Ehrenberg, La Fatica Di Essere Se Stessi. Depressione e Società
Ehrenberg, La Fatica Di Essere Se Stessi. Depressione e Società
Ehrenberg, La Fatica Di Essere Se Stessi. Depressione e Società
Alain Ehrenberg
(1950)
La depressione è oggi l'unità di misura delle molte variabili in cui si scompone il disagio
interiore. Per tutti gli anni '40 era è stata solo una sindrome comune a gran parte delle malattie
mentali, di scarso rilievo sociale. Nel 1970 la psichiatria dimostra invece, cifre alla mano, che la
depressione è il disturbo psichico più diffuso al mondo, mentre gli psicoanalisti annoverano tra i
loro pazienti una quantità crescente di depressi. E oggi è proprio la depressione, come la psicosi
cinquant'anni fa, a monopolizzare l'interesse psichiatrico, affermandosi sempre più nel campo della
medicina. Anche i media non esitano a esibirla come una malattia di moda, una sorta di male dei
nostri tempi. La depressione si è così trasformata nello strumento ideale per definire un numero
imprecisato di malattie e, magari, esorcizzarle. Un “successo” analogo poteva toccare all'ansia,
all'angoscia o alla nevrosi, per la genericità dei disturbi che designano. Ma è la depressione ad aver
ottenuto questo successo sociologico.
Quali sono, allora, le ragioni e le implicazioni sociali per cui la depressione ha conquistato il
primato tra le patologie del profondo? E in quale misura essa è rivelatrice delle mutazioni
dell'individuo nell'ultimo scorcio del XX secolo? Sono questi i due interrogativi ai quali ci
proponiamo di rispondere con la nostra esplorazione del continente depressivo.
La depressione è una forma di malattia che si presta particolarmente bene alla comprensione
dell'individuo contemporaneo e dei nuovi dilemmi che lo abitano. […]
La depressione si assicura il “successo” nel momento in cui il modello disciplinare di gestione
dei comportamenti, ossia le regole d'autorità e di conformità ai divieti che finora hanno orientato la
storia delle classi sociali così come quella dei due sessi, devono far posto a norme che stimolano
ciascuno all'iniziativa individuale, sollecitando a diventare se stesso. In virtù di questa nuova
normatività, l'intera responsabilità delle nostre vite non solo compete al singolo-che-è-in-noi ma
coinvolge in egual misura il tra-noi collettivo. La presente propone di mostrare come la depressione
rappresenti l'esatto contrario di tutto questo, manifestandosi come una malattia della responsabilità,
in cui predomina un sentimento d'insufficienza: il depresso non si sente all'altezza, è stanco di dover
diventare se stesso.
Ma che cosa significa diventare se stessi? La domanda è semplice solo in apparenza. In realtà
essa solleva spinosi problemi di confine: tra il consentito e il vietato, il possibile e l'impossibile, il
normale e il patologico. La sfera intima, oggi, è attraversata da rapporti instabili tra senso di colpa,
responsabilità e patologia mentale. […]
Gli anni '60 hanno spazzato via pregiudizi, tradizioni, ostacoli, limiti, confini che strutturavano la
vita collettiva […]: l'ideale politico moderno, che fa dell'uomo proprietario di se stesso e non più il
docile strumento del Principe, si è esteso a tutti gli aspetti dell'esistenza. L'individuo sovrano,
l'individuo eguale solo a se stesso di cui Nietzsche annunciava l'avvento, è ormai una comune forma
di vita. […]
È proprio il sisma dell'emancipazione ad aver sconvolto, a livello collettivo, l'intimità di
ciascuno di noi: la modernità democratica – e questa è anche la sua grandezza – ha fatto
progressivamente di noi degli uomini senza guida, ci ha posti a poco a poco nella condizione di
dover giudicare da soli e di dover fondare da soli i nostri punti di riferimento. Siamo divenuti pure
individui, nel senso che non vi è più alcuna legge morale né alcuna tradizione a indicarci
dall'esterno ci dobbiamo essere e come dobbiamo comportarci. Da questo punto di vista, la
contrapposizione permesso/vietato, che regolava l'individualità fino a tutti gli anni '50 e '60, ha
perduto ogni efficacia. […] Il diritto di scegliere la propria vita e il pressante dovere di diventare se
stessi pongono l'individualità in una condizione di continuo movimento. E ciò induce a porre in altri
termini la questione dei limiti normativi dell'ordine interiore: la contrapposizione tra il permesso e il
vietato tramonta per far spazio a una contrapposizione lacerante tra il possibile e l'impossibile. Per
cui l'individualità viene a trovarsi notevolmente trasformata.
