrecotte e ai bronzi. Grazie alla generosa
collaborazione del museo di Teheran, abbiamo potuto esporre in mostra la mirabile
Penelope dolente, un originale in marmo del 450 a.C. circa, con la serie completa di sei
copie (frammentarie) di età romana. Copie, ma di che cosa? L’originale oggi a Teheran fu
trovato negli scavi di Persepoli, dov’era fra i detriti della distruzione del palazzo del re di
Persia ad opera di Alessandro Magno (nel 331 a.C.). Pur essendo assai simili alla statua di
Persepoli, queste copie, scolpite in Italia cinque o sei secoli dopo, devono necessariamente
derivare da un secondo originale, rimasto in Grecia. Esse attestano dunque una doppia
serialità, quella delle copie e quella degli originali.

Anche la scala delle sculture antiche (comprese le copie) ha un intenso valore narrativo:
abbiamo provato a esplorarlo, nella mostra “Portable Classic”, dispiegando, accanto al
calco del gigantesco Ercole Farnese coi suoi 317 centimetri di altezza, un’incisiva sequenza
di otto repliche dal Cinque al Settecento, in misura calante (fino ai 15 centimetri). In bronzo o
in marmo, in terracotta o in porcellana, le copie ridotte di questa statua ne raccontano non
solo l’identità, la posa e la fama, ma anche l’ubiquità; il disinvolto insediarsi in botteghe,
manifatture, salotti, librerie, studioli; la vocazione a farsi “citazione”, simbolo e metafora di
una cultura, di un gusto, di un’appartenenza sociale.
Quel riappropriarsi della cultura e dell’arte antica che chiamiamo “Rinascimento” ereditò e
moltiplicò dall’Antico, pur in uno scenario così mutato, la coazione a ripetere che già si era
tradotta nella seriazione delle copie, ma anche nella produzione di copie ridotte. “Portable
Classic” insiste su questo confronto, proponendo una scelta galleria di “capolavori in
piccolo” di età romana, per esempio una squisita Venere al bagno in cristallo di rocca (alta
8,6 centimetri), accostata a un’altra variante dello stesso tipo in bronzo (alta 20centimetri).
Queste e altre sculture antiche ‘in miniatura’ fanno da prologo alla (ri)nascita del bronzetto, e
comunque della copia in scala dall’antico, che invade le collezioni dal Quattrocento in poi, si
dispiega in crescendo, e indugia in variazioni non solo di misure, ma di materiali, coloriture,
varianti gestuali, dettagli narrativi. Negli ambienti sontuosamente domestici di Ca’ Corner
della Regina, abbiamo tematizzato la riduzione dimensionale dei capolavori di arte classica
dal Rinascimento in avanti, e non (invece) la loro riproduzione in scala 5:5, anch’essa
frequente, né quella (assai più rara) in misura ingigantita, come l’enorme copia settecentesca
dell’Ercole Farnese (alta più di 9 metri) che ancora troneggia al colmo di un padiglione nel
parco principesco di Kassel.
Lo smisurato naufragio dell’arte antica lasciò ben poco dietro di sé; ma da quando, nel primo
Quattrocento, venne di moda comporre collezioni di sculture antiche traendole dalle rovine
di Roma, un piccolo numero di capolavori (come l’Apollo del Belvedere, il Laocoonte, Venere
al bagno) si impose come culmine e compendio dell’intera arte greca e romana. Il loro
prestigio era accresciuto dalla nobiltà dei luoghi di conservazione, primo fra tutti il cortile di
Belvedere in Vaticano, ma anche le collezioni principesche (per esempio, per l’Ercole, Palazzo
Farnese). Essi furono spesso replicati 5:5, e qualche volta nobilitati nel bronzo per
committenze particolarmente prestigiose: verso il 1540 un artista italiano, il Primaticcio,
procurò repliche bronzee 5:5 per il re di Francia Francesco I, e lo stesso fece cent’anni dopo
per Filippo IV di Spagna il massimo artista spagnolo, Diego Velázquez. Assai più frequenti e
diffuse furono le repliche in piccolo: resi portatili (“Portable”, appunto), i capolavori antichi
del canone che si andava formando riflettevano, come nei mille frammenti di uno specchio
rotto, l’immagine di Roma, esaltandone e moltiplicandone la presenza. I ritratti di collezionisti,
di cui la mostra offre una scelta galleria, dall’Andrea Odoni (1527) di Lorenzo Lotto al
Giovanni Paolo Corner (1561) del Tintoretto possono essere letti come l’istantanea o lo
spaccato di un privilegiato rituale sociale, quello del collezionista che mostra a visitatori e
amici le perle della sua raccolta; ma anche come un’allusione indiretta ai collezionisti di età
romana, di cui sappiamo assai meno.
La riduzione (di scala) e la moltiplicazione (di numero) sono i due agenti di una capillare
diffusione del canone classico negli ambienti colti, nelle corti, nelle botteghe d’artista, negli
arredi. Non fu, questa, una irradiazione passiva, bensì una continua ri-creazione, in cui i
modelli antichi venivano assorbiti, rivissuti, ripensati, talora impreziosendoli con dorature
come nella Venus Felix e nell’Apollo del Belvedere di Pier Jacopo Alari Bonacolsi, che con
queste e altre opere meritò pienamente il suo soprannome, l’Antico. Secondo un’ulteriore
