Ernesto D'albergo - Economia Della Finanza Pubblica PDF

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ERNESTO D’ALBERGO, ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA


Edizione digitalizzata a cura di Nino Luciani, Alm@-DL , Bologna 2009

AVVERTENZA
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GUGLIELMO GOLA, L'OPERA SCIENTIFICA DI E. D 'A LBERGO, 6 2) Scrivi la parola o frase nella stringa che
DOMENICO DA EMPOLI, PRESENTAZIONE DI E. D’ALBERGO, 11 si apre sulla destra. Infine, clicca Search.
NINO LUCIANI, IL “2° CRITERIO PARETIANO”, D’ALBERGO E LA SCIENZA DELLE FINANZE, 408
The “2d Pareto’s criterion”, d’Albergo and the Science of Public Finance, 425

INTRODUZIONE, 13
I. DEFINIZIONE DELLA SCIENZA DELLE FINANZE COME ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA
II. TRATTAZIONE SCIENTIFICA PER FINI DI CONOSCENZA SECONDO LA DEFINIZIONE.
III. PRINCIPI TEORICI CHE ORIENTANO LE INDAGINI.
IV. CONCEZIONE RAZIONALE-QUANTITATIVA ESPLICITA NELLA DEFINIZIONE E «GIUDIZI DI VALORE».
V. RAZIONALITÀ DELLA DEFINIZIONE CHE AFFERMA LA LIMITAZIONE DELLE RICERCHE TEORICHE ALL'ASPETTO
ECONOMICO DEI PROBLEMI DELLA FINANZA PUBBLICA.
VI. RAPPORTI FRA DIRITTO E FENOMENO CONCRETO (ORDINAMENTO POSITIVO).
VII. IL DOMINIO DELL'ASTRAZIONE IPOTETICA NELL'ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA.
VIII AUTONOMIA DELLA SCIENZA DELLA FINANZA PUBBLICA DALLA ECONOMIA POLITICA.
IX. LIMITI DELLA DIMOSTRATA RELATIVA AUTONOMIA DELLA "SCIENZA DELLE FINANZE” DALLA ECONOMIA POLITICA.
X. RAPPORTI FRA ECONOMIA FINANZIARLA E: A) POLITICA ECONOMICA E FINANZIARIA IN SENSO TRADIZIONALE;
E B) “POLITICA FISCALE” NEL SENSO KEYNESIANO.
XI. IL CARATTERE RAZIONALE DELLO STUDIO COMPIUTO IN QUESTE LEZIONI DI ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA.

CAPITOLO I. - BISOGNI PUBBLICI - SPESE PUBBLICHE, 73


I. I BISOGNI PUBBLICI.
II. LE SPESE PUBBLICHE.
III CRITERIO DI DECISIONE DELLA QUANTITÀ DEI BISOGNI PUBBLICI DA SODDISFARE (SECONDO CRITERIO DI PARETO).

CAPITOLO II. - LE ENTRATE PUBBLICHE, 86


I. LA LOGICA DELLA SEQUENZA: BISOGNI PUBBLICI - SPESE PUBBLICHE - ENTRATE PUBBLICHE.
II. LE ENTRATE PUBBLICHE CONSIDERATE DAL PUNTO DI VISTA DEI SINGOLI MEMBRI DELLA COLLETTIVITÀ CHE
DOMANDINO O SUBISCANO IL CONSUMO DI SERVIZI PUBBLICI.
III. LE ENTRATE PUBBLICHE CONSIDERATE DAL PUNTO DI VISTA DELLO STATO CHE OFFRE E IMPONE CONSUMO DI
SERVIZI.
A) PREZZO PRIVATO E QUASI-PRIVATO.
B) PREZZO PUBBLICO.
C) TASSA (COME CORRISPETTIVO NON TRIBUTARIO).
D) COMMISTIONE DI TASSE NON TRIBUTARIE E DI TASSE CON NATURA DI TRIBUTI.
E) I CONTRIBUTI (DI MIGLIORIA SPECIFICA).
F) IMPOSTE SPECIALI.
IV. LE IMPOSTE GENERALI E LA LORO CLASSIFICAZIONE.
A) IMPOSTE DIRETTE E INDIRETTE.
B) IMPOSTE REALI E PERSONALI.
C) IMPOSTE PROPORZIONALI E PROGRESSIVE.

CAPITOLO III. – LA DISCRIMINAZIONE QUANTITATIVA DEGLI IMPONIBILI. DEI CRITERI SOGGETTIVI DI


RIPARTIZIONE DEL COSTO DEI SERVIZI PUBBLICI INDIVISIBILI, 110
I. LO SPOSTAMENTO, NELL'IPOTESI, DEL SOGGETTO DELLE VALUTAZIONI EDONISTICHE DAI SINGOLI MEMBRI DELLA
COLLETTIVITÀ ALLA CLASSE GOVERNANTE PER LA COLLETTIVITÀ STESSA.
II. INTUIZIONI E DIMOSTRAZIONI SCIENTIFICHE IN TEMA DI PRINCIPII E CRITERI O “MODI” DI DISTRIBUZIONE DEL
COSTO DEI SERVIZI PUBBLICI INDIVISIBILI
III. ALTRE AVVERTENZE DI METODO PER LA VISIONE RAZIONALE DEL PROBLEMA.
IV. LA LEGITTIMITÀ LOGICA E LA FECONDITÀ TEORICA DELL'IPOTESI DI UNA DECRESCENZA «TIPICA» DELL’UTILITÀ
MARGINALE DEL REDDITO VISTA DALLA CLASSE GOVERNANTE PER I MEMBRI DELLE COLLETTIVITÀ.
V. L'IRRAZIONALE E CONTRADDITTORIO SCETTICISMO LEGATO ALLA NEGAZIONE DI UNA «TIPICA» DECRESCENZA
DELL'UTILITÀ MARGINALE DEL REDDITO, LOGICAMENTE ASSUNTA COME IPOTESI RAZIONALE IN QUESTO CORSO.
VI. ANALISI DEL PRINCIPII DEL SACRIFICIO: A) EGUALE, B) PROPORZIONALE, C) MINIMO COLLETTIVO.
VII. CONSIDERAZIONI DI POLITICA FINANZIARIA E STATISTICHE CHE INFLUENZANO LA DETERMINAZIONE
QUANTITATIVA E L'INTRODUZIONE DELL'IMPOSTA PROGRESSIVA. SISTEMI DI PROGRESSIONE.

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VIII CRITICA DELLA PROPRIETÀ «FONDAMENTALE» DELLA PROGRESSIONE E RELATIVITÀ DI ESSA.

CAPITOLO IV. - DEL PRINCIPIO DELLA «CAPACITÀ CONTRIBUTIVA», 149


I. TENTATIVI DI DARE SIGNIFICATO AL CONCETTO DI CAPACITÀ CONTRIBUTIVA IN SEDE OGGETTIVA: LA CAPACITÀ
CONTRIBUTIVA RELATIVA AL VANTAGGI (EFFETTI) DELLA SPESA PUBBLICA.
II. LA TASSAZIONE DIFFERENZIALE O ELISIONE DI «RENDITE DI PROTEZIONE» ALLA LUCE DEL «PRINCIPIO DELLA
CAPACITÀ CONTRIBUTIVA RELATIVA»

CAPITOLO V. - DEI COSIDDETTI PRINCIPII «ECONOMICO», DELLA «NEUTRALITÀ» E «PRODUTTIVISTICO»


E DI ALTRI CRITERI PER LA RIPARTIZIONE DELLE IMPOSTE GENERALI, 161
I. IL "PRINCIPIO ECONOMICO” DI E. BARONE.
II. LA NEUTRALITÀ DELL'IMPOSIZIONE IN RAPPORTO ALLA DISTRIBUZIONE DEL REDDITI. LA FORMULAZIONE DEL
DALTON.
III. IL "PRINCIPIO PRODUTTIVISTICO”
IV. IL COSIDDETTO CRITERIO DELL'OPPORTUNITÀ (EXPEDIENCY).

CAPITOLO VI. - LA DISCRIMINAZIONE QUALITATIVA DEGLI IMPONIBILI, 170


I. AVVERTENZE SULLE RAGIONI CHE FANNO PRECEDERE LO STUDIO DELLA DISCRIMINAZIONE A QUELLO DELLA
EPURAZIONE DELL'OGGETTO DELL'IMPOSIZIONE.
II. SPIEGAZIONI POLITICO - SOCIOLOGICHE DELLA DISCRIMINAZIONE QUALITATIVA.
III. DISTINZIONE CHE SI PRENDE IN ESAME.
IV. LE DUE IMPOSTAZIONI TEORICHE DEL PROBLEMA: A) UNA DI TIPO OGGETTIVO O RICARDIANO; B) L'ALTRA,
APPROPRIATA E RAZIONALE, DI TIPO MARGINALISTICO O SOGGETTIVO, NEL SIGNIFICATO CHE SI PRECISA.
V. DIMOSTRAZIONE DELLA DISCRIMINAZIONE QUALITATIVA SU BASE EDONISTICA (PRIMA APPROSSIMAZIONE).
DEFINIZIONE DEL REDDITO.
VI. DEDUZIONI ULTERIORI ED AVVERTENZE SULLA DISCRIMINAZIONE.
VII. ANALISI DI SECONDA APPROSSIMAZIONE PER LA SPIEGAZIONE DELLA DISCRIMINAZIONE QUALITATIVA.
VIII. SI INTRODUCE NEL RAGIONAMENTO LA «FUNZIONE DEL CONSUMO».
APPENDICE AL CAPITOLO VI. ALCUNE OSSERVAZIONI SULLE IMPOSTE DIRETTE, IN ITALIA: IMPOSTA DI FAMIGLIA,
IMPOSTA DI RICCHEZZA MOBILE, IMPOSTA SUL PATRIMONIO

CAPITOLO VII. - SULLA «DOPPIA TASSAZIONE DEL RISPARMIO, 191


I. LA EGUALE TASSAZIONE DEL CONSUMO E DEL RISPARMIO È IMPLICITA NELLA DEFINIZIONE IPOTETICA DELL'OG-
GETTO IMPONIBILE.
II. ETEROGENEITÀ DEI DUE SISTEMI DI TASSAZIONE: A) DEL REDDITO CONSUMATO, B) DEL REDDITO PRODOTTO.

CAPITOLO VIII.- LA «EPURAZIONE» DI QUANTITÀ ECONOMICHE PER LA RIDUZIONE AD IMPONIBILI, 203


I. L' EPURAZIONE DEGLI IMPONIBILI NELLA TASSAZIONE DEL REDDITO: 1) PRODOTTO, 2) GLOBALE DISPONIBILE, 3)
CONSUMATO OVVERO DEL PATRIMONIO.
II. FONDAMENTO LOGICO DEL PROCESSO DI EPURAZIONE DEGLI IMPONIBILI
III. RAGIONI D'ORDINE ECONOMICO RAZIONALE CHE FANNO LUOGO ALLA TASSAZIONE DI REDDITI «NETTI» ANZICHÈ
«LORDI».
APPENDICE AL CAPITOLO VIII - SULLE “EPURAZIONI” PRESUNTE

CAPITOLO IX. - GLI EFFETTI ECONOMICI DELLE IMPOSTE, 212


I. IMPORTANZA E COLLOCAZIONE DI QUESTO CAPITOLO NELLA FINANZA PUBBLICA.
II. I PRINCIPI DI CAUSALITÀ E DI FINALITÀ E L'IMPOSTAZIONE ATOMISTICA DEL PROBLEMA DEGLI EFFETTI ECONOMICI
DELLE IMPOSTE
III. IL PRINCIPIO DETERMINISTICO E LA SUA IMPOSTAZIONE SECONDO L'EQUILIBRIO ECONOMICO GENERALE.
IV. NECESSITÀ LOGICA DELLO STUDIO COLLEGATO DEGLI EFFETTI DI PRELIEVO E SPESA DELLE IMPOSTE.
V. CONTRAPPOSIZIONE TRA LO SCHEMA “ATOMISTICO” E QUELLO “DETERMINISTICO” IN TERMINI QUANTITATIVI.
VI. SPIEGAZIONE DELLE CORRENTI SEMPLIFICAZIONI DELLO STUDIO DEGLI EFFETTI DELLE IMPOSTE
VII. EQUIVALENZA DI EFFETTI ECONOMICI TENDENZIALI IN ECONOMIA DI MERCATO E NEI SISTEMI COLLETTIVISTI

CAPITOLO X. - ANALISI DEGLI EFFETTI DELLA ATTIVITÀ, FINANZIARIA, 233


I. PRECEDENZA ALLA CONFIGURAZIONE DI CONCORRENZA «PURA» O «PERFETTA».
II. TRASLAZIONE IN CONDIZIONI DI CONCORRENZA PERFETTA, DOMANDA ELASTICA E COSTI CRESCENTI.
III. TRASLAZIONE E COSTI DECRESCENTI.
IV. TRASLAZIONE IN CONDIZIONI DI MONOPOLIO PURO E TOTALE.
V. TRASLAZIONE IN CONDIZIONE DL MONOPOLIO PARZIALE.
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VI. TRASLAZIONE IN CONDIZIONI DI CONCORRENZA MONOPOLISTICA.


VII. L’IPOTESI DI MONOPOLIO BILATERALE E LA TRASLAZIONE.
VIII LA TRASLAZIONE REGRESSIVA.
IX. EFFETTI DELL’IMPOSIZIONE E RENDITA DEL CONSUMATORE.
X. EFFETTI DELL'IMPOSTA SULLE QUANTITÀ NEI CASI: A) DI BENI COMPLEMENTARI; B) DI BENI SUCCEDANEI.
A) TRASLAZIONE DELL'IMPOSTA NEL CASO DI BENI COMPLEMENTARI.
B) TRASLAZIONE DELL'IMPOSTA NEL CASO DI BENI SUCCEDANEI.
XI. COINCIDENZA DI PERCUSSIONE ED INCIDENZA: L'AMMORTAMENTO DELL'IMPOSTA.
XII. LA RIMOZIONE DELL'IMPOSTA.
A) IPOTESI DI IMPOSTA FISSA.
B) IPOTESI DI IMPOSTA PROPORZIONALE AL REDDITO..

CAPITOLO XI - PROBLEMI CONCERNENTI LA TRASLAZIONE ED EFFETTI ECONOMICO-EDONISTICI DI TRIBUTI, 289


I. DAZI FISCALI.
II. EFFETTI SPECIALI DELL'IMPOSTA SU TUTTI GLI SCAMBI.
III. IMPOSTE DI FABBRICAZIONE, MONOPOLI FISCALI E LORO ALTERNATIVA.
IV. PRESSIONE COMPARATA DI IMPOSTE DIRETTE ED INDIRETTE, A PARITÀ DI PRELIEVO.
V. RELAZIONI DEL TEOREMA PRECEDENTE CON VISIONI DI MASSIMO BENESSERE COLLETTIVO.
VI. IL «PRINCIPIO ECONOMICO» DI BARONE E L'INTEGRAZIONE FRA IMPOSTE DIRETTE E INDIRETTE.
VII. LA «MULTIDIREZIONALITÀ» DELLA DOMANDA E LA TEORIA DELLE IMPOSTE SUI CONSUMI.

CAPITOLO XII. - EFFETTI DEGLI «SGRAVI» FISCALI, 329


I. L'IRREVERSIBILITÀ DELLE MODIFICAZIONI PRODOTTE DAL “FACTUM PRINCIPIS” SULLE CONDIZIONI DI EQUILIBRIO
ECONOMICO GENERALE ?
II. EFFETTI DELLO "SGRAVIO" DI IMPOSTE GENERALI E PROPORZIONALI SUL REDDITO.
III. EFFETTI DELLO "SGRAVIO" DI IMPOSTE NON GENERALI.

CAPITOLO XIII. - RAGIONAMENTI DEDUTTIVI E MISURAZIONE DEGLI EFFETTI ECONOMICI DELLE IMPOSTE, 333
I. INATTENDIBILITÀ LOGICA DELLA DETERMINAZIONE STATISTICA DELL’ELASTICITÀ DELLA DOMANDA E OFFERTA, IN
SEGUITO A VARIAZIONI FISCALI.
II. LIMITI DEL SIGNIFICATO DI INDAGINI EMPIRICO-STATISTICHE PER LA MISURAZIONE DEGLI EFFETTI DELLE IMPOSTE.

CAPITOLO XIV. - GLI EFFETTI DELLE FLUTTUAZIONI ECONOMICHE SULLE IMPOSTE, 338
I. SULLA “ELASTICITÀ PASSIVA O SENSIBILITÀ” DELLE IMPOSTE ALLE VARIAZIONI DELLA CONGIUNTURA.
II. IL PROBLEMA DELLA NEUTRALIZZAZIONE DELLA SENSIBILITÀ CONGIUNTURALE DELLE IMPOSTE.
APPENDICE AL CAPITOLO XIV

CAPITOLO XV. - TEORIA DELLA PRESSIONE TRIBUTARIA E FISCALE E DEGLI EFFETTI DELLA SPESA PUBBLICA, 348
I) ANALISI DEI TERMINI DEI RAPPORTI CON CUI SI ESPRIMONO I CONCETTI DI PRESSIONE «TRIBUTARIA» E
«FISCALE».
II) LA DIPENDENZA FUNZIONALE DEL REDDITO NAZIONALE DALLA MANOVRA DI QUANTITÀ MONETARIE
PRELEVATE E SPESE AD OPERA DELLA CLASSE GOVERNANTE PER LO STATO.
III) LA PRESSIONE FISCALE IN TERMINI SOGGETTIVI DI UTILITÀ E SACRIFICI EDONISTICI.
II. LA PRESSIONE TRIBUTARIA NEI CONFRONTI INTERNAZIONALI.

CAPITOLO XVI. - ALCUNI PROBLEMI DELLA FINANZA STRAORDINARIA, 363


I. RAZIONALITÀ DELLA DIFFERENZIAZIONE LOGICA E METODOLOGICA DELLA FINANZA STRAORDINARIA DALLA
FINANZA ORDINARIA
II GLI STRUMENTI DELLA FINANZA STRAORDINARIA”
A) TESORO DI GUERRA.
B) IMPOSTA STRAORDINARIA E PRESTITO PUBBLICO.
III. IL PROBLEMA DELLA PRESSIONE COMPARATA DEL PRESTITO E DELL'IMPOSTA STRAORDINARIA IN TEORIA PURA.
IV. IMPOSTA STRAORDINARIA SUI PROFITTI DI CONGIUNTURA.
V. VARI TIPI DI TITOLI DEL DEBITO PUBBLICO.
VI. LA CONVERSIONE DEI PRESTITI PUBBLICI.
VII. L'AMMORTAMENTO DEL DEBITO PUBBLICO.
VIII IL PROBLEMA DEI «LIMITI» DEL DEBITO PUBBLICO.
IX. «IL CIRCUITO DEI CAPITALI» PER UN FINANZIAMENTO “STRAORDINARIO” SENZA INFLAZIONE.

ELENCO DELLE PUBBLICAZIONI DI E. D’ALBERGO, 441


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ERNESTO D’ALBERGO
PROFESSORE ORDINARIO DI SCIENZA DELLE FINANZE

ECONOMIA
DELLA

FINANZA PUBBLICA

Guglielmo Gola
L’OPERA SCIENTIFICA DI E. D’A.*

Domenico da Empoli
PRESENTAZIONE DI E. D’A.*

Nino Luciani
Il “2° Criterio Paretiano”,
E. d’Albergo e la Scienza delle Finanze*

* Testo aggiunto in questa edizione 2009. Per altre variazioni, si vegga anche l’avvertenza in nota 1, p. 13.
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Ernesto d’Albergo
1902-1974

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Guglielmo Gola ∗

L'opera scientifica di Ernesto d'albergo

Ernesto d'Albergo nacque il 2 giugno 1902 a Siracusa, in Comune di Noto, da nobile famiglia sicilia-
na. Egli ricordava con espressioni di dolce ammirazione il Padre, N. H. Salvatore d'Albergo della Ci-
marra morto nel 1944, avvocato illustre, fondatore ed animatore di benefiche istituzioni sociali. Le doti
oratorie che avevano reso “affascinante il dire e la persona” l'esuberanza di sentimenti, l'atteggiamento
fiero ed aristocratico, indipendente da ogni compromesso, che Ernesto d'Albergo ricordava del Padre,
facevano spicco parimenti in Lui. Dalla Madre, Nella Scirpa d'Agata, aveva ricevuto il «vigore fisico ed
intellettuale, sorretto da eccezionale forza di raziocini, e lo spirito realizzatore », che caratterizzarono
anche la Sua azione.
Era d'animo molto generoso e la sua signorilità di tratto e di sentire era di natura tale da non creare
disagio, pur nel massimo rispetto, nei postulanti che a Lui si rivolgevano.
Al culto della famiglia, accompagnava quello per l'amicizia: la stima e l'affetto che nutriva per le
persone elette alla Sua amicizia sempre prevalevano su altri sentimenti.
Studiò alla Università Bocconi, a Milano, laureandosi nel 1924. Nel 1930 conseguí la libera docenza;
fu professore incaricato all'Università del S. Cuore ed all'Università statale di Milano, oltre che a Vene-
zia, Cà Foscari. Nel 1935 fu ternato, con S. Pugliese e L. Gangemi, nel concorso alla cattedra universi-
taria, avendo come giudici i professori Fanno, Mazzei, Papi, Repaci e Tivaroni. Titolare di Scienza delle
finanze e Diritto finanziario nella Università di Ferrara e Siena (1935-38), di Trieste (1938-40), di Bolo-
gna (1941-55), ebbe la cattedra di Scienza delle finanze, dal 1956, alla Facoltà di Scienze politiche del-
l'Università di Roma, conservata sino al collocamento fuori ruolo.
La separazione dell'insegnamento della Scienza delle finanze da quella del Diritto finanziario fu per
Lui motivo di particolare soddisfazione. Invero, Egli, pur dotato di spiccata sensibilità giuridica, anche
per tradizione di entrambi i rami familiari dei genitori, da molto tempo aveva combattuto la cosiddetta
commistione di indirizzi della disciplina, in cui dovrebbero coesistere, secondo taluni, economia e dirit-
to, oltre a politica, tecnica, sociologia. Largo posto viene fatto a simile questione in Economia della Fi-
nanza pubblica (1952), con argomentazioni riprese poi in appositi scritti, fra cui Un aspetto della diffe-
renziazione fra economia e diritto (estratto da «Studi senesi in memoria di Ottorino Vannini » 1954), e più
tardi in Elementi volontaristici e coattivi nei rapporti finanziari con enti pubblici («Studi in onore di G.
Zanobini », vol. IV, 1962), Per il progresso degli studi finanziari (« Riv. Bancaria », 1963).
Della Sua vita accademica va anche ricordato che fu Preside della Facoltà di Economia e Commer-
cio di Bologna dal 1947 al 1952. L'intenso agire, riflesso di intima dote spirituale, annovera il merito
dell'esistenza della Rivista Bancaria - Minerva Bancaria. Ernesto d'Albergo, infatti, che dal 1936 era stato
titolare di una rassegna fissa, f u invitato nel 1945 a realizzare il rilancio della nuova serie della Rivista,
che da allora diresse per un trentennio, fino alla Sua dipartita (15 aprile 1974).
Parimenti alle Sue doti di realizzatore, l'Associazione Nazionale Tributaristi Italiani, di cui fu Presi-
dente sin dal 1952, deve a lui, in gran parte, la sua vitalità. Per Lui, quella fu una preziosa palestra in
cui trovarono sfogo, su terreno a cui voleva imprimere carattere di totale neutralità di interessi di qual-
siasi parte, i Suoi innati impulsi a servire, con illuminata e sapiente difesa della verità e dell'obiettività,
gli interessi della cosa pubblica.
Tratteggiare la figura di Ernesto d'Albergo come studioso di economia della finanza pubblica é com-
pito assai difficile e facile nello stesso tempo.
Il critico incontra notevoli difficoltà nell'affrontare la mole e la varietà della produzione scientifica;
ma risulta facilitato nella sua indagine dalla coerenza che lega i ragionamenti in cui si snoda la proble-
matica, per quanto estesa e varia, da lui affrontata. Si può ben dire che non esiste capitolo della scienza
delle finanze in cui Ernesto d'Albergo non si sia cimentato, recando contributi talvolta fondamentali per
il progresso della conoscenza teorica.
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Guglielmo Gola, già Professore Ordinario di scienza delle finanze e diritto finanziario nell’Università di Bologna,
primo allievo di Ernesto d’Albergo.
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In questa sede, la disamina non può procedere in profondità, poiché la completa indagine sui conte-
nuti del pensiero scientifico del Nostro comporterebbe estesi e approfonditi sviluppi logici non compati-
bili, appunto, con le imposte limitazioni di tempo e di spazio.
Pertanto, questa esposizione, necessariamente in forma sintetica, intende individuare e presentare le
idee-madri che hanno in preminenza fecondato le ricerche del nostro Autore; e ciò al fine di contribuire
ad una competente valutazione dell'apporto da Lui dato al progresso della scienza economico finanzia-
ria.
Di fronte alla dibattuta questione della legittimità logica della presenza dei giudizi di valor, sul terre-
no proprio della scienza, Ernesto d'Albergo tiene presenti i giudizi di valore come appartenenti alla
scienza, unicamente in quanto possono significare, pur nell'improprio linguaggio, ipotesi, assunti, con-
dizioni, presupposti, ecc. E non ammette - sono Sue parole - « compromessi ed ibride commistioni fra
analisi, distaccate dal dover essere, e programmi o fini caldeggiati dallo studioso, in quanto politico
formulatore di idee-guida, incompatibili con la neutralità della scienza ».
E’ alla base della impostazione della Sua visione teorica generale della finanza pubblica, l'assunzio-
ne della classe governante quale soggetto dell'unico calcolo delle variazioni edonistiche dei governati,
prodotte anche dall'attività finanziaria, in vista della realizzazione di un massimo di utilità per la collet-
tività. Si tratta dell'applicazione del “ Secondo criterio di Pareto » (così definito dal d'Albergo), presente
nelle originali impostazioni dei teoremi che spiegano la ripartizione formale dell'imposta ed altri fatti o
fenomeni, come pure definiscono analiticamente le condizioni di massimo benessere collettivo, in presen-
za anche dei vincoli fiscali.
Illustri studiosi, italiani e stranieri, in sede di aggiornata critica della letteratura scientifica, hanno
prospettato come aspetti negativi dell'impostazione accennata: a) le basi soggettive utilitaristiche ecces-
sivamente astratte; b) l'accentuazione sociologica.
Argomentare, sia pure in prima approssimazione, su simili questioni, farebbe sconfinare questa me-
moria oltre i suoi intenti. Pertanto, ci limitiamo ad accennare che l'astrattezza e la natura utilitaristica
trovano spiegazione e giustificazione nella visione del d'Albergo proprio nella osservata misura in cui
esse sono strumentali rispetto al compito definito per la scienza delle finanze, considerata quale ricerca
di uniformità teoriche relative all'analisi dei modi di prelievo e spesa e dei corrispondenti effetti sulle
condizioni di equilibrio economico.
In simile quadro logico, Ernesto d'Albergo, per molti versi in modo originale, ha fatto vivere in un
compiuto sistema conoscitivo la teorematica economico finanziaria, con rilievo ai problemi riguardanti
la natura delle entrate pubbliche, la distribuzione ottima della spesa, la differenziazione quantitativa de-
gli imponibili, la discriminazione qualitativa dei redditi, la pressione tributaria e fiscale, l'onere compa-
rato di diverse forme di tributi, il confronto fra diverse forme di entrate, eccetera.
Orbene, a fronte di simile costruzione razionale, presentata in sintesi per fini didattici nei due densi
volumi di lezioni, ed illustrata da una produzione scientifica, per specialisti, di rara mole e varietà tema-
tica, dobbiamo registrare la mia insoddisfazione rispetto a visioni alternative proposte da altri studiosi,
se non addirittura, in qualche caso, la nostra delusione per la dichiarata rinuncia di alcuni a trovare la
spiegazione di istituti tributari, con il solo uso degli strumenti dell'analisi economica. Ricordiamo, ad e-
sempio, l'istituto della progressività, da alcuni non considerato fenomeno suscettibile di spiegazione da
parte dell'analisi economica. In verità apparirebbe paradossale che la scienza economica fosse incapace
di spiegare un fatto di indubbio contenuto economico come la distribuzione della imposta, dichiarando il
proprio fallimento di fronte a tale compito.
È inoltre vero che Ernesto d'Albergo non si è sottratto alla tendenza (manifestata anche da autori,
anche fra i più noti di cui si onora la scienza economica)- a ricercare spiegazioni sempre più comprensi-
ve della fenomenica isolata nella specializzazione scientifica. Animato da insoddisfazione per la minore
forza esplicativa degli schemi logici, costruiti con i soli strumenti elaborati dall'analisi economica, Erne-
sto d'Albergo ha ragionatamente accolto (in un gruppo di saggi, specialmente degli anni più vicini) an-
che fattori prima trascurati, perché di natura extra-economica: ciò, ripetiamo, al fine di arricchire l'effi-
cacia euristica delle uniformità logiche, atte a dare spiegazione del complesso fenomeno sociale, me-
diante l'impiego anche di ipotesi e di fattori propriamente elaborati dalla sociologia. Difatti sono nella
visione di Ernesto d'Albergo il riconoscimento- della classe governante quale soggetto dell'unico, calcolo
edonistico per conto dei governati, e la valorizzazione del concetto paretiano di “massimo d'utilità per la
collettività”, soprattutto analizzato negli studi su Finanza e Benessere.

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ERNESTO D’ALBERGO, ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA
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L'assunzione della impostazione metodologica di cui abbiamo indicato alcuni caratteri essenziali, ha
consentito ad Ernesto d'Albergo di accompagnare, talvolta con notevole anticipazione, gli sviluppi della
scienza economica realizzati, per approssimazioni successive, al complesso fenomeno concreto o con
l'applicazione di « nuovi » principi o uniformità conseguenti all'assunzione di nuove ipotesi di lavoro.
La costante attualità degli studi di Ernesto d'Albergo è affidata: a) alla sua astrazione da giudizi di
valore, ammissibili solo come dati del problema e mai con forza di dimostrazione, da cui consegue lo
svincolo da cangianti valutazioni politico sociali del momento, della validità delle risultanze (e che, per-
tanto, conservano carattere generale di uniformità teoriche, nel tempo e nello spazio; b) alla varietà de-
gli orizzonti aperti da visioni del fenomeno globale, riconosciute da attenti studiosi anticipatrici dell'ap-
proccio keynesiano e post-keynesiano (e, pertanto, proprie della più recente problematica macro-
finanziaria; e) all'applicazione di strumenti analitici, elaborati dall'economia della finanza pubblica, per
la soluzione di problemi di benessere economico, portati avanti sino alla definizione di massimo benes-
sere collettivo. All’interno di questo, il vincolo fiscale (considerato per le variazioni edonistiche causate
da prelievo e spesa) viene fatto vivere, con intuizione originale, nel modello paretiano di massimo benes-
sere collettivo (in termini di utilità) in sociologia.
Dall'opera scientifica di Ernesto d'Albergo traspare l'intento non sempre esplicito di dimostrare il ca-
rattere unitario e universale della teoria pura, le cui formulazioni generali definiscono verità che a-
straggono da differenze di ordinamenti storici, ovvero prescindono da differenze metodologiche, quando
siano rispettati i canoni della coerenza ed evitate incompatibilità e contraddizioni. Soprattutto in saggi
appartenenti all'ultimo periodo della Sua produzione scientifica e quindi della Sua operosissima esisten-
za ( per tutti citiamo il saggio su Un'identificazione di schemi per l'economia finanziaria, in Giornale de-
gli Economisti, 1967-68) Ernesto d'Albergo auspica “l'annullamento di divergenze di opinioni scientifi-
che e di corrispondenti schemi classificatori”, facendo soprattutto appello allo schema generale di Pare-
to, atto a comprendere tutti i fatti, idealizzati o concreti tendenzialmente, del dominio finanziario pubbli-
co, coordinato con le concezioni di Pantaleoni. Da Lui è negata antinomia fra le idee -madri di Pareto e
Pantaleoni in tema di strumenti logici interpretativi del complesso fenomeno finanziario, rifiutando, co-
me inevitabili, schemi parziali in sede concettuale e analitica. Egli tende a collegare i due schemi, appa-
rentemente separati, che spiegano le variazioni d'equilibrio economico, in cui operino soggetti, uti singu-
li o raggruppati: quello degli effetti dei legami fra costi e vantaggi dell'attività finanziaria ( anche in
termini di effetti di prelievi e spese discriminate); e l'altro che continua la visione di massimo di utilità
per la collettività (“secondo criterio di Pareto”), da Lui applicato, anche in lontani saggi, a questo ordi-
ne di temi di pura teoria.
.Soprattutto per le considerazioni sopra riferite, Ernesto d'Albergo appare continuatore sia di Panta-
leoni sia di Pareto, le cui visioni, solo apparentemente contrapposte, sono risultate componibili nella ra-
zionale trattazione da Lui svolta; in essa l'analisi del particolare non perde di vista la natura composita
e la globalità, in concreto, del fenomeno studiato. In altre parole, la conoscenza delle dipendenze parti-
colari esistenti fra le singole grandezze esaminate pone in rilievo la presenza delle dipendenze da altre
grandezze e l'interdipendenza generale da fattori economici ed extra economici, che in sintesi concorro-
no a comporre il complesso fatto sociale.
Di questa Sua capacità di sintesi, posta a servizio della ricerca di uniformità generali teoriche, d'Al-
bergo fornisce ancora luminoso saggio in Gli effetti di imposte e spese di bilancio in regime collettivisti-
co (in «Giornale degli Economisti », 1966).. L'origine di quest'ultima impostazione, nella produzione
scientifica del d'Albergo, non è netta, potendosi trovare anche nei Suoi primi lavori significative intui-
zioni. Ma essa è soprattutto nelle trattazioni che fanno razionalmente superare il cosiddetto no-bridge e
pertanto in quelle aventi per oggetto le visioni del benessere collettivo, che risulta esaltata la posizione
di Ernesto d'Albergo nei confronti della concezione paretiana, specialmente in quella da Lui stesso de-
nominata “secondo criterio”.
Elenco, seguendo sempre un ordine logico a scapito di quello cronologico, i seguenti fondamentali
contributi: Finanza e benessere, estratto da « Giornale degli Economisti »,1963-64; Sviluppi di un teore-
ma finanziario e sue relazioni con il massimo benessere, estratto da « Studi in memoria di Guglielmo Ma-
sci », Giufjré, 1943; Di una proprietà dell'imposta progressiva alla luce della « matematica fiscale » e del-
l'economia finanziaria, (in « Giornale degli Economisti », 1952; Teoria dello «scambio volontario » e del-
l'utilità collettiva, estratto da « Stato sociale », 1958.
Altri settori particolari di ricerca, che attestano l'eccezionale varietà della tematica scientifica di Er-
nesto d'Albergo possono essere presentati come segue: Nuovi studi sull'ammortamento del debito pubbli-
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co, estratto dal « Giornale degli Economisti », 1933-1934; Brevi note su l'ammortamento e sui « limiti »
del debito pubblico, estratto da « Studi in onore del prof. Nina », «Annali dell' Università di Macerata »,
1955; Prestiti ed imposte nelle nuove teorie e nell'esperienza bellica, estratto da « Studi dell'Istituto di
Scienze Economiche e Statistiche dell'Università degli Studi di Milano », 1945.
In questi saggi, dopo avere posto da parte le “derivazioni” in senso Paretiano, ovvero i sentimenti e i
giudizi morali (erroneamente estesi dal campo dei rapporti tra privati al campo della finanza pubblica)
nella condotta che deve tenere lo Stato in tema di ammortamento del debito pubblico, Egli f a notare che
si ripresenta il problema classico della pressione comparata di prestito e imposta straordinaria. Que-
st'ultimo tema è affrontato nel saggio del 1945, nell'impostazione, in termini di utilità, del Borgatta, e dal
d'Albergo sottoposta a revisione critica, in cui il fattore tempo, prima trascurato, è preso in considera-
zione.
Gli effetti economici dell'imposta sugli scambi è definita come imposta sugli affari e ritenuta equiva-
lente ad imposta sul ricavo lordo, ovvero sul profitto lordo oppure sul valore globale del prodotto. Egli
respinge invece l'ipotesi di imposta sulle vendite o sui consumi, studiati in: La natura e il fondamento del-
le «imposte sugli scambi », Di alcuni effetti economici dell'« imposta sugli scambi », (in « Giornale degli
Economisti »,1931); Sulla condensazione delle aliquote sugli scambi, (in « Giornale degli Economisti »,
1935).
Una singolare disamina dei pensamenti rivolti dal d'Albergo al noto teorema della doppia tassazione
del risparmio ( di cui nega la validità, come dimostrazione di violazione di eguaglianza e, quindi, di giu-
stizia, quando non siano adeguatamente definite). Egli fece questo fin dall'epoca in egli ricevette le le-
zioni universitarie di Einaudi, Prato, Gobbi, invece sostenitori del teorema. Si vegga il saggio dal titolo
Confessioni, convinzioni e conferme nella negazione del teorema della doppia tassazione del risparmio, e-
stratto da « Studi economici », 1971. Simile conclusione Egli aveva già esposto nelle Lezioni di Econo-
mia della Finanza Pubblica ed in Sur la double taxation de 1'épargne, in « Revue de Science et de Législa-
tion financière », 1952, che riproduce una conferenza tenuta alla Sorbona, a Parigi.
Tenuto conto della data di pubblicazione, risalta nei saggi sotto indicati per originalità il rilievo dato
ai rapporti di dipendenza funzionale fra variabilità del gettito di talune imposte tipiche per “sensibilità
congiunturale” e “fluttuazioni economiche”. Si tratta dei saggi Della sensibilità delle imposte in rapporto
alle fluttuazioni economiche, in « La riforma sociale », 1934;e Sulla neutralizzazione della sensibilità con-
giunturale delle imposte, in «Rivista internazionale di scienze sociali », 1935.
L'Autore perviene alle conclusioni seguenti: 1) è da escludere una scala con gradi costanti ed assoluti
di sensibilità congiunturale, anche difficilmente osservabili in via analitica nel passato; 2) non appare
logico riformare i sistemi tributari trascurando di considerare le ragioni giuridiche, amministrative, e-
conomiche, ecc. che con vario peso, hanno contribuito a determinare l'assetto tributario nei vari paesi.
Dell'opera di Ernesto d'Albergo come scienziato, oltre il rigore logico e la forza d'analisi nello stesso
tempo possente e acutissima, stupiscono l'originalità e la varietà dei temi affrontati. Ciò traspare, con
evidenza immediata, dalla lettura del Corso di lezioni intitolato alla Economia della finanza pubblica,
pubblicato nel 1951-52, che praticamente conclude una serie di edizioni di « Corsi » di ben minori di-
mensioni, quali dispense universitarie, iniziata nel 1939. Invero, i due volumi del 1971 (Giuffrè editore)
sono l'aggiornamento dell'edizione 1951-52, con aggiunta di una Appendice, alla fine del volume secon-
do (capp. IX-XVI), nella quale ritorna su vari aspetti, trattati nei precedenti vari capitoli. Ciò vale, a te-
stimonianza e dimostrazione della viva attualità della trattazione, ai fini del progresso degli studi nel
campo della finanza pubblica, considerata per il contenuto economico e per l'aspetto razionale della ri-
cerca di uniformità teoriche. E non vi sono istituti o teorie, criticamente analizzate con la padronanza
assicurata da una preparazione culturale eccezionale, dell'Autore, che anche con questa varietà dà pro-
va della Sua costante presenza, del Suo costante parlare in prima persona.
È vero che la ricerca teorica ha costituito per il d'Albergo la principale occupazione della Sua mente
di scienziato, e la Sua produzione nel campo della pura conoscenza non ha mai subito soste, se non quel-
le dovute dal travaglio della meditazione su temi specifici. (Ricordo i Suoi tormenti documentati da con-
fidenziale corrispondenza epistolare, su temi come quelli del benessere, della doppia tassazione del ri-
sparmio, della discriminazione qualitativa degli imponibili).
Ma non può tacersi l'importanza della Sua attività di pubblicista, di commentatore di fatti, di critico
tecnico. Le Sue « cronache » per lustri, premesse ad ogni fascicolo della “Sua” Rivista Bancaria - Mi-
nerva Bancaria, sono un condensato di interpretazioni degli avvenimenti più significativi per il mondo

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economico: la capacità di sintesi, oltre che quella della analisi (negli studi). Gli è qualità di rilievo, non
meno dell'obiettività e della indipendenza assoluta di giudizio.
Sul terreno applicativo della finanza pubblica, le riforme dei sistemi tributari italiani o stranieri, pro-
poste e succedutesi nell'arco del mezzo secolo, gli fornirono l'occasione per occuparsi di simili problemi
concreti. Mi limito a citare, senza neppure una scelta fra i numerosi scritti riassuntivi, i seguenti: La cri-
si dell'imposta personale sul reddito, Cedam 1931, che reca l'illustrazione del sistema di imposizione di-
retta e progressiva del reddito spendibile o consumabile (preferibile - anche se di difficile attuazione -
all'imposta diretta e progressiva sul reddito percepito, solo in parte nei sistemi positivi traducibile in
reddito globale « disponibile » o « godibile »); Orientamenti per una revisione del sistema tributario ita-
liano, Unione Italiana Camere di Commercio, 1948; Legittimità giuridica e razionalità economica delle
imposte di fabbricazione nell'ambito del sistema tributario italiano, in « Rassegna di diritto e tecnica do-
ganale », 1955; Alcuni rilievi critici intorno all'imposta sulle società, in « Rivista Bancaria », 1954; Ri-
lievi critici sull'ordinamento dell'imposta generale sull'entrata, 1961; Sulla interpretazione delle norme fi-
scali del trattato istitutivo del Mercato Comune, in « Rivista Bancaria », 1960; e le Relazioni generali
svolte in tutti i congressi dell'Associazione Nazionale Tributaristi Italiani, a Lui particolarmente cara e
per la quale profuse tante energie, ricevendone ampi riconoscimenti. In queste Relazioni, invero, l'attivi-
tà legislativa del nostro Paese in questo scorcio di secolo, in ogni fase dal progetto alla attuazione, è sta-
ta commentata favorevolmente o negativamente dal d'Albergo, con critiche sempre costruttive, serene e,
quel che più conta, particolarmente per Lui, unicamente al servizio dell'obiettività e nell'interesse del Pae-
se.
A conclusione, dirò della figura di Ernesto d'Albergo come Maestro: solo poche parole, che però vorrei
scelte fra le più ricche di significato per recare una testimonianza formata di giudizi a cui non fanno velo
sentimenti estranei o incompatibili con l'obiettività. Assai generoso nei consigli, suggerimenti, meraviglia-
va per la prontezza con la quale sapeva far riferimento a visioni generalizzanti per chiarire i termini di
problemi, teorici o concreti, che chiunque, allievo o non, poteva proporgli. Nemmeno nei momenti di stan-
chezza, che Egli pur dotato di resistenza fisica eccezionale alle volte denunciava, lasciò senza risposta chi
Gli prospettava dubbi, incertezze.
Anche per questo, Ernesto d'Albergo sarà ricordato nei luoghi e dal pubblico da Lui prediletti, ossia nei
seminari scientifici, nelle aule universitarie, dove Egli ha esercitato un magistero eccezionale, creando una
Sua scuola, e tracciando sicure strade alla divulgazione di quelle verità scientifiche, alla cui ricerca ha ve-
ramente dedicato tutta la Sua intensamente laboriosa esistenza.