In sintonia con la relativizzazione della nozione di divieto, è andato altresì riducendosi il ruolo
della disciplina nelle forme di regolazione del rapporto individuo/società: forme che oggi fanno
appello più alla decisione e alla iniziativa personali che all'obbedienza disciplinare. La persona non
è più mossa da un ordine esterno (o da una conformità alla legge), ma occorre che faccia appello a
risorse interne, a competenze mentali proprie. Le nozioni di progetto, motivazione, interrelazione
sono oggi divenute norme, sono entrate nei nostri costumi, sono diventate un'abitudine alla quale,
dall'alto al basso della gerarchia sociale, tutti – attori pubblici e privati – hanno imparato ad
adeguarsi più o meno bene. […]
Sotto il profilo di una storia dell'individuo, non importa che la depressione designi un male di
vivere o una malattia vera e propria. La sua peculiarità è un'altra: essa esprime l'impossibilità stessa
del vivere, e lo fa col linguaggio della tristezza, dell'astenia (la fatica), dell'inibizione e di quella
particolare difficoltà a dare il via all'azione che gli psichiatri chiamano «rallentamento
psicomotorio». Il depresso, incalzato da un tempo senza futuro, appare irrimediabilmente privo di
energia, risucchiato nella logica del «niente è possibile». Spossati e svuotati, agitati e violenti, in
una parola, malati di nervi, scontiamo dentro i nostri stessi corpi il peso della sovranità individuale:
nuova decisiva variante di quel «difficile compito» a cui, secondo Freud, l'uomo civilizzato deve
sacrificarsi per potersi appunto definire civile.
[…]
L'individualismo democratico gode della singolarità di fondarsi su un doppio ideale: essere una
persona in sé e per sé – quindi un individuo – in un gruppo umano che matura in sé il senso della
propria esistenza – quindi una società. Oggi infatti non siamo più guidati dal sentimento religioso né
sottomessi a un sovrano che decide per tutti: il primo è stato sostituito dalla nozione di interiorità, il
secondo dalla nozione di conflitto. […]
L'istituzionalizzazione del conflitto consente il libero confronto degli interessi contraddittori e
l'ottenimento di compromessi accettabili. È una condizione della democrazia, nella misura in cui
consente di rappresentare su una scena – politica – la divisione sociale. La conflittualità psichica è
la contropartita dell'autofondazione che caratterizza l'individualità moderna. La nozione di conflitto
è il mezzo per mantenere uno scarto tra ciò che è possibile e ciò che è permesso. L'individuo
moderno è in fondo sempre in guerra con se stesso: per essere ricongiunto a se stesso deve prima
essere disgiunto da sé. Dalla sfera politica alla sfera individuale, la conflittualità è il nucleo
normativo della forma di vita democratica.
Di qui una seconda ipotesi: il “successo” della depressione si basa sul declino del riferimento al
conflitto, su cui si è modellata l'idea di soggetto che abbiamo avuto in eredità dall'Ottocento. […]
Così come al nevrosi, un secolo fa, incombeva sull'individuo lacerato dai conflitti, dimidiato
dalla cesura tra ciò che è permesso e ciò che è vietato, oggi la depressione minaccia un individuo
apparentemente emancipato dai divieti ma sicuramente dimidiato dalla frattura tra il possibile e
l'impossibile. Se la nevrosi è un dramma della colpa, la depressione è una tragedia
dell'insufficienza: l'ombra anche troppo familiare dell'uomo senza guida, intimamente spossato dal
compito di diventare semplicemente se stesso e tentato di sostenersi con l'additivo dei farmaci o dei
comportamenti compulsivi. […]
Se la storia della depressione è la storia di un soggetto introvabile, l'additivo esprime la nostalgia
di un soggetto perduto. […]
Passando in rassegna prima la nevrosi, poi la depressione e infine la dipendenza, ripercorreremo
il tragitto che condotti da un'esperienza collettiva di noi stessi a un'esperienza affatto diversa.
Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società (1998), tr. it. Einaudi, Torino 1999, pp. 3-13.