declinazione, le copie in piccolo potevano essere un veicolo per sperimentare come
andassero ricostruite braccia e gambe delle mutile statue antiche: è quello che accadde
per il Laocoonte o per il Torso del Belvedere. Questo prova a raccontare “Portable Classic”;
ma anche rivisitazioni, varianti, reinvenzioni, nuove opere canoniche, introduzione di nuovi
materiali (come la porcellana); o ancora, le riproduzioni in piccolo delle più celebri
architetture della Roma antica, eseguite ora in sughero, materiale povero ma adatto a
esprimere la logora corporeità delle rovine, ora invece in bronzi e marmi che ne esaltano
la nobiltà; infine, la ricomposizione, in forme e materiali a noi contemporanei, di uno studiolo
come quelli che i collezionisti del Cinquecento usavano per raccogliervi bronzetti che
evocassero insieme Roma e l’arte antica.
Queste mostre gemelle, e il volume che ne riflette e ne accompagna il progetto e
l’intenzione, propongono dunque una narrazione a cerchi concentrici, una multipla mise en
abîme. L’archeologia, con le sue procedure disciplinari volte a ricostruire l’antichità dai suoi
brandelli, offre strumenti e coordinate del discorso. Ma l’archeologia presuppone il
collezionismo di antichità, che fu innescato dallo sguardo curioso e inquieto di artisti e
collezionisti, e le collezioni da cui nacquero i musei. Il collezionismo di antichità, nato nel
Quattrocento, presuppone a sua volta le inerti rovine in cui quelle sculture giacquero
inoperose per almeno mille anni, prima di tornare a nuova vita. Le rovine erano popolate non
da originali greci, bensì da copie; le celebrate “statue di Roma” presuppongono dunque
l’attività copistica delle botteghe romane. Le copie di statue greche perdute, tuttavia, ne
conservano ancora in parte lo spirito, e dunque presuppongono gli originali e invitano a
inseguirne le tracce. Quegli originali (che non vedremo mai) presuppongono l’enorme
energia creativa di cui erano carichi, e che ancora si sprigiona dalle copie. Quell’energia
è la forza corale e collettiva della polis greca, la tensione etica e politica che si tradusse
anche nelle arti della figura. Da quella fonte remota nacquero non solo atleti e Veneri che
ancor oggi proviamo a re-immaginare dalle loro copie, ma anche l’auto-canonizzazione della
civiltà greca che chiamiamo “classico”, e che si è trasmessa fino a noi nei secoli: dai greci
alle copie romane, alle case e alle botteghe del Rinascimento, al Neoclassico, ai musei
pubblici, al mercato e agli istituti di ricerca.
All’insegna del classico, ognuna di queste narrazioni ha una sua diversa e convergente
coralità: quella di artisti, committenti e opere nello spazio della polis greca; e poi quella di chi
(in Grecia e a Roma) elaborò la coscienza dell’esemplarità dell’arte greca, provocandone la
narrazione testuale e la ripetizione e la copia nel mondo romano; e poi l’abbandono delle
sculture nelle sterminate rovine di quell’impero; e secoli dopo, la nascita del collezionismo, lo
studio degli artisti, i musei, la canonizzazione del “classico”, l’archeologia come disciplina, lo
scavo e la ricostruzione, gli studi e le mostre (anche “Serial Classic” e “Portable Classic”).
In questa mise en abîme che si snoda lungo venticinque secoli di storia, tutto (dall’emozione
estetica alla disciplina archeologica) appare governato dalla funzione narrativa. Se parliamo
di “Ri-nascimento dell’antichità” non usiamo una formula vana, ma una potente metafora;
stiamo dicendo che l’Antichità (come qualsiasi cultura) può morire, ma può anche rinascere
dalle sue stesse ceneri. Se ci affacciamo sull’arte classica con strumentazione archeologica,
stiamo dicendo che la narrazione dell’archeologia e dei suoi metodi e la narrazione della
civiltà greca si innervano e si legittimano a vicenda. Le procedure (i gesti) della ricostruzione
archeologica hanno un implicito carattere performativo, del quale – come per le foto di
Sherrie Levine nella serie After Walker Evans – si può dire che “è solo in assenza
dell’originale che la rappresentazione può avere luogo”.

Salvatore Settis

“Serial / Portable Classic - The Greek Canon and its Mutations”


A cura di Salvatore Settis, Anna Anguissola, Davide Gasparotto
Editori associati: Chiara Costa, Lucia Franchi Viceré, Mario Mainetti
Pubblicato da Progetto Prada Arte, Milano 2015
Formato 21 x 28 cm, brossura, pp. 392, 388 ill.
Edizione inglese con traduzione dei testi in italiano

Prefazione di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli; saggio introduttivo di Salvatore Settis; saggi di Anna Anguissola,
Michael Bennett, Vinzenz Brinkmann, Kathleen W. Christian, Maurizio Ferraris, Daniela Gallo, Davide Gasparotto,
Carlo Gasparri, Tonio Hölscher, Rem Koolhaas, Lothar Ledderose, Maria H. Loh, Jan Stubbe Østergaard, Claudio
Parisi Presicce, Michael Pfanner, Maria Grazia Picozzi, Shahrokh Razmjou, Kyoko Sengoku-Haga, Colleen Snyder,
Giandomenico Spinola, Rüdiger Splitter, Paul Zanker.

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