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Domenico da Empoli ∗

Presentazione di Ernesto d’Albergo

Conseguì nel 1930 la libera docenza e nel 1935 ottenne la cattedra di “Scienza delle finanze e Diritto
finanziario” (come, allora, si denominava la disciplina, prima che lo stesso d’Albergo ne ottenesse il cam-
biamento nell’attuale denominazione di “Scienza delle finanze”).
Egli insegnò dapprima a Ferrara e a Siena (1935-38), poi a Trieste (1938-40) e quindi a Bologna
(1941-1955), ove ricoprì anche la carica di Preside della Facoltà di Economia e Commercio dal 1947 al
1952. A partire dal 1^ novembre1956, Ernesto d’Albergo divenne titolare di Scienza delle finanze e diritto
finanziario presso la Facoltà di scienze politiche dell’Università di Roma, divenuta poi cattedra di Scienza
delle finanze in tutte le Facoltà di Scienze Politiche (con legge 18 dicembre 1962 n. 1.741, che rendeva i-
noltre obbligatoria la disciplina) . A Roma d’Albergo, dopo la conclusione della sua attività didattica con il
collocamento fuori ruolo dal 1^ novembre 1972, si spense improvvisamente il 15 aprile 1974.
Il periodo in cui d’Albergo si era formato e aveva scritto i suoi primi contributi era ancora un periodo
in cui gli studi economici italiani (e quelli di Scienza delle finanze in particolare) godevano di ampio pre-
stigio internazionale. Anche se non sarebbe del tutto appropriato parlare di una vera e propria “scuola”
italiana di Scienza delle finanze, per la varietà e per le diversità di posizioni metodologiche e di punti di
vista tra i diversi studiosi della disciplina, non vi è dubbio che molte delle tematiche che ancor oggi sono
centrali negli studi di Scienza delle finanze erano state individuate dagli studiosi italiani, le cui soluzioni,
pur se basate su schemi teorici meno sofisticati degli attuali, erano fondamentalmente corrette e, per
l’epoca, molto innovative.
Basti pensare alla teoria dei beni pubblici, che costituisce il nucleo teorico intorno al quale si è formata
la scienza delle finanze (come “domanda e offerta di beni pubblici”) in parallelo con l’economia politica
(domanda e offerta di beni privati) e che, nell’ambito dell’impostazione degli equilibri parziali, è stata ap-
profondita in modo ineccepibile da Antonio de Viti de Marco (preceduto da Maffeo Pantaleoni e affiancato
da Ugo Mazzola). Ed inoltre, ai numerosi contributi alla teoria della traslazione delle imposte e agli effetti
del debito pubblico, oltre a contributi più specifici, come il “teorema di Barone” sull’eccesso di pressione
delle imposte indirette e le discussioni sulla doppia imposizione del risparmio. Non si possono poi ignorare
i primi studi di analisi economica delle istituzioni, iniziati con la distinzione devitiana tra Stato “monopoli-
sta” e Stato “cooperativo” e con gli schemi politico-sociologici, che hanno contribuito a delineare le basi
di una vera e propria “teoria dell’offerta” di beni pubblici.
In questo vasto quadro d’indagine, Ernesto d’Albergo operò dando prova di capacità innovativa, ap-
profondendo con visione originale temi già trattati da altri studiosi e allargando il campo d’indagine a fe-
nomeni nuovi, o comunque non sufficientemente approfonditi in precedenza, come la crisi dell’imposta per-
sonale sul reddito, come gli scritti sulla sensibilità congiunturale delle imposte e anche le anticipazioni del-
la moderna politica di bilancio. Diede altresì interpretazioni nuove di teorie ampiamente discusse, come la
teoria delle illusioni finanziarie di A. Puviani, di cui dimostrò l’estensione anche a contesti istituzionali
democratici.
Accanto ai temi di carattere teorico, d’Albergo si soffermò anche, in periodi diversi, su aspetti concreti
dell’ordinamento tributario, soprattutto nel primo dopoguerra e poi, negli Anni 60, in occasione dei dibat-
titi che precedettero la riforma tributaria italiana.
Ernesto d’Albergo dedicò anche molta attenzione ai problemi economici e finanziari correnti, sia ita-
liani che internazionali, con scritti apparsi su riviste scientifiche (in particolare la Rivista Bancaria-
Minerva Bancaria, da lui diretta a partire dal 1945) ed anche su quotidiani economici (soprattutto il Sole-
24 Ore).

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Domenico da Empoli, professore ordinario di scienza delle finanze nell’Università “La Sapienza” di Roma.
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2. Dagli scritti di E.d’Albergo emerge la personalità di uno studioso indipendente, anche dalla tradizio-
ne italiana, di cui pure si considerava partecipe e quasi custode (o, forse si dovrebbe meglio dire, “il cu-
stode”).
Nato scientificamente in un periodo in cui le scuole scientifiche nazionali avevano identità proprie, per
la limitata circolazione delle idee nel mondo scientifico internazionale, ed in cui, inoltre, la tradizione
scientifica italiana negli studi di finanza pubblica aveva un peso molto consistente (anche se molti contri-
buti italiani erano rimasti quasi ignorati, come dimostra il successo del saggio di James M. Buchanan sulla
Scienza delle finanze), d’Albergo viveva male la nuova situazione, progressivamente verificatasi dopo la
seconda guerra mondiale, in cui l’internazionalizzazione della scienza economica aveva fatto perdere visi-
bilità alla c.d. “scuola italiana” di Scienza delle finanze.
Credo di non essere lontano dal vero nel ritenere che d’Albergo abbia vissuto la nuova situazione inter-
nazionale della disciplina come una vera e propria sconfitta personale e, quindi, quasi come “dramatis
persona”.
Se non si tiene conto di questo particolare, quasi risentito atteggiamento di d’Albergo, non è possibile
comprendere le sue polemiche degli ultimi anni con gli studiosi americani, la cui riproposizione delle teo-
rie italiane era per lui occasione per interventi distruttivi, anziché di dialogo pacato e, quindi, utile a quel
corretto inserimento dei contributi italiani nel panorama scientifico internazionale a cui lo stesso
d’Albergo anelava.
E’ indubbio, per esempio, che gli scritti di Paul Samuelson sulla teoria dei beni pubblici sono stati, sia
per il loro specifico contenuto che per il ruolo scientifico di Samuelson, molto importanti per rivalutare gli
studi di scienza delle finanze, in un periodo in cui le indagini di carattere macroeconomico sembravano le
uniche rilevanti scientificamente. Credo non vi siano dubbi che si possa far risalire ad essi la rinnovata at-
tenzione internazionale per la Scienza delle finanze, che non è più venuta meno.
E’ anche vero che Samuelson aveva trattato con “distacco” le teorie italiane, cosa piuttosto grave, an-
che perché l’economista americano non aveva una conoscenza diretta dei contributi italiani: le sue consi-
derazioni erano basate su una sintesi, alquanto carente, fornitagli da Richard Musgrave (come egli stesso
ha rivelato alcuni anni fa), anch’egli, peraltro, senza conoscenze dirette delle fonti italiane.
Tuttavia, non vi è dubbio che le aspre critiche di d’Albergo non abbiano molto aiutato la rivalutazione
dei contributi italiani. Una reazione moderata, che avesse documentato le inesattezze in cui era incorso
Samuelson, sarebbe stata indubbiamente più efficace.
Ancor più inspiegabile (se non nella logica che sopra ho delineato) è l’atteggiamento di assoluta chiu-
sura di d’Albergo nei riguardi dei lavori di James Buchanan e, in particolare, del suo lungo saggio sulla
teoria finanziaria italiana, che costituisce ancor oggi il principale riferimento internazionale per chiunque
voglia studiare i contributi italiani alla Scienza delle finanze. I successivi lavori di Buchanan, e in partico-
lare le costruzioni della teoria della Public Choice, che hanno stabilito un collegamento permanente con la
tradizione italiana, sono stati un riconoscimento fondamentale per la scienza finanziaria italiana. Anche
per essi non vi sono stati apprezzamenti (per usare un eufemismo) da parte di d’Albergo. E’ un peccato,
quindi, che questo atteggiamento di d’Albergo gli abbia impedito di inserirsi nel dibattito internazionale,
nel quale i contributi italiani alla Scienza delle finanze venivano, direttamente o anche indirettamente, rie-
saminati e discussi, apportando i chiarimenti e le precisazioni che egli riteneva più importanti.
Tutto ciò nulla toglie ai meriti scientifici di Ernesto d’Albergo, di cui questo volume costituisce testimo-
nianza, per quanto incompleta. Ci auguriamo che la sua lettura possa essere motivo di ulteriori riflessioni
sul pensiero di questo illustre studioso, che sin dalle prime opere ha dimostrato originalità di pensiero e
forte spirito critico.”

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INTRODUZIONE

I.

DEFINIZIONE DELLA SCIENZA DELLE FINANZE


COME ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA

Comincerò a dare una definizione della scienza delle finanze, come studio del contenuto economi-
co-quantitativo di essa. Questa definizione vuole abbracciare i problemi che effettivamente seguiranno nella
trattazione successiva. Quindi essa è una sintetica enunciazione programmatica, che coerentemente trovi
giustificazione in ciò che si presenterà ai lettori nelle singole parti dello svolgimento del «corso» di lezioni.
L'esigenza di una definizione della scienza delle finanze, deriva dalla logica necessità di
delimitare la trattazione, coerentemente, in rapporto a quella che sembri la materia oggetto di stu-
dio, scientificamente inteso.
Definizione, dicono i filosofi, è il discorso col quale significhiamo che cosa è un oggetto. Si suppo-
ne quindi che noi abbiamo già una certa nozione dell'oggetto. La difficoltà maggiore sta nel trattarne in mo-
do sintetico e comprensivo, tale che agevoli la immediata conoscenza di conclusioni che presuppongono
ragionamenti.
R. A. Murray2 aveva, come altri studiosi, sentito la esigenza metodologica di definire «provviso-
riamente» la scienza delle finanze come «lo studio delle uniformità che presenta l'attività finanziaria degli
enti pubblici in genere e dello Stato in particolare». Per "attività finanziaria" intendeva 1'«attività svolta da-
gli enti pubblici per la soddisfazione di quei bisogni che, essi, in un dato momento e in un dato luogo, as-
sumono a proprio compito per svariate ragioni».
Compito od oggetto della scienza delle finanze come teoria pura od ipotetica con contenuto econo-
mico, è «la ricerca di uniformità teoriche relative all'analisi:
a) dei modi secondo i quali lo Stato e gli enti pubblici minori possono procurarsi, con o senza coa-
zione, le entrate e distribuire le spese necessarie al soddisfacimento dei bisogni pubblici;
b) delle variazioni degli equilibri economici particolari e dell'equilibrio economico generale pro-
vocate dal modo e dal «quantum» di prelievo ed ottenimento, in genere, delle entrate e della erogazione
delle spese, nelle varie ipotesi di organizzazione dei mercati e di intervento, o meno, del fattore tempo» .
In questa introduzione, che è anche metodologica3 e vuol delimitare coerentemente la materia
scientifica di questo insegnamento universitario, la definizione che precede può avere qualche vantaggio.
Essa può servire a precisare l'orientamento logico del cultore di questa scienza, che consiste nello escludere,
quanto è possibile, ogni fattore estraneo alla teoria che persegue fini di conoscenza e di spiegazione di fatti

__________
1
AVVERTENZA. L’Edizione digitalizzata di questo libro di Ernesto d’Albergo è stata curata da Nino Luciani. La
edizione cartacea di riferimento è quella del 1952, Steb Bologna, di cui sono custodite delle copie, in particolare, nel-
le Università “La Sapienza” di Roma, e di Bologna.
I primi elementi di questo libro sono stati raccolti dagli studenti nel corso di lezioni universitarie di scienza delle fi-
nanze, e successivamente integrati dall’Autore.,
In questa edizione digitalizzata, sono state apportate piccole limature al testo originale cartaceo. Ad es. sono state
tolte alcune frasi incidentali, proprie del linguaggio parlato, durante le lezioni; sono stati scissi alcuni paragrafi,
troppo lunghi, ed è stato riscritto il testo in casi rarissimi. Questo è stato fatto, in vista della sua traducibilità in lin-
gua inglese, appena sarà possibile trovare il relativo finanziamento.
2
MURRAY R. A., Principii fondamentali di scienza pura delle finanze, Firenze, «La Voce», 1914,
3
Il proposito di evitare questioni di metodo, nelle quali troppo si intrattengono molti autori invece di far posto ad
applicazioni implicite di esso, essendo ovviamente infeconde per se stesse, non può essere se non parzialmente assolto
in queste lezioni. Contro volontà, quasi, sono trascinato a trattarne per cercare di mettere ordine nelle idee con tanta
pervicacia professate da docenti di questa disciplina, nella quale, ormai toppo insistentemente, si vogliono far rientrare
materie diverse: economia, politica, diritto, tecnica; talune. delle quali sistemabili scientificamente ma con criteri ben
distinti, oppure ribelli ad una teorizzazione, allo stato attuale delle conoscenze e probabilmente per lungo tempo.
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storici, attuali o probabili e virtuali, limitatamente alla considerazione dell’aspetto quantitativo che, finora,
si è manifestato il più atto ad una sistemazione scientifica (quello economico).

II.

TRATTAZIONE SCIENTIFICA PER FINI DI CONOSCENZA SECONDO LA DEFINIZIONE

La definizione esclude che la ricerca scientifica debba, nel campo della finanza pubblica, perseguire
fini di immediata applicazione ovvero di formulazione di normae agendi, suggerimenti, programmi d'azio-
ne, precetti ecc.. La scienza delle finanze - come economia finanziaria - non ha, lo scopo preminente era di
dar consigli al principe o «signore» sul modo di amministrare la pubblica cosa per la felicità del sovrano e
del popolo soggetto o per la potenza dello Stato, in genere. Tutto ciò si dice senza togliere merito a quanto
nelle opere di pionieri quali Petty, Justi e Sonnenfels, specialmente, si formulò nei tempi in cui andavano
gettando le prime basi scientifiche della finanza pubblica.
In altri termini, dalla ricerca per fini di pura conoscenza esulano scopi di arte finanziaria. Studioso
e consigliere hanno compiti nettamente distinti, come meglio si dirà più oltre, nel separare razionalmente
1'aspetto economico da quello giuridico e politico del fenomeno finanziario.

Il perché dell'essere del fatto finanziario o del suo manifestarsi in dati modi, con l'analisi delle con-
seguenze del come o del quanto, appartiene alla scienza ovvero alla teoria pura finanziaria, su cui qui emi-
nentemente si insiste.
Il dover essere può, invece, costituire un travestimento di proposizioni scientifiche. Infatti, dietro
formulazioni apparentemente vertenti nel campo dell'arte o della precettistica, può nascondersi un ragiona-
mento teorico su base ipotetica. Questa distinzione fra forma e sostanza, per la contrapposizione in atto, di
arte e teoria, sarà richiamata più oltre nel differenziare indagini economiche e giuridiche della finanza pub-
blica.
Lo stesso dicasi dei canoni o metodi amministrativi concernenti, ad esempio, il migliore, più como-
do, opportuno modo di prelevare entrate: anche questa è opera che spetta al tecnico, amministratore od or-
ganizzatore degli stati e dei settori fiscali.
Taluno discorre di tecnica finanziaria. Comunque siamo fuori della teoria, la quale come parte della
scienza, con contenuto eminentemente economico, tiene conto del modi o sistemi amministrativi come dati
di fatto, che assume per la soluzione di problemi, ad es., di eguale distribuzione degli oneri che danno corpo
alle pubbliche entrate. Criterio amministrativo (eguale) o se si vuole anche etico o politico, da cui discen-
dono conseguentemente teoremi e problemi su base quantitativa, trattabili quasi come nelle scienze esatte
(matematiche e fisiche), con la limitazione ben nota: che non può il cultore di questo ramo delle scienze so-
ciali ricorrere all'esperimento, ma solo avvalersi dell'osservazione per un modo approssimato di verificare le
deduzioni e le uniformità teoriche.

III.

PRINCIPI TEORICI CHE ORIENTANO LE INDAGINI.

Prima di esaminare altre coerenti conseguenze della definizione adottata nel par. I, occorre una pre-
cisazione che si riferisce alla proposizione contrassegnata, in detta definizione, con la lettera b).
Supponendo azioni a contenuto positivo dei soggetti attivi (Stato o altro enti pubblici minori), quali
prelievi di ricchezza, oppure a contenuto negativo come restituzioni o, ancora, rinuncia all'azione (esenzio-
ne da prelievi) ecc., tutte le condizioni ed ipotesi, che si affacciano qui brevemente, giustificano l'utilizza-
zione e l'applicazione di princìpii scientifici molteplici.
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Trattando di analisi di variazioni di equilibri e rapporti economici, come effetti dl intervento di fat-
tori fiscali (prelievo e spesa di quantità di potere d'acquisto), faremo appello, quindi, ad alcuni princìpii o-
rientativi.

a) Qui richiamo anzitutto il principio di causalità in senso filosofico, inteso come connessione, o
relazione tra fatti, oggettivamente esistente. Essa corrisponde ad una relazione nella mente dell'osservatore,
dando luogo alla teoria4.
Il principio di causalità non va confuso con il determinismo, definito come esistenza di connessioni
necessarie, secondo cui «ogni causa ha un determinato effetto ed ogni effetto una determinata causa.
Il significato in cui sarà usato il concetto di causa, è quello Aristotelico di causa «efficiente», ovve-
ro di forza atta a produrre una cosa o fatto o fenomeno.
Non possiamo, invece, seguire il principio di causalità quale è inteso dagli scienziati moderni, nel
senso che sperimentalmente si possa provocare un fatto A dove e come piaccia per osservarne la conse-
guenza B. I fenomeni finanziari, infatti, non sono riproducibili o causabili come nei laboratori sperimentali
delle scienze fisiche. Non sono fenomeni causabili, ponendo in essere altri fenomeni a fine sperimentale,
quelli di cui si occupa la finanza pubblica. Non esiste un fatto che si possa a piacimento ed a scopo speri-
mentale causare o produrre, come causa o «sorgente delle onde» (dicono i fisico-matematici) che costitui-
scono il fenomeno. Sono onde che «divergono» dalla sorgente che assurge a funzione di causa. Sono stati
detti fenomeni entropici quelli provocabili o causabili ad arbitrio dello sperimentatore, nelle scienze fisiche.

b) Accogliendo il concetto di determinismo, nel senso che possano essere previsti i fenomeni futuri
in base alla conoscenza di quelli presenti, non è escluso che si possano spiegare alcuni rapporti fra fatti che,
in questa sede, vengono considerati in via ipotetica. Ma sempre escludendo che si possano, a nostro arbitrio,
riprodurre i fenomeni teoricamente analizzati.
Quando, pur senza poter sperimentalmente riprodurre i fenomeni, si ammetta la relazione di causa-
lità, non in senso scientifico ma piuttosto filosofico, si può prevedere che alla azione di una causa segua un
effetto. Ove i casi osservati siano numerosi (grandi numeri), al probabile verificarsi di effetti si sostituisce
la certezza, nella previsione. Introducendo un'imposta che modifichi il costo di produzione, anche in sede di
osservazione di fatti reali istantanei (che la scienza considera per tipi ipotetici), si può prevedere una varia-
zione del prezzo in aumento, in determinate circostanze (domanda poco elastica della merce prodotta e in-
fluenzata dal fatto finanziario).
Ma quando, come si evince dalla definizione, si introduca il fattore tempo, e dalla visione statica
(con assenza di tempo o durata dei fenomeni) di relazioni di causalità, si passi alla dinamica (e, cioè, si con-
siderino i fenomeni nel loro sviluppo o movimento) l'intervento di fattori causali nuovi e imprevisti fa venir
meno il legame deterministico, perché un fenomeno può non essere la conseguenza necessaria di uno ante-
cedente. E per l'intervento di «atti creativi» variabili, non può concepirsi la previsione se non in termini di
probabilità5.
Come vedremo a proposito di misurabilità «a posteriori» del processo traslativo (ovvero del trasfe-
rimento di un onere fiscale, attraverso lo scambio, da un soggetto A, a mezzo di un aumento o di una dimi-
nuzione di prezzi, a carico di un soggetto B, nel tempo), soltanto in via di probabilità si può ritenere che la
variazione di prezzo sia stata conseguenza del fatto fiscale, agente nell'intero mercato, quale fenomeno di
massa.
Nel modo più plastico e avvincente, ad opera di L. Amoroso6, la analogia fra teoria fisica ed eco-
nomica, che si limiti allo studio del movimento stazionario che rappresenti la vita economica dominata da
forze corrispondenti a quella che è l'inerzia in meccanica, è stata compiuta con la nota pubblicazione dal ti-
tolo significativo da questo punto di vista. Il venir meno del carattere deterministico del movimento in fisi-
ca, in base al «principio di indeterminazione» di Heisenberg (secondo il quale il movimento dell'atomo è
considerato dipendente oltre che da forze, ostacoli e resistenze di inerzia, da elementi estranei al moto) ha
fatto pensare per analogia alla visione della teoria dinamica relativa alla esperienza economica, in cui le a-

__________
4
PARETO V., Manuale, Introduzione.
5
DEMARIA G. , Il principio di indeterminazione nella economia dinamica - Rivista Internazionale di scienze sociali,
settembre 1932.
6
AMOROSO L., Meccanica Economica, Macrì, 1942.
15
16
ERNESTO D’ALBERGO, ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA
Edizione digitalizzata a cura di Nino Luciani, Alm@-DL , Bologna 2009

zioni non sono uniformemente ripetute, ma presentano una continua e perenne trasformazione, un incessan-
te divenire.

c) Un altro principio, infine, che possiamo classificare nell'ordine causale, nel campo teorico in og-
getto, dobbiamo tener presente, in relazione alla circostanza che consideriamo fatti e fenomeni non riprodu-
cibili o provocabili a nostro arbitrio e che sono osservabili solamente.
In certo senso si potrebbe dire che questo è il significato di «causa», secondo Aristotele, detta «fina-
le», che rappresenta il fine, motivo o intento dell'azione creativa della cosa o fatto o fenomeno.
Alludo al principio di finalità, secondo il quale un fenomeno (mezzo) è legato ad altro fenomeno
(fine). E come senza causa, nella visione in cui domina il principio di causalità in senso ampio, non si a-
vrebbe effetto, senza fine non si avrebbe ricorso al mezzo per raggiungerlo7.

d) Un altro principio che troverà applicazione, vasta e frequente, in relazione anche coi termini del-
la definizione (nella quale si pone a compito della scienza delle finanze lo studio di variazioni dell'equili-
brio economico) è quello di mutua dipendenza fra le quantità considerate. Il concetto di «funzione» e la sua
traduzione grafica che offre una rappresentazione visiva delle variazioni collegate delle variabili, verranno
utilizzati ampiamente, secondo si avverte nelle due precedenti (1942, 1944) «prefazioni» a questo «corso».
Poiché tutte le quantità, nei loro rapporti reciproci, influiscono le une sulle altre, in modo che la va-
riazione di una porta con sé una variazione di tutte le altre, si terrà conto del rapporto o principio di interdi-
pendenza generale, oltre che come visione di massima, per i problemi che si prestino ad essere interpretati
in questo quadro logico, ampio e senza le limitazioni della clausola del «ceteris paribus».
Non occorrerebbe avvertire che tutti i principii a cui si è fatto riferimento possono essere dimostrati
non incompatibili con la utilizzazione dei procedimenti di conoscenza, propri delle scienze propedeutiche,
quali:
1) il procedimento induttivo (argomentazione con la quale si passa da proposizioni particolari ad una propo-
sizione universale);
2) il procedimento deduttivo (che parte da premesse generali immediatamente evidenti e positive, e, attra-
verso un insieme ordinato di proposizioni, conduce a conseguenze coerenti).

IV.

CONCEZIONE RAZIONALE-QUANTITATIVA ESPLICITA NELLA DEFINIZIONE E «GIUDIZI DI


VALORE».

La definizione dell'oggetto della scienza delle finanze, come studio economico di relazioni quanti-
tative influenzate dal fatto finanziario, induce a far escludere dalle analisi quanto appartiene al dominio mo-
rale espresso in termini qualitativi. Il giusto, il buono, ed ogni altro giudizio di valore debbono esulare dai
ragionamenti che formano questa scienza.
Escludendo dall'oggetto della scienza delle finanze i giudizi di valore (giusto, ottimo, ecc), può
sembrare che esista contrasto, fra coloro che giudizi di valore pronunciano qualificando in tali termini gli i-
__________
7
Rimando alla trattazione originale del FANTAPIE’, che trova applicazione nel campo delle azioni volontarie, quali
sono quelle che compiono anche i soggetti operando economicamente, come tendenze a fini. Azioni che più che da
cause passate vengono determinate da fini futuri. In un campo, come l'economico, eminentemente basato su premesse
psicologiche, non si può trascurare codesto principio per la spiegazione di fatti come quelli che ci intratterranno più ol-
tre come, ad es.: la tendenza dei privati contribuenti al massimo utile, compatibilmente con l'interferenza del fattore fi-
scale prelievo di imposte; la tendenza a conservare la disponibilità del reddito per i propri privati consumi, «rimuo-
vendo» l'incidenza data dalla sottrazione di una quantità di potere d'acquisto, a titolo di imposta, ecc. Per il Fantappiè,
la nostra personalità è mossa da fini e non da cause: di questo principio non si può non tener conto nella spiegazione
della condotta, specialmente, di singoli, di fronte al fatto finanziario, ipoteticamente considerato. Per lo sviluppo di
questa teorica si veda di questo autore: Fantappiè, Principii di una teoria unitaria del mondo fisico e biologico, Roma,
Soc. ed. «Humanitas nova».
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ERNESTO D’ALBERGO, ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA
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stituti e i sistemi o principii finanziari, e quanti si astengono da siffatte enunciazioni di apprezzamenti mo-
rali.
Ricordo, a proposito della giusta imposta, le seguenti proposizioni del Berliri8:
a) economisti («e politici») si dichiarano concordi nel pensare che della giustizia o ingiustizia del-
l'imposta debba la loro scienza disinteressarsi;
b) economisti, politici e giuristi finiscono a concludere che la giusta imposta non esiste.
Codeste proposizioni non sono metodologicamente ammissibili. Infatti non chiariscono la posizione
dello studioso nei confronti degli ideali di giustizia, di bene ecc. che, pure, dominano le soluzioni concrete
o politiche.
Non vedo perché il Berliri abbia affiancato a quello di economisti e giuristi il termine «politici»
proprio quando solo i politici possono enunciare e di solito, come uomini d'azione, enunciano giudizi di va-
lore che orientano la storia, ma non come studiosi.
Data una definizione di «giustizia» o di ciò che è «ottimo» nel campo finanziario, il cultore di eco-
nomia finanziaria analizza la rispondenza, ad esse, degli istituti9, ponendo in evidenza quali conseguenze, in
sede quantitativa, derivino dall'accogliere la definizione o il concetto di «giusto» «ottimo», ecc. Quando ci
si dice: «con questo bisogno di giustizia dovrà, dunque, fare i conti l'economista» rispondiamo che sempre
gli economisti, veri cultori di questa scienza, hanno «fatto i conti» con la giustizia come ideale posto dai po-
litici, consacrato o meno nelle leggi da attuarsi nel campo tributario.
Supponiamo che la giustizia sia definita come eguaglianza di posizione dei membri della collettivi-
tà di fronte al pagamento dei tributi. Rispetto a questa ipotesi, il cultore di teoria finanziaria esaminerà se
detta eguaglianza, in termini obiettivi (o monetari), venga razionalmente tradotta dal prelievo di reddito o
ricchezza in genere, in ragione proporzionale; se l'eguaglianza venga intesa in senso soggettivo (sacrificio
di utilità della ricchezza posseduta), spiegherà se e in quali ipotesi, rispettivamente l'imposta proporzionale
e quella progressiva soddisfino coerentemente alla premessa extra-scientifica della giustizia e della egua-
glianza, nella corresponsione di tributi allo Stato.
Che cosa si dovrebbe dire di quanti ritengono che del concetto di giustizia non abbiano tenuto conto
gli economisti, quando si pensi a due (Edgeworth, Wicksell) fra i più forti ingegni, razionalisti per eccellen-
za e, anche per gli strumenti della ricerca impiegati, fra i più rigorosi ragionatori della fine del secolo passa-
to e del primo quarto di questo in corso? Edgeworth10 intestava la seconda parte della trattazione della Teo-
ria pura dell'imposta, al Principio della giustizia tributaria. Wicksell11 dedicava il secondo dei suoi famosi
Saggi di finanza teorica, integralmente alla illustrazione di Un nuovo principio di giusta tassazione.
Pare ben strano che proprio l'Einaudi12 non abbia rilevato che, da quando si è avuta sistemazione
scientifica di questa disciplina in senso economico, gli economisti hanno «fatto i conti» con il concetto di
giustizia. Proprio egli ha tentato una critica della correlazione fra detto concetto di giustizia, tradotto in
quello di eguaglianza, e i sistemi astratti di esprimere il concetto, nel campo dell'imposizione di tributi. Tali
sistemi astratti sono stati ipotizzati dai cultori di economia finanziaria anche attraverso criticati «sommi
principii utilitaristici».
Un concetto di .giustizia tributaria, «pre-giuridico» come opportunamente rileva, iniziando la sua
trattazione, l'Allorio, preesiste per il giurista ed è «quello stesso cui fanno frequente riferimento gli econo-
misti». E continua: «In fondo, la giustizia tributaria nel senso rilevante per i giuristi non è che il prolungarsi
e concretarsi della giustizia tributaria nei senso considerato dagli economisti». Pare strano che questo non
abbia visto il Berliri, che certamente avrà meditato sul Diritto processuale tributario13; e più ancora che
l'Einaudi non abbia pensato, nel dettare la prefazione, al proprio formale e ripetuto riferimento a concetti di
giustizia, ed abbia fatto menzione indiretta solo della sua monografia sull'«ottima» imposta14 .

__________
8
BERLIRI L.V.,La giusta imposta, Roma, edizione Istituto Italiano di Studi legislativi, 1945.
9
Modi e quantum del prelievo delle entrate soprattutto tributarie ovvero coattivamente conseguite dall'ente pubblico,
tenendo conto o meno, simultaneamente, dei vantaggi o della utilità dei pubblici servizi goduti.
10
EDGEWORTH, “Teoria pura dell'imposta”, Biblioteca dell'Economista, vol. XVI.
11
WICKSELL, “Saggi di finanza teorica”, Nuova collana di Economisti, vol. IX.
12
EINAUDI L., Miti e paradossi della giustizia tributaria,, G. Einaudi editore, 1938.
13
ALLORIO, Diritto processuale tributario, Milano, Giuffrè 1942, pp. 16-17.
14
EINAUDI L., "Contributo alla ricerca dell' "ottima imposta", Annali di Economia» dell'Università Bocconi, Milano,
1929.
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Ciò detto, se imposta «equa» od «ottima» verrà definita quella che meno turbi l'equilibrio dei rap-
porti di scambio ovvero l'equilibrio del mercato, lo studioso, teorico della finanza, rileverà le condizioni che
dovranno verificarsi nella ripartizione dei tributi, affinché codesta definizione di imposta, in senso qualita-
tivo, trovi corrispondenza coerente nel tipo analizzato scientificamente. E' ovvio che potrà concludere che,
tutte le imposte turbando l'equilibrio economico in termini quantitativi, l'effetto psicologico di modi deter-
minati di ripartire le imposte può dar luogo a perturbazioni addizionali o differenziali tendenzialmente
maggiori o minori dell'equilibrio del mercato.
Se imposta «giusta» sarà definita, in sede politica o comunque extra scientifica od etica, quella che
si approssimi al prezzo che si sarebbe liberamente pagato nel caso in cui non ci fosse stata la coazione con-
nessa all'imposta, lo studioso configurerà, in via di ipotesi, le logicamente adeguate condizioni di produtti-
vità della destinazione del tributo. Esse saranno tali, nel quadro della distribuzione del reddito fra le varie
voci di consumo o di investimento, che il contribuente aderisca, compatibilmente con la propria soddisfa-
zione massima, a detta ripartizione del reddito o della ricchezza disponibile fra usi pubblici e privati, secon-
do la logica del prezzo di mercato, che liberamente affronta nel soddisfare i propri bisogni.
Lo stesso studioso farà opera scientifica dimostrando, naturalmente per via di puro ragionamento, la
non concepibilità di un'imposta che corrisponda, anche in via approssimata, al prezzo di mercato, negando
da questo punto di vista ovvero attraverso logiche argomentazioni, la configurabilità, anche ipotetica, di una
siffatta ottima o «giusta» imposta, per contraddizione in campo logico, ecc.
Ma questo non è formulare «a priori» giudizi di valore, che in campo morale, extra-scientifico tro-
vano la loro sede. E' tener conto delle definizioni gravitanti nel campo etico o politico, per dedurne le carat-
teristiche (tipi di imposte o di prezzi pubblici) e le conseguenze quantitative dell'avere accolto come pre-
messa una data definizione di giustizia, ad es. tributaria, per dare la soluzione logica del problema, ad es.
della distribuzione delle imposte in base a dati principii etici, coerentemente con essi.
Sebbene la formulazione delle proposizioni scientifiche possa trarre in inganno presso, soprattutto, i
pionieri di questa scienza, è certo che, sostanzialmente, il metodo non è stato diverso da quello che qui in-
dico, per il posto che deve darsi ai giudizi di valore nel campo scientifico.
Riportiamoci, ad es. a uno dei primi «professori» di scienza delle finanze, S. Majorana15. Nello
spiegare la teoria dello scambio, egli, dopo aver discorso di «ineguaglianza e ingiustizia nella ripartizione
delle imposte», tratta di «giustizia dell'imposta» come produttività dell'impiego; e «rispetto all'individuo»
«la giustizia è nel confronto fra i sacrifici da lui durati come contribuente e la somma dei vantaggi diretti e
indiretti ottenuti per l'impiego dell'imposta». Ritiene il M. violazione del principio dell'«equa ripartizione
delle imposte», il «difetto di uniformità o la difformità del sistema di imposte»; afferma che nelle imposte
l'eguaglianza si traduce nella proporzionalità oltre che nella universalità, e cita altri (Mill, P. Smith) che vo-
gliono proporzionalità ai servizi ricevuti dai contribuenti; o non nega «l’equità del principio dell'imposta
progressiva» e aderisce all’idea di Stuart Mill (secondo il quale nelle imposte progressive sarebbe «parte di
giustizia») o cita Say che afferma: «le imposte progressive sono le sole eque».
Questo florilegio fa vedere come possano apparire confusi giudizi di valore e modi di traduzione di
essi in sistemi coerenti rispetto alla definizione di giustizia. Ma consente, intanto, di assodare che da gran
__________
Avevo steso queste annotazioni, nel 1945, la maggior parte in margine alle stesse pagine del compianto Berliri, tanto
immediata era la reazione avverso all’asserzione della mancata considerazione del concetto di giustizia da parte dei
cultori di economia e di scienza delle finanze, allorché ho visto analoga presa di posizione del GANGEMI, Elementi,
citati, del 1948, pagg 409-10. Egli ad interpretazione del concetto di giustizia, novera anche quello della universalità
del dovere tributario.
Ma l'universalità ha impegnato più i giuristi che gli economisti. Il crollo dei privilegi e l'assoggettamento di tutti i
cittadini alla legge tributaria, ha informato più gli statuti e costituzioni e gli interpreti e i sistematori dei principii di di-
ritto costituzionale e pubblico. Gli economisti si sono occupati delle eccezioni al principio, con lo studio degli effetti
delle esenzioni fiscali che anche Gangemi ricorda, siano esse a favore dei titoli del debito pubblico, e dei redditi e va-
lori capitali inerenti alle più varie forme di attività economica. E della universalità si è trovata consacrazione nei cano-
ni della tassazione, che sono stati detti «amministrativi» e pure densi di contenuto economico per aspetti diversi dalla
universalità. La quale per contro, ha interessato profondamente gli economisti sotto la specie della generalità della
imposizione dei carichi tributari. Ma generalità richiama il concetto di uniformità dell’onere, la quale viene idealizzata
ed attuata a mezzo di imposizione proporzionale. E ciò ci riporta al concetto di eguaglianza nel campo tributario come
concetto che in termini obbiettivi e soggettivi, ha avvinto e continua ad avvincere le menti dei razionalisti, che pure
partono dal concetto di giustizia volta a volta enunciato da politici e moralisti.
15
MAJORANA S., Trattato di economia politica, III edizione, 1912, cap. VI.
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tempo gli economisti si sono trovati a «fare i conti» con concetti di giustizia, di equità. Anche attualmente
dette definizioni possono costituire punti di partenza o premesse o concetti o definizioni, che il teorico ac-
colga allo scopo di proporsi il problema scientifico della rispondenza, a dette premesse o definizioni ecc., di
sistemi tributari, istituti, sistemi di ripartizione delle spese, simultaneamente considerati. Tutto ciò, per la
coerente soluzione dei problemi di ripartizioni fiscali informate ad ideali, per se stessi, estranei alla scienza,
o considerati come dati, condizioni preliminari o premesse di cui tiene conto il teorico per la corrispondente
costruzione ipotetica. Ivi non c’è confusione, quindi, fra scienza e vita o storia, fra etica ed economica; ma
corrispondenza di sistemi di logica economico-finanziaria a date definizioni o condizioni ideali, formulate
dal politico e da chiunque risolva problemi sociali alla luce anche di elementi morali, in una moderna meto-
dica di questa scienza che obbedisca, anche nella forma, ai dettami relativi al compito del teorico.
A proposito di confusione di elementi diversi, morali e razionali, richiamo uno studioso svedese.
Ha trovato favore, per me ingiustificato, in Italia un'opera del Myrdal16 con cui l'a. si è proposto di
individuare sistematicamente l'insinuarsi dell'elemento politico, fideistico o di presupposti normativi, nelle
teorie economiche. In particolare il Myrdal ha preso di mira, criticamente, la scienza delle finanze, ma con-
traddicendosi spesso.
Invero, egli considera (p. 21) chiaramente sterile il carattere dell'indagine di teoria pura nel campo
della scienza delle finanze (avente «punti di contatto con la politica pratica») e poi, alla fine della trattazio-
ne afferma che la dottrina dell'incidenza nel senso ampio e la dottrina degli effetti dei possibili sistemi fi-
scali sono l'unico contenuto di tutta la scienza delle finanze (p. 307): come se non si trattasse di indagini di
teoria pura economica, nel caso di quelle che suggerisce.
Ho fatto riferimento al Myrdal come a tipico caso di mentalità avversa ai «sommi principii utilitari»
o ai ragionamenti in base a premesse edonistiche (di cui vedremo la legittimità in sede ipotetica, quale è la
scientifica), per ricordare che le critiche di questo tipo (in cui si confonde la storia con la scienza, l'elemento
politico fideistico con la consequenzialità dei ragionamenti discendenti da premesse che il teorico può ac-
cogliere come dati) non giovano al progresso di questa nostra scienza.

V.

RAZIONALITÀ DELLA DEFINIZIONE CHE AFFERMA LA LIMITAZIONE DELLE RICERCHE


TEORICHE ALL'ASPETTO ECONOMICO DEI PROBLEMI DELLA FINANZA PUBBLICA.

Orientandoci per la divisione dei compiti fra moralisti e scienziati, fra forgiatori di ideali morali e
politici e ricercatori di coerenti e corrispondenti sistemi finanziari o singoli istituti finanziari, ci avvicinia-
mo alla considerazione della natura complessa del fenomeno finanziario. Con la definizione si dà per risol-
to il problema del contenuto quantitativo della scienza delle finanze, implicitamente ed esplicitamente limi-
tandolo al campo economico eminentemente.
Relativamente alla attualità di questa mia posizione, mi sia concesso di riferirmi a Taylor17, un va-
loroso cultore di finanza pubblica degli Stati Uniti la cui concezione metodologica si riflette nella affinità
delle intestazioni dei rispettivi volumi. Orbene, egli afferma che il campo è così esteso e profondo, che la
soluzione del problema fiscale richiede «la coordinazione di sforzi di più specialisti».
Una visione ortodossa come questa non appare pacifica proprio e purtroppo in Italia, terra in cui
sono fioriti rigorosi ed apprezzati studi di scienza pura delle finanze, a giudicare da affermazioni e posizioni
come le seguenti, che meritano critica nel senso indicato in precedenti edizioni di queste lezioni.
Di fronte all'ideale razionale, costituito dalla auspicabile (18) separazione dei due insegnamenti (se-
parazione che già ebbe luogo dissociando l'economia politica dal diritto commerciale, in fase di minor pro-
gresso scientifico svolti in unico insegnamento, occorre tuttavia riaffermare la netta separazione, almeno in

__________
16
MYIRDAL, L'elemento politico nella formazione delle dottrine dell'economia pura, traduzione per la Biblioteca
Sansoni:
17
TAYLOR PH. E., The economics of public finance, New York, MacMillan, 1948.
18
Anche secondo GIANNINI A. D., Rivista Italiana di diritto finanziario, 1939, n l.
19
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sede scientifica, della scienza delle finanze dal diritto finanziario e da altre discipline che possono recar luce
sulla spiegazione dei fatti finanziari (politica finanziaria, tecnica amministrativa, ecc.).
Scritti di docenti di scienza delle finanze e diritto finanziario continuano a creare confusione fra:
a) analisi teorica ai fini della ricerca scientifica nei rispettivi campi riservati alle due discipline che
vanno sotto il nome di scienza delle finanze (dal contenuto assai vago se non lo si restringe ad indicare l'e-
conomia finanziaria, tant'è che secondo lo Zingali detta «scienza» dovrebbe contenere anche il diritto finan-
ziario); nonché analisi, sempre in sede teorica (secondo un processo comune a tutte le scienze anche le più
progredite ed esatte), che rende necessaria la separazione, ai fini di studio e di costruzione scientifica, degli
aspetti sotto i quali si presenta la fenomenica concreta da un canto, e, dall'altro:
b) sintesi per esigenze di insegnamento universitario, nel senso che ad un solo docente si assegni la
illustrazione dei due fondamentali aspetti dai quali è stato sinora precipuamente studiato il fatto finanziario;
c) sintesi scientifica che, degna di tal nome, non abbiamo ancora visto e forse non vedremo presso
un solo cultore;
d) sintesi per i fini concreti di interpretazione della legislazione positiva ovvero di spiegazione di
istituti, sistemi ecc. che danno corpo ad una data realtà fenomenica.
Inoltre, legislazione e diritto vengono alternativamente e indifferentemente usati, laddove dovrebbe
essere evidente, se mai, la correlazione fra sistemazione scientifica del reale e rappresentazione pura e sem-
plice del reale.
Poiché seguendo codesti indirizzi, ancora nel tempo presente (in cui la posizione delle scienze ri-
spetto ai fenomeni risulta pacifica nel mondo scientifico che comprende le più varie discipline) si darebbe
luogo a contrasto e, in definitiva, a regresso nel campo della teoria finanziaria, occorre segnalare il distacco
fra posizioni che finiscono per essere erronee, di cui do un breve florilegio, e criteri scientifici rigorosi a cui
deve rispondere lo studio della economia finanziaria e del diritto finanziario.
A) E' occorso di leggere, ad esempio, in un saggio metodologico recentissimo di G. Zingali (19), af-
fermazioni come le seguenti, che il lettore noterà come, dettate da esigenze concrete, non siano conciliabili
con la posizione dello scienziato, quale farò risultare da altre affermazioni metodologiche che oltre segui-
ranno.
Dopo aver fatto il caso limite in sede di definizione, come sopra ricordato, della scienza delle finan-
ze che «abbraccia tutti gli aspetti dai quali può essere scientificamente riguardato il fenomeno finanziario»
(e ciò teoricamente oltre che didatticamente), lo Zingali elogia il corso di E. Vanoni, in due volumi che «of-
frono una manifestazione plastica del contenuto misto della disciplina» (divenuta una sola nonostante prima
si discorra di economia e diritto). Detto corso, secondo lo Zingali, dovrebbe «scegliersi a modello» (da
quanti vogliano non solo rientrare nell'orbita ufficiale della nostra materia) «ma anche praticarla in senso
veramente scientifico ed unitario, così come da trenta anni sta tenacemente sostenendo Benvenuto Griziot-
ti».
Non sottolineo quanto di contrario alla migliore tradizione ed al metodo scientifico sia in questa
proposizione. Mi limito a far risultare detto giudizio dalla posizione degli scienziati di ieri e di oggi in tutti i
campi e dalle stesse concezioni qualche anno fa professate dallo Zingali.
Ancora lo Z. asserisce che il vero cultore di finanza, per fatalità, non possa prescindere dal diritto
(ed usa detto termine in luogo di legislazione), che dà corpo alle ipotesi di teoria pura o consente di verifi-
care queste e le deduzioni che scientificamente ne discendano.