Negli ultimi vent'anni dell'Ottocento, una nuova malattia fa furore: la nevrastenia. È, per così
dire, la prima malattia alla moda, in grado di mobilitare sia gli scienziati (Charcot, Freud, Janet,
Ribot, tra gli altri) sia la grande stampa, l'opinione pubblica e gli scrittori o gli artisti. È il primo
segnale di un'attenzione nuova, sociale, per la sofferenza come disturbo funzionale. Nasce di qui la
nozione di fattore esogeno: qualcosa che proviene dall'esterno e, per via consequenziale, produce
una trasformazione interna, una reazione patologica della persona. Viene così a cadere qualsiasi
riferimento a fattori ereditari per spiegare comportamenti o sentimenti morbosi. […]
La nevrastenia è un fenomeno moderno. Il suo scopritore, l'americano George Beard, l'ha
denominata «malattia della vita moderna», scorgendovi il riflesso nervoso dell'affaticamento
industriale. Ansia dei tempi nuovi, inquieta convivenza col progresso e la grande città.
La nozione di disturbo funzionale consente di mettere da parte un modello di malattia dominato
dal nesso sindrome-lesione. Una sindrome più costituire la reazione patologica a un evento, al di là
della possibile presenza di una lesione. L'importanza della nevrastenia, per il problema che ci
interessa, consiste appunto nel prefigurare una permeabilità sociale dello spirito, suffragata dalla
nozione di disturbo funzionale. Per cui la nevrastenia innesca un'idea di socializzazione del tutto
nuova per la psiche. […]
Scrittori, poeti, pittori, letterati fanno entrare in scena, simultaneamente, il modernismo e i nervi.
Velocità delle automobili, mistica dei nervi, culto dell'inconscio: il tema della nervosità s'impone
contemporaneamente nella medicina e nell'arte.
Wilhelm Erb chiama in causa gli imperativi della lotta per la vita e per il benessere: «È
considerevolmente cresciuto, in termini di lotta per la vita, l'impegno dell'individuo per tenere alta
la propria produttività: un impegno per soddisfare il quale egli prodiga ogni più profonda energia
intellettuale. Contestualmente è cresciuto il livello dei bisogni individuali, di pari passo con un
edonismo di massa e un benessere esteso a strati sociali che finora ne restavano rigorosamente
esclusi». Un terreno sociale assai fertile per un rapido attecchimento della nevrastenia: «La malattia
si è propagata come un'epidemia, – scrive uno psichiatra nel 1904. – La parola 'nevrastenia' è sulla
bocca di tutti, è la malattia alla moda ».
Ma perché il compito di liberarsi dalla miseria interiore è impossibile? Freud ha risposto tante
volte alla domanda: «L'esperienza insegna che per la maggior parte degli uomini vi è un limite al di
là del quale la loro costituzione non può adeguarsi alla richiesta della civiltà. Tutti coloro che
vogliono essere più nobili di quanto la loro costituzione non permetta soccombono alla nevrosi;
sarebbero stati più sani se fosse stato loro possibile essere peggiori».
Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società (1998), cit., pp. 42-43, 47, 58.
L'epidemiologia ci insegna che la depressione si è diffusa nella nostra società come una
patologia del cambiamento e non della miseria socio-economica: è un fenomeno che, a partire dal
secondo dopoguerra, accompagna la mutazione delle istituzioni nel loro complesso. È un frutto
dell'abbondanza, non della crisi economica. La depressione insorge per la prima volta durante i
gloriosi Anni Trenta, in un periodo di progresso economico, di crescente benessere e di ottimismo
generalizzato.
Nel 1967 un esperto dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) stima, sulla base di
sondaggi effettuati sull'intera popolazione, che i tassi di incidenza dei disturbi mentali non psicotici
siano pressoché raddoppiati in quindici anni. […]
A parere dell'Associazione americana della medicina, che pubblica nel 1989 una sintesi di studi
epidemiologici condotti su campioni rappresentativi dell'intera popolazione, l'aumento del rischio-
depressione per i nati nel secondo dopoguerra sarebbe fuori discussione. […] Ora, le persone nate
dopo il 1945 non soltanto sono quelle che godono del migliore stato di salute di tutta la storia
moderna, ma sono anche quelle cresciute in un periodo di inedita prosperità- l'urbanizzazione, la
mobilità geografica – con le lacerazioni affettive che può implicare –, la crescita dell'anomia
sociale, i mutamenti all'interno della compagine familiare, la volatilizzazione dei ruoli sessuali
tradizionali, ecc., sarebbero tutti incentivi al rischio-depressione nella nostra società. […]
Gli anni '70 rappresentano un periodo di transizione, nel corso del quale tende ad affermarsi, a
livello sociologico, l'idea che ognuno sia il proprietario della propria vita. L'uomo di massa si
accinge a diventare il sovrano di se stesso. Il suo orizzonte privilegiato è l'autogestione della propria
vita. Comincia ad eclissarsi la nozione di interdetto. Nella sfera del costume cominciano a farsi
davvero sentire quelle trasformazioni normative che hanno visto la luce negli anni '60: prima tra
tutte il declino della contrapposizione individuo/società, che aveva sempre visto nell'individuo un
soggetto da disciplinare e socializzare, onde proteggere la società dai suoi eccessi. Il '68, in Francia,
non è trascorso invano. Con tutto il suo peso simbolico, esso ha contribuito non poco ad accelerare
le dinamiche morali che hanno sempre inciso sulla società francese, facendole ora entrare nel
dibattito politico. Esse diventano il fulcro di conflitti nella sfera pubblica, di cui si fanno interpreti
“movimenti” di rivendicazione sociale: parità tra uomo e donna, divorzio consensuale,
concubinaggio, diritto all'aborto e alla contraccezione. La legge Newirth sulla pillola è votata nel
1967. Si rivendica, anche in strada se occorre, una libertà privata che diviene subito argomento di
scontro tra destra e sinistra, ed è aspramente dibattuta in parlamento (prima di esserlo, qualche anno
dopo, negli show televisivi). Si afferma, sull'onda dei contrasti politici, un modo di vedere i diritti
privati in termini di scelta individuale. A sinistra, la nozione di legge appare come una forma di
sopraffazione da cui è indispensabile emanciparsi.
L'uomo sovrano, simile a se stesso, di cui Nietzsche annunciava l'avvento, è a un passo dal
diventare una realtà di massa: non c'è nulla al di sopra di lui che possa indicargli chi deve essere, dal
momento che egli si propone quale solo proprietario di se stesso. Pluralismo morale e non
conformità una norma unica, libertà di costruirsi da sé le proprie regole invece di vedersele
imporre: lo sviluppo di sé diventa, per tutti, un compito personale che la società deve promuovere.
Tutto sommato, si direbbe che oggi disponiamo di prodotti apparentemente innocui ed efficaci
nelle diverse sintomatologie depressive. «Eludere la depressione è ormai semplice come evitare di
rimanere incinta: prendete la vostra pillola e sarete felici», leggiamo su «Lancet» nel 1990. il
mercato degli antidepressivi vede ancora accentuarsi l'escalation iniziata a partire dal 1975, ma con
una significativa diversificazione dei consumi: le vendite del solo Prozac aumentavano del 37,15%
in un anno. Nel 1995 la molecola occupa il secondo posto tra i farmaci più venduti in Francia. […]
Nel 1988 appare in Francia una Guida ai 300 farmaci per superare i propri limiti fisici e
intellettuali. Fa scandalo. Gli autori – anonimi – difendono, in una società ormai esasperatamente
competitiva, il «diritto al doping». E distinguono il drogarsi, che coincide col ripiegarsi
morbosamente su un proprio universo privato, dal doparsi, che agevola invece il confronto
personale con gli obblighi imposti a ciascuno di noi.
Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società (1998), cit., pp. 150-151, 160-161, 249-250, 254-
255, 259.
Alla fine degli anni '60, «emancipazione» è la parola d'ordine che assembla l'intero continente
giovanile: tutto è possibile. Il movimento è antistituzionale: la famiglia è una camera a gas, la
scuola una caserma, il lavoro (e il suo rovescio, il consumismo) un'alienazione, e la legge
(borghese, s'intende) uno strumento di sopraffazione di cui ci si deve liberare («vietato vietare»).
Una libertà finora sconosciuta si coniuga a un progresso delle condizioni materiali, e nuove
prospettive di vita diventano una realtà tangibile nel corso del decennio. Se la follia, nel comune
sentire dei primi anni '70, appare come il simbolo dell'oppressione moderna e non più come una
malattia mentale, questo è appunto dovuto al fatto che tutto è possibile: il pazzo non è malato, è solo
diverso, e soffre proprio per la mancata accettazione della sua diversità. Trent'anni dopo, rischia di
affermarsi una controparola d'ordine: niente è possibile. Si ha la sensazione che il presente sia come
schiacciato, soffocato. Ed è una sensazione confermata dal peggioramento delle condizioni materiali
e da quell'estraniazione di una parte della popolazione che normalmente si chiama espulsione.