__________
19
Incluso nel volume, in onore del prof. Tivaroni, dal titolo Finanza pubblica contemporanea Bari, Laterza, 1950
nel quale, come si è visto, richiama idee ben più cautamente esposte in questo senso, nelle Lezioni di Scienza delle fi-
nanze Catania, Muglia, 1947 in cui la questione pratica o didattico-accademica era preminente. Infatti fra l'altro a pag.
26, suggerisce agli aspiranti all'insegnamento della scienza delle finanze, cioè ai «docenti di do mani» appena laureati,
di «cominciare ad impostare la loro preparazione in entrambi i sensi» giuridico ed economico «trascurando ogni prefe-
renza concettuale e prendendo in armonica e proporzionata considerazione tutti e quattro gli elementi costitutivi della
materia» cioè anche il politico ed il tecnico.
Il che potrebbe. accogliersi per il «docente», nel senso che la sua cultura, di cui debba dar saggio nelle lezioni acca-
demiche, dovrebbe abbracciare dette conoscenze. Però anche il «docente» non dovrebbe essere un passivo ripetitore di
nozioni frutto dell'altrui ricerca, ma debbono le medesime essere criticamente rivissute con la mente orientata verso un
solo ordine di logiche argomentazioni.
D'altra parte in queste mie pagine si tratta di creazione o costruzione scientifica, di studio tendente a trovare, per
contributo originale singolo o rispettivo, uniformità teoriche per il progresso della scienza coltivata razionalmente.
20
21
ERNESTO D’ALBERGO, ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA
Edizione digitalizzata a cura di Nino Luciani, Alm@-DL , Bologna 2009

L'economia finanziaria e il diritto finanziario, secondo Zingali, non soltanto debbono essere coordi-
nati ma «fusi nell'esame analitico e sintetico delle questioni». Così che si dovrebbe «costruire il diritto fi-
nanziario su basi economiche e l'economia finanziaria su basi giuridiche». «Solo se gli studiosi sapranno
essere contemporaneamente economisti e giuristi, l'economia finanziaria e il diritto finanziario potranno
trovare, nel corso universitario, la loro definitiva saldatura». Sarebbe il trionfo completo dell'indirizzo «mi-
sto».
Meraviglia come lo Zingali, dotato di molto equilibrio intellettuale, abbia mutato rapidamente idea,
nel giro di due anni. Invero, nell'edizione del 1947 delle «Lezioni di scienza delle finanze» (Muglia, Cata-
nia), egli dichiarava (p. 24) di non volere «mescolamento scientifico di discipline diverse». Mescolamento
di cui si ha prova palese, nella confusione logica con cui abbiamo visto e vediamo trattare problemi di teo-
ria in questi anni. Ma dopo avere ammesso correttamente che le discipline, «se pure si riferiscano allo stes-
so campo (finanziario), non cessano di essere economia, diritto, politica e tecnica (e, quindi, di godere della
propria autonomia), si rendeva conto delle «enormi difficoltà cui andrebbe di volta in volta incontro quel
cervello privilegiato che tentasse una tale sintesi». Così già egli osservava al Griziotti, che parlando al plu-
rale si qualificava fra i «finanzieri integrali (20), ad un tempo economisti, politici, giuristi e tecnici», Zingali
cavallerescamente opponeva trattarsi di «una rondine che non fa primavera».
Non so che cosa potrebbero pensare gli studiosi stranieri, leggendo di siffatti proposti indirizzi «mi-
sti», che non figurano in nessun campo scientifico odierno. Mi riferisco agli studiosi stranieri che hanno tri-
butato all'Italia, per merito dei suoi studiosi di scienza delle finanze ovvero degli economisti, l'omaggio che
è dovuto ai rigorosi sistematori di una disciplina più con monografie che con trattati. Chi di noi cerchi di
seguire quanto nel mondo si pensa e si scrive in un. solo settore della sola scienza economica, e si sforzi di
tener dietro al progresso che la specializzazione sospinge sempre più, può comprendere come un program-
ma di lavoro scientifico (come quello di cui si sono esposte le caratteristiche), esca anche dal campo delle
possibilità ovvero delle capacità di chi intenda, davvero, fare opera scientifica e non miscuglio espositivo di
conquiste scientifiche altrui.
B) Altro genere di confusioni è quello che si nota, sempre in visioni di recente confermate (21), nella
argomentazione del Griziotti che è bene tener presente per metterne in evidenza quanto di razionale e quan-
to di non scientifico contenga.
Da questo secondo punto di vista, riallacciandoci al florilegio che trae pretesto dalla pubblicazione
recente - dello Zingali e rispecchia idee anche di altri autori, è ancora contro il metodo dominante nelle
scienze, eminentemente analitiche, l'asserire, come fa il Griziotti:
a) che lo «studio funzionale» debba considerare (intendasi in sede di costruzione della scienza) i
singoli elementi costitutivi di ciascuna entrata pubblica (il politico non è necessariamente categoria elemen-
tare ma concetto complesso(22) economico, giuridico, tecnico). Questa mia interpretazione di sintesi scienti-
fica, ad opera di uno stesso studioso, non è una arbitraria estensione del pensiero di questo A. . Invero egli

__________
20
Un'idea della difficoltà della sintesi scientifica, che fa abbandonare «a priori» l'idea di accingersi ad una impresa
del genere, proprio mentre il progresso scientifico procede per crescente differenziazione e specializzazione in via ana-
litica, si può avere leggendo quello che, secondo C. Gini Alle basi della scienza, negli Studi in memoria di G. Masci,
vol. II, Giuffrè editore, Milano, 1943 sarebbe il «programma» di un'Economia integrale. Basti pensare che «una prima
parte a carattere introduttivo» avrebbe per oggetto «le leggi generali di sequenza e di coesistenza che collegano i fe-
nomeni economici con quelli oggetto di studio di altre scienze» demografia, etnologia, biologia, psicologia, ecc.: essa
potrebbe dirsi «Sociologia Economica Generale».
«Da questo ceppo comune» si staccherebbero varie branche che il Gini enumera nel numero di tre, una delle quali, a
sua volta Economia deduttiva, darebbe luogo a sei sottobranche. Come si vede, non soltanto si nota la difficoltà di ab-
bracciare intellettualmente tanta parte dello scibile, ma si conferma, nell'ambito di siffatta economia integrale, la ine-
luttabile necessità della distinzione e della specializzazione.
21
Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, 1949. Ma perfino il filosofo non aveva ammonito che «gli
schemi astratti dell'Economia, insufficienti sempre a chiudere la ricchezza del reale, porgono nient'altro che uno stru-
mento a chi si accinga alla concreta osservazione storica e sociologica per la quale egli poi deve giovarsi di molti altri
strumenti insieme» ? CROCE - Filosofia della pratica.
22
Sulla contraddizione di quanti contrappongono, ad altri aspetti del fenomeno finanziario, quello «politico», cre-
dendo con ciò di contribuire all'analisi, laddove «giudizio politico è ancora giudizio complesso e comunque di signifi-
cato non definito rigorosamente da chi lo usa in senso discriminante», veda il lettore l'articolo di E. d'Albergo: Sulla
scelta e sul contenuto economico dei sistemi giuridici di ammortamento del debito pubblico, nel «Giornale degli Eco-
nomisti» agosto 1934. Il richiamo è, quivi, incidentale, ma calzante dal punto di vista che ci interessa in queste pagine.
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asserisce che lo studio funzionale avvia la «teoria generale della finanza» alla ricerca ed elaborazione fino
alle ultime conseguenze dei «principii generali», politici, economico-sociali, giuridici, tecnici. Saremmo
cioè avviati alla «sintesi coordinatrice dei quattro principii». E per detta sintesi «bisogna essere giurista ed
anche finanziere».
Non insisto nel rilevare l'impostazione delle scienze, che vedono sempre più allontanarsi, anziché
avvicinarsi (con frutto della logica e necessaria specializzazione) l'ideale della sintesi ad opera di un solo
studioso: sintesi che non è punto di arrivo ma di partenza e che caratterizzò, appunto, i primi stadii della
conquista scientifica.
Ma debbo ammettere che, se non si facesse confusione fra creazione o costruzione della scienza e
sua applicazione negli aspetti molteplici di cui essa abbia trovato sviluppo, si potrebbe ammettere quanto di
corretto ha la visione della cosiddetta interpretazione funzionale delle leggi finanziarie. E' vero, infatti, che
per conoscere e spiegare le leggi o gli istituti concreti, in pratica occorre avvalersi di tutte le discipline che
abbiano contribuito (intendasi separatamente e con le proprie esigenze di metodo ad illustrare i fatti.
E vero che un legislatore, che voglia conseguire certe finalità complesse, deve tener conto dei di-
versi aspetti dai quali va considerato il fatto tributario. E' vero che per interpretare le leggi e illustrarne la
lettera occorre fare applicazione di principii elaborati dalle discipline che (intendasi separatamente e per
analisi) studiano il fenomeno finanziario (23).
E' vero che la interpretazione giurisprudenziale può ricevere maggior luce dalla considerazione di
molteplici aspetti da cui può prospettarsi il perché ed il come della organizzazione di determinate norme. E'
vero che, ad approfondire la conoscenza delle leggi finanziarie, vi riesce meglio chi conosca la scienza delle
finanze ed il diritto finanziario. Infatti è per questo che si impartiscono due discipline, rigorosamente, però,
elaborate da specialisti nelle due discipline. Il motivo è che non conosciamo cultori di una scienza mista as-
surti in fama di scienziati, nel significato in cui comunemente nei vari rami dello scibile si caratterizzano i
veri creatori della scienza e non i divulgatori, più o meno felici, di essa. Ma tutto ciò:
a) verte nel campo della applicazione delle discipline;
b) ci porta nel dominio delle sintesi pratiche, che sono proprie della considerazione immediata della
realtà nella sua complessità. Si riferisce, cioè, al lavoro concreto della interpretazione della realtà, con fini
pratici come quelli del giudice, e non alla creazione degli strumenti teorici per la spiegazione analitica di
aspetti dei fenomeni. Infatti le relative analisi sono presupposte come esistenti o risultato dell'opera di quan-
ti contribuiscono al progresso della scienza, allorché l'interprete voglia avvalersene e farne applicazione;
c) soprattutto non costituisce una novità perché da gran tempo quanti, ad es., hanno seguito i miei
corsi di scienza delle finanze, conoscono che economia e diritto concorrono ad illustrare, per aspetti diversi
risultanti dalle leggi, il fenomeno finanziario.
Da gran tempo, senza battezzare con pretesa di originalità, il metodo seguito nella interpretazione
dei fatti, seguendo in qualche punto il De Viti (e facendo tipici esempi, dopo avere applicato i risultati della
economia finanziaria con approfondite indagini), ho dato rilievo o indicato i fattori con cui si combina l'e-
lemento particolarmente studiato (economico).
Inclinazioni del genere può capitare di compiere per segnalare la complessità di problemi concreti o
delle soluzioni storiche di esse (e, quindi, corrispondenti campi di studio che si aprono a chi voglia e sappia
__________
23
Mi conforta nelle mie argomentazioni dedotte in via autonoma come ovvia esigenza teorica confermata dalla espe-
rienza di studioso, in proposito, il pensiero di un ortodosso giurista quale il Giannini, allorché, nell'articolo citato in
una nota precedente Riv. It. di dir. fin., 1939 avverte la confusione fra «sistematica delle scienze» e «interpretazione
del diritto finanziario» e afferma: a chiunque eserciti coscienziosamente l'ufficio di giudice o di avvocato avverte ogni
giorno l'esigenza di rendersi conto esatto, per la risoluzione d'una questione giuridica, di dati e problemi attinenti alle
più svariate discipline, fisiche, chimiche, naturali, comiche e computistiche; b la sussunzione del fatto concreto sotto la
disposizione ad esso più aderente, richiede una sottile indagine, per vedere se e sino a qual punto sia consentito all'in-
terprete, di risalire dalla lettera della norma al concetto che l’informa, o di applicarla in via analogica, ad una specie di
fatto diversa da quella ipotizzata. Ora questo è un problema essenzialmente ed esclusivamente giuridico, che non è af-
fatto peculiare del diritto tributario, sebbene in questo assuma degli aspetti caratteristici, e per la cui risoluzione pos-
sono bensì servire elementi tratti dall'economia, come, ed in più larga misura, dal diritto privato, ma unicamente come
dati di fatto che può essere opportuno tener presenti nella ricostruzione del pensiero racchiuso nella norma tributaria,
senza che ciò valga a trasformare una questione di diritto tributario in una questione economica o in una di diritto pri-
vato.
Ed è un problema, come ogni altro di interpretazione e applicazione della legge, da risolversi caso per caso, mediante
il sapiente impiego dei comuni criteri della ermeneutica giuridica ecc. ecc.
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esaminare, da altri punti di vista teorici, i problemi che qui interessano dal lato economico). Ma come ho
già nella precedente edizione asserito, fare indicazioni di siffatto tipo non è procedere ad una sintesi scienti-
fica (alle pp. 24-25 dell'edizione del 1944).
Si veda, da quanti si appassionino a questi problemi di sistematica, il tentativo di Murray. Dopo a-
vere svolto considerazioni dense di interesse (esaminando in due «parti» l'attività finanziaria sotto l'aspetto
politico ed economico, rispettivamente, nella determinazione e nel soddisfacimento dei bisogni pubblici),
passava al processo di sintesi delle ricerche precedenti, cercando di mettere in evidenza la connessione o la
inscindibilità dei due momenti delle entrate e delle spese pubbliche. E si noterà come codesta «sintesi» non
abbia aggiunto molto al pregio delle due analisi, che risultano solo affiancate, o in rapporto di giustapposi-
zione dei risultati rispettivi, applicati alle due categorie di atti dell'ente pubblico. (Principii fondamentali di
scienza pura delle finanze, cit.).
Ma si esca dal campo della scienza delle finanze e si estenda lo sguardo al processo scientifico in
altri dominii del sapere.
Si giudichi, in generale, dalle seguenti citazioni, che dimostrano l’unità di visione teorica e che at-
tingo a varie scienze, quale sia la scientifica posizione analitica dei ricercatori di uniformità o leggi:
- Si dia la parola al matematico e questi, ad es. Poincaré, (Science et méthode), ammonisce fin dalle
prime parole che lo scienziato, per il quale val più osservare bene che osservare tutto, si impone una scelta
dei fatti da osservare. Sceglierà fatti semplici, con caratteristica di semplicità reale, che si abbia probabilità
di incontrare nella loro purezza o come elementi in un insieme complesso.
- Discorrendo di logica pura, Enriquez, fra l'altro, ammette che: «alla veduta sintetica delle cono-
scenze, che conviene nel senso comune mirante allo scopo di esse, si oppone di frequente la veduta analitica
della scienza, la quale, decomponendo l'insieme nelle sue parti, ne giudica come fossero isolate» (24).
- Né difformemente parla il fisico moderno allorché ci dice (ad es. De Broglie): «le idealizzazioni
più o meno schematiche del nostro spirito possono rappresentare certi aspetti delle cose, ma esse sono limi-
tate, e non possono contenere nei loro rigidi schemi tutta la ricchezza della realtà» (25). E ancora (per la de-
scrizione di ente fisico): «noi costruiamo modelli e concetti ispirandoci alla nostra esperienza giornaliera.
Da questa esperienza togliamo certi aspetti; e semplificando ed astraendo formiamo delle immagini sempli-
ci, concetti apparentemente chiari con cui tentiamo l'interpretazione dei fenomeni... può darsi che queste i-
dealizzazioni (come le chiama il Bohr) siano prodotti troppo semplicisti della nostra ragione, per cui non
possano applicarsi esattamente alla realtà. Per descrivere la complessità del reale potrà dunque essere ne-
cessario usare successivamente due o più di queste idealizzazioni per un medesimo ente».
- Il metodologo contemporaneo (26) afferma che lo «scienziato astrae perché scinde l'oggetto nelle
sue caratteristiche definite e ne esamina una alla volta, in termini quantitativi». «In tanti modi si può difatti
studiare il cristallo da parte dello scienziato. La geometria, la fisica, la chimica, la mineralogia, la geologia,
la spettrografia ed altre scienze ancora possono interessarsi ai cristalli: ma ciascuna isolandone e determi-
nandone alcune peculiari caratteristiche in rappresentazioni quantitative». E poiché ci interessa l’analogia
teorica, ricordiamo la nota che ricorre presso il Baldacci medesimo, per il quale, nella metodologia scienti-
fica, astrarre non significa altro che «isolare e rappresentare quantitativamente uno o più aspetti del feno-
meno».
Sembra di ritornare ai tempi in cui il Cairnes era obbligato a fare precisazioni di metodo di fronte
alla pretesa di A. Comte, che tutte le investigazioni nella struttura e nelle leggi della società avessero a farsi
in base al principio di trattare i fatti sociali nell'insieme. La società per Comte dovrebbe essere studiata nella
totalità dei suoi elementi; e non dovrebbe intraprendersi nessuna investigazione in una porzione qualsiasi di
quegli elementi, salvo che in costante connessione con investigazioni parallele fatte contemporaneamente in
tutte le porzioni coesistenti del tutto complesso. A ciò, Cairnes rispondeva: «Invece di procedere secondo il
metodo dell'insieme o di studiare la società in tutti gli elementi ad un tempo, l'economista procede secondo
una regola opposta. Egli spezza il fenomeno sociale complessivo nei gruppi elementari di cui esso si com-
pone, e, scegliendo uno di questi, lo studia separatamente da tutti gli altri». Continuando, precisa il Cairnes:
«Egli, veramente, non confonde le leggi a cui egli così arriva, le leggi del gruppo distaccato, con le leggi
della società.

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24
Problemi della Scienza, Zanichelli, pag. 89.
25
I quanti e la fisica moderna, ed. Einaudi, pagg. 17-18 e 229.
26
BALDACCI - Del metodo nella Scienza, Bompiani, 1947, pagg. 70 e 125.
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Per dimostrare ai giovani che la specializzazione è la vera via della scienza, ricordo il pensiero del
Menger (Il metodo nella scienza economica) allorché, fra l'altro, precisa:
- «Non una sola teoria ma il complesso delle teorie dei fenomeni umani, quando siano state elabo-
rate, potranno (valendosi anche dei risultati dell'indirizzo realistico) darci una comprensione, (spinta fin
dove può giungere lo spirito umano) dei fenomeni sociali nella loro piena realtà empirica» (p. 45).
- E ciò, dopo avere asserito: «Di queste scienze (che danno le leggi esatte dei fenomeni) nemmeno
una ci dà la conoscenza della realtà nella sua empirica complessità, bensì soltanto alcuni aspetti di essa e
pertanto non si debbono giudicare alla stregua unilaterale di un empirico realismo. Devesi piuttosto tener
conto che il loro complesso ci consente una comprensione altrettanto caratteristica quanto profonda del
mondo reale» (p. 44).
- «L’economia teorica comprende conoscenze esatte ed empiriche, né c'è alcuna ragione che a prio-
ri si opponga ad una trattazione separata di questi due ordini di conoscenze; si può immaginare così una
trattazione distinta delle conoscenze esatte (una economia esatta) accanto ad una trattazione delle conoscen-
ze empiriche e delle leggi dello svolgimento storico dei fatti economici, in particolare della legge dei grandi
numeri, ecc.».
Ed è tanto evidente l'interesse pratico di riunire in una unica trattazione tutti i veri teoretici che si ri-
feriscono a determinati argomenti della economia sociale.
- «Nel riunire queste conoscenze di diversa natura, gli economisti obbediscono unicamente ad esi-
genze pratiche, senza che per questo la peculiare natura formale delle singole conoscenze resti modificata»
(p. 49).
- «Non c'è una teoria esatta che possa di per sé darci una conoscenza teoretica universale del mondo
fenomenico o di un settore di esso, anzi di un solo fenomeno complicato del mondo reale, pensato nella sua
interezza. Una siffatta conoscenza può esserci data dal complesso delle scienze esatte, in quanto ciascuna di
essa ci schiude la comprensione di un particolare aspetto della realtà». «Nessuna scienza esatta, infatti, rac-
chiude in sé la comprensione teorica universale neppure della menoma parte del mondo reale, ma, come e
già stato detto, ci insegna a riconoscere unicamente un aspetto particolare di questa regolarità» (p. 56).
- «Chi, invece di cercare di arrivare alla comprensione universale dei fenomeni concreti mediante il
complesso di queste scienze (che è cosa ben diversa dalla commistione di cui trattano Zingali e Griziotti e
quanti li seguono), pretendesse di raggiungere questo risultato (con l’allargare le singole scienze esatte a te-
orie universali di determinati settori dei fenomeni reali intesi nella loro realtà empirica), andrebbe contro i
canoni più elementari della scienza, tanto da potere mettere in dubbio se sia giustificato il suo intervento in
una discussione di un problema difficile come questo» (p. 57).
- «Le teorie esatte ci danno la comprensione di alcuni aspetti di tutti i fenomeni e pertanto ma
scienza non può dirsi mai unilaterale quando soddisfi pienamente al suo compito».
Voglio aggiungere alcune proposizioni del Pareto, il cui spirito scientifico non esula da questa mia
trattazione nella impostazione del problema finanziario. Si legge, ad esempio, nel Manuale:
- «Ogni legge o uniformità è vera soltanto sotto certe condizioni, le quali stanno appunto ad indica-
re quali sono i fenomeni che vogliamo sceverare dagli altri» (p. 8).
- «Le scienze che possono fare uso della osservazione, separano colla semplice astrazione certi fe-
nomeni da certi altri; le scienze che possono anche fare uso della esperienza, concretano materialmente tale
astrazione; ma per tutte le scienze l'astrazione rimane la condizione preliminare e indispensabile di ogni ri-
cerca» (p. 13).
- «Quando dall'astratto si torna al concreto, occorre nuovamente riunire le parti che, per scopo di
studio, si erano disgiunte. La scienza è essenzialmente analitica; la pratica essenzialmente sintetica» (p.
16).
- «La pratica non si oppone alla teoria, ma unisce le varie teorie che valgono per il caso che ha in
vista, e le usa per un fine concreto».
«L’economista, per esempio, il quale propugna una legge, badando solo ai suoi effetti economici,
non è già troppo teorico, anzi lo è troppo poco, perché trascura le altre teorie che dovrebbe unire alla sua
per giudicare del caso pratico (p. 17).
- «Disgiungere (così) le parti di un fenomeno, studiarle separatamente e poi da capo ricongiungerle,
facendone la sintesi, è via che si segue, e si può solo seguire, quando la scienza è molto progredita; al prin-
cipio tutte le parti si studiano insieme, l'analisi e la sintesi si confondono. E' questa una delle ragioni per cui
le scienze nascono sotto forma di arte; ed è pure una fra le cagioni per cui le scienze, progredendo, si sparti-
scono e si suddividono».
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- «Il Sorel, nel suo libro Introduction a l'économie moderne, vorrebbe tornare a quello stato in cui
ancora non si distingue l'analisi dalla sintesi, ed il suo tentativo si spiega considerando come le scienze so-
ciali ancora sono poco progredite; ma è un risalire il fiume verso la sorgente, non lo scendere verso la cor-
rente. Bisogna del resto notare che in quel modo si fa della teoria implicitamente. Infatti il Sorel non mira
evidentemente a descrivere solo il passato, egli vuole anche conoscere l'avvenire; ma, come già dicemmo,
l'avvenire non si può congiungere al passato se non ammettendo esplicitamente od implicitamente certe uni-
formità; e quelle uniformità non si possono conoscere se non facendo una analisi scientifica» (p. 18).
Dei due aspetti che da secoli (economia finanziaria), da alcuni decenni (diritto finanziario), hanno
formato oggetto di separate trattazioni, lo studio va fatto in separata sede da studiosi che alla competenza e
formazione culturale specifica aggiungano sensibilità teorica e responsabilità del sapere per i due distinti
rami della scienza che, pur nell'ambito dello stesso fenomeno, rispondono a ben differenti quesiti teorici, in
questo modo assumendo ben diverso oggetto.
C) Occorre uscire dal campo strettamente scientifico che l'apporto di autori, veramente costruttori
di teorie ha creato, nei settori della economia e del diritto, per trovare punti di vista dai quali i due ordini di
indagini possono essere configurati come unica esigenza del sapere.
a) Non siamo in questo ordine logico allorché, in sede filosofica (Filosofia della pratica) Benedetto
Croce identifica, addirittura, attività giuridica ed attività economica.
Intanto il concetto di «giuridico» è diverso da quello di cui si discorre nella sistemazione scientifica
del contenuto e dei modi della legislazione.
Già la «legge» è, nella visione di Croce, un atto volitivo che ha per contenuto una serie o classi di
azioni. L'attività legislativa non è necessariamente morale e definendola in tutta la sua estensione si deve di-
re genericamente pratica o meramente economica.
«Passando dall'attività legislativa a quella di chi attua ed esegue la legge (attività che il Croce, per
convenzione, denomina giuridica), e domandando se l'attività giuridica sia morale o distinta dalla morale, e
se distinta, quale ne sia il carattere distintivo, la risposta - scrive Croce - è per noi semplice: tanto semplice,
che sarebbe quasi superfluo dirla con parole».
«Non solo l'attività dell'eseguire la legge non può essere intrinsecamente diversa dalla attività del
legiferare, ma, essa ubbidisce esclusivamente ai principii pratici, economico ed etico; e l'attività giuridica
può essere perciò meramente economica e può essere morale. E poiché l'economicità è la forma generale
che involge di sé l'altra, l'attività giuridica è genericamente pratica ossia economica, e come tale, e in quan-
to tale, distinta e unita insieme alla forma morale».
La identificazione è espressa dal Croce nei seguenti termini: «Ma l'attività giuridica, non che rien-
trare soltanto nella più larga attività economica, è addirittura identica con essa: attività giuridica e attività
economica sono sinonimi. L'attività legislatrice, rientrando nella cerchia dell'economica, vi si distingue tut-
tavia come volizione dell’astratto, volizione indeterminata; quella giuridica, invece, concreta e determinata
come l'altra, non si distingue dall'altra per alcun carattere secondario» (pp. 349-350).
Ho voluto ricordare questa visione filosofica, che dal punto di vista particolare può riguardare se
mai, la natura del contenuto o dell'oggetto (attività). Questo, nel campo che ci interessa, è l’unico fatto pre-
so in considerazione da distinte discipline ai fini della specializzazione scientifica.
Ma non si può dedurre che una unica scienza debba analizzare una attività che per essere filosofi-
camente pratica, si identifica e come economica e come giuridica (sensu stricto). Invero la identificazione
delle due attività vive in uno schema filosofico che mira a distinguere lo spirito (distinto in teoretico e pra-
tico) in due sottocategorie o forme, di cui la prima si può chiamare utilitaria od economica, e la seconda
morale o etica. La visione Crociana quindi, non è in contrasto con la specializzazione scientifica spiegata,
giustificata e propugnata in queste lezioni.
b) Più prossima, apparentemente, alla concezione sintetica che si critica e non si segue in queste le-
zioni, è una visione espressa in sede che può dirsi ancora filosofica, ma che tiene presente non l'oggetto del-
l'economia e del diritto, ma la posizione metodologica, la visione scientifica di quanti sistemano le rispetti-
ve discipline.
Mi riferisco ai Pensieri varii su economia e diritto, di Giuseppe Capograssi (27), che li considera
come due mondi della attività pratica del soggetto. Capograssi fa omaggio alla concezione del Croce che ri-
duce la filosofia del diritto a filosofia dell'economia. Ma insiste nell'affermare, tuttavia, che è necessario dar

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Scritti in onore di SANTI ROMANO, vol. I.
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ragione della differenza di questi due mondi o per lo meno della apparenza di dualità che essi presentano
nella esperienza comune e nella coscienza comune.
Ciò che è rilevante è l'asserzione che «da qualunque punto di vista speculativo uno si ponga, il pro-
blema di questa dualità di aspetti rimane sempre».
E così Capograssi per dar ragione della dualità di aspetti, propone di vedere come questi due mondi
si presentano; dietro quali interessi e fini profondi l'attività del soggetto si muove per costruire questi due
mondi autonomi; di determinare il rapporto fra queste due forme di esperienza.
Abbiamo, in sede di definizione, ancora un caso di identificazione presso Capograssi. «Il diritto, che
è soggetto alla economia, e si atteggia secondo vuole l'economia, è un puro e semplice mezzo. Vale a dire,
poiché il mezzo non è che l'azione stessa in quanto cammina e procede verso il fine, il diritto è la stessa co-
sa dell'economia».
«Per molti economisti, insomma, il sistema del diritto non è altro che la formulazione in norme ge-
nerali di quelle che sono le condizioni fondamentali della vita economica; le condizioni economiche espres-
se in formule: risultato di un lungo processo selettivo che hanno seguito il sistema dei gusti e il sistema del-
le conseguenze che questi gusti hanno operato nel senso dell’utile della specie. Il diritto è, cioè, proprio un
assetto di condizioni economiche: economia».
Ma dopo questa riduzione, per definizione, ad unum, Capograssi asserisce che innegabilmente: a) il
diritto si presenta di fronte alla economia con una sua autonomia, con suoi criteri, con una vita propria, con
un proprio e indipendente svolgimento, al quale la stessa economia ha dovuto adattarsi e che anzi ha domi-
nato e domina lo stesso processo economico, costringendolo a direzioni diverse da quelle che la logica eco-
nomica richiederebbe; b) ad una prima osservazione il diritto si presenta sì come mezzo dell'economia, ma
un mezzo autonomo, un mezzo che appena per così dire evocato, si mette a operare per suo conto, attua e
manifesta tutta una vita potente e sua, tanto da aiutare a sorreggere ma anche da scompigliare e disordinare,
tutta quella che sarebbe la vita puramente economica dell'esperienza.
«E in sostanza, che cosa fa il diritto se non obbligare i soggetti a stare a determinate posizioni, a ri-
spettare status fissati, situazioni economiche e non economiche che sarebbero fluide, cristallizzare posizioni
di interessi, di vantaggi, di usi di cose che la logica economica tenderebbe incessantemente a sciogliere,
quasi si direbbe a risolvere nella perpetua ricerca dell'utilità e dei massimi edonistici, nel perpetuo conflitto
fra risultati e costi ? Quello che veramente caratterizza l'apparizione del diritto, è l'apparizione del contratto
e della legge, vale dire l’apparizione di centri di sfere, di punti sottratti alla fluidità e al fluttuare delle cor-
renti economiche».
Dopo questa ed altre argomentazioni svolte nello stesso senso, il Capograssi riconosce che queste
due forme di esperienza non si possono confondere: ognuna ha la propria individualità, ognuna è se stessa.
«Il problema dei rapporti fra l'una e l'altra nasce appunto perché ognuna è se stessa, ognuna è in connessio-
ne con l'altra, in quanto tutte e due entrano a formare l'unica azione concreta, l'unica storia dell'azione, l'u-
nica via del soggetto».
In conclusione, dopo aver considerato l'oggetto della scienza delle finanze in senso stretto e del di-
ritto finanziario, quali figurano all'inizio di questo paragrafo, si comprende come il dualismo sia correlato
col rispettivo contenuto oggettivo delle distinte indagini analitiche di economia finanziaria e di diritto fi-
nanziario e tributario principalmente. E ciò anche quando, nel classificare il contenuto dell'azione dei sog-
getti operanti si siano identificati, secondo particolari categorie logiche, diritto ed economia, da cultori di
filosofia o di filosofia del diritto qui ricordati.

VI.

RAPPORTI FRA DIRITTO E FENOMENO CONCRETO (ORDINAMENTO POSITIVO).

Un punto di vista che investe l'intera visione dello stesso fenomeno, da parte di cultori di economia
finanziaria e, rispettivamente, di diritto finanziario, è quello che concerne: a) il diverso posto che nelle due
scienze viene fatto all'ipotesi, e: b) il diverso campo in cui esse spaziano conferendo differente grado di a-
strattezza alle due ricerche scientifiche.

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Nel campo della economia finanziaria, come teoria pura, non vi è limite alla scientifica scelta delle
ipotesi, potendo esse riflettere condizioni non aventi legame necessario con il fenomeno concreto del passa-
to, del presente e con il probabile futuro come soggettivamente viene intuito.
In proposito, si arriva alla visione-limite la quale ritiene che nella nostra scienza pura, con fini di
sola conoscenza astratta, ciò che conta è la coerenza degli sviluppi logici dedotti da date premesse, da dati
postulati e da ben precisate ipotesi. L'applicabilità al fenomeno concreto di detti ragionamenti, il legame di
essi con i fatti può non esistere del tutto o aversi solo indirettamente.
Premesso che compito o fine della scienza è spiegare e render ragione di fatti e fenomeni, vi sono
coloro che (pur consentendo sulla legittimità logica di siffatte impostazioni ipotetiche e delle conseguenti
deduzioni logiche suggeriscono tendenzialmente (nella scelta delle ipotesi) una loro capacità di riflettere,
sia pur tipicamente, il mondo reale di ieri, di oggi, e quello verosimilmente probabile. Si tratta, cioè, di
mantenere la scienza nel campo della pura conoscenza o della ricerca del vero logico, ma senza perdere di
vista la storia quale è nota o quale può profilarsi in via probabilistica. E' il problema della fecondità delle
ipotesi e delle premesse o dei vincoli e delle condizioni che limitano i ragionamenti che, pur tuttavia, ri-
mangono di teoria pura.
E’ una differenziazione ulteriore, nel campo delle impostazioni di teoria pura economica (in questo
caso finanziaria), dopo aver ricordato come ben minore posto venga fatto nella scienza giuridica, in genera-
le, e in quella del diritto finanziario, alle ipotesi che trascendano troppo il concreto e che perdano di vista le
applicazioni ai fatti delle sistemazioni giuridiche.
Nella speranza di non travisarne il pensiero e citando i passi in cui le idee sono presentate, faccio ri-
ferimento a due cultori di teoria generale del diritto, la cui opera ha contribuito grandemente al progresso
del diritto pubblico, in cui si inquadra come sua specializzazione il diritto finanziario.
A) In uno degli scritti di Kelsen si trova (28) una certa analogia, a prima considerazione delle sue i-
potesi, con la visione della teoria pura economica (nella specie finanziaria) che si avvale di ipotesi astratte
per coerenti costruzioni logiche, senza preoccupazione di una diretta applicazione di esse, in quanto si tratti
di concepire un puro diritto naturale.
Invero, soltanto nell'ipotesi, che egli considera utopistica, di uomini «perfetti» (nel senso che l'ope-
rare secondo giustizia e diritto riesca di uguale e immediata evidenza a tutti gli uomini; e che tutti gli uomi-
ni abbiano la buona volontà di conformare la loro condotta alla consapevolezza di quella norma) non occor-
re un ordine coattivo come quello positivo.
Ma l'obiezione, ovvero, l'ammissione che gli uomini non sono affatto o non sufficientemente capaci
di una simile condotta, e che manchi loro questa qualità di giustizia, non giustifica altro se non che manca
un ordinamento oggettivo - in cui il principio di giustizia venga ad esprimersi. Questa obiezione - continua
Kelsen - colpisce a segno, da un punto di vista empirico (quale è quello assunto dal positivismo e quale de-
ve essere assunto particolarmente di front al problema della realizzazione di un ordine normativo); non cal-
zerebbe dal punto di vista immanente del puro diritto naturale, il quale (come quello che in nessun modo ha
da valere come opera umana) può prescindere dal fatto che gli uomini lo accolgano o meno nella loro azio-
ne e cognizione; e nemmeno calzerebbe dal punto di vista di una dottrina del diritto naturale che in genere
ignora il problema della applicazione, ossia della realizzazione del diritto naturale stesso».
Codesta concezione (che tosto 1'A. respinge come basata sulla ipotesi - non feconda o logicamente
addirittura inammissibile nella teoria giuridica - della perfezione umana che lo stesso Kelsen considera
«contrastante apertamente a qualunque esperienza»), potrebbe accostarsi a quella della pura economia fon-
data anche su ipotesi attualmente irreali, e tuttavia frequenti e logicamente legittime nella teoria economica.
Nessuno discute, come illegittima nel campo della logica economica, l'ipotesi dell'edonista «perfetto» o del
consumatore che abbia la «perfetta» conoscenza del mercato, ecc. Gli economisti hanno basato su dette ipo-
tesi ed altre, frutto di astrazione, la costruzione della loro scienza in gran parte; ipotesi, tuttavia giudicabili
«contrastanti» con «qualunque esperienza»).
Ma lo stesso Kelsen si affretta a dire che egli ha accolto il punto di vista proprio del «puro» diritto
naturale per dimostrare, per mezzo di una critica immanente, che il diritto naturale - in contraddizione alla
sua stessa idea - deve infine diventare opera umana; che la sua inevitabile applicazione al caso concreto è
necessariamente un processo di realizzazione nell'ordine positivo. Ossia «il processo di realizzazione del di-