Dovunque, insistentemente, si chiede di capire. Ma la risposta alle attese collettive – di non porre
limiti alla libertà di scegliersi la propria vita – è inequivocabilissime il richiamo all'ordine e
all'esistenza di limiti invalicabili. […]
È dunque inutile lamentarsi per un ritorno del l'interdetto o continuare a ripetere che è
indispensabile porre dei limiti a soggetti che in realtà non ne riconoscono più. Tanto, indietro non si
torna. Quello che è veramente indispensabile è capire che quel qualcosa di sconosciuto che è dentro
di noi tende a trasformarsi, e che i costi oscillano con i guadagni.
Questa storia è in definitiva molto semplice. L'emancipazione ci ha forse affrancato dai drammi
del senso di colpa e dello spirito d'obbedienza, ma ci ha innegabilmente condannato a quelli della
responsabilità e dell'azione. È così che la fatica depressiva ha preso il sopravvento sull'angoscia
nevrotica. […]
La depressione minaccia l'individuo simile a se stesso come un tempo il senso di colpa insidiava
l'uomo lacerato dal conflitto o, ancor prima, il peccato incalzava l'anima rivolta a Dio. Più che un
infortunio affettivo, la depressione è oggi un modo di vivere. L'episodio cruciale della storia
dell'individualità nella seconda metà del XX secolo è infatti quello dello scontro tra la nozione di
possibilità illimitata e la nozione di non-padroneggiabile. La parabola ascendente della depressione
non ha fatto altro che evidenziare le tensioni prodotte da questo scontro, man mano che la sfera di
ciò che è permesso è sfumata in quella di ciò che è possibile. […]
Alle soglie del XXI secolo, le patologie della persona sono ormai quelle della responsabilità di
un soggetto che si è definitivamente affrancato dalla legge dei padri e dai vecchi codici di
obbedienza o conformità a regole imposte dall'esterno. La depressione e la dipendenza non sono che
il diritto e il rovescio dell'individuo sovrano, dell'uomo che si crede l'artefice della propria vita
mente ne è solamente il «soggetto, nel duplice senso del termine: attivo e passivo». [...]
Se, come pensava Freud, «l'uomo diventa nevrotico perché incapace di sopportare il peso della
frustrazione impostagli dalla società», diventa depresso perché deve invece sopportare l'illusione
che tutto è possibile.
All'implosione depressiva risponde l'esplosione additiva, al vuoto di sensazioni del depresso
risponde la ricerca di sensazioni del drogato. […] In un contesto in cui la scelta è la norma e la
precarietà esistenziale il prezzo da pagare, la patologia depressiva e additiva rappresentano il lato
oscuro dell'interiorità contemporanea. Per cui la nuova equazione dell'individuo sovrano è la
seguente: liberazione psichica e iniziativa individuale, insicurezza identitaria e impotenza ad agire.
[…]
La depressione è il recinto in cui si tiene l'uomo senza guida e non solo la sua miseria, è la
contropartita al dispiegamento della sua energia. Sappiamo in che misura le nozioni di progetto,
motivazione e comunicazione dominino oggi la nostra cultura normativa, e in che misura esse siano
divenute le parole d'ordine del nostro tempo. Ora, la depressione è una patologia del tempo (il
depresso è privo di futuro) e una patologia della motivazione (il depresso è privo di energia, i suoi
movimenti sono intorpiditi, la sua parola stentata). È difficile che il depresso formuli progetti: gli
mancano le energie e le motivazioni per farlo. Inibito, impulsivo o compulsivo, egli comunica a
fatica con se stesso e con il prossimo. Svuotato di progetti, svuotato di motivazioni, svuotato di
abilità comunicative, il depresso è l'esatto contrario delle nostre norme di socializzazione. Non
sorprendiamoci quindi dell'esplosione, in psichiatra come nel linguaggio comune, di termini come
depressione o dipendenza. Se infatti ci si assume la responsabilità di essere se stessi, bisogna poi
saper curare anche la patologia che ne deriva. L'uomo deficitario e l'uomo compulsivo sono le due
facce di questo Giano.
Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società (1998), cit., pp. 304-306, 312-313 e 315-320.