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Concetto del diritto naturale nel vol. Lineamenti di una teoria generale dello Stato e altri scritti, An. rom. ed.
1934.
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Edizione digitalizzata a cura di Nino Luciani, Alm@-DL , Bologna 2009

ritto naturale supera l'idea di questo diritto, la quale se pure è possibile, è soltanto possibile in una sfera tra-
scendente l'uomo empirico».
Kelsen pensa che quando le sue norme (diritto naturale), proprio come quelle del diritto positivo,
devono essere accostate direttamente ai fatti reali della vita sociale, perché a questi fatti debbono applicar-
si, «allora sorge la domanda se il diritto naturale possa accampare la pretesa di esistere al di là di qualsiasi
positività, se sia possibile che esista di per sé come un sistema di norme diverso e indipendente dal diritto
positivo, se insomma il diritto naturale come tale sia possibile».
Si tenga presente quanto sopra è detto dallo stesso A.: «Non è possibile rappresentare il diritto natu-
rale nella propria sfera trascendente l'uomo empirico, altro che nella sua forma generale di astratto principio
di giustizia, di norma universale».
Fin qui la coerenza scientifica su base ipotetica sussiste. Ma il Kelsen aggiunge: «Per potere essere
applicato al caso concreto, al fatto singolo - e questo è pur il suo scopo ultimo che risponde al significato
immanente tanto del diritto naturale quanto di quello positivo - deve valersi dell'azione dell'uomo».
Se si scarta la predetta ipotesi di perfezione umana (utopistica nel vero senso della parola), si rende
inevitabile la costruzione di un ordinamento che deve applicare il diritto naturale e la cui realizzazione ri-
chiede una legislazione positiva.
Il reale deve riflettersi, quindi, immediatamente nell'ordinamento statale. Lo afferma in altra sede lo
stesso Kelsen: «Un ordinamento statale si presuppone come normativamente valido, solo quando il reale
comportarsi degli uomini, sui quali agisce quell'ordine, corrisponda in un certo grado al suo contenuto». E
conclude altrove: «Qual senso può avere il considerare valido un ordinamento a cui non corrisponde affatto
un conforme stato reale?».
Già questa visione di uno dei più considerati teorici del diritto pubblico in questi decenni, consente
di avere un termine di riferimento per vagliare quale diverso campo di estrinsecazione legittima, in sede
logica, abbia l'ipotesi astratta nella costruzione della scienza, rispettivamente giuridica ed economica. A
quest'ultima farò, più oltre, riferimento da questo punto di vista.
B) Considerando più brevemente altro teorico generale del diritto e maestro di diritto pubblico, San-
ti Romano, si trova in modo più immediato e necessario il contenuto realistico del diritto. Pongo in un certo
ordine logico alcune significative affermazioni tratte dalla sua più considerata opera (29):
a) «Il concetto di diritto deve ricondursi al concetto di società» come «entità che costituisca, anche
formalmente ed estrinsecamente, un'unità concreta, distinta dagli individui che in essa si comprendono. E
deve trattarsi di un'unità effettivamente costituita ».
b) «Il concetto del diritto deve, in secondo luogo, contenere l'idea dell'ordine sociale».
c) «L'ordine sociale, che è posto dal diritto, non è quello che è dato dalla esistenza, comunque ori-
ginata, di norme che disciplinano i rapporti sociali: esso non esclude tali norme, anzi se ne serve e le com-
prende nella sua orbita, ma nel medesimo tempo, le avanza e le supera. Il che vuol dire che il diritto prima
di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di rapporti sociali, è organizzazione,
struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come unità, come ente per sé
stante».
d) Se così è, il concetto che ci sembra necessario e sufficiente per rendere in termini esatti quello di
diritto, come ordinamento giuridico considerato complessivamente e unitariamente, è il concetto di istitu-
zione. Ogni ordinamento giuridico è un'istituzione e viceversa ogni istituzione è un ordinamento giuridico».
c) «L'istituzione deve avere un’esistenza obbiettiva e concreta e, per quanto immateriale, la sua in-
dividuazione deve essere esteriore e visibile. L'istituzione è un ordinamento giuridico, una sfera a sé più o
meno completa, di diritto obiettivo».
Bastano queste citazioni del pensiero di maestri di cui massimo è stato il contributo alla teoria gene-
rale del diritto. Questo emerge come categoria necessariamente storicistica presso cultori grandi del diritto
pubblico. L'immediatezza della relazione fra fenomeno concreto e costruzione teorica o scientifica è spinta
ad un grado che è ben minore nelle visioni della economia pura finanziaria o non esiste nè è ritenuta diret-
tamente necessaria.
C) Il contrasto e, comunque, la netta differenziazione fra contenuto della economia finanziaria e di-
ritto finanziario (dal punto di vista della diversa posizione che vi assumono l'astrazione e l'ipotesi, a cui non
corrisponda necessariamente una realtà attuale) sono espressi in modo incisivo e tassativo dal Giannini. E-
gli, prima precisa che le scienze economiche indagano i riflessi economici della attività finanziaria. Poi
__________
29
SANTI ROMANO, L'ordinamento giuridico, Sansoni, Firenze, 1945, cap. I.
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giunge a correlazioni fra i vari modi (in cui l'attività finanziaria può estrinsecarsi) e le economie private,
mentre il diritto finanziario ha per oggetto gli istituti e i rapporti giuridici cui dà luogo l'esistenza di un
complesso di norme regolatrici della attività finanziaria. Infine egli enuncia che le scienze economiche
«hanno valore universale, in quanto traggono da date premesse ipotetiche le necessarie conseguenze, che
non possono non essere identiche in ogni luogo e in ogni tempo, mentre il diritto finanziario non si concepi-
sce se non in relazione a un dato ordinamento giuridico».
Con perfetta visione della divisione scientifica del lavoro fra i cultori delle due discipline che han-
no, tuttavia, come oggetto lo stesso fenomeno, il Giannini ammette che i concreti atteggiamenti del nostro o
di altri Stati, espressi nella legislazione finanziaria, costituiscono soltanto per l'economista (e per il politico)
delle esperienze storiche, che possono fornire dati di fatto per la costruzione delle loro teorie e per saggiar-
ne i risultati.
D) Contro la commistione di criteri economici e giuridici nella costruzione teorica, prende posizio-
ne M. Udina30 ammettendo che è opportuno che diritto finanziario e scienza delle finanze siano «conosciu-
ti» dai cultori delle due discipline nella veste, si intende, soprattutto di docenti. Ma considera le stesse come
«ordini di conoscenze diversi» i quali «si possono integrare a vicenda, mai fondere anche se l'oggetto della
conoscenza identico». E in modo conclusivo asserisce: «E' questione di saggia politica legislativa tener
conto dei molteplici rapporti intercedenti fra le scienze stesse e può essere talvolta utile per l'interprete di
tenerli presenti; ma non potrà essere compito essenziale del giurista di valutare nello stesso istante e unita-
riamente gli aspetti giuridici, politici, economici e tecnici del fenomeno finanziario».
F) Visione perfettamente razionale ha concepito un cultore di diritto pubblico che si è occupato del-
la materia che, come il diritto finanziario, s'avvale del diritto. G. Ingrosso ha asserito, invero, differenziando
le due discipline, che il diritto finanziario come materia di studio è la disciplina che «studia l'ordinamento
giuridico della finanza dello Stato e degli enti di diritto pubblico minori e i rapporti giuridici che essi creano
nello svolgimento della loro attività finanziaria»31.
Per l'Ingrosso la «scienza delle finanze studia la natura, il contenuto e i limiti della attività finanzia-
ria; più particolarmente ricerca le cause generali e necessarie della attività finanziaria (bisogni pubblici e
servizi pubblici), le norme e la ripartizione dei contributi che le economie private prestano allo Stato, gli ef-
fetti di essi sulle economie private nell'ambito delle economie collettive; insomma indaga le leggi naturali e
perciò generali del fenomeno finanziario».
Secondo lo stesso A. «il diritto finanziario invece prescinde da queste, sempre nei limiti in cui è ra-
zionalmente possibile separare l'uno dall'altro gli elementi di un fenomeno unitario».
Esso studia il fenomeno finanziario quale manifestazione concreta della attività dello Stato e degli
enti pubblici minori.
Il che fa comprendere come nell'idea di questo autore, nel campo dell'astratto o del generale in tal
senso concepito e contrapposto al concreto, si svolga l'indagine teorica del cultore di economia finanziaria
che, nelle parole dell'Ingrosso sembra dar corpo precipuo alla scienza delle finanze.
«Il diritto finanziario presuppone la conoscenza delle basi economiche e sociali degli istituti dei
quali indaga i principii giuridici ed espone il regime positivo»..
«La scienza delle finanze a sua volta, nella ricerca delle cause naturali che quegli istituti generano,
si giova della conoscenza del loro modo concreto d'essere nelle legislazioni positive siccome quegli istituti
sono espressioni di attività pratica dell'uomo sociale».
Secondo me, «giovarsi» del concreto non è né descriverlo nei dettagli né assumerlo nella sua inte-
grità, ma processo di osservazione per trarre dal concreto i «tipi» di fatti o fenomeni che influenzano l'im-
maginazione ipotetica ovvero orientano le singole astrazioni e danno indiretto contenuto agli schemi teorici,
o alla verifica di essi.
Può essere un modo di istituire una relazione fra ipotesi e fatti per graduare la irrealtà o meno delle
ipotesi, pur essendo questa caratteristica (irrealità) compatibile con la costruzione della teoria economica
pura. Volendo avvicinarsi per gradi alla spiegazione del concreto o del reale, sia pure visto in aspetti parzia-
li, si può far rispecchiare, nelle ipotesi, aspetti del concreto, tratti casistica che offre la legislazione finanzia-
ria del passato e del presente senza limitazioni spaziali.
F) Si faccia il caso del ricordato E. Allorio, il quale sente di dichiarare che il suo «Diritto proces-
suale tributario» «è nato come opera di teoria, mossa da un'esigenza teorica». Ma nel precisare l’oggetto
__________
30
UDINA M., Diritto internazionale tributario, Padova, Cedam, 1949.
31
INGROSSO G. , Istituzioni di diritto finanziario, Napoli, Jovene, 1935, vol. I.
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precipuo dell'indagine svolta nella sua stessa opera, ritiene di dover «abbracciare in un primo sguardo pano-
ramico il diritto processuale tributario, nelle fonti da cui esso deriva, nei territori diversi che comprende, nel
testi che lo disciplinano». Si trae che il legame necessario e diretto fra teoria ed ordinamenti positivi è offer-
to proprio nelle specializzazioni teoriche, giuridiche, che concernono il fatto finanziario ovvero la legisla-
zione oggetto anche dell'economia finanziaria. La quale (essendo teoria ipotetica o astratta) non ha detto le-
game diretto e necessario con singoli e attuali ordinamenti positivi.
G) Il Pugliese32 un seguace della posizione eclettica che fa capo al Griziotti, formula visioni del-
l'oggetto del diritto finanziario, che non si conciliano integralmente con la ortodossia dei precedenti, omo-
geneamente orientati in senso che giustifica la contrapposizione (che si illustra in queste lezioni) fra ogget-
to, tecnica e metodo delle due discipline.
Del diritto finanziario, in una prima asserzione, ad es. il Pugliese razionalmente trattava come di-
sciplina «la quale debba essere studiata con metodi ad essa peculiari ed appropriati», perché formante un si-
stema di norme giuridiche rette da principii comuni, diversi da quelli che regolano altri sistemi di norme.
Ma mentre riteneva che lo studio della legislazione positiva non costituisce che una parte scientificamente
secondaria dell'oggetto dello studio del diritto finanziario, egli eccedeva nel dire che la scienza delle finanze
«deve tener conto» senza dubbio della legislazione positiva che costituisce l'intelaiatura del sistema finan-
ziario di ogni Stato. Inoltre la scienza delle finanze «deve sempre aver presente nelle proprie elaborazioni
quale sia la natura giuridica dei tributi studiati, quale il profilo giuridico dei varii istituti finanziari». E ciò
perché definiva la scienza delle finanze come la disciplina che studia i fenomeni finanziari dal punto di vi-
sta economico, politico e giuridico. Il che ha significato scientifico solo per la parte che ha carattere econo-
mico, l'unico che sia assurto a dignità di scienza; laddove non si può dire che abbia preso corpo scientifico
una scienza politica, costituita dal punto di vista politico, da cui si considerino i fenomeni finanziari.
E infine dire che la scienza delle finanze debba considerare l'aspetto giuridico del fenomeno, signi-
fica togliere contenuto o fare doppio con quello del diritto finanziario.

VII.

IL DOMINIO DELL'ASTRAZIONE IPOTETICA NELL'ECONOMIA DELLA FNANZA PUBBLCA.

Richiamandomi alle generalizzazioni sulla portata dell'ipotesi nel campo dell'economia pura finan-
ziaria, richiamo ed enuncio alcune visioni scientifiche.
Nelle precisazioni metodologiche, molti studiosi si attardano, addirittura dedicandovi, come lo stes-
so Cairnes, il Mill, il Menger, il Jevons, il Keynes, il nostro Berardi ed altri, apposite opere, oppure saggi
(Masci). “Confessioni” - parole di Cairnes - non ne hanno fatto «quegli scrittori che hanno più efficacemen-
te contribuito al progresso della scienza economica». Il nostro più forte pensatore ed originale creatore di
problemi rigorosamente risolti, Pantaleoni, dopo aver definite infeconde le «controversie metodologiche»,
affermava: «il modo più persuasivo di risolvere simili contese, non è già di disputar sui metodi, ma di ap-
plicarli. Si tratta in sostanza, di riuscire a fabbricare un modello che sia più degli altri approssimato alla re-
altà e fecondo come istrumento euristico di fatti e di nessi altrimenti inavvertiti».
Ma la resipiscenza più significativa è quella del Menger33, allorché dichiara: «i risultati scientifica-
mente più importanti sono dovuti ad uomini che si disinteressavano delle ricerche metodologiche, mentre
coloro che hanno posto in primo piano questo genere di indagini si sono dimostrati assolutamente infecondi
in quelle indagini scientifiche di cui con ammirevole chiarezza avevano indicato le vie logiche. Tra la de-
terminazione del metodo e una costruzione scientifica soddisfacente corre una incommensurabile distanza,
che soltanto la genialità dei cultori di questa scienza riesce a superare. Spesso la genialità dello scienziato
ha saputo, anche senza raffinatezza di metodo, arrivare a costruire o a trasformare radicalmente una scienza;
ma non si è mai dato il caso contrario, ossia che un metodologo, cioè, privo di talento per la ricerca scienti-
fica, sia arrivato a un qualche risultato. Il metodo mentre ha una incomparabile importanza per i risultati di
__________
32
PUGLIESE, Istituzioni di diritto finanziario, Cedam, 1938, p. 5.
33
MENGER, Nuova collana degli Economisti italiani e stranieri, vol. IV.
30
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minor rilievo, passa in seconda linea davanti a quei grandi compiti che soltanto il genio è destinato ad as-
solvere».
Questa avvertenza premessa a guisa di prefazione al citato saggio (190 pagine) dovrebbe riuscire
ammonitrice anche per i cultori nostri di queste scienze che si entusiasmano per queste precisazioni.
Già la conclusione, a cui arriva il Menger (p. 168) a proposito della scienza delle finanze, è una
prova della discutibile fecondità delle trattazioni metodologiche, che Pareto34 qualifica «perditempo». Egli
colloca la scienza delle finanze, fra le «scienze pratiche della economia» e definita come: «la scienza dei
principii che regolano nel modo più opportuno, secondo le circostanze, la massima economia individuale
del paese, l'amministrazione del governo e degli altri soggetti economici investiti di poteri finanziari». Si
nota in questo, ancora, una specie di precettistica o di cameralistica, in contrasto con ben altre visioni scien-
tifiche professate in generale dallo stesso Menger.
I grandi teorici, autori di contributi originali non si indugiano in una messa in scena di implicite
ipotesi, condizioni e vincoli, in una pedantesca elencazione, che può valere per i lettori non abituati a rico-
struire mentalmente l'insieme delle assunzioni che siano logicamente e necessariamente presupposto (35) di
dati modi di argomentare e delle conclusioni relative. Ed hanno ben ragione coloro che, come il Jevons, ri-
conoscono che il capitolo della grande operi del Newton (dedicato all'enunciazione delle regole fondamen-
tali per la ricerca, le «regulae philosophantes») era assai povera cosa dal punto di vista di una codificazione
del metodo. «Newton raggiunse ben altro risultato quando applicò le norme di lavoro senza enunciarle»
(cosi commenta nel suo excursus nel campo della scienza il Baldacci, qui già citato).
A) Se in queste pagine se ne parla è per la necessità di contrapporre al tipo di indagini proprio del
diritto finanziario (che come si è visto nelle poche e significative citazioni, è imperniato sullo studio del
concreto, che, immediatamente e spesso integralmente, esso prende in considerazione in modo sistematico)
quello della economia finanziaria, che è scienza astratta.
Lo è al massimo grado quando sia vista secondo concezioni come le seguenti che hanno trovato po-
sto nel dominio della teoria pura economica:
«Poste certe premesse, la scienza economica vi ragiona sopra, senza preoccuparsi se esse siano o no
conformi alla realtà; e le illazioni alle quali arriva sono valide entro i limiti delle fatte premesse». Questa
posizione ammessa, ad es., dall'Einaudi36 non è sembrata eterodossa a molti studiosi. Perfino un distinto sta-
tistico, come Boldrini37, trova «ben fondata la definiziöne di una economia teorica detta anche pura, che
muove da certi postulati e li svolge, senza tenere eccessivamente conto della loro adesione alla realtà mate-
riale».
La coerenza del ragionare sembra a molti ed è scienza, anche per lo scrivente. Pare che sia questa
anche la visione del Boldrini, sintomatica presso uno statistico, normalmente analizzatore del concreto (che
peraltro ha definito l'ipotesi «sbocco rapido e provvisorio di un'induzione ossia di un passaggio classificato-
rio dal particolare al generale»), anche quando afferma: «l'eventuale concordanza fra i presupposti (ipotesi)
e le conclusioni (processo deduttivo e induttivo) costituisce la conferma della primitiva intuizione scientifi-
ca. L'ipotesi cessa di essere un tormento per lo spirito assetato della noscendi cupiditas e si trasforma in una
verità scientifica ed anche in un momentaneo appagamento della smania di sapere».
Secondo l’Einaudi38 , «se le premesse sono poste con chiarezza e se si è ragionato rigorosamente, i
teoremi ai quali giungono gli economisti sono veri entro i limiti delle premesse fatte».
Lo stesso A. considera leggi astratte quelle della teoria pura, «le quali ci dicono che cosa necessa-
riamente accadrebbe ogni qualvolta si verificassero nella realtà tutte e sole le premesse poste dal ragionato-
re. Non occorre affatto collocare premesse, problema, ragionamento e teorema in un determinato luogo e
tempo storico politico o morale, perché il teorema dimostrato sia vero. Esso è vero sub specie aeternitatis:

__________
34
PARETO Manuale, p. 24)
35
Non ha scritto Enriquez op. cit. che «nella pratica del ragionare, l’ipotesi viene spesso sottintesa» nel rivolgersi a
Jevons? Le condizioni sotto le quali una legge od uniformità è vera, sono parte implicite e parte esplicite. Non si deb-
bono porre fra le prime che quelle le quali agevolmente e senza il menomo equivoco sono da tutti intese, a sua volta,
avverte Pareto Manuale, pag. 8.
36
EINAUDI L., Rivista di storia economica, Vl, 1941.
37
BOLDRLNL, Statistica: teorie e metodi, Giuffrè, 1942.
38
Cito l’Einaudi, efficace specialmente nelle chiarificazioni metodologiche nel brillante scritto: Ipotesi astratte ed
ipotesi storiche e dei giudizi di valore nelle scienze economiche, Torino, Accademia delle scienze, 1943).
31
32
ERNESTO D’ALBERGO, ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA
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«è una verità di cui non è necessario dimostrare la conformità ai fatti accaduti, appunto perché l'indagatone
non si poneva questo scopo».
E' una visione astratta che non si discosta da quella matematica, quando la si confronti con proposi-
zioni come queste di Poincaré39 :1) Le verità matematiche «derivano da un piccolo numero di proposizioni
evidenti, attraverso una catena di ragionamenti impeccabili»; 2) considerando la funzione dell'ipotesi, e do-
po aver rilevato che essa non soltanto necessaria ma spesso legittima, asserisce questo A.: «vedremo che ci
sono parecchi tipi di ipotesi, che le une sono verificabili e una volta confermate dall'esperienza, divengono
verità feconde; che le altre senza poterci indurre in errore, possono esserci utili fissando il nostro pensiero;
che altre, infine, sono ipotesi in apparenza soltanto e si riducono a definizioni o a convenzioni travisate» (p.
2).
Poincaré considera convenzioni gli assiomi geometrici, e aggiunge che la scelta fra tutte le conven-
zioni possibili, è guidata da fatti sperimentali, ma resta libera ed è limitata soltanto dalla necessità di evita-
re ogni contraddizione (p. 66) (40).
Un'eco di questa visione si trova in Enriquez (op. cit. p. 42), là dove ritiene «che il procedere del-
l'intelletto umano, indipendentemente dalla rispondenza del resultato raggiunto, deve formare oggetto di u-
n'indagine particolare; la quale di mezzo agli elementi variabili ritrovi i dati subiettivi nella rappresentazio-
ne del fatto, illuminando così la funzione psicologica del conoscere».
Ma a proposito del ragionamento nella sua forma rigorosa, rifacendosi ai cultori della Logica, l'En-
riquez precisa: «perché il ragionamento così inteso (che non alteri i dati di conoscenza ma li lasci veri o fal-
si) riesca perfettamente indipendente dalla prova reale empirica, e perché riesca rigoroso, importa che le sue
leggi vengano riconosciute come puramente formali, applicabili ogni qualvolta si riscontrino talune condi-
zioni di coerenza del pensiero, senza badare al contenuto» (p. 90).
Questi accostamenti mi sono apparsi necessari onde recare luce sul concetto di teoria pura econo-
mica. Il De Viti De Marco ci aveva insegnato a considerare anche i problemi di finanza pubblica come pro-
blemi economici da studiarsi con gli stessi criteri usati nella scienza economica. E del resto lo stesso Einau-
di, che pure nella citata opera metodologica ha contrapposto ipotesi astratte ad ipotesi storiche, in quella
sede ha riconosciuto che la scienza finanziaria (di cui dichiara di preferire lo schema economico) è e rimar-
rà a lungo una scienza astratta e deve necessariamente vivere di schemi più o meno vicini alla realtà.
Dopo questo ricorso ad autorevoli opinioni dominanti nel campo della scienza, e nella teoria pura,
ritengo che risulti evidente la differenziazione di metodo, o meglio, di tecnica e di contenuto della scienza
economica pura e della teoria giuridica quale in particolare dà contenuto al diritto finanziario. Due mentali-
tà necessariamente si impongono di fronte alla sistemazione scientifica delle due discipline che altri docenti
su citati e i loro proseliti vorrebbero mescolare (trattazione mista), laddove esse, per lo meno, differiscono
per il diverso posto che si fa all'ipotesi. Il che non è cosa trascurabile ed esclude normalmente che la stessa
persona coltivi, «faccia», e dia contributi scientifici nelle due discipline aventi tecnica diversa (chè i metodi
della scienza non sono contrapposti considerando diversi rami di essa), se si pensa al carattere subiettivo
della scelta e della concezione delle ipotesi e della relazione che corre fra ipotesi, fantasia e immaginazione
dello studioso da un canto e fatti da spiegare, dall'altro.
__________
39
POINCARE, La Science et l'Hypothèse , Parigi, Flammarion.
40
E ancora precisa e la precisazione è interessante per comprendere l'astrazione economica nel senso in cui qui se ne
tratta che «l'esperienza svolge una funzione importante nella genesi della geometria; ma sarebbe un errore concludere
che la geometria sia una scienza sperimentale, anche in parte». «Se essa fosse sperimentale, sarebbe approssimativa e
provvisoria. E che approssimazione grossolana!».
«La geometria non sarebbe che lo studio del movimenti del solidi; ma essa non si occupa in realtà dei solidi naturali,
essa ha per oggetto certi solidi ideali, assolutamente invariabili che non ne sono se non una immagine semplificata e
ben lontana».
«La nozione dei corpi ideali è tratta integralmente dal nostro spirito e l'esperienza non è che una occasione che ci
impegna a farla uscire da essa».
«Ciò che è l'oggetto della geometria, è lo studio di un gruppo particolare; ma il concetto generale di gruppo preesiste
nel nostro spirito almeno in potenza. Esso si impone a noi non come forma della nostra sensibilità, ma come forma del
nostro intelletto».
«Soltanto fra tutti i gruppi possibili, occorre scegliere quello che sarà per così dire il tipo al quale riferiremo i feno-
meni naturali».
«L’esperienza ci guida in questa scelta che non ci impone; essa ci fa riconoscere non quale è la geometria più vera,
ma la più comoda» pagg. 90-91.
32
33
ERNESTO D’ALBERGO, ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA
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A detta fantasia o immaginazione ipotetica nessun limite è posto nella teoria pura economica e fi-
nanziaria in ispecie. Possiamo pensare costanti le circostanze che agiscono in concreto nel numero e nella
specie, ad libitum; ipotizzare costante l'utilità marginale della moneta; immaginare un monopolista agente
sotto la spinta del puro tornaconto, con la perfetta conoscenza del mercato che compia infiniti tentativi per
rivalersi dell'onere di un tributo, che ne colpisca la produzione, su i compratori della sua merce o dei suoi
servizi, per trovare un punto di massimo utile compatibile con il vincolo fiscale; supporre beni a utilità in-
dipendente; ritenere, per ipotesi, la possibilità di ragionare su soggetti tipici e rappresentativi di gruppi o-
mogenei in tema di apprezzamenti utilitari nei confronti di pari doti di ricchezza disponibile; immaginare
un sistema di libera concorrenza perfetta e il caso opposto di un collettivismo puro di una ipotetica e pur
utopistica «città del sole», ecc. ecc. E', in ogni caso, fare scienza, scienza pura, nel significato e con le limi-
tazioni che sono state poste in evidenza in queste pagine.
Tutto questo non sembra logicamente e tecnicamente lecito nel campo del diritto. Si segua un filo-
sofo odierno di detta scienza giuridica, ed egli, quando sembri il più astrattista immaginabile, vi definisce la
scienza giuridica individuandone il compito nel fissare la essenza dei fenomeni giuridici che sono rapporti
di uomini e istituti di uomini storici, evidentemente. E mentre potete ritenere ancora che si graviti nel cam-
po del puro, ipotetico mondo astratto, lo stesso autore vi dice che «1'essenza non è che processo finale di
una serie di penetrazioni nel vivo delle forme storiche e delle esigenze psicologiche del diritto».
Ascoltate un altro aggiornato cultore di scienza giuridica generale. Non soltanto egli vi dice che
«oggetto delle scienze giuridiche dommatiche sono le norme giuridiche astraibili dai fenomeni giuridici re-
almente esistenti. Ma riferendosi ai concetti, deve la scienza stessa formarli, col procedimento di astrazione,
partendo però non da concetti già dati nel diritto, ma direttamente dalla osservazione delle manifestazioni
reali del fenomeno giuridico».
E questo è detto da parte di chi sembra avere una visione la più astratta immaginabile, quando vi
asserisce: «non si può parlare di metodo giuridico». Il metodo non è particolare a questa o a quella scienza,
ma la via generale seguita dall'intelletto per la «conoscenza»! E parla di tecnica giuridica che soltanto per
convenzione si denomina solitamente metodo, nel caso giuridico.
B) Pantaloni, uno dei massimi realizzatori della teoria pura economica ha voluto circoscrivere il
dominio dell'ipotesi chiedendosi, nella «Economia pura», se l'ipotesi di edonismo psicologico, da cui dedu-
cesi ogni verità economica, coincida o discrepi, e allora in quale misura dai motivi che effettivamente do-
minano le azioni umane.
Con ciò il Pantaleoni non contrappone la propria alle concezioni della scienza pura che figurano
nelle pagine qui offerte alla meditazione degli studenti. Non si tratta, con detta preoccupazione scientifica,
di giudicare della verità dei teoremi economici che ne discendono; perché anche quando non ci curassimo
di verificare l'ipotesi, le sue conseguenze, purché rigorosamente dedotte, sarebbero verità ipotetiche.
Pantaleoni identifica la scienza vera in questi termini: «qualora fosse dimostrata la non esistenza
della forza dei cui effetti l'economia, intraprende lo studio, essa sarebbe una scienza oziosa, sebbene vera,
cioè non capace di essere la base di un'arte, ossia di una dottrina precettistica . E' inutile studiare nell'eco-
nomia pura i problemi di economia storica, cioè del passato. Egli fa il caso della schiavitù storicamente
quasi insussistente confrontata con i problemi attuali. «Vi è tanto da studiare nella economia che non è più a
base di schiavitù, che il volersi occupare di questo sarebbe come se un corso di medicina si occupasse so-
verchiamente dell'elefantiasi a scapito dello studio delle malattie assai più frequenti».
E' una specie di autolimitazione da parte del Pantaleoni, che potrebbe giustificare la reazione del
Benini, ad es. contro l'homo oeconomicus o l'edonista perfetto, dosatore meticoloso del pro e contro nei suoi
affari di interesse, sensibile a variazioni, per così dire infinitesime del piacere e della pena, ecc. E' la reazio-
ne contro coloro che vogliono passar sopra «una legge accertata» per sostituirvi un prodotto mentale d'a-
strazione «sempre uguale a se stesso»; orientamento quest'ultimo che il Benini qualifica «far della logica un
passatempo da gran signori del pensiero». L'importante è però, a mio parere, che di logica si tratti, anche
senza riferimento attuale al concreto.
Contro le ipotesi fatte per «un intento di esercitazione raziocinante» o contro i «meri parti della fan-
tasia solitaria degli economisti in cerca di temi di esercitazione accademica» si pone l'Einaudi, asserendo
che i «se» premessi al ragionamento economico non sono creazioni solitarie ed arbitrarie, ma sono tratti
dalla realtà vivente: «sono astrazioni grandemente semplificate della realtà».
Questi rilievi e specialmente quello relativo al pensiero del Pareto sembrano avvicinare la posizione
dell'economista a quelle del giurista, il quale è, come si è visto, direttamente e totalmente con le sue costru-
zioni, aderente agli istituti concreti. Ma lo hjatus permane perché gli stessi studiosi, che hanno avanzato il
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criterio delle ipotesi tratte da semplificazioni di aspetti del reale, sia per le ipotesi non assolutamente verifi-
cabili sia per le conseguenze che ne traggono, si staccano dal concreto, cosa che i giuristi non fanno.
Sarebbe facile provarlo presso gli autori citati in questo paragrafo, con i cosiddetti casi-limite, che
gravitano nel campo dell'irreale o che della realtà colgono aspetti marginali o lontani.
Ma seguiamo un autore, come il Pareto, che addirittura ha qualificato le uniformità dell'economia
come logico-sperimentali.
Il concetto di «sperimentale» va chiarito, ma prima occorre precisare che, a differenza di Pantaleoni
che considera «vera» la costruzione logica coerente e rigorosa, ma irreale, Pareto qualifica vera una teoria
soltanto «quando teoria ed esperienza procedono d'accordo»: «non vi è, non vi può essere, altro criterio di
verità di una teoria» (Manuale, p. 39, edizione 1909).
Le parole non contano perché tanto Pantaleoni quanto Pareto concordano in quello che quest'ultimo
asserisce con questa espressione, dalla quale esula la «smania per le applicazioni immediate, le quali sono il
gran nemico di ogni genere di teorie»: «giova dunque, quando si vuole costituire una scienza, scegliere giu-
diziosamente i principii in modo da avvicinarsi quanto è possibile alla realtà, pure sapendo che mai una teo-
ria potrà riprodurla in ogni particolare».
Ma occorre tener presente che il Pareto adotta i termini di esperimento ed osservazione, nel campo
delle scienze sociali e dell'economia in particolare, sapendo che soltanto nelle scienze positive (fisica, chi-
mica, biologia, ecc.) è possibile procedere ad esperimento, e che nei campo sociale è possibile avvalersi
dell'osservazione soltanto.
Altro procedimento è quello che si è convenuto di denominare esperimento ipotetico, su cui, spe-
cialmente U. Ricci41 ha insistito, e che altri denomina esperimento ideale, in sostituzione di quelli che non
possono storicamente compiersi. Ponendo certe condizioni o facendo certe ipotesi, che si vanno sempre più
complicando per approssimarsi alla sinteticità del concreto, se ne deducono i relativi effetti, pervenendo,
cosi, ad una astratta schematizzazione di quel che potrebbe avvenire se si verificassero le ipotesi, condizioni
e circostanze idealizzate.
Dal punto di vista della osservazione dei fatti e della verifica delle ipotesi e teorie, le divergenze di
posizioni logiche di economisti e giuristi parrebbero eliminate. La questione della differenziazione metodo-
logica o tecnica dei due campi teorici potrebbe sembrare riducibile a problemi di differenze di grado nei le-
gami rispettivi con la realtà attuale. E superando, quando ciò fosse, il pensiero di Spencer sulla equivalenza
di questioni di grado assai rilevante, a questioni di specie, potrebbero ritenersi di scarsa importanza o tra-
scurabili ai fini della specializzazione e differenziazione scientifica.
a) Per contro vi sono alcune visioni che fanno comprendere come lo hjatus sia ancora sensibile e
come ben diverso campo di estrinsecazione della forza logica sia consentita, in economia, alla ipotesi, an-
che quando si professi il metodo detto logico-sperimentale
Invero si consideri che i fatti non sono soltanto, come vuole il Croce42, per «fare» la scienza, quelli
accaduti («se il fatto non precede non sorge la corrispondente teoria». Ma possono addirittura atteggiarsi a
fatti che servano a sperimentare la teoria, quelli futuri o probabili.
Dopo avere considerate proposizioni scientifiche quelle che possono essere verificate dall'esperien-
za, Pareto ammette che «muovendo da una premessa che non si può verificare con l'esperienza se ne dedu-
cono scientificamente conclusioni. Queste neppure si possono verificare sperimentalmente, ma sono con-
giunte con la premessa per modo che se questa è una proposizione che nel futuro (il corsivo è qui introdot-
to) si potrà verificare con l'esperienza, anche le conclusioni diverranno sperimentali». (Manuale, p. 33) (43).
b) Fra le teorie che possiamo scegliere, «preferiremo quella che ha minori divergenze con i fatti del
passato e che meglio ci concede di prevedere il futuro»44.

__________
41
RICCI U., Studi in onore di Salandra, Roma, 1928.
42
CROCE B., Filosofia della pratica, p. 29.
43
Si è detto bene di recente, in questo ordine logico, che le leggi o uniformità economiche sono verità di validità il-
limitata, dato il loro carattere logico: sono «fuori del tempo», come sottolinea il Bresciani Turroni, che aggiunge: «o-
gni qualvolta, presso un popolo qualsiasi e in qualsiasi epoca storica, sussiste il concorso delle premesse sulle quali è
fondata la teoria, si verificheranno le conseguenze da essa descritte supposto che siano correttamente dedotte dalle
premesse» Corso di economa politica, vol. I, Milano, 1949, Giuffrè editore.
44
PARETO V., Trattato di sociologia, vol. I, pagine 42-46.

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Si consideri che queste visioni non erano infeconde e puramente metodologiche, ma che Pareto45 ha
fatto, nel 1896, per la produzione il caso-limite dello stato socialista, del «futuro» stato socialista (p. 104), i
cui ipotetici, ripetuti tentativi facciano determinare gli stessi coefficienti di produzione, che ci ipotizzano
per il caso-limite della concorrenza libera, perfetta (se fosse praticamente possibile la sostituzione dell'or-
ganizzazione «sociale e unificata alla produzione in regime di libera concorrenza, scriveva l'autore). Eppure
adottava la formula della scienza logico-sperimentale, allorché mancava dell'osservazione sulla concordan-
za di ipotesi e conclusioni con la realtà, con la clausola «nei limiti del tempo e dell'esperienza a noi noti».
c) Ma ci sono anche i casi, per il Pareto, dei movimenti virtuali, diversi dai reali: cioè casi in cui la
collettività potrà conseguire altri stati da quelli che consegue realmente (Sociologia, cit., p. 57). E fa l'ipote-
si di chi indaghi intorno a «cosa sarebbe la società ove venisse meno la proprietà privata» come «studio di
movimenti virtuali». In tal caso ritengo che nessun giurista imposti problemi della propria teoria che, basata
su fatti avvenuti o attuali, non mi pare prenda in considerazione situazioni virtuali almeno sistematicamen-
te, specie con l'ampiezza di ripercussioni che figura in questa proposizione di Pareto, in uno schema socio-
logico su base «sperimentale». Del pari all'economia assegna il compito di studiare i «movimenti reali per
sapere come i fatti seguono» e quelli «virtuali» («che realmente non hanno luogo»), per conoscere le pro-
prietà di certi stati economici (Manuale, p. 151).
C) Si apra un libro accessibile a uomini di cultura (come quello del citato De Broglie) e si troveran-
no asserzioni che giustificano codesto accostamento per i legami fra ipotesi e verifica di esse o delle dedu-
zioni che da esse partono. Leggonsi, invero, espressioni come le seguenti: a) «Immagini semplici (come
quelle di corpuscolo e di onda, di punto ben localizzato nello spazio, ecc.) sono delle astrazioni, delle idea-
lizzazioni. In un gran numero di casi queste idealizzazioni si trovano approssimativamente realizzate in na-
tura, ma hanno tuttavia i loro limiti di applicazione»...; b) «Le idealizzazioni più o meno schematiche del
nostro spirito possono rappresentare certi aspetti delle cose, ma esse sono limitate e non possono contenere
nei loro rigidi schemi tutta la ricchezza della realtà»...; «Può darsi benissimo il caso che alla luce di nuovi
fatti sperimentali o di nuove concezioni teoriche si sia condotti a considerate le leggi prima verificate come
soltanto approssimative, cioè ad ammettere che, se si potesse stingere indefinitamente la precisione delle
verifiche, esse non sarebbero più verificate»; c) «Il passaggio dalla meccanica classica (basata su ipotesi la
cui Validità non è garantita che dagli oggetti delle nostre dimensioni) alla meccanica ondulatoria si farà ne-
cessariamente nell'astratto schema dello spazio rappresentativo» (notoriamente irreale per quanto riguarda
il dominio dei sensi).
A chi ha rivolto alla fisica teorica, così concepita, critiche come quelle che possono rivolgersi alla
economia pura, basata su ipotesi irreali (ossia che «l’interpretazione probabilistica della nuova meccanica è
forse molto bella e coerente ma anche un po’ arbitraria») si è risposto che essa «appare la sola possibile»
(oggi). Continua il De Broglie: «può darsi che i modelli e i concetti astratti» ovvero le «idealizzazioni» ap-
paiano prodotti troppo semplicisti della nostra ragione e «non possano applicarsi esattamente alla realtà».
Per descrivere la complessità del reale potrà, dunque, essere necessario «usare successivamente due o più di
queste idealizzazioni» (46).
Queste mie affermazioni intorno alla affinità di visioni teoriche fra fisica ed economia, quale carat-
teristica differenziale rispetto alla assai più circoscritta validità dell'ipotesi nel campo del diritto e in merito
alla verifica di esse e delle deduzioni, sembrano contraddette da una corrente di opinioni, non vasta e, inol-
tre, contrastata, la quale, oltre a voler tener conto della possibilità di una teoria quantitativa o matematica
della scienza giuridica, intende considerarla come scienza avente grande affinità con le scienze naturali e fi-
siche in particolare.
Traendo incoraggiamento dagli scritti di cultori odierni di sociologia (che ritengono pensabile una
teoria giuridica quantitativa), il Magni, prima aderisce all'idea del Riccioni (Jus, Roma, 1939, in merito alla
possibilità di applicare al diritto il concetto matematico di funzione, derivata e integrale), poi istituisce ana-
logie con le scienze naturali. Infine Magni ammette la possibilità di concepire «la giurisprudenza come
__________
45
PARETO V., Corso di economia politica, vol. II.
46
Sulla provvisorietà delle ipotesi di fronte alla probabilità della loro verificazione, E. Fermi, ha, tra l'altro, scritto su
The Physical Review: «Nei recenti anni sono state scoperte parecchie varie nuove particelle che abbiamo assunto fos-
sero elementari, cioè, essenzialmente, senza struttura. La probabilità che tutte queste particelle siano veramente ele-
mentari, diventa sempre minore e minore a mano a mano che il loro numero cresce. Non è affatto certo che i Nuclei,
Mesoni, Elettroni, Neutroni siano tutti particelle elementari e può darsi che almeno alcune delle fallacie delle presenti
teorie siano dovute all'aver trascurato la possibilità che alcune di esse abbiano una struttura complessa».
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scienza naturalistica», specialmente riferendosi alla fisica concepita come «una specie di logica dell'energia
pura». Così egli spinge l'analogia sino a considerare il «quanto di energia» nel campo del diritto, inteso a
significare l'energia volitiva, tratto dall'ordinamento (legge, sentenza, ecc.) che determini un effetto giuridi-
co.
Ciò premesso, alla domanda se si possa quantizzare il diritto, egli dà risposta affermativa, e trova
nella matematica il ponte che potrebbe unire saldamente la tecnica della giurisprudenza a quella delle scien-
ze naturali. «Gli aggregati del diritto» gli sembrano trattabili come combinazioni di quanti fondamentali di
energia od azione: «quanti di energia volitiva od intellettiva di individui, combinabili con quanti di poteri
sovrani (atti normativi, amministrativi, giurisdizionali)», oppure «soli quanti del potere di sovranità (poteri
di impero)».
Il Magni fa applicazione di variazioni di quantità con rapporto funzionale, al caso delle capacità di
agire in funzione di variazioni di posizione in cui si trovi il soggetto.
Egli continua: «Alla pratica non si potrebbe certo arrivare facilmente se non dopo un'attività scienti-
fica ad opera di molti studiosi, che riuscissero ad avere una preparazione matematica, sociologica e giuridi-
ca adeguata al grave compito». Il Magni, con tratto di spirito, non si nasconde la possibilità che l'ipotesi a-
vanzata si riveli «priva d'ogni base e utilità scientifica», riducendosi ad esercitazione.
Ai fini di questa mia contrapposizione di scienze, metodi o tecniche rispettive, in questa sede mi
preme rilevare nei confronti della posizione analogica e quantitativa del Magni:
a) Che detta posizione, se fosse feconda, richiederebbe tale specializzazione, già fra i giuristi, da
far ritenere difficilmente abbordabile lo stesso orientamento da parte di cultori di economia, nonostante
l’avvicinamento tentato con il presentare il diritto come scienza quantitativa quale è eminentemente l'eco-
nomia.
h) Che: 1) egli ha tentato una teoria esplicativa di un ordinamento giuridico (sia pure non nella sua
totalità); 2) egli ha fatto riferimento a dati che sono attinenti non alla logica pura, ma ad ordinamenti positi-
vi; 3) egli ha fatto riferimento ad una «serie di fatti rilevanti per il diritto» ed a qualità variabili «oggettiva-
mente osservabili», influenzati dall'attività normativa, regolatrice dell'ordinamento; 4) egli tratta, inoltre, di
principio dell'interdipendenza delle fattispecie e delle norme; 5) egli ammette che la prova che l'ordinamen-
to giuridico non è «un sistema disarticolato. Infine, dopo qualche altra argomentazione, egli conclude: «ne1
mondo giuridico possiamo scientificamente cercare di precisare le regole dell'esperienza giuridica cioè del
movimento di entità giuridiche in un sistema dato».
Si confrontino con le esigenze dell'economista teorico, queste esigenze della sia pur moderna e di-
scussa quantitativa teoria giuridica, e si trova come il legame fra mondo delle ipotesi e mondo giuridico
concreto sia più immediato, continuo e necessario che nel campo della teoria pura economico finanziaria. E
ciò anche quando nel parlare di «effetti reali» nei rapporti di causalità, si faccia appello a «ciò che per lo più
accade», cioè all'aspetto probabilistico della realtà.
D) Infine voglio ricordare una importante differenziazione di posizioni di economisti e giuristi nei
confronti della stessa materia concreta, che prende corpo nella legislazione finanziaria.
a) La teoria giuridica non persegue altro fine che di comprendere il diritto costituito e fissato dalla
attività legislativa ed esecutiva, senza prendere posizione valutativa. E' una teoria la quale non desidera ri-
spondere alla domanda: come il diritto, buono o cattivo, equo od ingiusto che sia, è di fatto costituito. E'
una scienza che non rappresenta la dottrina del giusto diritto, ma una dottrina giuridica generale tutta volta
al problema: come possa, in generale, costituirsi il diritto. Essa è, dunque, una dottrina del diritto possibile,
realmente costituito e che rappresenta pertanto una dottrina del diritto effettivo.
La dottrina «pura» del diritto è precisamente una teoria del diritto positivo e non aspira ad altro. Es-
sa si propone, nel campo del diritto, di conoscere quello che esiste, senza propugnare il dover essere. Non
quindi, un «dovere», ma un «essere», una realtà positiva in atto.
E’ vero che questa ortodossa visione viene temperata dalle varie dottrine che trattano delle «lacune»
dell'ordinamento giuridico e dei metodi per colmarle. Ma ben raramente la critica interpretativa degli ordi-
namenti e delle leggi conduce alle visioni de iure condendo, prospettando la legge quale deve essere affin-
ché possa risultare tecnicamente perfetta, e manifesti la volontà reale, ad es. dello Stato, senza manchevo-
lezze e deficienze od incoerenze.
b) Per contro, la critica delle leggi o la valutazione di esse e la visione del loro «dover essere» pos-
sono dirsi la regola allorché, dai cultori di scienza delle finanze, si faccia riferimento ai sistemi legislativi
tributari.

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Non si tratta della critica di chi voglia dare suggerimenti al legislatore, facendo arte finanziaria. In
tal caso il dover essere rientrerebbe nel campo della precettistica che esula dalla concezione della scienza
per fini di conoscenza. «Tutto ciò che suona precetto non scientifico» dichiarano maestri di teoria econo-
mica.
Sulla traduzione in linguaggio scientifico dei precetti di economisti insistono varie opere metodolo-
giche ed autori, come Pareto ed Einaudi, già ricordati. Invero, affermare, ad es. che un'imposta reale, che
prelevi reddito da una sola fonte, non deve essere progressiva, equivale a impostare un ragionamento ipote-
tico equivalente, come il seguente: «se il legislatore ragiona in base al principio della eguaglianza dei sacri-
fici (ad es., nell'ipotesi che essi siano decrescenti, con un dato saggio di variazione, con il crescere del totale
dei redditi a disposizione delle persone fisiche), una aliquota progressiva è coerentemente concepibile solo
di fronte alla sintesi dei redditi che affluiscono alla persona fisica e non se rapportata al reddito di una sola
fonte». Alla luce di questo principio, adeguatamente dimostrato, il cultore critica e condanna l'imposta rea-
le, sul reddito di un solo cespite, se prelevata col fine normale di dare un'entrata (fiscale) allo Stato, qualora
sia ordinata con aliquota progressiva.
Ciò premesso, è da avvertire che l'economista puro (che consideri la legislazione finanziaria positi-
va o sistematicamente o a titolo di esemplificazione ovvero di illustrazione della fecondità delle ipotesi co-
me loro verifica di fronte ai fenomeni che la teoria intenda spiegare) tende di regola ad assumere posizione
critica di fronte al legislatore. Il «dover essere» viene prospettato, nello spirito della scienza ipotetica, nel
ragionamento teorico, dallo specifico punto di vista (47) economico, allorché si consideri la divergenza o la
coincidenza di sistemi e istituti positivi da (e con) i tipi di schemi generali o di tributi singoli enucleati in
base alle caratteristiche astratte di razionali concezioni ipotetiche. Per esempio, questa critica si esercita, sui
sistemi positivi:
a) nei confronti delle caratteristiche, ad es. dell'oggetto di imposte dirette su patrimoni o redditi, per
la corrispondenza o meno delle quantità consacrate nelle leggi positive, a quelle che si individuano con i
concetti teorici di capitale netto, reddito prodotto, guadagnato, disponibile, distribuito, ecc.;
b) nei confronti della casistica concernente la scelta dei mezzi rispetto ai fini, allorché si intenda fa-
re riferimento formale a fatti di produzione della ricchezza, per colpire indirettamente fatti di consumo (per
traslazione di oneri o per processo economico ipotetico divergente dalla eventuale facoltà legislativa di ri-
valsa di produttori su consumatori);
c) nei confronti della adozione di aliquote diverse per una stessa omogenea categoria di imponibili
(redditi, ad es. di puri lavoratori);
d) nei confronti di differenziazioni di aliquote secondo rapporti non corrispondenti alla teorica di-
versa rischiosità di investimenti;
e) rispetto a modi di distribuzione di tributi, apparentemente, o secondo il comando legislativo,
proporzionali ai redditi di differenti classi di redditieri (ad es. imposta sulla spesa o sul valore locativo delle
abitazioni) e sostanzialmente regressivi, ovvero incidenti relativamente di più sui più bassi redditieri. Don-
de l'apparente «precetto» che suggerisce, per un principio di eguaglianza economica obiettiva, aliquote pro-
gressive nel caso ipotizzato. E così via, pei molti punti di vista dai quali si compie la critica, alla luce della
logica scientifica, nei limiti del punto di vista (economico) che il cultore di economia della finanza pubblica
prende in considerazione nelle sue ipotesi.
E' una visione parziale, senza dubbio, quella puramente economica, ma coerentemente e rigorosa-
mente correlata alla specializzazione scientifica. Nessuno studioso, avanzando critiche e suggerimenti, che
abbiano l'apparenza di consigli e precetti, intende dominare il fenomeno concreto dal proprio ristretto punto
di vista economico), ma fornire, quando si addentri nella critica delle leggi, elementi di giudizio che indiret-
tamente e parzialmente possono influenzare il divenire dei sistemi positivi. E ciò nei limiti (sia ben chiaro)
in cui, storicamente, l'elemento economico sia combinato con altri fattori determinanti le leggi positive, e in
cui il senso della critica, compiuta alla luce della scienza ipotetica ed astratta, non sia in contraddizione con
i fatti, in quanto essi siano fuori dell'ipotesi (48).
La mia posizione è quella che domina nei paesi anglosassoni, nei quali questa disciplina è nota co-
me «public finance».
__________
47
E non da tutti i punti di vista da cui in concreto vengono esaminati gli istituti positivi come ritengono Griziotti,
Zingali ed altri, data la loro concezione cosiddetta sintetica della scienza delle finanze.
48
Rimando, anche, all'articolo: E. D'ALBERGO - Sul metodo nello studio della finanza pubblica, in «Rivista Interna-
zionale di Scienze sociali», 1935.
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VIII.

AUTONOMIA DELLA SCIENZA DELLA FINANZA PUBBLICA


DALLA ECONOMIA POLITICA.

Alla luce di questo processo di differenziazione e di specializzazione scientifica si può individuare


la ragione del costituirsi della scienza delle finanze in disciplina autonoma. Infatti, si tratta di corpo di co-
noscenze e di uniformità talmente rilevante, intorno ad un gruppo di ipotesi in rapporto a modificazioni del-
l'equilibrio economico. Dette ipotesi concernono modi ed effetti relativi, di ripartire il costo dei servizi pub-
blici; di distribuire le spese; di suddividere il debito tributario complessivo a carico di singoli, di gruppi,
della collettività; o i modi di mobilitare i capitali con debiti pubblici o imposte straordinarie, ecc. .
L. Einaudi49 ha dichiarato che è «problema senza costrutto» il proporsi di portare alla dimostrazione
della appartenenza di «certe discussioni ad una o ad altra disciplina». Così argomenta dopo avere premesso
che lo studio degli «effetti e sulla traslazione dei tributi» ha un vincolo tutt'affatto «estrinseco con la cosid-
detta scienza delle finanze». E ritiene che sia «mero accidente che di tale studio si siano impadroniti i culto-
ri della finanza» (50). Ciò ha dichiarato nel recensire Fasiani, il quale (fatto omaggio, come ogni studioso,
alla continuità dei problemi trattati da scienza delle finanze, economia e politica economica) ammette l'arbi-
trio delle limitazioni del campo di indagini purché esso risponda a qualche ordine logico.
Se con questo 1'Einaudi avesse voluto soltanto dire che la parte di vero contenuto scientifico della
scienza delle finanze è costituita dalla problematica condotta secondo il metodo e con la logica della eco-
nomica; e che ipotesi specifiche concernenti l'attività finanziaria possono essere considerate anche da culto-
ri di economia generale (ma senza pretendere di praticare un taglio netto che differenzi due discipline che si
muovono nello stesso ordine razionale e metodologico), si potrebbe convenire con le qui riferite asserzioni
a proposito della recensione dei Principii del Fasiani.
Ma così come è stato enunciato nelle parole ricordate, il pensiero di Einaudi si pone contro la spe-
cializzazione scientifica. La quale è, intanto, necessaria ai fini didattici.
Anche i corsi di diritto civile, commerciale, industriale, agrario, marittimo, sono capitoli del diritto
privato. E, ciò nonostante, sono oggetto, non soltanto di lezioni, ma di analisi specifica di ordinamenti ed i-
stituti, da parte di cultori che (sia pure nel solco della tecnica o del metodo giuridico) particolarmente insi-
stono su singoli settori della legislazione per inquadrare problemi e casistica propria dei rami qui indicati,
nei principii del diritto privato già acquisiti o per enuclearne dei nuovi.
Come dimostro in questo paragrafo, vi sono problemi relativi al soggetto Stato, od ente pubblico
minore, che possono non interessare il costruttore dello schema generale dell'equilibrio economico o della
teorica dei prezzi. Vi è una legislazione di vari paesi, che regola tale attività, alla quale può attingere il cul-
tore di economia finanziaria per ipotesi particolari e approfondimenti che non interessano il cultore di teoria
generale come è ammesso dagli stessi. Il legare ad un solo criterio, l'economico, ad es., il contenuto della
scienza delle finanze, può servire a far concludere che non appartengono a questo ordine scientifico ricer-
che in cui lo studioso enunci «giudizi di valore» che possono, se mai, valere per una scienza politica o per
la sociologia o la storia. E non pare «costrutto» da poco il fissare i limiti delle discipline se si evitano, e nel-
le lezioni e nelle ricerche teoriche, contaminazioni come questa pretesa dall'Einaudi che toglierebbero omo-

__________
49
EINAUDI L., «Rivista di storia economica», marzo 1942.
50
Proprio 1'Einaudi è in grado di sapere che, in questi decenni, alcuni economisti che vanno per la maggiore, si sono
occupati di problemi di finanza, senza aggiornarsi sui problemi specifici su cui insiste la letteratura finanziaria, la qua-
le, checché si pensi della distinzione o della autonomia delle discipline, come gruppo di particolari problemi su un. in-
sieme più o meno collegato di ipotesi, richiede che ci si occupi di essi continuamente ed ex-professo. Altrimenti, come
è accaduto a detti economisti, si rischia di portare. sotto altro smalto verbale, i medesimi vasi a Samo ovvero di ripete-
re i primi elementi di schemi, teoremi e problemi in genere, che hanno già avuto la competente parola, e da tempo. Lo
stesso discorso, addirittura, si potrebbe ripetere, lo sa Einaudi, per i diversi orientamenti ed approfondimenti di indagi-
ni, nel campo della stessa nostra disciplina.
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geneità alle analisi che vanno contenute nel campo del razionale con obiettiva impostazione di relazioni
quantitative.
Ciò premesso per tutti i casi di osservazioni in tal senso, cerco di individuare le ragioni dell'affer-
marsi di un gruppo separato di conoscenze, nella sistematica della scienza delle finanze, distinta dalla eco-
nomia politica (sia pure non in modo netto o rigido, come ammetto anche nel paragrafo successivo), per
l'ovvia ragione della comunanza di metodo e di campo (economico) di ricerche.
a) Ai tempi di Adamo Smith, in una trattazione generale in lingua francese, di anonimo, già si pas-
sava dalla precettistica ancora legata immediatamente al concreto (scienza camerale o, meglio, arte finan-
ziaria) ad una visione di uniformità teoriche di prima approssimazione che potrebbero figurare nei trattati
odierni di scienza delle finanze. Tuttavia occorre riconoscere che presso i classici l'esame del fenomeno fi-
nanziario era confuso con quello del più vasto insieme di fatti interessanti l'economia politica nelle defini-
zioni dei classici medesimi.
L'azione del governo (spesa ed entrata) gravitava intorno ai fatti di consumo della ricchezza quali
venivano analizzati nella partizione che allora si dava della materia. Con Ricardo la visione è spostata ai
fatti di produzione e soprattutto di distribuzione della ricchezza, nei quali interferisce il prelievo di imposte
influenzando prezzi, salari, rendite, profitti, volume della produzione, affitti edilizi, ecc. Ma la sia pur di-
stinta trattazione, corrispondente al titolo dell'opera di D. Ricardo51 non consente di ritenere che si sia già
costituita una specializzazione scientifica.
b) In tempi a noi più vicini, lo studio della finanza pubblica trova motivi sistematici di differenzia-
zione nella organica e più frequente considerazione di determinate ipotesi e di fatti tipici. Mi riferisco, da
un canto, all'epoca in cui l'economia era influenzata dalla ipotesi edonistica (studi sulla utilità marginale),
di cui si sono fatte sistematiche applicazioni al campo della finanza pubblica sia pure non sempre felici di
conferire significato ai fenomeni di massa puntando sulla variabile utilitaria sperimentata nello studio della
condotta razionale dei singoli. A questo tipo di indagini si farà riferimento più oltre, sia nel trattare dei ten-
tativi di dare la spiegazione, su base edonistica, dell'intero fenomeno finanziario, sia per le applicazioni allo
studio dei modi e delle uniformità relative che riguardano la ripartizione del carico tributario (imposte pro-
gressive) oppure taluni effetti delle imposte (rimozione dei tributi); e, infine, la preferibilità di talune solu-
zioni di problemi (debito pubblico o imposta straordinaria, alla luce della variabile «utilità», distrutta nei
due casi, rispettivamente) che riguardano la cosiddetta «finanza straordinaria», oppure il prelievo di tributi
di tipi contrapposti (imposte dirette o indirette, rispettivamente, sui redditi e sui consumi), ecc.
Queste sono teoriche impostazioni di problemi che, insistendo su un gruppo di ipotesi aventi per
oggetto un particolare gruppo di fatti52, ancora conservano capacità di spiegare i fatti medesimi. E, benché li
si discuta e critichi, non possono essere sottaciuti gli schemi teorici basati sul cosiddetto principio della «u-
tilità relativa». I nomi di Sax, Mazzola, Conigliani, Ricca-Salemo, De Viti De Marco, Pantaleoni e Barone,
devono essere ricordati relativamente ad un periodo in cui la scienza delle finanze, come economia finan-
ziaria, si imponeva all'attenzione degli studiosi nel mondo, rendendo sempre più logica la creazione di una
disciplina separata dall'economia politica.
c) Un altro punto di vista dal quale si spiega il sorgere di questa specializzazione nel campo della
teoria economica, lo si può profilare, con valore ancora attuale nel progresso scientifico, riguardo alla teoria
dei prezzi.
Senza aderire necessariamente a visioni come quella del De Viti De Marco, che contrappone i casi:
1) di organizzazione pubblica (ad es. statale) monopolistica, con analogia che la riporta ad una impresa pro-
duttrice di servizi pubblici che offra i servizi medesimi a prezzi (tributi) eccedenti i costi; 2) di organizza-
zione cooperativa che offra i servizi senza vantaggio differenziale, per nessuna classe, fra costi e prezzi di
essi, dato che, per ipotesi, costi e prezzi tendono a coincidere, nell'economia della finanza pubblica occorre,
bensì, spiegane prezzi, in senso ampio. Ma essi hanno caratteri diversi, per la loro genesi, da quelli di una
economia di mercato, nei rapporti di scambio fra privati.
Può ammettersi anche l'esistenza di prezzi di mercato per gli enti pubblici che, con i criteri dei pri-
vati, gestiscano patrimoni fondiari, edilizi, industriali, senza immediati o indiretti fini di soddisfacimento di
bisogni (pubblici) della intera collettività. Ma come casi di gran lunga più frequenti, abbiamo i seguenti isti-
tuti finanziari o prezzi in senso ampio, che debbono spiegarsi introducendo ipotesi che differiscono da quel-

__________
51
RICARDO D., Principii dell'economia politica e delle imposte.
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Ossia su variazioni di quantità nei bilanci privati in rapporto a bilanci pubblici e ad attività dei rispettivi enti).
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la di una economia di mercato (53). Sono, appunto, le seguenti categorie logiche (che mirano a spiegare cor-
rispondenti casi ipotetici e storici) consacrate in questi istituti o prezzi della finanza pubblica:
a) prezzi quasi privati, nella dizione acquisita;
b) prezzi pubblici o prezzi politici in senso stretto;
c) «tasse»;
d) contributi;
c) imposte speciali;
f) imposte generali.

Sono categorie che divergono da quelle che gli studiosi di economia politica pura hanno enucleato
avendo presente l'economia di mercato, con privati produttori, scambisti, ecc. operanti in base al loro torna-
conto, come ipotesi, con libere «scelte». I caratteri differenziali di questi prezzi in senso ampio sono stati si-
stematicamente considerati da studiosi che hanno approfondito questo speciale campo logico. Essi hanno
contribuito a dar corpo ad una disciplina che, come scienza delle finanze, a sfondo eminentemente econo-
mico, ha illustrato le divergenze fra prezzi di mercato, nelle varie ipotesi considerate dalla economia pura o
dalla economia generale, e prezzi, corrispettivi. Essi sono istituti diversamente denominati, che sorgono al-
lorché si debba reintegrare l'ente pubblico del costo di servizi pubblici a utilità divisibile e a utilità indivisi-
bile, ripartendolo fra i beneficiari dei servizi come membri delle collettività statali e di enti minori territo-
riali e istituzionali, di diritto pubblico.
Le caratteristiche di codesti «prezzi» saranno considerate nell'individuare gli strumenti delle pub-
bliche entrate, in capitolo successivo.
d) Da un altro punto di vista, la specializzazione scientifica può essere, infine, prospettata per spie-
gare la genesi della scienza delle finanze, quando si consideri detta «scienza» eminentemente per i fonda-
mentali suoi aspetti e per tutti i problemi quantitativi esclusivamente come economia teorica, basata su ipo-
tesi e fatti tipici gravitanti nell'orbita della attività degli enti pubblici o su fatti dell'economia di mercato in-
fluenzati dalla attività finanziaria.
Questa visione si può dire che derivi dagli studi della teoria economica vista come teoria dell'equi-
librio economico.
In particolare faccio riferimento alla visione del Pareto per allargarla ai fini di questo paragrafo. Di
questo autore sono stati visti da Fagiani54 gli «apporti» alla scienza delle finanze anche di recente nell'occa-
sione del centenario della nascita.
Di fronte a quella che, ai suoi tempi, veniva trattata come scienza delle finanze, il Pareto assunse
posizione di critico scettico, sia perché confusa con l'arte di governare o di amministrare, quindi come pre-
cettistica; sia perché molti tentativi teorici gli sembravano atti a ricoprire di apparente logica formulazione,
veri e propri interessi di parte, nella manovra delle entrate e delle spese, o logicamente insufficienti.
Quanto qui espongo per individuare un punto di vista logico può imperniarsi su una visione del Pa-
reto, che ho già richiamato nella edizione del 1944 di queste lezioni (pagg. 28-29 e 248). E’, infatti, consi-
derata l'autonomia della finanza pubblica dalla economia, nel senso di un grado di specializzazione ulteriore
rispetto alla economia come scienza generale e pura.
Infatti la scienza delle finanze, come «economia finanziaria» o ramo di economia applicata, ritengo
possa individuarsi nel pensiero di Pareto solo proseguendo nel suo ragionamento in cui non si fa richiamo
formale alla scienza delle finanze. Tanto più che lo scetticismo, che egli provava per il contenuto «composi-
to» della scienza delle finanze, e il disprezzo per le pretese scientifiche di molti cultori di essa, doveva ne-
cessariamente venir meno nel quadro della visione logica e metodologica che qui si interpreta per dar corpo
alla parte di contenuto veramente scientifico che può trovarsi, nella scienza delle finanze, in quanto econo-
mia finanziaria.
Prendo a riferimento il saggio di Pareto55 su l'Economia matematica, in cui egli, fra l'altro, tratta
delle relazioni fra le quantità che entrano in un sistema economico di cui si determini l'equilibrio (relazioni
che denomina vincoli). Un caso, ad esempio, è dato dai vincoli che stabiliscono rapporti fra i coefficienti di
fabbricazione o di produzione e le quantità prodotte.
__________
53
Quest'ordine di considerazioni fu esposto in E. D'ALBERGO Sul metodo nello studio della finanza pubblica, Rivista
Internazionale di scienze sociali, 1935.
54
FASIANI M., Giornale degli Economisti, mario-aprile 1949.
55
Questo saggio è stato riprodotto nel vol. IV della «Nuova Collana di Economisti».
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«Vi è infine un gran numero di vincoli che derivano dalle leggi fiscali, dalle cosiddette leggi sociali,
dalle misure imposte dai sindacati, ecc....».
«L'economia applicata deve studiarli tutti; l'economia pura trae da questo studio soltanto la nozione
del tipi che le conviene analizzare».
In questa affermazione56, crediamo di individuare un fundamentum divisionis che spieghi la nostra
specializzazione scientifica. Lo studio specifico dei vincoli, contrapposto a quello del tipi (ovvero, se non
andiamo errati, del genere di essi) può dar corpo ad una scienza, che al Pareto conviene denominare «appli-
cata», come approssimazione maggiore al fenomeno concreto per la specificazione dello studio, ad es., dei
vincoli fiscali. Studio che condotto in via ipotetica ed è di teoria astratta, ancora.
La specificazione del vincoli corrisponde anche a quello di estensione numerica dei vincoli, con
l'approssimarsi al fenomeno concreto. In certo senso si può dire anche che la «specificazione» dei vincoli
(rispetto al «genere» tipico considerato in economia pura) implica per se stessa la considerazione di un
maggior numero di vincoli (grado di astrazione).
E' proprio dei casi concreti (paragrafo 25 del saggio di Pareto) il presentare «un gran numero di altri
vincoli dei quali bisogna tener conto». Il Pareto aggiunge: «Vi sono innanzi tutto i prelevamenti a mezzo
dell'imposta» (come si vede genericamente individuata), «e le spese dell'amministrazione pubblica». «Le
funzioni indici per questi incassi e per queste spese (se esistono) sono evidentemente di genere del tutto di-
verso da quello delle funzioni indici per gli individui», si limita ad asserire Pareto.
Cosi che, dicendo che l'economia applicata deve studiarli tutti (57) evidentemente fa questione di
approssimazione teorica al concreto (numero e specie di vincoli). Così la visione di Pareto non si discosta
da quella del De Viti De Marco58. Nella concezione Devitiana l'economia è scienza astratta, in quanto pone
i problemi astraendo dalle altre circostanze che le complicano. L'economia finanziaria «cerca di avvicinarsi
più che sia possibile alla realtà, e quindi si sforza di studiare il fenomeno reale tenendo conto di tutti gli e-
lementi di fatto che lo compongono». Così conferma nei Principii (1934, p. 7).
Con ciò ammette che si tratta, come commento in nota a proposizione parallela del Pareto, di ten-
denza a studiare «tutti» gli elementi che compongono il fenomeno reale al quale l'indagine «cerca» di avvi-
cinarsi.
Da ciò deriva che il concetto di scienza «concreta» per la finanza (che può corrispondere a quello di
economia «applicata» di Pareto), è basato (in contrapposto con quello di scienza «astratta» o economia pu-
ra) su gradi di astrazione logica. L'economia finanziaria astrae in minor misura che non l'economia teorica
o pura o astratta. E ciò perché considera appunto «altre circostanze», trascurate da quest'ultima posizione
scientifica.
Questa interpretazione del concetto Paretiano, di economia «applicata», non solo non sembra arbi-
traria nel farne derivare il campo specifico della economia finanziaria, ma si basa su una differenziazione
metodologica, in generale, ammessa da altri. Vi fa, ad es., riferimento C. Gini (Alle basi della scienza eco-
nomica, cit.). Egli contraddistingue l'economia politica, quale «scienza pura», come quella che studia la
condotta umana in base a certe «ipotesi schematiche». «Interviene poi l'economia applicata a tener conto
delle circostanze per cui la realtà concreta si diparte da tali schemi». E continua: «L'economia applicata,
dunque, non rappresenterebbe solo l'applicazione al caso concreto delle conclusioni generali dell'economia
pura, ma porterebbe anche alla rettifica di tali conclusioni, tenendo conto di fattori che l'economia pura tra-
scura. Perché l'economia applicata avesse valore scientifico, converrebbe però che, della azione di tali fat-
tori, si conoscessero le leggi», ecc.
Si traducano nel linguaggio Paretiano che qui si accoglie, le espressioni che ho sottolineato (in cor-
sivo) e si troveranno, mutatis mutandis, equivalenze di criteri differenziatori, che sono anche sulla scia dei
concetti qui richiamati del De Viti De Marco, nell'aspetto logico e anche nell'espressione formale, e che le-
gittimano logicamente la mia deduzione dell'oggetto dell'economia finanziaria dalla visione dell'equilibrio
economico generale.
Con la specificazione dei vincoli e con l'abbracciare tendenzialmente tutti i vincoli, credo di aver
completato da questo punto di vista la contrapposizione dei concetti di economia pura ed applicata o di
scienza astratta e concreta, quali sono note dalle classiche opere metodologiche.
__________
56
E’ bene notare che, addirittura, Walras, l'ideatore dell’equilibrio economico generale come schema interpretativo
dei fatti, faceva astrazione dalle funzioni dello Stato, dai servizi che rende e dai bisogni che ha».
57
S'intende, come tendenza.
58
Vedi la monografia: Carattere teorico dell'economia finanziaria (Roma, 1888).
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Questa mia interpretazione esposta in sintesi nelle lezioni pubblicate nel 1944, sembra rafforzata
dalla seguente visione, pure da me ricordata nelle mie lezioni citando il Manuale dello stesso Pareto, in me-
rito alla suddivisione del compito delle scienze per il loro oggetto (pagg. 28-29 e 248, ed. 1944 del mio
Corso).
Trattando dell'equilibrio economico in generale (Manuale n. 27, p. 335) scrive fra l'altro (59): «Nel
concreto, le entrate degli individui sono lungi dall'avere solo per origine i beni che cedono per la produzio-
ne. Il debito pubblico degli stati civili è enorme; una parte solo minima dei denari di quel debito ha servito
per la produzione e spesso malamente. Gli individui che godono i frutti di quel debito non si possono dun-
que in alcun modo considerare come persone che abbiano ceduti beni economici per la produzione. Simili
considerazioni si debbono fare per gli stipendi della burocrazia, ognora crescente, degli Stati moderni; per
le spese per la guerra, la marina, e per molte spese di lavori pubblici. Qui non si ricerca menomamente se e
come quelle spese sono giovevoli alla società, ed in qualche caso ad essa indispensabili; si osserva solo che
l'utilità loro è di genere diverso di quella che direttamente segue dalla produzione economica».
(n. 28) «D'altra parte, le spese degli individui sono lungi dall'essere ristrette ai beni economici che
comperano. Le imposte ne sono una parte notevole.
Con calcolo assai grossolano, ma che non si discosta forse molto dal vero, si stima che in parecchi
paesi dell'Europa, circa il 25 per cento dell'entrata degli individui sia preso dall'imposta. La teoria esposta
or ora non avrebbe dunque valore che per tre quarti al massimo delle somme che costituiscono l'entrata to-
tale di una nazione».
(n. 29) «E' facile modificarla in modo da tener conto dei fenomeni di cui abbiamo fatto cenno. Ba-
sta perciò separare nell'entrata la parte che ha origine da fenomeni economici, da quella che vi è estranea, e
così pure per le spese».
(n. 30) «La parte dell'entrata lasciata agli individui, viene spesa da essi secondo i propri gusti; e, per
la sua ripartizione fra le varie spese, vale la teoria già esposta per l'equilibrio riguardo ai gusti. La parte pre-
levata dall'autorità pubblica viene spesa con altri criteri, che non spetta alla scienza economica di indaga-
re. Questa deve dunque supporre che tali criteri figurino tra i dati del problema da risolvere. Le leggi della
domanda e dell'offerta seguiranno dalla considerazione di quelle due categorie delle spese. Se se ne consi-
derasse una sola, la divergenza col fenomeno concreto potrebbe essere considerevole. Per esempio, pel fer-
ro e per l'acciaio, le domande dei governi investono una parte notevole della produzione».
(n. 31) «Riguardo all'equilibrio degli ostacoli, occorre tener conto che la spesa delle imprese non è
eguale, come precedentemente, all'entrata totale degli individui, ma ne è solo una parte, poiché il rimanente
ha altre origini (debito pubblico, stipendi, ecc.). La ripartizione della parte volta a comperare i beni trasfor-
mati dalla produzione è determinata dalla teoria dell'equilibrio riguardo agli ostacoli. La ripartizione dell'al-
tra parte delle entrate è determinata da criteri che, come nel caso analogo precedente, sfuggono alle indagi-
ni della scienza economica, e che perciò debbono aversi da altre scienze e figurare qui tra i dati del proble-
ma». (Cito l'ediz. del 1909).
Si fermi l'attenzione anzitutto sui riferimenti che ho fatto al saggio su l'Economia matematica che
riflette il pensiero Paretiano in tema di divisione del lavoro fra le varie discipline; e senza alcun dubbio si
ha la prova della ragione logica che spiega la costituzione di una specializzazione della economia teorica,
fra l'altro, con il compito di studiare l'influenza dei vincoli introdotti dalle «leggi fiscali» nell'equilibrio e-
conomico.
La contrapposizione fra economia «pura» ed economia «applicata», è necessariamente legata, come
si è visto, alla distinzione fra tipo (genus) di vincoli e caratteristiche particolari (species) e numero dei vin-
coli medesimi che la teoria (ma sempre in senso ipotetico scientifico e non in senso descrittivo) studia, in
omaggio alla specializzazione che giustamente il Pareto individua con le sue razionali visioni.
Già da questo punto di vista mi sembra dimostrata questa ragione scientifica della- relativa auto-
nomia della scienza delle finanze come economia («applicata») ai fenomeni della finanza pubblica o avente
per oggetto siffatti fenomeni.
Ma anche nei passi citati del Manuale si ha una forte probabilità di avere individuato l'oggetto di-
stinto e relativamente autonomo che il Pareto assegnava alla scienza delle finanze, anche se non formal-
mente qualificata fra le «altre scienze» a cui demandava il compito di studiare: a) se e come le spese pub-
bliche siano giovevoli o indispensabili alla società; b) il modo indiretto in cui le spese pubbliche sono utili
alla produzione, con utilità di genere diverso da quella dei beni economici che entrano nella produzione; di-
__________
59
Sottolineo, in corsivo, le espressioni che interessano da questo punto di vista.
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versità che spiegherebbe la necessità di altra disciplina che ne faccia oggetto proprio di indagine; c) le leggi
o uniformità che riguardano il 25 per cento dell'entrata degli individui assorbita dalle imposte, dato che, se-
gnando i limiti della economia politica, la teoria esposta (da Pareto) non avrebbe valore che per i tre quarti
delle somme che costituiscono l'entrata di una nazione; d) i criteri con cui viene spesa la parte dell'entrata
prelevata dalla autorità pubblica, criteri, aggiunge Pareto, che non spetta alla scienza economica di indaga-
re; e) i criteri con cui è ripartita l'altra parte delle entrate degli individui che non è eguale alla spesa delle
imprese e che ha altre origini (fra cui il debito pubblico), ripartizione di entrate che segue criteri che debbo-
no aversi da «altre scienze».
C'è sufficiente materia per abbracciare un intero corso di scienza o economia finanziaria, in questa
suddivisione dei compiti delle scienze, necessaria per il loro progresso.
Il Pareto rinuncia, poi, a ricercare (n. 27 su citato del capitolo VI del Manuale) se e come le spese
pubbliche (per gli stipendi della burocrazia, la marina, i lavori pubblici ecc.) «sono giovevoli alla società»,
pur facendo intravedere una utilità indiretta di genere diverso rispetto a quella che direttamente segue dalla
produzione economica. Ebbene, fin dal 1887, Pantaleoni in un celebrato saggio (Teoria della pressione tri-
butaria) poneva in logica relazione, non soltanto i tributi globalmente considerati o, per dirla con il Pareto,
la quota (nell'esempio suo, 25 per cento) delle entrate degli individui presa dall'imposta: ma istituiva una re-
lazione ragionata fra le entrate pubbliche, in quanto prelevate dai contribuenti, e «1'importanza delle resti-
tuzioni che i medesimi ricevono dalla attività dello Stato». Nell'affrontare codesto problema di valutazione
della utilità sociale della funzione statale, il Pantaleoni si sarebbe meravigliato di saper la propria opera non
classificata fra gli studi che vertono nel campo della scienza con gradi di specializzazione relativi ad ap-
prossimazioni al concreto o a specificazioni di ipotesi che la teoria generale economica rinunci ad analizza-
re per ragioni di divisione del lavoro scientifico.
E proprio nelle Lezioni di economia politica, di poco anteriori alla pubblicazione del Manuale del
Pareto (cioè del 1905-1906) generalizzando in tema di utilità dei servizi pubblici, il Pantaleoni avanzava ar-
gomentazioni che autorizzavano a far considerare i servizi resi dalla organizzazione sociale, addirittura, fra
i «fattori» della produzione.
Si pensi anche alla impostazione data dal Pantaleoni al problema degli effetti dell'imposizione, nella
celebrata Teoria della traslazione dei tributi (1882), basata su una visione atomistica ovvero riferita soprat-
tutto a singoli rapporti di scambio influenzati dal fatto fiscale, e che ora in termini di macrodinamica ab-
braccia la manovra di notevoli quantità o quote di potere d'acquisto sull'intero mercato, ponendo la scienza
delle finanze in linea con le considerazioni di fenomeni di massa studiati dalla odierna teorica economica.
Dopo questi accostamenti logici che mirano ad illustrare e precisare il vero pensiero del Pareto su
quello che egli avrebbe visto implicitamente come oggetto di uno studio del «vincolo» costituito dalle leggi
fiscali o dei problemi indicati nei passi del Manuale sopra riportati, è da negare assolutamente che egli ab-
bia inteso sottrarre ad una scienza delle finanze, se razionalmente intesa, il compito di affrontare indagini
quantitative condotte con il metodo dell'economia politica (generale).
In conclusione, in modo implicito Pareto considerava la scienza delle finanze una scienza economi-
ca applicata, intesa nel senso di ulteriore specializzazione delle indagini di carattere economico e teorico.
d) β - Tornando alla citata visione Paretiana che concerne la contrapposizione fra nozione dei tipi di
vincoli e specie di essi, si può dire che il passo avanti che compie il cultore di economia finanziaria nello
«specificare», può essere messo in evidenza simbolicamente, anche ammettendo che il concorso delle ini-
ziative e spese statali, con l'offerta di servizi pubblici, sia paragonabile, come oltre ricordo, alle «economie
esterne» in senso Marshalliano. Invero, per astrazione o per convenzione, si potrebbe dire che, indiretta-
mente, i servizi pubblici entrano nelle combinazioni delle aziende o imprese singole, determinando i limiti
quantitativi della produzione e il livello dei costi medi.
Si è discusso che si possa usare il termine di fattore produttivo per indicare la funzione dello Stato
nei confronti dei processi produttivi. Si è trovato più plausibile considerarla come «presupposto» della pro-
duzione, istituendo una relazione indiretta fra servizi pubblici e volume (e costo) della produzione.
Per convenzione, basata sulla ricordata concezione del Pantaleoni, si è tentato di esprimere, tutta-
via, con la dizione «fattore della produzione», la funzione che lo Stato assolve nei confronti dei processi
produttivi con la produzione cioè dei pubblici servizi. Ciò che interessa considerare, comunque, al di sopra
delle questioni di parole, è:
a) che le imprese, per ipotesi, tengano conto, nel combinare i restanti fattori, dell'esistenza e della
strumentalità del fattore statale (offerta dei servizi pubblici);

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b) che specialmente una parte di detti servizi, ipoteticamente, possa essere richiesta e proporzionata,
nelle combinazioni, per «scelta» degli imprenditori che determinino quantum utilizzabile e spesa che si in-
tenda compiere ai prezzi noti «a priori» (prezzi pubblici, tasse) commisurati, in certo modo, al quantum di
consumo differenziale di servizi pubblici.
c) che tendenzialmente, in sede di rimborso del costo di servizi «indivisibili», la somma versata allo
Stato, pro-rata, dalle imprese a titolo tributario, corrisponda alle spese generali di cui una quota almeno co-
stituisca l'equivalente di spesa o corrispettivo per il fattore o il presupposto costituito dai servizi pubblici u-
tilizzati, per presunzione della loro strumentalità, nella attività produttiva delle imprese medesime.
Si faccia riferimento alla cosiddetta «equazione della tecnica» in cui Q sia la quantità prodotta, fun-
zione dei fattori che concorrono a determinarla: x, y, z, dove x indichi o misuri materie prime da trasforma-
re, y lavoro manuale, z servizi di capitali: nulla impedisce (nell'ambito delle avvertenze fatte e pur sapendo
che le «economie esterne» influenzano indirettamente le combinazioni produttive), che si faccia figurare,
per equivalenza, il fattore convenzionale s, come quantità di servizi pubblici che entri nella combinazione,
per decisione delle singole imprese o per corrispondente interpretazione di esigenze della produzione per
iniziativa e con giudizio statale. Purché si ipotizzi che ne tenga conto, l'impresa, regolando la combinazione
delle rimanenti quantità di fattori, in funzione della quantità utilizzabile di servizi pubblici strumentali, ri-
chiesti o subìti.
Cosi sia lecito scrivere la funzione

Q = Q (x, y, z, s, ....) [I]

Non sembra grande, in prima approssimazione, l'arbitrio di questa assimilazione del fattore, come
altri dice «sui generis» servizi pubblici, nella equazione della produzione. E' una traduzione in termini spe-
cifici ed interni, nelle combinazioni aziendali, dell'influenza delle «economie esterne», determinate secondo
il Marshall, nella sua esemplificazione, da servizi pubblici quali: comunicazioni, vie e ferrovie, telegrafo,
stampa, sicurezza di rifornimenti di materie prime prevenendo guerre ecc. (Principii, pagg. 346-47, edizio-
ne. Biblioteca degli Economisti.).
Anche senza fare riferimento esplicito alle «economie esterne», il De Viti De Marco tiene conto del
«momento» in cui i beni pubblici, «dopo che sono stati prodotti, tornano ad influenzare la produzione, lo
scambio e il consumo dei beni privati e fanno parte, per questa via, dell'equilibrio economico generale». In-
fatti, egli scrive, «diverso è l'equilibrio della produzione e degli scambi privati, a seconda che si ha una
buona o una cattiva viabilità, una efficace o non efficace difesa della proprietà, una politica economica pro-
tettiva o liberista e via dicendo». Naturalmente l'influenza relativa dei beni pubblici è economicamente rile-
vante da questo punto di vista, se si fa l'ipotesi che le imprese «diversamente utilizzino i servizi pubblici»,
ipotesi atta a spiegare gran parte di fenomenica concreta (Principii, ediz. 1934, p. 22, edizione Biblioteca
degli. Economisti).
Questo mio riferimento alle economie «esterne», rispetto alla organizzazione interna delle imprese
ovvero dovuta alla organizzazione del mercato (per es., ad intervento dello Stato), oltre che alla concentra-
zione della produzione ed all'aumento di questa su vasta scala, non è privo di contenuto storico e, comun-
que, in via ipotetica è considerato normale. Infatti il Marshall, non soltanto ammette che l'azienda «rappre-
sentativa» debba poter ottenere in misura «normale» le economie interne ed esterne (p. 347) ma aggiunge
(p. 435) che «sovente le economie interne che ogni azienda può procurarsi con la propria organizzazione
sono ben piccola cosa, in confronto alle economie esterne risultanti dal progresso generale dell'ambiente
industriale». E fra gli esempi di fonti di siffatte economie ricorda ancora l'apertura di ferrovie od altri mezzi
di comunicazione con mercati esistenti, in codesto nuovo richiamo al concetto, che non riguarda, quindi,
ipotesi marginali o trascurabili.
Prima di citare P. Samuelson, rappresentativo per le visioni nord-americane della spesa statale ri-
spetto alla spiegazione della condizione di massima occupazione di fattori produttivi e di reddito nazionale,
ricordo che G. Demaria (Lo Stato sociale moderno, Cea, Milano, 1946, p. 73 e segg.) ha considerato lo Sta-
to «fattore di produzione», perché lo Stato «crea un ambiente istituzionale per cui si avvantaggia la produ-
zione collettiva», o perché «è in grazia dell'organizzazione pubblica che vantaggi e godimenti o servizi
pubblici possono realizzarsi».

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«Spesso parliamo lungamente di spesa statale in astratto, come se essa fosse semplicemente una
sottrazione dalla produzione nazionale. Effettivamente la definizione statistica del prodotto nazionale è
formulata in modo che la spesa statale in beni e servizi, diviene un modo di usare e produrre le quantità e-
conomiche. Non è sempre (una via) un modo ideale più di quanto sia la produzione ad opera del settore pri-
vato dell'economia. Ma è una via di cui non potremmo fare a meno e che probabilmente continuerà a svi-
lupparsi e a migliorare in futuro». Così Samuelson pensa dello Stato. (Economics, N. J., McGraw-Hill,
1948, p. 158).
Una individuazione esplicita dei servizi pubblici per l'apporto di «economie esterne», come circo-
stanza che fa diminuire il costo della produzione complessiva di un ramo di industria composta da più im-
prese, è stata, di recente, compiuta dal Bresciani Turroni, con riferimento al contributo della funzione dello
Stato. Questo «vedendo sorgere con essa (industria) un interesse nazionale, ne curerà e faciliterà lo sviluppo
con speciali provvedimenti (nuove strade, ferrovie, ampliamento di porti, ecc.), la cui spesa è sopportata
dall'intera nazione». (Corso di economia politica, vol. I, Milano, Giuffrè editore, 1949, p. 239). Un tale
modo di ripartizione della spesa sostenuta dallo Stato (specialmente dati gli esempi fatti, che danno luogo
ad integrazione di costi statali anche con prezzi pubblici, tasse e contributi, oltre che imposte generali e
speciali) può ammettersi in prima approssimazione nella visione del Bresciani, che è di massima.
Con ciò l'economista inquadra nello schema economico generale, concezioni che erano state espo-
ste da cultori di economia finanziaria, quale, ad es., l'Einaudi, quando afferma: a) Mercè l'imposta lo Stato
crea l'ambiente giuridico e politico nel quale gli uomini possono lavorare, organizzare, inventare, produrre.
b) Uomo e Stato producono insieme, attraverso un complicato meccanismo, un flusso perenne di nuovi be-
ni: quel flusso diminuirebbe se facesse difetto la maniera di umano operare individuale, quella collettiva vo-
lontaria o quella collettiva coattiva.
Pensieri analoghi si leggono, oltre che nel citato Pantaleoni, in De Viti De Marco, in Borgatta ed al-
tri, in Italia, circa la strumentalità della funzione statale per la produzione privata (60).
Il simbolo s, che in via convenzionale e provvisoria individua nella formula [I] (la quale esprime
l'equazione della produzione o della tecnica) i servizi pubblici che entrano in combinazione con i privati
servizi del lavoro, dei capitali e con le merci da trasformare, in questo schema è generico. Per contrapporlo
alla specificazione che può farne in via di ipotesi il cultore di finanza, figura nella [I].
Sono problemi specifici di economia finanziaria:
A) l'analisi dei rapporti fra distribuzione dei vantaggi e misura relativa in cui singoli, gruppi sociali,
categorie economiche reintegrano il costo dei servizi pubblici;
B) la disamina degli effetti economici indiretti delle spese che si traducono in redditi immediati di
gruppi, e degli effetti di servizi con utilità economica (oggettiva) immediata e determinabile nei confronti di
singoli (utenti) e gruppi di membri della collettività (lavori pubblici, difesa militare, ecc.);
C) la considerazione di servizi che non si traducono necessariamente in spese statali e, come la fun-
zione monetaria (svalutazioni, rivalutazioni) o doganale (protezioni), determinano combinazioni produttive

__________
60
Dello Stato «come fattore economico» tratta ad es. un tecnologo ed economista ad un tempo, significativo prepara-
tore di imprenditori V. ZIGNOLI, Tecnica della produzione, Hoepli, 1950 allorché illustra ed enumera esempi di inter-
vento statale, attingendo alla esperienza, e quando elenca casi di: prestiti statali con contributo in tema di interessi pas-
sivi; indennità di disoccupazione; lavori pubblici; rivalutazione di prodotti agricoli; sovvenzioni ad agricoltori; garan-
zie di interessi ai creditori ipotecarii; assistenza o difesa dei consumatori o del loro potere d'acquisto aumentando an-
che le possibilità economiche della produzione». Sono forme nuove in parte di economie esterne. In questi termini,
addirittura, vengono denominati altrove R. WEINMANN 1900-1950 - Evolution des problèmes de l'entreprise, in Travail
et Méthodes, aprile 1950, Parigi, tradotto nelle Note di Economia aziendale a cura della Associazione fra le società per
azioni, settembre 1950 i riflessi del dirigismo statale e i poteri illimitati dello Stato, il quale viene considerato anche
per il fatto, immediatamente negativo per l'impresa, del prelievi fiscali. «In ogni istante un avvenimento al quale l'im-
prenditore non ha preso alcuna parte, al quale non può fare nulla, nè quando minaccia nè quando è compiuto, rischia di
sopravvenire per sconvolgere il suo compito o distruggere la sua opera». A questa visione pessimistica, diciamo cosi,
del rischio che, con entrate e spese, determina lo Stato, modificando le combinazioni produttive e i calcoli della ge-
stione, in termini più obiettivi fa precedere altra affermazione, codesto autore. Infatti «il comando dell'impresa modana
e l'efficacia degli atti di direzione esplicano la loro funzione con intervento più delicato, a causa delle molteplici arti-
colazioni interne ed esterne all'impresa, che procurano ad ogni azione una eco ed tin rimbalzo spesso imprevisti».
Sembrano, codeste, visioni aggiornate del modo di operare delle economie esterne, di cui si discorre dai tempi del-
l'inserimento di esse nel calcolo economico ed oggi anche in senso probabilistico.
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e vantaggi differenziali, che l'imposta incide per non farli consolidare presso coloro che siano immediata-
mente e strumentalmente avvantaggiati;
D) l'analisi degli effetti della spesa pubblica sul tasso di interesse, sui costi di produzione, sul reddi-
to nazionale e sulla sua ripartizione;
E) l'analisi degli effetti della spesa pubblica sulle curve di domande private preesistenti, con conse-
guente sostituzione di produzioni stimolate dallo Stato a quelle che, in assenza della funzione statale, si sa-
rebbero avute sul mercato;
F) la visione delle ipotesi di sostituzioni di beni e servizi pubblici di consumo diretto che presenta-
no una ofelimità superiore ai beni e servizi privati che sarebbero stati dai contribuenti goduti in assenza del-
l'imposta;
G) la valutazione, ai fini anche della spiegazione della localizzazione delle imprese, della pressione
comparata degli oneri globali vigenti in via ipotetica e storica in contrapposti mercati nazionali;
H) il confronto fra utilità obiettiva di spese per la collettività a lunga scadenza e costi attuali (gene-
razione presente), per la stessa;
I) la modificazione del rischio delle imprese, anche in termini di aspettative di oneri e di vantaggi
della azione statale (prelievi e spese);
L) lo studio degli effetti, in generale, del fatto finanziario sull'equilibrio economico particolare (sin-
goli mercati, settori, gruppi di imprese, ecc.) e sull'equilibrio economico generale, in funzione del quantum
e della specie delle spese e dei servizi statali.
Tutto questo spiega come dalla generica individuazione del fattore fiscale nell'equazione della tec-
nica, si debba passare alla specificazione che si impone, sia che si vogliano analizzare i problemi in ipotesi
statica, sia, in particolare, con l'orientarsi dell'economia verso la considerazione della strumentalità della fi-
nanza pubblica per la determinazione dell'equilibrio in rapporto alle oscillazioni cicliche.
Se traducessimo in simboli la visione dell'equilibrio economico, limitato qui al campo dell'offerta,
stando aderenti alla concezione dell'economia pura, in cui del vincolo fiscale si ha l'indicazione del tipo o
del genere, si potrebbe così prospettare l'influenza generica del fatto fiscale. Ad esempio, dalla

pa = Ca pc + La pl [*]

dove pa è il prezzo del prodotto, Ca a La sono gli apporti dei servizi produttivi del capitale (nella terminolo-
gia del Barone) e del lavoro e pc, pl i prezzi di questi ultimi, con l'intervento generico del vincolo tributario,
si perviene alla seguente modificazione dei valori della espressione [*]:

pa ± ∆ pa = T + Ca (pc + ∆ pc) ± La (pl + ∆ pl)

dove T rappresenta genericamente il prelievo tributario e ∆ pa, ∆ pc, ∆ pl le variazioni intervenute, per causa
fiscale, nel prezzo del prodotto, del capitale e del lavoro, rispettivamente.
Il fattore finanziario, del pari, nel campo della produzione potrebbe figurare, ad esempio, nell'equa-
zione che esprime il livellamento delle produttività marginali (ad es. P, N, M, Q,….. corrispondenti a quan-
tità di x, y, z, s, fattori su considerati nella [I] e i prezzi r, n, m, t,... relativi).
Se, cioè, fosse possibile conoscere a priori il prezzo di tutti i servizi pubblici e il problema finanzia-
rio non consistesse, appunto, nel cercare di individuare i criteri di ripartizione del costo del servizi pubblici
indivisibili, si potrebbe far figurare nella seguente equazione anche il rapporto fra produttività marginale
dei servizi pubblici (Q) e il prezzo del quantum di essi che entri in combinazione strumentale nella produ-
zione. Per contro, figura per assurdo detto rapporto accanto a quelli che riguardano altri beni e servizi nel-
l'equazione che esprime il livellamento delle produttività marginali ponderate ovvero l'eguaglianza del rap-
1
porti fra prodotti marginali dei vari fattori e i prezzi di questi ultimi, con il rapporto , in cui p è il prezzo
p
del prodotto:

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1
= P = N = M = Q … [II]
p r n m t

Ma l'analisi della economia finanziaria, pur limitandosi, ad es., ai primi quattro rapporti (escluden-
do, per quanto precede, Q ) può individuare logicamente l'effetto della strumentalità dei servizi pubblici e
t
dei prezzi imposti di cui si occupa l'economia della finanza pubblica, oltre che in una variazione di p:
I) in una variazione di r, n, m, in funzione di incrementi di imposte che siano state commisurate al
prezzo di merci o materie prime (x), del lavoro (salari) (y), di interessi sui capitali impiegati (z) e, per tra-
slazione, siano stati riversati sui produttori che orientino la propria condotta secondo la logica del livella-
mento delle produttività marginali;
II) considerando l'effetto sia dei servizi pubblici, sia, parimenti, di imposte prelevate a carico del-
l'imprenditore che proceda alle combinazioni produttive, nel senso di variazione dei numeratori dei rapporti
che figurano nella [II], cioè di P, N, M.
Detta modificazione di produttività può essere arrecata da imposte ipotizzate come segue, specifi-
cando il vincolo fiscale, per ciò che riguarda il prelievo tributario:
a) k, ovvero come una costante, qualunque sia la quantità prodotta (come nel caso ipotetico di u-
n'imposta sulle concessioni governative, ad es. per l'autorizzazione ad iniziare un processo economico pro-
duttivo o come tassazione di brevetto da utilizzare, o per la apertura di un negozio di vendita di merci, ecc.);
b) ovvero del tipo kq, come imposta sulle singole quantità prodotte (un tanto k fisso per q: ad es.
per quintale, ettolitro, ecc.);
c) come imposta di tipo tp, cioè di imposta t commisurata percentualmente al prezzo (p) della pro-
duzione. E' il caso dell'imposta sui consumi o sulle vendite, in termini monetari, percentuale ad valorem.
Il lettore vedrà quanti teoremi e problemi sorgano dalla specificazione del «vincolo tributario», a
seconda che si ipotizzi l'uno o l'altro dei vincoli qui prospettati schematicamente e che, quantitativamente,
potrebbero equivalersi per l'influenza o la rispettiva incidenza sulle quantità P, N, M,...; r, n, m,... che figu-
rano nei numeratori e nei denominatori del rapporti della [II], (influenza indiretta di t).
d) γ - Se si lascia lo schema della produzione quale è considerato in economia pura, e si ferma l'at-
tenzione su una delle equazioni che essa ha pure elaborato e da cui risulta determinato l'equilibrio del con-
sumatore, si trova, ad es., che un'imposta può essere ipotizzata:
1) come riduzione del reddito spendibile monetario;
2) come riduzione di potere d'acquisto del reddito monetario. dato.
I) Sia:
R0 = p1 x1 + p2 x2 - p3 x3 + ….. + pn xn [III]

l'equazione con la quale (nel determinare, con simultanee altre equazioni, l'equilibrio del bilancio del con-
sumatore) si esprime che il soggetto spende tutto il suo reddito. Rispettando la condizione posta da detta
eguaglianza [III], il cultore di economia generale determina i valori di x1, x2, x3 ….. xn, che attribuiscono va-
lore massimo alla funzione-indice di ofelimità:

U = U (x1, x2, x3 ….. xn).

Supponiamo che il reddito del soggetto subisca una diminuzione nella misura della quantità mone-
taria T (che simboleggia, nella ipotesi che io avanzo per i fini di questo paragrafo, un tributo direttamente
prelevato dal reddito R), di modo che sia R1 = R0 - T. Il problema di economia pura consiste nel determinare
le variazioni non uniformi di x1, x2, x3…..xn, in funzione della elasticità delle curve di utilità marginale ri-
spettiva, che soddisfino la eguaglianza del tipo [III], quando ad R0 sia stato sostituito R1, in conseguenza del
qui ipotizzato prelievo tributario, direttamente dal reddito a disposizione del soggetto.

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2) Ma una riduzione in via di tendenza equivalente (negli effetti complessivi sul bilancio del con-
sumatore) nella espressione monetaria, da R0 a R1 può aversi in termini di diminuzione del potere di acqui-
sto a disposizione del soggetto allorché faccia domanda di x1, x2, x3 ….. xn.
Tale riduzione di potere d'acquisto equivalente, almeno tendenzialmente, a quella diretta monetaria
su ipotizzata nella misura T, può risultare, da una variazione di p1, p2, p3…..pn dovuta ad aggiunta ad essi di
un tributo, ad es. non uniforme quantitativamente, del tipo kq (quale si è visto in precedenza come simbolo
di imposta specifica, pari ad un tanto per unità di misura fisica: quintale, ettolitro, ecc.).
Talché sia:

R0 = (k1 + p1) x'1 + (k2 + p2) x'2 + (k3 + p3) x'3 +…..+ (kn + pn) x'n [IV]

in cui gli adattamenti della spesa e le variazioni dei valori delle x1, x2, x3 ….. xn, rispetto ai valori che esse
avevano nella [III], siano tali da corrispondere, globalmente, per ipotesi, a quelle che erano compatibili con
le modificazioni della [III], quando da R0 si era ridotto ad R0 - T = R1 il reddito monetario a disposizione del
soggetto.
Anche la logica di codeste variazioni di quantità domandate in funzione di una variazione dei prezzi
(fermo rimanendo, in moneta, R0) viene spiegata dalla teoria che va sotto la denominazione di economia
politica (pura).
3) Ma la «scelta», di iniziativa statale, di un tipo di vincolo tributario rispondente, rispettivamente,
a T o a kq, cioè a tributo direttamente prelevato dal reddito oppure prelevato sotto forma indiretta di mag-
giorazione dei prezzi dei beni alle cui unità fisiche sia commisurato, e fra cui si ripartisca il reddito all'atto
del consumo, non è indifferente per lo Stato e per il soggetto ipotizzato, come edonista.
Infatti, un problema che sorge nel campo delle ricerche vertenti, a guisa di approssimazione ulterio-
re nella specializzazione scientifica, nel campo della economia della finanza pubblica (o della parte più ri-
gorosa, anche perché quantitativa, della scienza delle finanze), problema che si può dire discusso da quaran-
t'anni ed ancora aperto per certi aspetti, può impostarsi in questi termini.
Se, cioè, a parità di prelievo per lo Stato, ovvero nell'ipotesi dell'imposta diretta sul reddito moneta-
rio per l'importo T = k1 + k2 + k3 +…..+ kn, imposte rispettivamente commisurate alle quantità fisiche (x1, x2,
x3…..xn), il diverso atteggiarsi, qui proposto, del vincolo tributario (imposta diretta o indiretta), sia compa-
tibile con eguale ofelimità totale del soggetto. E' un teorema che si trova nelle trattazioni di economisti,
bensì, ma che diano corpo ad una sistematica analisi di ipotesi e a casistica ipotetica specifica della legisla-
zione fiscale.
Il vincolo può essere del tipo c) [del paragrafo d) β che precede], ovvero indicativo di imposta ad
valorem espressa con i simboli: t1 p1, t2 p2, t3 p3,….. tn pn, e può ipotizzarsi eguale, globalmente, a T come
prelievo.
Questa ulteriore specificazione del vincolo fiscale fa reimpostare, da questo punto di vista, il pro-
blema della identità (o meno) di sacrificio di natura psicologica o di riflessi nel campo dell'ofelimità, del
prelievo di pari quantità di provento monetario, rispettivamente, attraverso imposta diretta T ovvero impo-
sta indiretta ad valorem ripartita attraverso commisurazione al prezzo delle quantità x1, x2, x3…..xn, consu-
mate. Talché sarebbe:

R0 = (I + t1) p1x''1 + (I + t2) p2x''2 +…..+ (I + tn) pnx''n [V]

ovvero, nel caso di aliquota ad valorem unica per tutte le merci

R0 = (I + t) (p1x'''1 + p2x'''2 +…..+ pnx'''n) [VI]

Anche questo, come si vedrà, è problema di economia della finanza pubblica condotto ad opera di
cultori, metodologicamente, di economia pura, che vogliano procedere ad approssimazioni al concreto at-

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traverso la specificazione del vincolo fiscale, che in prima ipotesi si era considerato come determinante (T)
la riduzione diretta del reddito monetario da R0 a R1.
4) A sua volta T, nell'eguaglianza che può porre il teorico dell’economia politica, e che abbiamo,
genericamente, considerato come prelievo diretto di tributo dal reddito a disposizione del soggetto, può ipo-
tizzarsi come:
d) tr ovvero come quantità percentuale fissa per ogni ammontare di reddito netto, percepito dal
soggetto contribuente;
e) atr cioè come quantità crescente con il crescere del reddito netto globale a disposizione del sog-
getto contribuente.

Dalla specializzazione o specificazione, secondo d) ed e), del vincolo tributario, nascono problemi
di economia della finanza pubblica, che, come si vedrà, danno corpo alla spiegazione: degli effetti della
scelta di imposte proporzionali o progressive, in termini di utilità sacrificate; di modificazione della distri-
buzione dei redditi esistenti prima della introduzione del vincolo rispettivo, fiscale; di modificazione nei
fatti di produzione e accumulazione del reddito (risparmio e capitalizzazione) ecc.; di variazioni di prezzi
supposti vigenti su dati tipi di condizioni di mercato; di variazioni di reddito prodotto nel senso che il vin-
colo induca a moltiplicare gli sforzi o ad abbandonare l'attività produttiva; del perché si colpisca il reddito
netto, il prodotto lordo, le rendite differenziali, ecc.
I problemi si complicano introducendo l'ipotesi di simultanea fecondità varia della spesa pubblica.
Questi, per grandi linee, sono modi di impostare il logico passaggio per gradi di specializzazione
scientifica, dalla economia pura come teorica generale del fenomeno economico che conferisce contenuto
all'insegnamento della disciplina che attualmente reca la denominazione «economia politica», alla econo-
mia della finanza pubblica, condotta bensì con il metodo e la logica della teoria pura, ma che sorge dalla
specificazione dei vincoli fiscali o tributari, di cui si è posta in evidenza, a titolo di esemplificazione, una
casistica ipotetica.

IX.

LIMITI DELLA DIMOSTRATA RELATIVA AUTONOMIA


DELLA "SCIENZA DELLE FINANZE, DALLA ECONOMIA POLITICA.
Ipotesi di equivalenza “quantitativa” fra vincolo fiscale e altre
relazioni fra fattori economici anche nei fenomeni di "massa.

I) Nel 1939, quando già sotto la pressione delle fluttuazioni economiche del periodo 1929-35, gli
economisti avevano cercato di aggiornare i loro schemi per spiegare i movimenti del sistema economico e
si discutevano già da qualche anno le idee del Keynes, avevo affermato che non era necessaria l'autonomia
dello studio del fenomeno finanziario, nell’ambito di schemi di cosiddetta «macrodinamica». Autonomia
che, invece, ho dimostrato per lo schema generale statico dell'equilibrio economico, nel precedente capitolo
VIII, riprendendo miei precedenti scritti (61).
Notavo come, di solito, si ragionasse, da parte degli economisti, di variazioni nell'ammontare glo-
bale (indifferenziato), del provento fiscale coattivamente prelevato dall'ancor sussistente economia di mer-
cato, e speso ad iniziativa degli enti pubblici. «Non si può mettere in dubbio a priori, la inutilità di una se-
parazione dell'indagine finanziaria da quella economica, dato che le leggi di variazione dovute all'interfe-
renza del fatto fiscale - scrivevo - non differiscono da quelle di variazioni di altre quantità del sistema in
movimento, alle quali le variazioni delle quantità finanziarie, di solito, sono fatte equivalenti .

__________
61
Si vegga: D'ALBERGO E., Il problema finanziario e le nuove teorie economiche, «Giornale degli Economisti» mar-
zo-aprile 1939, in cui tenevo conto dei tentativi di alcuni studiosi, di dare la spiegazione delle fluttuazioni dell'intero
sistema economico (donde la denominazione di «macrodinamica» che R. Frisch aveva dato a tale ordine di ricerche).
Si vegga anche: D'ALBERGO E., Sul metodo nello studio della finanza pubblica, citato, del 1935.
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Fra i tentativi di autori che iniziavano indagini nel senso della «dinamica» (fluttuazioni del sistema
economico nel tempo) quali Moore, Schultz, Roos, ecc. consideravo come più appropriati non solo schemi
come quello dell'Amoroso per la spiegazione del movimento ciclico, ma anche del Tinbergen e del Frisch
che facevano formale riferimento al fattore finanziario, o come la visione del Keynes (Teoria generale).
Casi di ipotetica equivalenza del fattore finanziario (ricordato in modo esplicito), ad altri fattori e-
conomici, rilevavo nella politica detta della manovra dei salari, per cui, in Tinbergen62 si trovavano consi-
derati equivalenti:
1) la determinazione diretta dei salari da parte dello Stato;
2) le sovvenzioni statali (spesa pubblica);
3) l'applicazione di imposte che discriminino fra le imprese (come soggetti passivi) a seconda del loro
rendimento.
Si ha bensì la incidentale considerazione del fattore finanziario, come tipo; ma è confuso fra gli altri
come uno dei termini numerosi la cui variazione può influenzare il movimento del sistema economico, od è
fatto equivalente ad altri atti di politica economica. Ma senza una separata ed approfondita individuazione
di un problema fiscale, particolare e preminente, tanto era obliterata e secondaria l'analisi dello specifico
vincolo fiscale.
Lo stesso autore, l'anno prima (An econometric approach to business cycle problems, Hermann, Pa-
ris), considerava il fatto finanziario (spesa pubblica) come variazione del volume degli investimenti.
Rimando a detto mio saggio per i casi in cui R. Frisch riteneva in modo implicito l'influenza del fat-
to finanziario (prelievo e spesa di ricchezza da parte dell'ente pubblico) equivalente ad altre variazioni di
quantità economiche sul mercato, nel tempo.
Net caso in cui l'azione dello Stato figurava diretta a modificare la «propensione al consumo», nella
espressione del Keynes, ricorrendo alla «manovra» degli strumenti finanziari (imposte) scrivevo nel 1939:
«il Keynes ha ammesso che la disposizione a risparmiare ed a consumare dipende dal saggio di interesse e
dalla politica fiscale, accennando anche alle differenziazioni qualitative dei tributi [sui redditi, specie se di-
scriminanti contro i redditi unearned (letteralmente, come si vedrà più avanti non meritati) di capitali e sul-
le successioni]. Ma senza ulteriori indicazioni analitiche, la variazione del tasso di interesse ed altri atti di
politica economica e, in genere, l'estensione delle funzioni tradizionali dello Stato sono atti con effetti equi-
valenti, ai fini del raggiungimento della condizione finale, del full employment».
Ben scarso rilievo in queste impostazioni di «macrodinamica» consegue il fenomeno finanziario
(tipi di tributi, carattere delle spese) essendo più rilevante del modo del prelievo e della spesa, la quantità di
ricchezza, come massa totale di potere d'acquisto, prelevata e spesa; ciò in correlazione con la visione dei
fenomeni economici «di massa», ai fini della costruzione del sistema generale di dinamica economica per la
spiegazione delle fluttuazioni del sistema concreto.
Nel 1933, trattando degli effetti sul provento fiscale, fra gli altri temi relativi all'ammortamento del
debito pubblico, più o meno «rapido», analizzavo gli effetti del ricorso ad imposte sui patrimoni («leva sui
capitali») ipotizzando, come conseguenza della sua applicazione, una riduzione nel numero dei corrispon-
denti più alti redditi o un «declassamento del redditieri», con modificazione della curva esterna, Paretiana,
di distribuzione di essi (già nota agli studenti).
Per dimostrare come la riduzione del provento delle imposte dirette e progressive sui redditi potesse
essere compensata, nel bilancio complessivo di uno Stato, dall'aumento delle imposte indirette, reali sul
reddito consumato o speso, invocavo una uniformità statistica nota. Mi riferisco a quella che così può gros-
so modo enunciarsi: quanto più aumenta il reddito individuale, tanto meno, storicamente, sono elevate in
proporzione le porzioni di reddito destinate al consumo [di beni colpiti da imposte reali; ad es., consumo di
reddito in abitazioni, vestiario, tabacchi (tipo medio), sale, ecc.].
A me interessava, per il mio problema presupporre l'inverso, in conseguenza della ipotizzata appli-
cazione di una drastica «leva» dei capitali o imposta progressiva sui patrimoni, che abbia «declassato i red-
ditieri» o fatto diminuire il numero dei più ricchi, ridistribuendosi, poi, il potere d'acquisto fra i rimanenti
componenti la collettività. E cioè: quanto più aumenta il reddito medio (per declassamento di redditieri o,
per contrazione dei più alti redditi) tanto maggiore sarà la frazione che, «ceteris paribus, entro certi limiti di
tempo, sarà destinata complessivamente a consumo». In detto saggio63, fra l'altro, mi interessava dimostrare
__________
62
Tinbergen ,Les fondaments mathématiques de la stabilisation du mouvement des affaires, Paris, Hermann, 1938
63
D'ALBERGO E,
Di alcuni effetti finanziari dell’ammortamento del debito pubblico, «Giornale degli Economisti»,
gennaio 1933.
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l'aumento del gettito delle imposte reali sui consumi, come effetto dell'uso di quel tipo di imposta o di quel
modo di prelevare i tributi per l'ammortamento del debito pubblico.
Ma nel riferirmi a detta uniformità statistica, che tengono presente dal 1936, oltre al Keynes, i se-
guaci e critici nel considerare la funzione dell'imposta per lo schema di pieno, intendevo procedere a vera e
propria analisi autonoma di variazioni fiscali (quantitative). Ma ne facevo applicazione o presupponevo l'u-
niformità statistica predetta.
Non direi che negli schemi successivi Keynesiani, il far riferimento alla uniformità statistica mede-
sima, nella scelta del tipo di tributo da adottarsi per redistribuzione di potere d'acquisto fra le classi di reddi-
tieri costituisca, per sé, analisi degli effetti di quella specie tributaria, che restano spesso.
Se si tiene presente quanto è stato precisato, nel precedente paragrafo, nei confronti dello schema
parallelo, generale, di statica economica impostato dal Walras e dal Pareto che avanza la nozione del tipo di
vincoli, si trova che anche dal punto di vista della dinamica economica come schema generale (macrodina-
mica) non trova posto una analisi particolare finanziaria od è, spesso, presupposta.
Barone intendeva studiare l'equilibrio approssimato a cui tendono le economie attraverso continui
tentativi degli individui nel periodo transitorio di continue oscillazioni di prezzi, successive alla introduzio-
ne dell'imposta. E per ciò fare, passava, con ingegnoso procedimento, dallo schema dell'equilibrio generale
a quelli parziali e Marshaliiani, proprio nell'occuparsi del Trattamento di questioni dinamiche (Scritti vari,
vol. I, Zanichelli, 1936). Si sottolinea il termine «dinamiche».
2) Dimostrando implicitamente che le indagini economiche e finanziarie fra loro si confondono e
come, soltanto in parte, il cultore di economia della finanza pubblica possa procedere ad approssimazioni
analitiche, almeno sotto il profilo di una casistica ipotetica di condizioni in cui si supponga agiscano i fatti e
gli istituti della finanza pubblica, mi è occorso di prendere in considerazione relazioni concernenti fenome-
ni «di massa» come si suol dire nella terminologia odierna nel trattare di fatti complessi e, pure, rappresen-
tativi.
Nell'affrontare problemi «di massa», appunto, ho cercato di spingere al limite del possibile lo spiri-
to metodologico atomistico (64), nei seguenti temi, in cui il dato od aspetto qualitativo, fiscale, raramente
nelle impostazioni di economisti trova posto anche accanto a quello quantitativo, nel qualificare ed analiz-
zare il vincolo tributario o la spesa pubblica. Invero la separazione dei caratteri, dell'oggetto, delle appros-
simazioni delle discipline, nello spirito della loro specializzazione, appare non facile ed evidente nel trattare
temi come i seguenti.
a) Problema di «massa», come ho dimostrato nei qui citati studi, è quello che riguarda i rapporti lo-
gico-quantitativi fra fluttuazioni economiche del sistema generale e atteggiarsi del fenomeno finanziario nel
senso di variazioni delle entrate fiscali considerate nell'insieme e nella loro composizione.
b) Inoltre a problema di massa (non atomistico) ho fatto riferimento nel trattare del tema degli effet-
ti, sull'equilibrio economico, di «sgravi» fiscali, come restituzione, in un dato momento, di una quantità di
potere di acquisto ai privati ovvero al mercato, sottraendola alla destinazione o manovra da parte dello Stato
che, in precedenza, l'abbia mobilitata per i bisogni pubblici65. L'ipotesi è di sgravi che si riferiscono ad abo-
lizioni dei tributi e soprattutto a riduzioni di aliquote od esenzioni traendo spunto da provvedimenti tede-
schi.
c) All'intero mercato ho fatto riferimento nel teorema della indifferenza, a parità di prelievo, di im-
poste dirette o indirette, nella visione che ho tenuto presente criticando impostazioni generali di studiosi e-
steri e concludendo nel senso della insussistenza di rilievo logico della distinzione «Pantaleoniana» quanti-
tativa (imposte dirette o indirette) (66).
Questi esempi dimostrano che negli studi di finanza pubblica si è tenuto presente, già in passato, lo
schema generale con analisi di effetti della destinazione di quantità globali di ricchezza o reddito, sul mer-
cato, a investimenti o consumi rispettivamente pubblici o privati. Tanto le indagini di Pantaleoni quanto
quelle di Barone o De Viti De Marco, hanno fatto ragionare, anche, di modificazioni, per influenza del fatto
__________
64
Adotto il termine «atomistico», che in generale, nelle opere metodologiche, contrassegna il ricondurre i fenomeni
ai loro elementi più semplici per spiegarli con essi, per indicare problemi concernenti il singolo soggetto astratto, co-
me contribuente, la cui condotta di imprenditore-produttore scambista, consumatore, risparmiatore ecc., sia influenzata
dal fatto fiscale.
65
E. DALBERGO, E., Teoria degli sgravi fiscali, «Rivista Internazionale di scienze sociali», 1935.
66
D'ALBERGO E., Sviluppi di un teorema finanziario ecc., negli «Studi in memoria di G. Masci», Milano, Giuffrè,
1943.
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finanziario, di domande complessive di prodotti, offerte complessive di servizi e connesse variazioni di


prezzi sul mercato. E questi possono considerarsi fenomeni «di massa»: tipico è, poi, quello della «pressio-
ne tributaria».
Ciò prova che gli studiosi di finanza pubblica, lungi dal trovarsi di fronte ad una rivoluzione nel
quadro di quella che viene detta la filosofia Keynesiana, (che tiene conto della spiegazione della manovra di
quantità globali per la determinazione dell'equilibrio nel tempo) già hanno considerato il problema finan-
ziario nelle sue generali ripercussioni. Così che, quando: 1) il Taylor pone ad oggetto della scienza delle fi-
nanze gli effetti di provvedimenti fiscali sulla produzione nazionale, sul reddito nazionale, sul livello di vita
e sulla distribuzione della ricchezza; 2) o quando il Lerner67 parla di finanza «funzionale», finalistica rispet-
to al mantenimento del reddito nazionale ad un dato livello; 3) o Hansen illustra la politica della finanza
correlata con la politica anticiclica per la stabilizzazione del movimento economico e per mitigare la de-
pressione. Questi problemi trovano le menti dei cultori di economia finanziaria orientate già (per merito di
studiosi di economia e soprattutto di scienza delle finanze che potrebbero dirsi «classici» o «neoclassici»)
verso la visione dell'intero equilibrio economico influenzato dal fatto finanziario. Lo stesso dicasi per gli
schemi riguardanti la finanza straordinaria, ovvero la mobilitazione di quantità maggiori che nell'ipotesi di
finanza che consideri bisogni non eccezionali (grado) della collettività, schemi che hanno abbracciato spes-
so la logica della intera economia (di mercato, variamente regolata).
Sugli atteggiamenti, che sembra logico assumere di fronte alla visione cosiddetta di tipo Keynesia-
no e di altre correnti di studi che tengono conto dell'equilibrio delle quantità economiche, nel tempo, per
l'intero mercato, si dirà nelle seguenti parti concernenti la «politica fiscale» e la spesa pubblica, e si tornerà
in sede di studio degli effetti delle imposte sull'equilibrio economico e della pressione tributaria.
Ma, concludendo, in base ai rilievi di questo paragrafo, a proposito di autonomia della economia fi-
nanziaria come parte quantitativa dello studio della scienza delle finanze, non si può pretendere rigidamen-
te, di separarla, con taglio netto, dalle ricerche di economia generale in cui entri il fattore tributario o finan-
ziario (prelievo e spesa). Vi sono fini di alimentazione del bilancio statale per i bisogni, fra cui, senza ne-
cessariamente discorrere di fini extra-fiscali, può porsi il bisogno di stabilizzare od accrescere il flusso del
reddito e della occupazione di forze di lavoro, mobilitando, con redistribuzioni, il potere d'acquisto sul mer-
cato. E di tali fini, come dati di fatto, tiene conto anche il cultore di economia, specie di tipo Keynesiano.
Alla luce di quanto precede in queste pagine, la specializzazione nelle indagini di scienza delle finanze di-
penderà dal grado di particolare, approfondita analisi che i teorici sistematicamente, dedicheranno ex-
professo e con approssimazioni maggiori al concreto ipotizzato e tipizzato, dal lato quantitativo e qualitati-
vo, alle influenze molteplici del fattore tributario (prelievo e spesa) manovrato dalle pubbliche autorità.

X.

RAPPORTI FRA ECONOMIA FINANZIARLA E:


A) POLITICA ECONOMICA E FINANZIARIA IN SENSO TRADIZIONALE; E
B) “POLITICA FISCALE” NEL SENSO KEYNESIANO.

A) Fra le discipline che si impartiscono nelle università, figura la politica economica e finanziaria
che si trovava, all'epoca (1931) in cui ne trattava il de' Pietri Tonelli, nella posizione di materia professata
nonostante la «posizione conoscitiva assai meno avanzata di quanto potrebbe far supporre la sua posizione
accademica».
Questo riferimento, che è di carattere storico, non si farebbe se ad esso non dovesse collegarsi un ri-
lievo logico. La politica economica e quella finanziaria sono sorte, come gruppo sistematico di conoscenze,
dopo la scienza delle finanze. Ma oltre questa successione cronologica si ha quella logica: cioè la scienza
delle finanze, come, soprattutto, trattazione rigorosa delle relazioni quantitative oggetto della economia fi-
nanziari,a può essere un presupposto della politica finanziaria. Infatti, normalmente, si fa riferimento ad u-
__________
67
LERNER , An integrated full employment policy, in «Quarterly Review of the American Labor Conference», Gen-
naio, 1946.
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niformità già enunciate dai cultori di economia e finanza pura, per farne applicazione più o meno implicita
ai problemi di politica economica finanziaria.
In altri termini, in linea generale, il rapporto in cui stanno la economia finanziaria e la politica fi-
nanziaria può essere quello che corre fra meccanica razionale e scienza delle costruzioni o, come altri ha
descritto, quello che corre fra anatomia o fisiologia o patologia, da un canto, e clinica medica, dall'altro (O.
Fantini).
Questa contrapposizione può parere arbitraria ed artificiosa, nonostante l'analogia qui richiamata
che serve a ricordare come non ci sia discussione sulla specializzazione di altre, ricordate scienze e discipli-
ne di insegnamento.
Invero per contenuto (economico) e metodo di ricerca e di analisi, non si potrebbe trovare fonda-
mento di divisione fra le indagini di economia finanziaria e di politica finanziaria. Basta questo legame nel
campo del continuo razionale ad escludere detta contrapposizione.
Tuttavia occorre dar conto non soltanto della ragione del sorgere di una distinta disciplina accade-
mica, ma anche di una separata sistemazione scientifica della politica finanziaria e della scienza delle finan-
ze nel senso stretto qui adottato. E questo ritengo obiettivamente di fare, nonostante, proprio nello spiegare
una qualificazione («produttivistica») della attività finanziaria, scrivessi in modo assai comprensivo, nel
1932, che: l’attività finanziaria, per se stessa necessaria e strumentale alla produzione del reddito, diventa
suscettibile di promuoverne un incremento tendenzialmente progressivo qualora nell'impiego del fabbiso-
gno si verifichino o si provochino certe condizioni. In altri termini, rispetto ad un orientamento della attività
finanziaria che si potrebbe dire, con linguaggio odierno Keynesiano, strumentale per il massimo reddito so-
ciale (e il pieno impiego delle risorse disponibili), finivo inevitabilmente per scavalcare i confini delle di-
scipline che vertono nello stesso ordine logico e scientifico.
I confini, fra i campi di ricerche delle due discipline e scienze, difficilmente si rilevano nella rela-
zione che corre immediatamente fra scopi della attività dello Stato, e spese pubbliche all'uopo destinate. In-
vero, da molti si considera spesa pubblica l'erogazione di una parte dell'entrata per raggiungere uno scopo
qualsiasi dello Stato.
Ma a rigore, se si volesse distinguere in tema di posizioni ipotetiche o angoli visuali nel porre i pro-
blemi di conoscenza, anche per la spesa pubblica si potrebbe distinguere fra: a) relazioni di causa ad effetto
o di dipendenza funzionale nei rapporti di flusso e tipo di spesa, ed effetti che ne derivano all'equilibrio e-
conomico individuale, di un settore del mercato o all'intero equilibrio del sistema economico considerato
nell'istante o nel tempo; b) e relazioni fra fini o scopi molteplici statali e congruità o idoneità, efficiente ra-
zionalmente, del quantum e del tipo di spesa considerata, come mezzo di cui siano analizzati gli effetti co-
me compatibili con i fini.
Questo secondo ordine ipotetico potrebbe avvalersi delle uniformità trovate dalla prima a) posizio-
ne ipotetica del ricercatore di uniformità di carattere economico o d'economia finanziaria. Più evidente ap-
pare la separazione delle due visioni ipotetiche per quanto riguarda l'uso o la destinazione dello strumento
fiscale, ovvero degli istituti di cui si avvalgono gli enti pubblici per ottenere le entrate tributarie.
A fini o scopi nei loro confronti l'ottenimento di un provento diviene: 1) scopo indiretto; 2) inciden-
tale; 3) parallelo; 4) parziale; 5) effetto non voluto del ricorso allo strumento che, normalmente, venga usato
in modo logico o tendente al fine di procurare un'entrata allo Stato. Oppure 6) effetto assente o nullo, in
quanto lo strumento tenda, come si esemplificherà, anche a ridurre od annullare il presupposto economico
del prelievo di entrate tributarie. E' chiaro, cioè, che si giustificano, volendo, dai due punti di vista, due or-
dini di ricerche teoriche.
Avvertendo che la contrapposizione qui riguarda sostanzialmente distinzione di ipotesi di studio e
di approssimazioni di esso nei confronti dell'esame teorico della fenomenica concreta, voglio contrapporre i
due campi di ricerche, sempre avvertendo che tutto ciò è convenzionale:
a) L'economia finanziaria considera come «dati di fatto» i bisogni pubblici a cui lo Stato adegua hi
spesa per soddisfarli, in quanto corrispondenti a funzioni variabili nel tempo, che lo Stato ritenga di assu-
mersi per ragioni politiche, sociali, ecc., che esulano dal campo della ricerca teorica, economica.
Ciò posto, l'economia finanziaria studia obiettivamente, quanto di razionale in sé rivelino ipotetici
«modi» con cui lo Stato ottenga le entrate, considerati separatamente e in modo comparativo ed alternativo:
- prezzi pubblici per i servizi (o privati e quasi privati), tasse, imposte; caratteri di imposte propor-
zionali e, con saggio percentuale crescente col crescere dei redditi e patrimoni, progressive e loro modo di
essere in via ipotetica;
- premesse razionali che le spieghino;
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- effetti sulla produzione, la circolazione, la distribuzione e il consumo della ricchezza; effetti com-
parati di diverse specie di prelievi coattivi (imposte dirette e indirette, sui redditi netti, lordi, suite rendite,
sui sopraredditi) o alternativi (prestiti od imposte) ecc.
Del pari studia i criteri razionali della ripartizione delle spese pubbliche, nell'ipotesi che essa ri-
sponda (o meno) alla economicità che guida il soggetto singolo nella destinazione dei mezzi disponibili ai
bisogni privati da soddisfare; ne analizza gli effetti sull'equilibrio economico turbato, parimenti, dal prelie-
vo o dalla «manovra» dei mezzi che procurano le entrate ecc. ecc.
b) Ma accanto al soddisfacimento dei bisogni pubblici, costante premessa della attività consistente
nel prelievo di entrate e nello spenderle, lo Stato persegue altri fini, i più vari nell'ordine economico, socia-
le, morale e politico in senso ampio, avvalendosi anche dello strumento che, normalmente e principalmente,
è mezzo per ottenere le entrate. Ma l'uso dello strumento fiscale può non dare entrate, quando ostacola vo-
lutamente, ad es., produzione e consumi, o a mezzo di esenzioni fiscali.
Quando sistematicamente il Pugliese68 osservò l'uso dello strumento fiscale per fini extra-fiscali,
poté essere non felice nella espressione che generosamente si poteva considerare come ellittica e non con-
traddittoria. Ma diede un contributo alla politica finanziaria, esaminando le relazioni, di prima approssima-
zione, fra mezzi fiscali e fini i più varii della funzione statale (alla luce degli effetti dei mezzi).
La circostanza storica che in pratica fine fiscale e fini extrafiscali vengano volutamente o incon-
sciamente perseguiti anche simultaneamente nel manovrare gli strumenti (entrate) della attività finanziaria
nel senso accolto nella nostra edizione, non impedisce che si separino le due ipotesi a scopo di conoscenza,
cioè in teoria pura.
Per maggiore obiettività, faccio un esempio, che tiene conto anche di recenti indagini altrui e dimo-
stra che: I) i due punti di vista, a) e b), possono essere razionalmente separati; II) che, tuttavia, cultori di di-
scipline diverse (nell'esempio di scienza delle finanze e di politica finanziaria) possono impostare le due i-
potesi di studio e procedere ad approssimazioni successive nello studio dei fenomeni in cui entri lo stru-
mento tributario.
Come vedremo in seguito, la teoria pura finanziaria, partendo da date premesse, ha elaborato la teo-
ria dell'imposta proporzionale che fa contribuire in modo eguale, come rapporto fra tributo e reddito o pa-
trimonio, i contribuenti. Introducendo ipotesi legittime, come vedremo (e non pretendendo, come molti er-
roneamente continuano a scrivere, di misurare l'utilità della ricchezza presso i singoli soggetti), in merito al
supposto modo di variare della utilità della ricchezza disponibile, ha elaborato la teorica dell'imposta pro-
gressiva, come atta ad attuare l'eguaglianza in termini di utilità sacrificata dai singoli, nel contribuire alle
casse dell'erario.
I modi di immaginare codesto secondo tipo di imposizione in via ipotetica, rispondono anche alla
premessa della eguaglianza qui avanzata. Ma se, nell'ottenere le entrate, indipendentemente dalla premessa
della eguaglianza dell'imposizione, voglia lo Stato raggiungere varii fini extra-fiscali ne nascono ben distin-
ti campi di problematica teorica. Si possono ricordare come esempi: il livellamento delle fortune o espro-
priazione dei patrimoni; la modificazione della distribuzione dei redditi entro certi limiti e in un dato senso
fra le classi di redditieri considerate anche per le corrispondenti distinzioni classiste sociali; una distribu-
zione di redditi «da cristiani» come Crosara69 ha scritto tenendo presenti determinati ideali sociali, come il
«conservare le proporzioni fra i redditi preesistenti alla tassazione», ammesso che sia «cristiano» codesto
modo di ripartire l'imposta progressiva ovvero che esso interpreti il «quod superest date pauperibus».
I. - Di essi il primo gravita nell'orbita scientifica della economia finanziaria che, in base alla pre-
messa della eguaglianza dell'imposizione (come eguaglianza di sacrifici sopportati dalle persone fisiche, da-
te determinate ipotesi circa il modo di variare della utilità con il crescere di redditi e patrimoni complessivi)
considera tutti i tipi di graduazione di aliquote per dimostrarne la compatibilità, o meno, con la premessa.
Inoltre può esaminare obiettivamente, gli effetti sulla produzione, o sul risparmio, sulla distribuzione e in
generale sull'equilibrio economico, del supposto modo di graduare le aliquote.
II. - Ma avanzando l'ideale particolare o il fine sociale o morale su definito, del Crosara, corretta-
mente osserva il Fasiani, (in «Economia Internazionale», maggio 1949) che nascono due ordini di ricerche
che così indica:
a) «se sia vero che l'imposta da lui (Crosara) patrocinata, non modifica la distribuzione naturale dei
redditi», si potrebbe tradurre questa proposizione di Fasiani nelle seguenti: α) se effetto extra-fiscale di co-
__________
68
Pugliese, La finanza e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati moderni, Padova, Cedam 1932.
69
CROSARA, Il concetto di redditiere indifferente, Padova, 1949).
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desto tipo di imposta progressiva sia quello di mantenere immutata la preesistente distribuzione dei redditi;
β) se dato il fine di non modificare la distribuzione dei redditi, lo strumento o il mezzo idoneo tributario sia
rappresentato dal tipo di tributo proposto, presi in considerazione gli effetti della imposta.
Il tipo di indagine contrassegnato con a) - β), normalmente caratterizza il punto di vista da cui viene
impostato il problema di politica finanziaria, che prescinde dal quantum del provento che va all'erario.
b) se il proposito di non modificare tale distribuzione, sia sufficiente, da solo, a dimostrare la neces-
sità della adozione di quel tributo, o almeno se sia sufficiente a tale scopo, in unione a qualche principio ra-
zionale;
Altra proposizione che trae da questo ordine di indagini il Fasiani, è, all'incirca la seguente: se l'im-
posta «razionale» (in discorso e nel significato attribuito ad essa dal Crosara) sembri conforme al fine di
una élite politica che segua la regola fondamentale di «non giovare ad alcuno con pregiudizio di altri» (ide-
ale che il Fasiani ritiene proprio dello Stato cooperativo, qualificazione ipotetica che, come ampiamente ve-
dremo in seguito, non si presta a contribuire al progresso di questa scienza).
Orbene, i problemi di cui alla lettera gravitano nel campo sistematico della politica finanziaria. Non
è senza significato che questa intestazione di disciplina e di scienza sia stata richiamata dal Fasiani nel di-
scutere di quello che chiama «progetto» o norma agendi che il tipo di tributo proposto dal Crosara.
E ciò nel dire che, se la «legge» (di distribuzione dei redditi) di Pareto, da sola non può dettare al-
cun criterio di distribuzione delle imposte, sembra ben opportuno esaminare la possibilità che essa dia un
contenuto nuovo a un «principio di politica finanziaria».
In generale, l'imposizione progressiva può trovare applicazione strumentale per il raggiungimento
dei più disparati fini non fiscali, che escludono l'ottenimento di entrate fiscali, rendendo proibitivi alcuni
fatti od ostacolandoli o non precipuamente ovvero secondariamente fiscali e quasi inevitabilmente in parte
tali, con inevitabili effetti di procacciare un'entrata all'erario, in parte. Normalmente la correlazione di mezzi
o strumenti della attività finanziaria e fini estranei allo scopo di essa è compito del cultore della politica fi-
nanziaria che faccia applicazione di uniformità trovate dal cultore di economia finanziaria o che si ponga ex
novo ed ex professo, dal punto di vista qui lungamente illustrato, della economia finanziaria.
Intanto resta inteso, sempre con le avvertenze sulla convenzionalità della distinzione, che la politica
(economica e finanziaria) studia le relazioni logiche che intercorrono fra:
I) fini i più vari che si propone l'ente pubblico e che lo studioso accoglie come «dati di fatto», senza
emettere nei confronti di essi, come studioso, giudizi di valore od apprezzamenti sul bene o sul «male» che
in essi gli sembri di individuare come cives o politico membro della collettività; e
II) mezzi di cui l'ente pubblico si avvale all'uopo in base ai loro effetti, di solito costituiti da stru-
menti della attività finanziaria, per raggiungere fini diversi, di massima, da quello di ottenere entrate ed e-
rogare spese, ovvero extra-fiscali.
Ad es., lo Stato può intervenire con la rinuncia al diritto di prelevare tributi, interferendo nei rap-
porti economici quali siano previsti esistenti sul mercato: α) per incoraggiare o promuovere e stimolare de-
terminate forme di attività produttiva, fra l'altro, con atti negativi della propria attività; ovvero nel settore
delle entrate con astensioni e rinunce ad agire fiscalmente, cioè con esenzioni da tributi e imposte di varia
natura che inciderebbero, normalmente, sui risultati della produzione o sul costo delle trasformazioni.
Oppure lo Stato: β) può «vincolare» in senso ampio, il consumo di taluni prodotti, mobilitando, ad
es. la tassazione dei prodotti medesimi, sino a renderne, eventualmente, il prezzo proibitivo; γ) può ostaco-
lare taluni settori di investimenti, avvalendosi della tassazione di fatti di produzione (introiti e redditi) in
modo differenziale (tassazione differenziale di talune categorie di introiti lordi e di redditi come quelli dei
capitali mobiliari privati o tassazione differenziale progressiva dei dividendi) per agevolare gli investimenti
nel campo dei capitali mobiliari pubblici; δ) può agevolare il consumo mediante riduzioni di imposte, od
avvalendosi della manovra dei prezzi pubblici (come vedremo) ecc. ecc.
In questi e numerosi altri casi pensabili, lo Stato ed altri enti minori si avvalgono di modificazioni
di quantità economiche per raggiungere certi o dati fini. Normalmente il cultore di politica finanziaria si
avvale delle conoscenze ovvero delle uniformità elaborate dalla economia finanziaria per porle, in via ipote-
tica, in relazione con i modi di intervento dello Stato, finalisticamente. Ne derivano studi che saranno sem-
pre di teoria, che può dirsi applicata ovvero che si avvalga di uniformità già note (70), studi dai quali emer-
gono analisi di coerenza o contraddizione dei «modi» di intervento rispetto ai «fini».

__________
70
E, in mancanza, ex-novo elaborate nel solco della logica economica.
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Ciò che qui preme affermare è non soltanto la priorità logica dello studio di relazioni causali e fun-
zionali in generale, delle elaborazioni astratte, (ovvero prescindendo dai fini, extrafiscali a cui possano es-
sere rivolti i «modi» di operare dello Stato), compiute dai cultori della economia finanziaria, rispetto alle
applicazioni che ne facciano gli studiosi della politica finanziaria; ma anche il carattere pure teorico della
politica finanziaria. La quale si pone da un angolo visuale particolare, cioè quello della sistematica dei rap-
porti fra «mezzi» e «fini» degli enti pubblici, per dare la spiegazione logica dei modi di intervento, sempre
per scopi di conoscenza teorica.
Generalizzando per la politica economica, de' Pietri Tonelli studia le modificazioni, con comandi
politici o interventi statali, della produzione, scambio, consumo, investimento, esportazione, trasporto, ecc.,
nelle ipotesi di libertà di movimenti da cui si era partiti nell'impostare il puro problema economico. Ma in
tal modo conserva alla politica economica la portata di scienza universale, senza tradurla in precettistica.
«Naturalmente» la separazione della teoria dalla pratica non preclude l’utilizzazione della teoria per la pra-
tica e viceversa, dove le analisi della scienza sociale possano servire alla sintesi della pratica e viceversa, e
non esclude che, se non come unico fine dominante, certo come risultato indiretto, la conoscenza finisca per
agire sulla pratica»71.
Continuando nell'esemplificazione dottrinaria, tanto de' Pietri, quanto Bresciani Turroni72 formula-
no teoremi. In linea generale il Bresciani, partendo da un punto di vista, suggerito dalla analisi economica, e
affermando che «le quantità economiche non sono arbitrarie ma sono la conseguenza necessaria di un com-
plesso di dati», distingue due grandi classi di interventi statali che danno contenuto alla politica economica.
Si tratta di modificazione delle quantità economiche, per es. certi prezzi, agendo: 1) sui «dati» che esso mu-
ta in certi modi, ma lasciando che il mercato determini spontaneamente i nuovi valori delle quantità econo-
miche, per es., i nuovi prezzi, in relazione ai «nuovi dati»; 2) oppure sulle quantità economiche, che sono
fissate d'autorità (per esempio, ai prezzi del mercato sono sostituiti prezzi legali).
Come si vede si tratta di impostazioni teoriche e non di «consigli» che trasformino, come purtroppo
si concepisce dagli empirici, in «arte» di governo o in casistica descrittiva dei modi di intervento statale, la
politica economica.
Ciò vale anche per la politica finanziaria che costituisce, dal suo punto di vista, un passo avanti nel-
la specializzazione scientifica per spiegare (73) un altro aspetto del concreto attuarsi della attività statale.

B) Da quanto ci è dato di leggere nella letteratura economica odierna, «rivoluzione» o innovazione


vi sarebbero state anche nel campo della politica fiscale, che sarebbe un modo nuovo di concepire non solo
la politica finanziaria, ma addirittura l'economia finanziaria e la stessa economia generale (Economics degli
anglosassoni).
Dei limiti in cui sia appropriata l'espressione «rivoluzione» nei confronti della scienza economica
dei classici o neoclassici od ortodossa, hanno detto cultori della teoria generale. Ad es., I. R. Hicks74 ha as-
serito che la General Theory del Keynes è essenzialmente la «formalizzazione (e talvolta la superformaliz-
zazione) della grande tradizione di Cambridge, che discende da Marshall a Keynes, non senza rilevanti con-
tributi apportati da Pigou a Lavington, da Robertson a Kahn». Così che l'associare detta tradizione al nome
di Keynes è qualcosa come una «personificazione» (p. 4). E cita contributi essenziali anche di Frisch e J. M.
Clark, ai quali personalmente aggiungerei quelli di Wicksell e Fisher, per citare due ordini di ricerche (equi-
librio monetario e teoria dell'interesse) che hanno aperto la via al Keynes75 .
__________
71
DE’ PIETRI TONELLI, Corso di politica economica, vol. I, Introduzione, 1931, Cedam.
72
BRESCIANI TURRONI C., Introduzione alla politica economica, Einaudi, 1946.
73
Tutto ciò, si intende riferendosi alla attività della Stato, e senza escludere che il rapporto di mezzo a fine, secondo
il principio di finalità, trovi applicazione nella economia generale o economia finanziaria, per spiegare le tendenze psi-
cologiche che ispirano la condotta dei soggetti, uti singuli, che sono i contribuenti nella nostra trattazione secondo
l'avvertenza metodologica che figura alla lettera c del III capitolo di questa Introduzione.
E per converso, la politica economica e finanziaria, può studiare effetti e modificazioni di rapporti economici, in
funzione di interventi statali o in relazione causale con essi: indagine in ogni caso necessaria logicamente per !a valu-
tazione della congruità dei mezzi ai fini.
74
HICKS I.R., Trade Cycle, Oxford, Clarendon Press, 1950.
75
Senza dubbio è da criticare l'atteggiamento del Keynes manifestato nella General Theory. nei confronti del «clas-
sici», come ho rilevato sulla rivista «Economia Internazionale» nel saggio: E. D'ALBERGO, Effetti delle imposte e teorie
del «full employment», agosto 1948 e sulla «Rivista Bancaria», nel presentare l'edizione francese fasc. marzo-aprile,
1950, e non soltanto per i motivi ivi addotti. Ma anche perché posso riferirmi ad altre interpretazioni dell'ipotesi criti-
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Certamente «rivoluzione» il Keynes non ha apportato nella concezione della politica finanziaria e
della economia finanziaria (ovvero della public finance), i cui angoli visuali rispettivi nel considerare l'og-
getto della attività finanziaria statale, con fini fiscali od extra fiscali, non vengono affatto sovvertiti o mutati
dal sia pur notevole tentativo di sistemare la teoria economica in ipotesi di tendenza ad una condizione di
pieno impiego e di massima produzione di reddito sociale.
Non sarebbe possibile secondo G. Colm76 pensare alla politica fiscale, come è intesa nel mondo
moderno, senza ricordare il Keynes, che della espressione concettuale avrebbe dato un «nuovo significato».
Secondo il Colm, Keynes avrebbe usato il termine «fiscal policy» anziché quello convenzionale di «public
finance» (sotto il quale è nota quella che da noi è detta scienza delle finanze) per dire che egli si occupava
«di un aspetto della «public finance». E poiché si riconosce che una definizione della fiscal policy il Keynes
__________
cata dei classici, di piena occupazione che Knight, ritiene «caricaturata» e Pigou un travestimento, come supposto, se-
condo questo critico del Keynes Employment and equilibrium, pag. 86. Nella visione dei classici nella rigorosa forma,
il full employment, non esiste sempre, ma sempre tende a stabilirsi. Non che in media esista il che sarebbe un non sen-
so, ma in mancanza di fattori che perturbino il mercato, il full employment esiste sempre e, in concreto, le perturbazio-
ni predette tengono il sistema in qualche misura al di sotto di tale condizione f. e..
I critici Keynesiani sostengono che la «tendenza», in termini di grado, porta a spostamenti rilevanti dal pieno impie-
go, nel senso che l'equilibrio, spontaneamente, si stabilirebbe molto al di sotto della condizione di pieno impiego.
Altra cosa è criticare la teoria classica meno per i suoi errori logici, che «per mettere in evidenza il fatto che le sue
ipotesi implicite non sono quasi mai verificate» critica di cui, dopo quanto è premesso in questa introduzione si può
discutere la legittimità alla luce del metodo scientifico. così si esprime Keynes chiudendo la trattazione della General
Theory pag. 392 ed. fr.. Lo stesso autore avverte il disagio, da questo punto di vista, della critica, quando avverte che
se le pubbliche autorità riusciranno a stabilire un volume di produzione il più prossimo possibile a quello di pieno im-
piego, «la teoria classica riprenderà tutti i suoi diritti»: e che «se la produzione è presa come un dato, non vi è niente
da obiettare alla analisi di questa scuola» ecc, Il reddito come variabile dipendente appare in finanza.
Inoltre della «legge degli sbocchi» enunciata da. G. B. Say secondo la quale, in breve, tutte le merci prodotte sono
vendute ovvero l'offerta crea necessariamente la propria domanda è stata esagerata l’appropriazione da parte degli e-
conomisti classici e neoclassici, dato che specie questi ultimi hanno studiato i problemi della disoccupazione, del ciclo
e delle fluttuazioni in genere, come ha osservato l'Haberler. Così che, secondo le parole di Pigou, il Keynes avrebbe
attribuito a tutti l'errore ammesso che lo sia in via ipotetica, cosa che non penso di un solo. Da un canto stanno gli en-
tusiasmi che fanno parlare di rivoluzione Keynesiana, di «Bibbia» a del pensiero economico ecc. e dall'altro, le criti-
che aprioristiche o affrettate è interessante notare come molti critici del 1936 abbiano mutato opinione una diecina di
anni dopo, dando qualche credito al pensiero di coloro che ritengono che le idee del Keynes saranno meglio apprezza-
te versa la fine del secolo. Mi riprometto di esprimere ex-professo in altra sede il mio pensiero sulla teorica keynesia-
na. Intanto, rilevo incidentalmente:
a Se è vero che secondo J. R. Hicks il Keynes ha «esagerato» l'importanza della teoria dell'interesse, è da riconoscere
tuttavia che nuova luce ha recato in questo campo in cui lo si considera come variabile che equilibra offerta. e doman-
da di moneta; b del pari la teoria dinamica delle aspettative e lo sconto di fattori che previsti possono influenzare l'effi-
cienza marginale del capitale, tenendo canto del fattore fiscale e di quello monetario, per se stessa contribuisce a com-
pletare teorie acquisite. statiche, di produttività marginale di fattori produttivi; c il tentativo di collegare il fenomeno
monetario con l'equilibrio economico, sulla scia del Wicksell e della sua scuola, superando l'isolamento della tradizio-
nale teoria «quantitativa» da buona parte dei rimanenti fatti o delle rimanenti relazioni fra quantità economiche, è pure
rimarchevole; d le fondamentali «propensioni» psicologiche che spiegano gli effetti della condotta di risparmiatori e,
soprattutto, consumatori, contribuiscono alla spiegazione del volume degli investimenti e del livello del reddito, attra-
verso anche la generalizzazione del concetto di Kahn del «moltiplicatore». Concetto, peraltro, rigorosamente precisa-
to, ma che era. noto e utilizzato implicitamente in precedenti schemi, nello studio di effetti della spesa pubblica. Un
contributo si può trovare nello studio della «propensione» al consumo, in quanto K. sviluppa concetti Marshalliani in
tema di esistenza di reddito e di mancato orientamento verso la spesa di esso unwillingness to spend. Donde deriva le
mancanza di fiducia lack of confidence e, quindi, la crisi di depressione.
Il Keynes offre un contributo, per lo meno eccitando gli studi in proposito, in tema di spiegazione delle variazioni
dell'equilibrio economico in brevi periodi di tempo, illuminando quanti proseguono nella teoria del ciclo economico,
come ha fatto J. R. Hicks. Pur riservando ad altro momento il giudizio definitivo in proposito, presumo che gli ulterio-
ri studi probabilmente mi consentiranno di confermarmi in questi convincimenti: che più che di teoria generale termi-
ne giustificabile soprattutto in quanto anziché fatti singoli, visti in via atomistico-individuale, considera fatti globali
relativi all'intero sistema: produzione, consumo, investimenti, reddito ecc. ci abbia dato teorie particolari, nei campi su
indicati come principali. Invero, la clausola del ceteris paribus non è assente e più volte in modo esplicito od implicito
limita la trattazione, in cui, inoltre, alcune quantità sono considerate, da un punto di vista, un dato e, da altri, variabili
dipendenti e indipendenti.
76
COLM G., Fiscal policy in New Economics a cura di S. E. Harris, Londra, Dennis Dobson, 1949.
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ERNESTO D’ALBERGO, ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA
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non diede, la si vorrebbe ricavare dalla sua opera, nei termini seguenti: «fiscal policy» sarebbe una politica
che usa la «public finance» (intendasi quale fatto ed oggetto della corrispondente scienza teorica) come fat-
tore di equilibrio nello sviluppo della economia o nella dinamica economica.
Se mai, come novità, si può ammettere, secondo Hansen: ( Fiscal policy, 1941, p. I 17) lo scopo
della politica fiscale. Questo dico anche perché Hansen, riferendosi alla «compensatory fiscal policy» (ten-
dente a neutralizzare le oscillazioni cicliche ed all'ottenimento, come «scopo deliberato», della stabilità del
sistema economico caratterizzato dal pieno impiego dei fattori produttivi) afferma che il grande vantaggio
di tale politica (fiscal) consiste nel non implicare «nuove procedure», ma un razionale e finalistico uso di
esse nel campo finanziario. (Economic Policy and full employment, London, Mac Graw, 1947, p. 2O9.
Questi richiami alla letteratura, riguardante soprattutto i continuatori e gli estimatori del Keynes,
consente già, ritengo, di argomentare che non vi sono motivi per ritenere che i criteri metodologici, che so-
vrintendono al progresso ed alla specializzazione degli studi e delle discipline di insegnamento, debbano
essere modificati, rispetto a quanto in precedenza è stato esposto in questa Introduzione. Richiamo in qual
senso il fattore fiscale viene preso in considerazione dal Keynes.
a) Nel trattare dei fattori «oggettivi» che influenzano la tendenza o propensione a consumare, fra i
«principali», il Keynes poneva le variazioni della «fiscal policy» (libro IV, cap. VIII, n. 2). La forza che
spinge gli individui a risparmiare, nella misura in cui è funzione dei redditi futuri, che essi attendono dal ri-
sparmio, è evidente che dipende non soltanto dal tasso di interesse, «ma anche dalla politica fiscale dei
pubblici poteri».
Le imposte sul reddito, specialmente quando distinguono i redditi non risultanti dal lavoro, le impo-
ste sul plusvalore dei capitali, le imposte di successione, ed altre, esercitano influenza pari a quella del tasso
di interesse sulla formazione del risparmio.
b) E' anche possibile che le modificazioni eventuali della «politica fiscale», abbiano, almeno sulla
previsione, influenza superiore a quella dello stesso tasso di interesse.
c) Quando la «politica fiscale» è deliberatamente utilizzata come un mezzo per ottenere una riparti-
zione più eguale dei redditi, allora essa contribuisce maggiormente ad accrescere la «propensione» o ten-
denza a consumare.
d) Occorre egualmente tener conto dell'influenza esercitata sulla «propensione» globale a consuma-
re, dalle somme che lo Stato preleva sul provento delle imposte ordinarie, per ammortizzare il proprio debi-
to. Queste somme rappresentano una specie di risparmio comune, e si deve, in date circostanze, considerare
una politica di ammortamenti sostanziali, come atta a indebolire la «propensione» a consumare. E' per que-
sto che un mutamento della politica dello Stato, che faccia seguire l'ammortamento all'indebitamento (o vi-
ceversa) può implicare una contrazione severa, o nel caso contrario, una espansione sensibile della «do-
manda effettiva»77.
e) Degli effetti dei «lavori .pubblici», tenendo conto della fonte di finanziamento della relativa spe-
sa pubblica e delle condizioni in cui avviene l'impiego nella visione della teorica del «moltiplicatore», il
Keynes tratta per la relazione funzionale con la «propensione marginale» e «media» a consumare e con
l'impiego globale (capitolo X).
f) Data la capacità dello Stato di calcolare l'efficienza marginale dei. capitali78 con previsioni lonta-
ne nell'interesse sociale della collettività, ci si attende che esso prenda una responsabilità crescente conti-
nuamente nell'organizzazione diretta dell'investimento (p. 179).
g) Infine, di «politica fiscale», attraverso un sistema di imposizione diretta che obblighi finanziari,
imprenditori ed altri uomini d'affari, a mettere a servizio della collettività, a condizioni ragionevoli, la loro
intelligenza e le loro capacità professionali; e di estensione delle «funzioni tradizionali dello Stato» per in-
fluenzare «propensione», rispettivamente, ad investire ed a consumare, il Keynes tratta concludendo il vo-
lume e intrattenendosi sulla «filosofia sociale» (cap. XXIV).
Orbene, si considerino attentamente codeste proposizioni. E si noterà, alla luce dei criteri metodo-
logici che precedono, che esse non contrastano con l'oggetto rispettivo: 1) della economia politica o «eco-
__________
77
Definita come somma di spese di consumo e di spese per investimenti ( accompagnate da potere d’acquisto) quali
gli imprenditori le prevedono quando fissano il volume dell'impiego). Le citazioni che sopra figurano, sono attinte alle
pagg. 111 e 112 dell'edizione francese della Théorie génerale (Payot, Parigi, 1949)
78
Efficienza marginale del capitale è il tasso di sconto che rende il valore attuale della serie di annualità costituite
dai rendimenti scontati d'una unità supplementare di un dato capitale, eguale al suo costo di produzione o prezzo d'of-
ferta.
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nomica» o teoria pura generale; 2) della scienza delle finanze come economia della finanza pubblica; e 3)
della politica economica e finanziaria. A quest’ultima espressione può ridursi facilmente la cosiddetta
«fiscal policy» di tipo Keynesiano.
I) Si sa che la teoria classica od «ortodossa», compresi gli sviluppi che vanno sotto la denominazio-
ne di economia «neoclassica», presuppone la piena occupazione di tutte le risorse disponibili sul mercato.
Rispetto a tale condizione, il caso di «sotto-occupazione» è considerato come eccezione temporanea che
trova nelle forze economiche operanti la teorica possibilità dell'automatico riequilibrio.
Nella concezione Keynesiana che si ritiene più atta a spiegare i fatti reali, si suppone la possibilità
che l'equilibrio si determini a qualsiasi livello di occupazione di fattori economici, dipendente dal consumo
e dall'investimento o dalla «domanda effettiva». La tendenza che prendono in considerazione gli studiosi
odierni di questo orientamento è che il sistema non si equilibri esattamente con piena occupazione delle ri-
sorse o dei fattori, ma tenda, stando alquanto lontano, soltanto a questa condizione. Donde la necessità di
una «dottrina» che studia e nell'ambito del ciclo e considerando il trend o andamento a lungo andare, come
stabilizzare lo sviluppo economico.
Per «preservare il sistema capitalistico», come tipo di economia mista, fra i numerosi fattori che si
«manovrano» o di cui si ipotizza variazione ad opera di forze esterne, viene considerata la «politica fisca-
le», addirittura in modo sintetico, come «balancing factor», in una visione da cui esula il «dover essere» e
che vuole costituire la «teoria generale economica». Il fattore fiscale è visto come uno dei vincoli, nell'arse-
nale di elementi o fattori che contribuiscono all'equilibrio del sistema.
Orbene, si considerino i riferimenti di Keynes, sopra esposti in tema di «politica fiscale», e del fat-
tore fiscale si rileva:
a) il senso globale in cui può essere, come intero sistema, «balancing» o fattore di riequilibrio del
sistema, nel tempo;
b) il tipo di vincoli, in sede tributaria, costituito da imposizione diretta (tendenzialmente progressi-
va) di redditi e capitali, o imposizione indiretta (successioni) dei patrimoni, al fine di redistribuire potere
d'acquisto, togliendo a chi più ha per dare a chi ha meno, per ridurre il risparmio ed elevare il consumo;
c) l'equivalenza fra variazioni del fattore tributario ed altre variazioni o manovre di fattori con effet-
ti più o meno equivalenti (tasso di interesse, ad es.);
d) emissione ed ammortamento del debito pubblico per gli effetti generici sull'intero equilibrio, per
modificazione di quantità consumabili e redistribuzione di potere d'acquisto attraverso le decisioni statali.
II) Ma anche seguaci della teorica del Keynes hanno il più corretto concetto di public finance o di
scienza delle finanze, che non confondono con la politica finanziaria.
Faccio il caso di Taylor, già citato. Questo autore definisce, con la dizione di public finance, lo stu-
dio sistematico delle finanze di un gruppo organizzato nell'istituzione statale. Le finanze statali riguardano
le entrate e le spese. Si può parlare di operazioni del fisco o del tesoro.
Ma in quanto sia una scienza, la si può considerare scienza fiscale per esaminare i problemi fiscali.
Ciò però, con il metodo che è proprio della scienza, pura o neutra, ovvero che, poste le premesse finanziarie
(entrate e spese), applica (p. 6) la tecnica della analisi economica ai materiali (testè limitati) della finanza
pubblica. «Detta tecnica o teorica analitica a carattere economico, è essenzialmente quella che procede lo-
gicamente mettendo in relazione cause ed effetti, isolando e vagliando le varie forze che agiscono insieme
per determinare il comportamento dell'economia come sistema».
Il Taylor intende compiere, perciò, teoria economica occupandosi dei problemi della finanza pub-
blica. S'intende che non vanno esclusi i rapporti di interdipendenza, che studia questa scienza. (V. cap. II, d)
dell'Introduzione).
Eppure tratta, da questo angolo visuale, analiticamente o per gli effetti, non soltanto i tradizionali
problemi che riguardano il contenuto razionale dei «modi» rispettivi ed alternativi di prelevare le entrate,
ordinarie e straordinarie, anche ricorrendo al debito pubblico. Ma anche i problemi che interessano l'eco-
nomista che scelga per oggetto i temi della corrente Keynesiana. Infatti tratta: 1) di «pump priming», come
saltuario sistema di intervento statale per immettere, con la spesa accentuata, un flusso discontinuo, addi-
zionale di potere d'acquisto sul mercato, con l'effetto di portare la economia alla piena utilizzazione delle ri-
sorse, lasciando che il sistema proceda con le proprie possibilità, senza ulteriore spesa statale. Discute, i-
noltre: 2) di attività «compensatory» dello Stato mediante il sistema del «deficit spending», sistematico,
nell'ipotesi dello Stato come «ausiliario motore dell'economia», oltre che di attività compensativa di oscil-
lazioni cicliche, ricorrendo a prestiti, a tassazione anche di fondi disponibili non impiegati (hoards) ecc.; 3)
di effetti della spesa pubblica nel quadro delle modificazioni delle «propensioni» marginali e con applica-
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zione della teorica del moltiplicatore (problemi a cui si farà riferimento più oltre in queste lezioni). Siffatti
ed altri problemi di cosiddetta «finanza funzionale», sono dal Taylor visti secondo la metodologia su espo-
sta e dal punto di vista della scienza delle finanze, ovvero prescindendo dai fini extrafiscali e considerando
relazioni di cause ed effetti e correlazioni e interdipendenze alla luce del fattore fiscale isolato e rapportato
a distinte ipotesi di condizioni di mercato.
Questo atteggiamento ho sottolineato perché significativo, in quanto 1'A. affianca alla tradizionale
trattazione di problemi di economia finanziaria, il riesame di temi che, come contributo alla public finance,
sono sorti dallo studio del ciclo economico condotto da «monetary economist». E fa riferimento anche al
Keynes, all'Hansen, a Samuelson, all'Harris ed altri.
A testimonianza della differenziazione della (α) «finanza pubblica» come attività statale e come te-
oria eminentemente economica, per fini di conoscenza, dalla (β) «fiscal policy» come azione e relativa si-
stemazione osservabile, s'intende, anche da studiosi di economia, da altro angolo (ipotetico) visuale, ri-
chiamo anche l'edizione recente del trattato di «public finance», dovuto a A. G. Buehler (Mac Hraw-Hill C.,
New York, ediz. 1948).
α) Questo autore, pur aggiornato nei riguardi delle applicazioni della visione Keynesiana della
strumentalità delle entrate e delle spese statali, per il riequilibrio del sistema economico nel tempo, conside-
ra la public finance, quale studio o scienza, come quella che ha lo scopo di considerare la ripartizione delle
spese, il prelievo di fondi o mezzo dell'imposizione, i prestiti e altri sistemi, e l'amministrazione finanziaria
dello Stato. Più sinteticamente «public finance» è il finanziamento dei bisogni pubblici che sono soddisfatti
dallo Stato. «E' compito dello studioso di public finance esaminare i principii e fatti del finanziamento sta-
tale e studiare gli effetti relativi economici e sociali».
β) Di fiscal policy lo stesso autore, tratta come di «planned» ovvero ragionata o preordinata utiliz-
zazione della spesa pubblica, dei prestiti pubblici e dell'imposizione tributaria nonché della amministrazione
finanziaria per conseguire finalità economiche come: il «pieno impiego» (full employment), un crescente
reddito nazionale equamente distribuito, la neutralizzazione dell'inflazione o della deflazione ecc. ecc. Il
rapporto di mezzo a fine è nella attività che dà contenuto storico alla «fiscal policy» ed alla teoria che la stu-
dia sistematicamente, dall'angolo visuale predetto da cui si pone la politica economica e finanziaria, anche
nella visione del Buehler. Se è evidente che «gli studi, i principii e problemi della finanza pubblica sono
cresciuti di importanza», è chiaro che lo sono perché di essi si fa applicazione alla «fiscal policy» affinché
sia «planned» ovvero pensata e razionalmente preordinata nello spirito delle azioni logiche Paretiane di
mezzo a fine, la cui sistematica analisi, come specializzazione scientifica, fa così sorgere la politica finan-
ziaria.
Il Samuelson (cit. Economics) rileva l'importanza storica, crescente delle funzioni statali, e sog-
giunge: ciò spiega perché «nessun moderno manuale di economia può relegare in un oscuro angolo i vitali e
importanti problemi della finanza pubblica». Ebbene: a) o li tratta, sia pure brevemente, secondo le tradi-
zionali impostazioni, cioè come analisi, per fini di conoscenza di relazioni fra variazioni di quantità correla-
te istantaneamente o nel tempo; b) o rimanda, per detti problemi, alle trattazioni specifiche di scienza delle
finanze, pur avanzando problemi di «compensatory» azione statale anti-ciclica, tenendo conto di «positivi»
esempi di politica fiscale orientata verso l'equilibrio del sistema a breve od a lunga scadenza.
Samuelson è economista Keynesiano. Altra cosa è che la stessa persona estenda le ipotesi di teoria
economica più o meno nel campo specifico che coltivano i teorici della finanza pubblica; altra cosa è dire
che vi sia confissone di punti di vista da parte di: 1) chi studia l'equilibrio del sistema nel tempo, anche in
funzione del fattore fiscale; 2) chi analizza gli effetti dei «modi» di avvalersi del fattore fiscale e del
quantum della manovra; 3) chi considera relazioni di mezzi a fini, ovvero fa della «politica fiscale» equiva-
lente alla politica finanziaria, come alla lettera A) è stata presentata.
Quando i Keynesiani Hansen, Blogh, Colm, (anche Harris) considerano le imposte non puramente
da un punto di vista fiscale (o dell'entrata per lo Stato o ente pubblico) e poi, si dicono interessati allo studio
degli effetti di un dato sistema tributario (sulle intraprese, sul consumo, sull'investimento, sull'occupazione
di fattori, sul reddito e volume totale della spesa), non si allontanano dalla posizione logica e metodologica
della scienza delle finanze tradizionale o della finanza pubblica. I capitoli di detti autori, inseriti proprio nel
volume citato e curato da Harris (Economic Recostruction), ne sono una prova.
In essi si tratta: a) di effetti di riduzione delle imposte; b) della imposizione o tassazione di «fondi»
disoccupati o non impiegati; c) di imposte sui guadagni di congiuntura; d) di effetti della spesa pubblica; e)
degli effetti di imposte sulla riduzione del consumo o della attività produttiva; f) della riduzione o dell'ac-
cumulazione del debito pubblico; g) delle imposte sulle società (redditi e riserve); h) delle imposte sulle
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successioni, ecc. : Ciò dimostra, anche di fronte a problemi concreti, quanto sia basilare la ricerca con puri
fini di conoscenza, secondo gli schemi tradizionali, ipotetici, della economia finanziaria.
Da questo punto di vista è in errore il Lutz, allorché asserisce che le concezioni finanziarie «com-
pensatory», rispetto alla stabilizzazione del sistema, siano «dottrine estranee», se con ciò intende escluderle
dall'oggetto della scienza delle finanze. (Public finance, New York, 1947).
In uno mio studio del 1932, in cui, di fronte a visioni tradizionali che consideravano neutro, ottimo,
produttivistico un «modo» di distribuire i tributi (che meno turbi o non l'equilibrio economico), rilevavo che
trascuravano la spesa pubblica con i suoi effetti, per semplificazione di ipotesi di studio, e avanzavo criteri
che qui brevemente sunteggio.
In questo senso, non ho alcuna difficoltà nel classificare il saggio del 1932, allorché non era in voga
la terminologia del Keynes, come avente per oggetto specifico, teoria finanziaria od economia della finanza
pubblica79.
Tenendo presente che oggi si ragiona spesso avendo come variabile dipendente essenziale il reddito
(taluno qualifica la «nuova» scienza come economia «al reddito») si può appurare la attualità dello schema
in cui la attività finanziaria era vista come indirettamente strumentale in relazione al massimo di produzione
del reddito sociale.
Si traducano in linguaggio Keynesiano, corrente, proposizioni come le seguenti, con le quali si su-
perava la visione classica dell'optimum collettivo consistente nel «non mutare in nulla l'equilibrio economi-
co quale lo fotografiamo in un dato istante, distribuzione della ricchezza compresa» (A. CABIATI: Osserva-
zioni sul «principio produttivistico», di cui aveva discorso l'Einaudi, in «Riforma Sociale» 1927).
Dopo aver ritenuto inadeguata ad una più approssimata visione del concreto l'ipotesi metodologica
della limitazione (dello studio del problema dei rapporti fra fatto finanziario e reddito collettivo) al solo pre-
lievo delle imposte, fra le varie proposizioni avanzavo le seguenti: a) che è optimum o ideale o discutibile
per la società, la massima accumulazione di risparmio; b) che comunque il maggior risparmio si può consi-
derare effetto di maggior reddito, con il quale sta in rapporto e che condiziona la formazione di nuovo capi-
tale; c) che la massima accumulazione del risparmio non deve necessariamente presupporre una diminuzio-
ne progressiva dei consumi; d) che, in luogo della stabilità dell'equilibrio economico, è preferibile una mo-
dificazione di esso, anche attraverso redistribuzioni fiscali di ricchezza, dal ricco al povero. Essa può essere
una condizione compatibile con l'aumento della prosperità o del reddito sociale che la finanza produttivisti-
ca (che altri qualifica «funzionale») deve rendere massimi; e) che la redistribuzione dei mezzi che lo Stato
preleva e spende, può mettere in condizione i soggetti di avvalersi delle circostanze propizie create dalla at-
tività finanziaria «produttivistica» (con redistribuzione di potere d'acquisto sul mercato).
Si potrebbe individuare l'equivalente del concetto di «domanda effettiva» di Keynes nella somma di
spese di consumo e di investimento che veniva sollecitata nel mio schema, rivolto a considerare gli effetti di
una agevolazione della attività degli imprenditori anche ridistribuendo la ricchezza. Manca la terminologia
della accentuazione della «propensione al consumo», come si direbbe oggi, ma codesto era concetto impli-
cito nel mio ragionamento.
Non si intende dire che quelle argomentazioni proprio fossero di tipo Keynesiano, per non ripetere
«nihil sub sole novi», e per non avanzare pretese antesignane in questo campo della «funzionalità» della fi-
nanza pubblica rispetto all'optimum del massimo di reddito sociale80.
Ma è certo che, se la traduzione in termini Keynesiani di quel ragionamento di economia finanziaria
si compisse, si potrebbe trovare che quella trattazione non contra con gli schemi su cui si insiste, nel tempo
presente, nel campo della economia generale e finanziaria.
Trattavasi, come si vede, di una indagine di scienza delle finanze o per oggettivi fini di conoscenza
o di uniformità teoriche. Invero da detto saggio esulava un atteggiamento finalistico, ovvero di ricerca diret-
ta di mezzi a fine, punto di vista proprio della politica finanziaria, e il «dover essere» o, come avvertivo, era
equivalente a linguaggio ipotetico. Esso concerneva effetti di «modi» di essere e di quantum della attività
finanziaria.
__________
79
E. D'ALBERGO, Reddito e imposte. Saggio critico sul produttivismo nella attività finanziaria, in «Rivista Interna-
zionale di Scienze sociali», 1932
80
Jannaccone P. ,prima nel volume su G. Law, (come ho dimostrato recensendolo sulla «Rivista Bancaria», 1948), e
L. Federici, nella prolusione al corso di economia politica nell'università di Modena, hanno rilevato come diffusi, nei
tempi andati, fossero gli spunti, le intuizioni, i concetti e le dimostrazioni di odierno tipo Keynesiano, perché si possa
vantare priorità e novità di vedute in questa materia.
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III. - Non merita, infine, ulteriori rilievi il caso delta «fiscal policy» concepita come politica finan-
ziaria, come si è chiarito alla lettera A) di questo capitolo, cioè in senso tradizionale. Cioè analisi di rapporti
di mezzo a fine, ovvero di congruità di mezzo rispetto a fine, nello studio della «finanza funzionale».
Nella letteratura odierna estera, si legge di spese, imposte o prestiti orientati verso fini di stabilità
del sistema economico in una visione di pieno impiego di tutti i fattori e risorse. Cioè di strumenti e modi
della attività finanziaria orientati da un cosciente (conscious) proposito, verso un deliberato fine. Altri tratta
di uso «razionale» di quantità finanziarie.
Concludendo su quanto figura in questo capitolo: lo studio delle odierne correnti teoriche, che
gravitano intorno agli studi Kcynesiani e di continuatori e critici e di precursori di questo orientamento,
consente di potere confermare la legittimità logica dei tre punti di vista da cui l'attività finanziaria come il
vincolo fiscale può essere osservata scientificamente, giustificando tre sistematiche discipline.

XI.

IL CARATTERE RAZIONALE DELLO STUDIO COMPIUTO


IN QUESTE LEZIONI DI ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA.

La definizione che ho dato della scienza delle finanze, per la parte di contenuto quantitativo (eco-
nomico), consente di evitare la ricerca, sovente assai artificiosa e dettata da spesso vano tentativo di origi-
nalità, di una «propria impostazione» o di un proprio «schema», per la spiegazione del fenomeno finanzia-
rio.
Dicendo e scrivendo di «economia della finanza pubblica» ho inteso riferirmi allo studio scientifi-
co, obiettivo, che non abbisogna di ulteriori qualificazioni, giudizi di valore ecc., e verte nel campo della
logica economica.
Con queste precisazioni ritengo non necessaria una particolare impostazione (con la pretesa, da altri
manifestata, di spiegare tutti gli aspetti del fenomeno) o una dichiarazione che qualifichi queste ricerche
come integralmente gravitanti verso «concezioni», «schemi», «indirizzi», «scuole» o simili congreghe, che
non hanno importanza per il progresso della scienza. Il quale progresso è, a mio parere, nel nostro campo,
caratterizzato dalla maggiore o minore attitudine che hanno le ricerche teoriche a spiegare logicamente isti-
tuti e sistemi finanziari e loro effetti, da dati punti di vista, di cui qui si assume l'economico.
Questo sento di dichiarare senza voler far torto a coloro che, nel tracciare lo sviluppo storico di
questa disciplina hanno catalogato i miei scritti come pertinenti alla concezione «neo-economica» della fi-
nanza, classificazione che potrebbe trovare conferma nell'orientamento di queste lezioni, probabilmente, e
che, come affermavo nella prefazione alla I edizione di queste lezioni (1942), non ritengo per se stessa im-
portante rispetto ai problemi teorici.
B. Griziotti, nel presentare la bibliografia di scienza delle finanze e diritto finanziario, nella colle-
zione dell'Istituto nazionale per le relazioni culturali con l'estero, (I. R. C. E., Roma, 1943), catalogava in
testa a quelli di una accolta di studiosi contemporanei (d'Albergo, Paolo Ricca Salerno, Papi, Masci e Are-
na) alcuni manoscritti, come «più prossimi ai caratteri del primo gruppo» di contributi. Ad Autori esponenti
di detta prima grande corrente di studi, riferiva la seguente nota: «estreme elaborazioni di economia finan-
ziaria, che perfezionano le teorie esposte nell'ultimo quindicennio del secolo scorso» sono quelle di De Viti
De Marco, Graziani ed Einaudi.
Non credo di criticare chi, in base ai propri criteri, ha posto l'orientamento della mia visione del fe-
nomeno finanziario nel quadro della cosiddetta concezione sociologica della finanza, probabilmente argo-
mentando soprattutto dal mio saggio scritto nel 193281. In esso, senza attendere che il centenario della morte
del grande Pareto suscitasse interessi intorno alle sue considerazioni, ex professo, sulla scienza delle finan-
ze, dimostravo la capacità della visione logica del massimo di utilità per la collettività, di spiegare la genesi

__________
81
D'ALBERGO E., Intorno al concetto di costo della attività finanziaria, in «Annali di economia» dell'Università Boc-
coni, Milano.
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del calcolo che compie la classe governante in base a cui si prelevano le entrate attingendo alla ricchezza
della collettività medesima e se ne destina il provento a soddisfacimento di bisogni pubblici.
Confermo che la definizione adottata consapevolmente in queste lezioni di scienza delle finanze,
(con il non richiedere nessuna «impostazione» qualificabile secondo le tradizioni di chi cataloghi le ricerche
scientifiche), può corrispondere ad un modo di vedere i problemi per quello che sono e per quel poco che
razionalmente se ne può dire dal punto di vista economico.
Il Gangemi, che ha considerato detto mio saggio e forse, come egli s’esprime, altri «scritti appropria-
ti», ne desume «la adesione del d’Albergo alla concezione economico-sociologica, in quanto tiene conto dei
fattori sociali nello studio dei problemi finanziari (valutazione sociologica) e del fenomeno collettivo finan-
ziario in quanto già formato e staccato dalle forze che lo hanno determinato (aspetto economico del feno-
meno finanziario).
Invero, io ho inteso distinguere la genesi del calcolo finanziario dal suo contenuto. La genesi politico-
sociologica, pur illuminata da quantità economiche, non impedisce allo studioso di considerare, appunto, in
via analitica, le relazioni fra quantità economiche, una volta che il calcolo finanziario sia impostato dalle
competenti autorità, sia e proprio in vista degli effetti economici, sia prescindendone almeno in parte. Ciò
spiega le affermazioni che il Gangemi trae da altri scritti (precedenti edizioni di queste lezioni), quando
scrive: «Ernesto d’Albergo non crede che, rispetto alla trattazione dei problemi teorici della finanza, abbia
grande importanza la impostazione di uno schema tendente a spiegare il fenomeno finanziario, quando si
abbia la pretesa di trattare tutti i fatti finanziari alla luce di un solo schema generale. Infatti, esaminando i
vari trattati e «corsi», rarissimamente si trova che la premessa economica, sociologica o politico-giuridica
sia atta a spiegare in modo armonico, coerente e continuo tutti i fatti della attività finanziaria»82.
Ed è appunto per .queste ragioni e per quelle che seguono che nutro diffidenza nei confronti della pro-
fessione di appartenenza a «scuole» e «concezioni»: lo ricorda Gangemi, attingendo a miei scritti, là dove
asserisco che «tali corsi», o trattati, comprendono una serie di problemi razionali che vanno risolti in ogni
caso - qualunque sia la «scuola» a cui lo studioso professi di appartenere - alla luce della teoria economica
oppure della teoria giuridica ortodossa, i due aspetti che, finora, si prestano ad una seria disamina dei fatti
della finanza pubblica.
Non ho motivo alcuno, in base alla esperienza successiva e didattica e scientifica, di modificare il
mio pensiero. Esso è stato appropriatamente colto nel segno nella citazione seguente che mi piace richiama-
re per il rilievo che implicitamente si da alla obiettività della ricerca scientifica. Questa obiettività, eviden-
temente, è stata intuita, come feconda, al di fuori di subiettive preferenze che talvolta sono ideologiche, fi-
deistiche e sentimentali. Con l'inciso, infatti: «Senza riguardo alla classificazione nell'una (economica) o
nell'altra (politico-giuridico-sociale)», è stato segnalato il corso di lezioni del 1944 del d'Albergo83.
Una prima conseguenza di questa posizione teorica è che si raggiunge una obiettività di indagini
che consente, a mio parere, di spiegare i fatti di qualsiasi tempo storico; quindi essa è compatibile con qual-
siasi tipo di soggetto della attività finanziaria (Stato ed enti minori od assimilati) che si voglia ipotizzare. La
ricerca intende svincolarsi da legami (necessari secondo altri) con tipi di Stati ed orientamenti di classi go-
vernanti a cui corrispondano anche tendenzialmente, in concreto, ordinamenti positivi.
A conforto di questa mia posizione scientifica, sembra ammonitore e denso di significato metodo-
logico un implicito giudizio del De Viti De Marco intorno alla scarsa fecondità e alla contraddittorietà di
schemi aprioristici con cui si intenda dare la spiegazione razionale del fenomeno finanziario. Mi riferisco
alla dimostrazione che il De Viti ha dato della non necessarietà di concezioni generali, che pretendano di
compendiare logicamente i fatti oggetto della scienza: dimostrazione costituita dall'abbandono sostanziale
della tipologia (Stato monopolistico e popolare) riferita ai soggetti della attività finanziaria, dopo averla
premessa come promettente chiave logica alla mirabile trattazione teorica del fenomeno finanziario e dei
singoli istituti in cui esso si manifesta84.
In essa si ha una estensione alla finanza pubblica dei concetti di monopolio e di concorrenza che ca-
ratterizzano la funzionalità dei mercati, considerati dalla economia politica. Stato assoluto o monopolistico
(A), come soggetto ipotetico visto quale caso-limite, nel quale «una classe abbia di diritto e di fatto il mo-
nopolio del governo»: «il che - precisa il De Viti - le consente nella produzione dei beni pubblici, di sce-
gliere quelli che ridondano a suo esclusivo o prevalente vantaggio, e di metterne il costo a carico esclusivo
__________
82
L. GANGEMI: Elementi di scienza delle finanze, vol. I, p. 59, Napoli, Novene.
83
In nota al volume del Roepke - Spiegazione economica del mondo moderno, Rizzoli, ed. Milano, 1949, pag. 38.
84
A. DE VITI DE MARCO, Principii di Economia Finanziaria, nella edizione del 1934, a cura di G. Einaudi.
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o prevalente delle classi soggette». «In altre parole, mutatis mutandis, si riproduce, nella economia finanzia-
ria, il caso di monopolio privato. In forme diverse - che vanno ricercate e definite - la classe governante rea-
lizza e le classi governate pagano prezzi di monopolio».
Al tipo A di Stato (monopolistico) il De Viti contrappone il tipo di Stato popolare per cui »si pone
la premessa che, nella libera competizione di gruppi sociali e di partiti, ogni classe può arrivare al potere, e
arrivatavi, deve restare sotto il sindacato continuo della collettività». «Si realizzano, cosi, almeno in teoria
pura, le condizioni tipiche della libera concorrenza», condizioni del mercato caratterizzate dal fatto che «in
ogni momento, ad un gruppo produttore se ne può sostituire un altro, proveniente dalla massa dei consuma-
tori».
Il De Viti continua che «basta immaginare che l'avvicendamento dei gruppi, al governo, avvenga
con sufficiente rapidità, per arrivare al risultato-limite di considerare come praticamente identici i gruppi
che sono a turno governanti e governati». «Ciò richiama appunto il concetto di cooperativa». «Possiamo
considerare - conclude il De Viti - lo Stato democratico (B) come quello che si avvicina alla figura econo-
mica della cooperativa», «in quanto tutti i cittadini che pagano imposte sono anche i cittadini che consuma-
no i servizi pubblici». «Questa concezione teorica ha la sua base storica nel principio adottato da tutte le co-
stituzioni moderne, secondo le quali i contribuenti votano le imposte». «Nelle due ipotesi viene di conse-
guenza che lo Stato popolare o cooperativo fornisce i servizi pubblici al prezzo di costo».
In teoria pura «si possono studiare i fenomeni finanziari», premette De Viti, nelle due ipotesi A e B
di costituzione politica. Ma in teoria concreta (nel senso che l'economia finanziaria «cerca di avvicinarsi più
che sia possibile alla realtà e quindi si sforza di studiare il fenomeno reale, tenendo conto di tutti gli ele-
menti di fatto che lo compongono») bisogna di regola risalire alla combinazione delle due premesse, «poi-
ché nella realtà non esiste un governo assoluto, in cui la volontà del sovrano non subisca l'influenza modifi-
catrice dell'ambiente, nè una costituzione democratica, in cui la classe che governa non abbia una posizione
di monopolio relativo». Ulteriore qualificazione del De Viti è che «lo Stato di tipo A non rappresenta un
punto di riposo o di equilibrio e che il tipo B costituisce, in economia finanziaria, un punto di arrivo e di
equilibrio politico».
Non avrei insistito in riferimenti alle premesse del Maestro italiano, se in queste pagine non affer-
massi più che la scarsa utilità, la contraddittorietà di premesse del genere per «studiare i fenomeni finanzia-
ri». Se mai, nella stessa trattazione del De Viti, nella parte teorica generale, il riferimento a una di siffatte
premesse viene fatto incidentalmente a proposito della determinazione dei caratteri degli istituti attraverso i
quali lo Stato attinge le entrate. Tale è il caso (paragrafo 31) della spiegazione del «prezzo-tassa». Nel caso
del tipo B di Stato, «in cui manca il gruppo politico monopolista che realizzi profitti, la tassa sarà prezzo di
costo», «nel totale» ma nella ripartizione del costo totale fra le varie categorie di consumatori la tassa (che
considera prezzo pubblico) può diventare prezzo di monopolio. E così non si regge la coerenza delle conse-
guenze dalla premessa.
Per il resto, il De Viti che già aveva conferito importanza ai casi intermedi fra quelli-limite, intro-
ducendo un elemento di relatività che svuota in parte di forza orientativa e logicamente distintiva, le pre-
messe medesime, non ne tiene gran conto. Trascura, anzi, proprio le premesse in base a cui aveva annuncia-
to la possibilità di studiare i fenomeni finanziari. Possibilità (che enuncia nel paragrafo 8) e che è negletta
nello sviluppo delle argomentazioni perché deve essere sembrata non degna di essere logicamente persegui-
ta per la spiegazione del fenomeno finanziario.
Nei Principii di scienza delle finanze di M. Fasiani (Torino, Giappichelli, 1941), ai due tipi di Stato
considerati dal De Viti, corrispondono due presso a poco equivalenti. Precisamente: 1) il tipo di Stato A ov-
vero «un’organizzazione in cui una classe eletta dirigente (i dominanti) eserciti il potere nel proprio esclu-
sivo interesse, senza preoccuparsi di ciascuno o almeno della maggioranza»; 2) i1 tipo di Stato B): «un'or-
ganizzazione in cui il potere sia esercitato nell'interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma a-
vendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della maggioranza».
Il terzo tipo di Stato che considera, oltre a quelli ipotizzati dal De Viti De Marco (a cui i predetti del
Fasiani grosso modo corrispondono), è (C), il seguente: «un'organizzazione in cui il potere sia esercitato in-
vece nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come un'unità».
Prima di affiancare miei rilievi alla critica rivolta dall'Einaudi al Fasiani voglio rilevare che non so-
lo il redattore delle lezioni in oggetto, in varie occasioni in un ventennio, ma anche altri qualificati teorici
trovarono come ben diverso dalla loro introduzione, in finanza, del tipi di Stato (corrispondenti alle ipotesi-
limite di monopolio e concorrenza, in economia teorica) fosse il contributo originale del De Viti De Marco
a questa scienza. Non fosse altro che per il fatto, dallo stesso Einaudi ammesso, che il De Viti non trasse
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dalla premessa «tipologica» sui soggetti della attività finanziaria, le uniformità teoriche che ci si attendeva
«nello studio del fenomeno finanziario».
Invero, per citare due casi rappresentativi: a) il prof. A. Cabiati (nel «Giornale degli Economisti»,
novembre 1928) nel dedicare l'articolo bibliografico alla «Finanza di A. De Viti De Marco», non faceva pa-
rola alcuna di questo aspetto della visione teorica del maestro di economia finanziaria e fermava l'attenzio-
ne sulla concezione fondamentale: che nessuna parte del cosiddetto reddito lordo sfugge alle imposte sul
reddito e che ogni particella di reddito nasce gravata dal debito di imposta. Premessa di cui vedremo vari
sviluppi e che informa visioni generali di ripartizione del tributi come ipotesi di studio, la quale, tuttavia,
spiega gran parte del fenomeno reale. Essa, fra l'altro, fa cadere tutta la insostenibile impalcatura teorica
che, dalla enunciazione dello Stuart Mill ad oggi, s'è cercato di creare intorno alla pretesa «doppia tassazio-
ne del risparmio» od al «difetto» delle imposte dirette sui fatti di produzione di ricchezza nuova, come vio-
latrici del canone o postulato della eguaglianza della imposizione.
Anche il Borgatta, (nella «prefazione» al volume IX della «Nuova Collana di economisti italiani e
stranieri») ha portato l'attenzione sull'opera del De Viti De Marco, in merito alla «chiarificazione del con-
cetto di reddito nazionale in rapporto alla imposta, indicandola indipendente dalle premesse poste nel capi-
tolo primo (paragrafi 2-12, che riguardano i tipi di Stato).
Insisto in queste precisazioni non soltanto a titolo di individuazione di precedenti tentativi teorici o
per presentare squarci di storia della teoria finanziaria (che sarebbero già interessanti per sé, ai fini cultura-
li); ma per render conto dei motivi o criteri razionali ed obiettivi che guidano la esposizione logica delle
questioni fondamentali di economia della finanza pubblica nel presente «corso».
Per questo torno alla tipologia di De Viti De Marco, che il Fasiani ha sviluppato con la lodevole
ambizione di dare una univoca spiegazione di fatti ed uniformità, dai tre punti di vista su ricordati, da cui
agirebbero le classi governanti per lo Stato.
A) Aderisco pienamente all'idea di Einaudi, secondo il quale appartiene alla storia lo studio di pro-
babili correlazioni fra tipi di Stato, come Fasiani ha prospettati i modi di ipotizzare l'attività finanziaria (en-
trate e spese)85. Scienza ben difficile, codesta, tendente a ricercare uniformità nel tempo quando si incontri-
no, nello spiegare i fatti, casi ad es. come l'imposta indiretta sui consumi, ricorrendo in tutti e tre tipi di Sta-
to: 1) grazie alla connaturata illusione della inesistenza di onere tributario per la parte che sembri commista
al prezzo economico86; 2) per ridurre, oltre che le reazioni psicologiche e politiche, il costo di accertamento
e riscossione, e via dicendo.
In ogni caso una siffatta «scienza» o non è indipendente o presuppone che, a prescindere dai tipi di
Stato o di orientamenti delle classi governanti, l'economia finanziaria abbia risolto il problema del perché
del «modo» di essere della distribuzione di oneri e di spese da parte degli enti pubblici. Si tratta della analisi
delle caratteristiche logiche intrinseche di detti «modi» o della razionalità di essi per quanto riguarda gli ef-
fetti economici o in termini di quantità edonistiche, che i sistemi od istituti fiscali determinano interferendo
nell'equilibrio di bilanci di consumatori, di rapporti di scambio, di equilibrio della produzione ecc.
B) Ma un rilievo che Einaudi non ha formulato, e che qui illustro ancora, consiste nell'asseverare
che non esiste neanche univocamente relazione fra tipi di Stato (nel significato conferito ad essi da De Viti,
seguito da Fasiani, Gangemi ed altri, da un canto) e condizioni di mercati o tipi di vincoli della organizza-
__________
85
Non soltanto si finisce per fare teoria politica o sociologica o storica, ma addirittura psicologica, estesa ai fenome-
ni di massa. Così coerentemente aveva qualificato le sue indagini, ad es. A. Zorli Teoria psicologica della finanza,
Giornale degli Economisti, maggio-giugno 1890 quando cercava di porre in correlazione il variare qualitativo e quan-
titativo dei tributi con i sentimenti volta a volta egoistici od altruistici delle classi dominanti. Già ci si perde nel campo
della filosofia e della metafisica per la sola definizione del concetti. Ma soprattutto, i fenomeni concreti sistematica-
mente considerati, si potrebbero teoricamente spiegare da altri punti di vista e contrastanti magari o diversi da questo
atteggiamento alterno della classe governante, per dar conto degli stessi modi qualitativi e quantitativi del prelievo tri-
butario. Donde la non necessarietà della ipotesi statale, come passo a rilevare per le conseguenze nel campo logico.
85
Vedasi A. PUVIANI, Teoria dell'illusione finanziaria, Palermo, 1903, di cui il Fasiani ha fatto applicazione. Imposte
indirette amava, secondo G. B. Say, Napoleone I; imposte indirette, nonostante la propaganda in contrario, praticano
assai le democrazie: queste per illudere la clientela politica votante, con l'evitare ad essa formali, evidenti rapporti col
fisco e relative reazioni.
86
Vedasi A. PUVIANI, Teoria dell'illusione finanziaria, Palermo, 1903, di cui il Fasiani ha fatto applicazione. Imposte
indirette amava, secondo G. B. Say, Napoleone I; imposte indirette, nonostante la propaganda in contrario, praticano
assai le democrazie: queste per illudere la clientela politica votante, con l'evitare ad essa formali, evidenti rapporti col
fisco e relative reazioni.
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zione economica in cui si debbano analizzare, per la loro interferenza, i vincoli quantitativi, caratteristici,
che derivano dalla legislazione fiscale, dall'altro.
Prescindendo dalla ricerca storica codesto autore intelligentemente la svaluta «a priori». Ciò fa sup-
porre che uno Stato «assoluto» (che probabilmente dovrebbe immaginarsi, nei riferimenti storici, caratteriz-
zato dalla economia di tipo medioevale), possa ipotizzarsi come ad economia affidata, almeno in gran parte,
all'automatismo dei prezzi. Automatismo che vale per i tipi di Stato oscillanti fra lo Stato «assoluto» e quel-
lo «liberale o cooperativo»!
In generale, nella trattazione che si compirà in queste lezioni, si prescinderà da dette correlazioni fra
i tipi di Stato e i modi secondo i quali lo Stato e gli altri enti pubblici minori possono procurarsi le entrate
tributarie e distribuire le spese necessarie al soddisfacimento dei bisogni pubblici. Quindi: entrate, spese,
bisogni pubblici che interessano per la loro traduzione in spese, saranno fatti e fenomeni da cui trarre e a cui
riferire concetti, convenzioni, definizioni, «idealizzazioni» ed «ipotesi di studio» o l'assunzione di pure ipo-
tesi di cui rinunciamo a conoscere il substrato, o la genesi di tipo storico-politico, ovvero la presunta corre-
lazione tendenziale con tipi di orientamenti di classi governanti nello svolgere attività finanziaria.
Occorre qui precisare le ragioni di questo atteggiamento scientifico. Non si tratta di differenziare,
secondo talune definizioni, la scienza «vera» dalla scienza «feconda», per i rapporti con il mondo concreto
o per i fatti che essa prende in considerazione, o meno, per la capacità relativa di spiegare il reale.
Allorché si usano i termini di inesistenza di connessione a relazione non necessaria fra ipotesi o te-
orie concernenti i tipi di Stato e ipotesi e teorie e leggi o uniformità riscontrabili nel campo scientifico fi-
nanziario, si allude a quella che nel campo della logica è detta contraddizione.
Ho fatto riferimento, testé, al disagio in cui verrebbe a trovarsi uno scrittore di uniformità storico-
politico-sociologiche, nel trovare, ad es., lo stesso modo di prelevare entrate fiscali, a mezzo di imposte in-
dirette sui consumi o sulla spesa, rintracciabile in contrapposti tipi di Stato.
Riferiamoci, a mò di esempio, allo stesso istituto tributario, nel campo della logica economica, che
considera, in sé, quanto di razionale abbia codesto «modo» di prelevare entrate fiscali.
I) Sia che si ipotizzi un tipo o l'altro di Stato, l’effetto dell'imposta indiretta (come maggiorazione
di prezzo di una data merce consumata) è quello di poter rendere l'imposta medesima regressiva (come
meglio spiegherò) ovvero inversamente proporzionale al reddito del contribuente.
Nei confronti, ad es., della spesa per l'abitazione, è stato trovato (da Schwabe) che la proporzione
della spesa di affitto, rispetto al reddito monetario totale speso, va per ogni redditiere diminuendo, dopo un
certo punto, con il crescere del reddito medesimo.
In termini più generali è stato trovato (Engel), che aumentando il reddito monetario totale, aumenta
la proporzione di esso spesa in beni voluttuari o destinati a soddisfare bisogni meno urgenti, mentre dimi-
nuisce quella spesa in beni di prima necessità.
II) Sia che si stia o non nell'ipotesi di tipo di Stato A, B, C, o altro immaginabile, si può ipotizzare
che, simultaneamente o successivamente, la spesa pubblica sia discriminata in modo87 da avvantaggiare in
misura differenziale i soggetti colpiti da imposta indiretta, regressiva sulla spesa, neutralizzando o compen-
sando detto effetto, e questo dal punto di vista dell'onere definitivo che si ponga a carico del redditiere con-
tribuente, in sede di ripartizione di oneri e vantaggi da parte dello Stato (88).
Orbene, è chiaro che le due ipotesi pure o monde di storia (modo di prelievo di entrata e di distribu-
zione della spesa) possono logicamente e simultaneamente concepirsi e servire alla costruzione della teoria,
sia che esista o che non esista un tipo di Stato, come ipotesi simultanea.
Dei fatti finanziari idealizzati, si analizzerà quanto di razionale abbiano in sè, come modi e criteri di
ripartizione di entrate e spese, alla luce dei punti di vista che saranno ipotizzati nei capitoli successivi. Que-
sti sono già stati incidentalmente accennati (eguaglianza o generalità uniformità di imposizione; proporzio-
nalità, progressività di essa; fecondità o strumentalità della spesa pubblica, ecc.), ed in relazione alle condi-
zioni economiche immaginabili sul mercato.

__________
87
Cfr.: D’ALBERGO E., La determinazione della risultante del Barone e i dati del problema finanziario. «Annali del-
l'Università di Ferrara», 1937.
88
Barone denominava «democratica» codesta finanza, ma il termine ci potrebbe riportare nel campo dei tipi di Stato.
Ond'è che mi limitai, allora, a farlo corrispondere ad una ipotesi di modo di distribuire le spese, che da questo punto di
vista democratico sarebbe in contraddizione con il modo imposta regressiva di distribuire l'entrata finanza aristocratica
o nell'interesse dei governanti.
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Indi si procederà, secondo la definizione data, all'inizio del «corso», della scienza delle finanze per
il contenuto economico, alla analisi delle variazioni degli equilibri economici particolari e dell'equilibrio
economico generale, provocate dal modo e dal quantum del prelievo e dell'ottenimento in genere delle en-
trate (ad es. debito pubblico) e della erogazione delle spese nelle varie ipotesi di organizzazione economica
o di circostanze di essa molteplici e di intervento o meno del fattore «tempo».
C) Le obiezioni che qui, in modo esplicito, per necessità di trattazione critica sistematica trovano
sviluppo adeguato, erano state esposte da me in passato. Già fin dall'annunciare il contenuto dei volumi del
Fasiani, notavo in generale che essi contenevano gran parte di materia della teorica delle illusioni del Pu-
viani, come semmai vertente nel campo della politica. Questa qualificavo finanziaria. Di essa, per il proprio
senso scientifico, si è trattato concettualmente in queste lezioni. Nella stessa nota bibliografica («Rivista
Bancaria», 1942, febbraio), nella forma compatibile con il rispetto che va dovuto ad ogni tentativo condotto
con serietà di intenti (anche se non con adeguati risultati scientifici) avanzavo, di massima, riserve sulla re-
lazione fra tipi di Stato e analisi della fenomenica finanziaria (soprattutto avendo presente nella mente il ca-
so rappresentativo e non fecondo dello schema, su illustrato, del De Viti De Marco). A questi il Fasiani si
allacciava direttamente.
Scrivevo: «L'A. avanza tre ipotesi tipiche (schemi di Stato) che non rimangono fine a stesse come
spesso si nota nel trattati che le considerano». In queste espressioni era condensata la concezione della non
necessarietà logica di un legame fra tipi di Stato ed uniformità dedotte dalla analisi delle influenze della at-
tività finanziaria o delle caratteristiche tecniche ed economiche degli istituti finanziari che spesso si incon-
trano, indifferentemente, storicamente, nella politica finanziaria di Stati tendenti ai tipi-limite su considerati
dagli autori in discorso. Accennando all'intento del Fasiani, aggiungevo: «Ma divengono premesse logiche
della trattazione dei problemi della finanza, nell'ambito delle distinte ipotesi». Questo come programma di
studio o come intento dell'A.
Ho dimostrato nelle precedenti pagine in qual senso ritengo (scienza politica o sociologica) sia
ammissibile la correlazione fra tipi di Stato e fenomenica oggetto di studio, Nella gran parte dei fondamen-
tali problemi di economia finanziaria o nella parte meno discussa per il suo carattere scientifico (che è quel-
la economico-quantitativa) il legame necessario fra la tipologia statale e l'analisi teorica non sussiste.
In termini espliciti lo poneva in evidenza, successivamente alla mia nota bibliografica, il prof. U.
Ricci89 quando considerava il «concetto di reddito centrale in qualsiasi forma di Stato» per la ripartizione
del costo dei servizi pubblici. Soprattutto osservava: «Uno sarebbe tentato di meravigliarsi, vedendo la tra-
slazione esaminata disgiuntamente per i tre Stati, A, B, C. Forse che le leggi o uniformità del monopolio e
della concorrenza, della domanda elastica, sono diverse nell'uno o nell'altro? Che il punto di Cournot e l'an-
damento crescente di una curva di costi varia dall'una all'altra forma di Stato?» . E faceva altre osservazioni
in questo senso.
L'Einaudi90 pure successivamente alla mia ricordata bibliografica pubblicazione di riserve implicite
nei confronti dello schema tripartito di Fasiani non trova necessaria anch'egli la correlazione fra tipi di Stato
e, ad es., uniformità come quella riguardante il concetto di imposta generale.
Alla predetta mia (del 1942) posizione critica dei citati autori, ho fatto seguire una posizione co-
struttiva in senso sostitutivo nei campo metodologico e logico, nel senso cioè che è indicato nella preceden-
te lettera B) di questo paragrafo, già in precedenti occasioni didattiche e scientifiche. E più precisamente:
a) Nell'edizione precedente di queste lezioni ammettevo, nella logica Paretiana, come compito della
scienza delle finanze lo studio dei numerosi vincoli specifici che condizionano la soluzione dei problemi di
equilibrio individuale e macroeconomico. Ciò ammettevo in funzione dell'interferenza costituita dalle varie
specie di entrate tributarie che lo Stato preleva, a qualunque tipo di Stato detti «vincoli» nella tendenza sto-
rica si richiamino.
Questi concetti sono stati svolti analiticamente nei due paragrafi che precedono. In essi è dimostrata
la autonomia della scienza delle finanze dalla economia politica, come teoria pura, generale economica, e
sono avanzate avvertenze sui limiti di detta autonomia, che va intesa come grado di specializzazione.
b) Un altro punto di vista dal quale si svincola la trattazione della teoria finanziaria dai tipi di Stato,
riguarda le ipotesi di condizioni di mercato o di organizzazione dell'ambiente economico in cui agiscano i
vincoli fiscali, indipendentemente dai tipi di Stato ipotizzati dal De Viti, dal Fasiani, dal Gangemi e da altri
autori nel passato, e comunque pensabili dai punti di vista delle classificazioni di detti autori. Sono condi-
__________
89
RICCI U., Giornale degli Economisti, marzo-aprile 1942.
90
EINAUDI L., Rivista di Storia Economica, marzo 1942.
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zioni ipotetiche della organizzazione economica o dell'ambiente economico, alle quali sistematicamente,
per gradi di astrazione, si riferiranno gli specifici vincoli fiscali.
In questo senso si nega che vi sia la correlazione logica e storica fra talune ipotetiche condizioni
economiche e tipi di Stato visti al limite della casistica o per commistione di ipotesi-limite. Le stesse ipotesi
di organizzazione economica, con differenze di grado, si possono verificare, invero, indifferentemente nei
tre tipi di Stato.
Così che le uniformità teoriche che si trarranno e si esporranno alla luce anche delle ricerche acqui-
site alla scienza ad opera di numerosi studiosi, avranno valore o funzione interpretativa di fatti di ordina-
menti politici di ogni tempo, di orientamenti di classi governanti di ogni genere pensabile, di qualsiasi mer-
cato pensabile nello spazio. In questo senso la trattazione della economia della finanza pubblica pretende di
essere razionale ed obiettivamente atta a spiegare tendenzialmente tutti i fatti tipici della attività finanziaria:
cioè scienza «universale».
Un breve ma esplicito riferimento a questa idea è stato fatto dall'autore di questo «corso», sia pure
in via incidentale, nel trattare di un teorema finanziario91.
In modo formale, infatti, avevo istituito un collegamento logico, necessario, delle uniformità teori-
che nel campo della finanza pubblica alle tipiche ipotesi di: α) economia con un minimo di vincoli o «libe-
ra» da inframmettenze statali; β) economia con un massimo di vincoli o totalmente controllata; γ) economia
parziale «regolata» o soggetta a discontinui interventi in cui non si possono individuare i caratteri della in-
tegrale ed organica pianificazione collettivista.
Quindi, nel senso di questa classificazione di finanza, si deve trattarne per i problemi quantitativi
corrispondenti che formano oggetto della parte principale e pacifica, nella discussione scientifica, di questa
disciplina e di cui si fa parola nella seconda parte (b) della definizione di questa materia di studio.
Con questa visione, che completa lo studio della razionalità del «modi» di essere tipici delle entrate
e delle spese e dei «vincoli fiscali», in genere, l'economia della finanza pubblica diviene una teorica che
può servire a spiegare i fatti storici di ieri, di oggi e quelli virtuali, probabili e futuri. Essi, per l'aspetto isti-
tuzionale della società volta a volta considerata, possono essere compendiati nelle ipotesi basilari di cui alle
lettere α), β) e γ) di questo paragrafo. Non interessa più accertare se ai tipi di Stato, caratterizzati dagli ipo-
tizzati atteggiamenti voluti o «preterintenzionali» della classe governante, corrispondano condizioni del
mercato rispettivamente qui indicate.
Ma qualunque sia il tipo di Stato, o la «concezione» del fenomeno finanziario, le uniformità (dedot-
te, fra l'altro, ammettendo i diversi provvedimenti ipotetici di attività finanziaria o tipi di vincoli specificati
e, simultaneamente, diverse organizzazioni del mercato o diverse economie variamente vincolate, regolate,
controllate) varranno nell'ambito di siffatte ipotesi. E poiché le condizioni dei mercati, più o meno liberi o
regolati, si potranno in via astratta (e corrispondente situazione storica) constatare come ricorrenti presso i
contrapposti tipi di Stato, la teoria varrà a spiegare i fatti che si riferiscano ai tipi di Stato.
Mi rendo conto della difficoltà di classificare gli ordinamenti economici o le condizioni più o meno
approssimate o lontane nei confronti di quella che si usa denominare 1'«economia di mercato», caratterizza-
ta tendenzialmente da un minimo di vincoli. Condivido, da questo punto di vista, lo scrupolo scientifico del
Vinci92 di fronte al compito di classificare i sistemi economici per grandi linee. Così egli si esprimeva, dopo
aver dato l'idea di: a) ordinamenti prevalentemente liberisti; b) prevalentemente collettivisti; c) che non ri-
velino siffatta prevalenza. E anche egli criticava i giudizi sintetici di siffatta natura, data la molteplicità dei
criteri a cui obbedisce un dato ordinamento eclettico, in cui non si abbia prevalenza ben marcata di orien-
tamenti.
Più recentemente, riferendosi a individualismo e collettivismo, come correnti di idee che riguardano
i rapporti dell'individuo con lo Stato, il Vinci ha asserito: «quantunque non siano stati realizzati e si dimo-
stri che sono irrealizzabili, essi comprendono una gamma innumerevole di ordinamenti economici: sono gli
ordinamenti eclettici, dei quali non è difficile, in generale, conoscere le direttive e i criteri elementari rica-
vati dall'una e dall'altra corrente di idee»93 .
__________
91
E. D'ALBERGO, Prestiti e imposte nelle nuove teorie e nella esperienza bellica, apparso negli «Studi dell'Istituto di
scienze economiche e statistiche» dell'Università di Milano, 1945). In esso trattavo della preferibilità, dal lato sogget-
tivo o delle utilità sacrificate, del prestito rispetto alla imposta straordinaria.
92
VINCI F., Gli ordinamenti economici, Milano, Giuffrè, 1945.
93
VINCI F, Breve introduzione all'economica, Zuffi editore, Bologna, 1949). Su queste avvertenze è tornato il Vinci,
nelle Istituzioni di economica, Bologna, 1950.
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Sono ordinamenti vitali nonostante la coesistenza di criteri eterogenei (monopolio di Stato in alcuni
rami di produzione con criteri collettivisti, e iniziativa privata in altri); od anche criteri contrastanti fra loro
(imposizione del prezzo di calmiere, cioè inferiore a quello corrispondente all'eguaglianza fra la somma
delle domande e la somma delle offerte - criterio collettivista - e mantenimento ai privati della produzione e
della negoziazione del bene o servizio).
Di tale eclettismo ha scritto il prof. Varga dell'Università di Budapest (nella rivista «Economia in-
ternazionale», novembre 1949), illustrando l'evoluzione dell'economia sovietica.
Voglio ricordare che riforme monetarie e interventi statali in grande stile in questi anni sono stati
giustificati ufficialmente, in Russia, anche con la finalità di assorbire i profitti che, per il funzionamento del
«mercato nero» sono stati ottenuti «a danno del popolo consumatore», da gruppi di «speculatori». Il che
dimostra la funzionalità, entro certi limiti e - ciò che interessa per la teoria - tendenzialmente, di mercato
senza vincoli, sul tipo di quello ipotizzabile in economia «liberale» o «liberista» ed eclettica. E dà la prova
storica di un modo di tassazione differenziale della capacità contributiva «relativa», concetto su cui tornerò
in apposito capitolo. E tutto ciò è rappresentativo della coesistenza: 1) di tipo di Stato rispondente al caso-
limite secondo alcuni, di tipo nazionalistico, secondo altri, di tipo monopolistico, per il modo di comportar-
si della classe governante; e 2) di condizioni di mercato osservabili in altri tipi di Stato (ad es., democratico
o cooperativo). Così che, per la teoria finanziaria, è ancora provato come essa debba svincolarsi da codeste
correlazioni (in cui entrino schemi di Stati e riferirsi a tipi di condizioni di mercato più o meno vincolato o
regolato o controllato) allo scopo di assumere, come scienza, valore universale o per valere per ogni settore
dello spazio e per ogni tempo.
Il prof. Varga, egli, dopo avere premesso che la teoria moderna non accetta la tradizionale opposi-
zione o antitesi fra economia politica capitalista (borghese) e socialista, afferma che «proprietà privata e li-
bertà di contratti non esistono mai senza limitazioni e, in rivincita (anche in un regime socialista) esse sussi-
stono in forme rudimentali qualunque».
Nel caso particolare dell'economia russa, il Varga scrive in generale che: I) i fenomeni della produ-
zione sono necessariamente di carattere identico; II) i punti di vista dell'utile hanno una funzione direttiva
anche per le imprese sovietiche, perché soltanto essi si prestano come punto di partenza per il controllo del-
la efficacia della gestione; III) anche la concorrenza non è interamente eliminata nell'economia sovietica;
IV) il fenomeno della rendita fondiaria si verifica anche nella economia sovietica e lo Stato intende che essa
sia assorbita a vantaggio della collettività; V) benché il tasso di interesse sia unilateralmente fissato dallo
Stato, considerazioni simili alle valutazioni di mercato hanno luogo, così come per converso, nei paesi capi-
talistici considerazioni indipendenti dal mercato prendono parte attiva alla formazione del tasso di interesse.
Non proseguo in queste citazioni da cui si desume che, anche avendo individuato tipi troppo sinteti-
ci di condizioni economiche o di organizzazioni o di ordinamenti economici (quali insiemi di istituti riguar-
danti l'attività economica di una popolazione (Vinci), per grandi linee, come sotto le lettere α), β) e γ) del
mio saggio del 1945), non si può pensare di aver dato luogo a differenziazioni nette e di significato univo-
co. Anche per questo non si può fare a meno di prospettare una siffatta classificazione dei mercati come va-
riamente vincolati (problema di grado), accennando analiticamente alle predette «condizioni».
Per queste ragioni non qualificherò le uniformità scientifiche caratterizzate da intervento del vinco-
lo fiscale o finanziario, come attinenti alla «finanza» sinteticamente detta degli ordinamenti liberisti, o col-
lettivisti o eclettici. Se mai la teoria finanziaria riflettente le ipotesi-limite α), β) e γ) di economia (di merca-
to, con assenza di vincoli, totalmente o parzialmente vincolata o regolata o controllata) vale qualora si ac-
colga codesta differenziazione in prima approssimazione, da chi abbia irresistibile passione per il catalogo
delle teorie (94).

__________
94
Ma detta troppo sintetica «prima approssimazione» può essere contraddetta dai fatti in modo talmente immediato
ed evidente, che è poco fecondo l'enunciarla, proprio come dimostro nel caso dell'economia totalmente controllata o a
sistema collettivista, come altri dice. In essa, come ho riferito sopra, si è avuto motivo storicamente provato, in misura
rilevante, con provvedimenti di portata generale come «il cambio della moneta», di far emergere la coesistenza, tutt'al-
tro che al margine del sistema collettivistico, di settori dell'economia regolati dalle leggi che dominano nella ipotesi di
inesistenza o di un minino di vincoli economia di mercato.
Un dato di cronaca che può illuminare, mentre redigo queste lezioni. Da fonti svizzere risulta che, per i riverberi del-
la guerra in Corea e delle temute complicazioni internazionali, sul «mercato libero» di farina, pane e patate, si è avuto,
in pochi giorni, un aumento di prezzi dell'80 % in Russia. Sensibilità codesta, superiore a quella che le cronache regi-
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Ma di economia della finanza pubblica sarà più corretto discorrere come della sistematica delle teo-
rie o di insieme di uniformità che riguardino:
I) la razionalità o «modi» di istituti e fatti fiscali. Di questi «modi» o caratteri qualitativi dei mezzi
si avvale l'attività finanziaria. Essi possono logicamente e storicamente coesistere nei tre tipi - ed altri,
pensabili, di Stato, e quindi indipendenti a non necessariamente legati all'ipotesi tipologica (come prezzi
privati e pubblici, tasse, contributi, imposte particolari o generali, ecc.);
II) gli effetti della attività finanziaria (prelievi di entrate, erogazione di spese, mobilitazione di di-
sponibilità per fini fiscali, ecc.) nelle ipotesi, - che riflettano condizioni in cui si svolge l'attività dei compo-
nenti la collettività e di enti per essi operanti - le più varie e ravvisabili nei più diversi e talvolta antitetici
tipi di Stato (nel senso di quelli A, B, C), o negli ordinamenti economici delle diverse società umane imma-
ginabili.
Così: uniformità teoriche si potranno formulare ponendo in rapporto i fatti finanziari in via ipotetica
con: a) le condizioni istituzionali (proprietà privata, pubblica, aziende miste, cooperative, ecc.); b) le condi-
zioni dell'offerta (imprese statizzate, socializzate, monopoli, casi di concorrenza perfetta, imperfetta, di mo-
nopolio bilaterale, di duopolio, ipotesi di costi crescenti, decrescenti e costanti); c) i gradi di libertà e di ela-
sticità della domanda e delle «scelte» e dei consumi (complementarietà e succedaneità dei beni e, in genere,
rapporti di sostituzione dei beni, razionamento, divieti ed altre limitazioni, ipotizzando costanza e variabili-
tà dell'utilità marginale della moneta e correlative «rendite di consumatori»); d) gli interveneti nel campo
degli investimenti (riduzioni di aree coltivabili e distribuzioni coattive delle colture agricole, autorizzazioni
di nuovi impianti industriali, manovra della moneta, autorizzazioni di forme di finanziamento, ecc.); e) la
libertà contrattuale supposta nei rapporti di lavoro, l'intervento di leghe o sindacati per la fissazione di livel-
li minimi di salari o la imposizione del quantum di occupazione d forze di lavoro; f) la libera circolazione
delle merci nel mercato chiuso e la libera fissazione dei relativi prezzi o la politica di calmieri, di privilegi
per aziende di consumi, pubbliche, limitazioni e licenze nel campo del movimento internazionale (mercati
aperti) delle merci, ecc.; g) la gradualità o l'assenza di vincoli concernenti rendite, profitti, interessi nelle
varie ipotesi, ecc. ecc.
Questi ed altri casi tipici di vincoli economici sono rilevabili in modo rispettivo (non necessaria-
mente in un solo tipo di Stato) ma ne sono in certa misura indipendenti anche perché, come ho detto, pos-
sono coesistere nello stesso tipo di Stato. Non importa in quale misura (grado). Per la logica della economia
finanziaria è sufficiente che si enunci il tipo di ipotesi, a prescindere dalla grandezza della probabilità o dal-
la frequenza con cui il fenomeno concreto corrisponda, in diversi ordinamenti istituzionali, alle ipotesi me-
desime.
Riferendo alla prima (a) e, specie, alla seconda parte (b) della definizione di scienza delle finanze,
le argomentazioni che figurano in questo e nei precedenti paragrafi, credo si possa individuare la scientifica
visione teorica dell'economia della finanza pubblica. Essa mi appare la più razionale, obiettiva, neutra ed
universale, atta cioè a spiegare i fatti di qualsiasi ambiente istituzionale, di qualsiasi tipo di Stato. Il motivo
è che le uniformità o leggi teoriche discendono dalla considerazione di vincoli fiscali supposti operanti nel-
le su distinte ipotesi di condizioni del mercato e delle caratteristiche dei «modi» od ordinamenti finanziari
pensabili.
Il «distacco» dalle passioni, dai sentimenti e dagli interessi, secondo il più esigente metodo scienti-
fico, sembra assicurato da questa posizione di fronte alla esigenza di una teorizzazione della economia della
finanza pubblica, meglio di quanto da altri si sia tentato. Ma devo osservare che la neutralità fredda dell'os-
servatore con fini scientifici, vacilla più volte in Fagiani. Ciò avviene proprio quando, senza volere o contro
l'intendimento, formula giudizi di valore, allorché, ad es.: a), giudica lo «Stato nazionalistico», il tipo di or-
ganizzazione verso cui si tende ad orientarsi nel nostro tempo, cioè «moderna, l'ultima e la più viva espres-
sione della civiltà europea»; b) considera lo Stato. liberale e lo Stato assoluto deviazioni dalla tendenza ver-
so lo Stato nazionalistico che «rappresenta l'ultimo stadio della evoluzione storica dell'organizzazione poli-
tica»; c) giudica, ormai prospettando un futuro prossimo, di carattere storico le uniformità relative ad orga-
nizzazioni politiche come quelle che rispondono allo Stato democratico liberale a forma parlamentare, in
quanto potrebbero interessare «come oggigiorno (interessa) una teoria pura dell'economia schiavista»; d)
ciò fa nonostante in Paesi, «che volgarmente vengono detti democratici», certi atteggiamenti «malgrado i
dinieghi dei dirigenti stranieri, segnano una tendenza dell'organizzazione economica e finanziaria di quegli
__________
strano per altri mercati del mondo cosiddetto capitalistico, cioè ordinato politicamente ed economicamente secondo
schemi costituzionali ben diversi dal collettivista, in relazione allo stesso fattore causale.
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Stati, ad avvicinarsi inconsciamente e per via non logica, al tipo di organizzazione nazionalistica voluta-
mente e coerentemente perseguita nell'Italia Fascista».
Queste citazioni dai Principii del Fasiani denotano aleatorietà e, come si vede in parte, caducità di
giudizi di valore storici e politici, che sono discesi dall'aver voluto adottare, continuandola, la tipologia in-
trodotta ma subito abbandonata dal De Viti, dopo una prima non molto felice e certo non feconda visione
analogica. Sono in genere giudizi storico-politici, estranei al rigore scientifico, che, in altre parti, realizza
fedelmente il Fasiani, nella trattazione separata e di carattere economico.
Ho insistito su questi schemi per dimostrare la loro limitata possibilità di spiegare la logica del tra-
sferimento, nell'insieme, di una quantità di potere d'acquisto (fenomeno di massa) dal settore dei bisogni o
delle spese a cui provvedano di propria iniziativa i singoli, al settore riservato alla attività dello Stato nel
soddisfare bisogni, perciò detti pubblici. Ma neanche i «modi» specifici di essere (degli istituti, di cui lo
Stato può avvalersi nel distribuire il costo dei servizi pubblici in qualsiasi luogo e tempo, nel senso atomi-
stico su precisato), ricevono sprazzi di luce che ne chiariscano qualche aspetto da dette «concezioni», o
«impostazioni».
Il tentativo di De Viti, seguito dal Fagiani (per quanto riguarda la introduzione della tipologia dei
soggetti della attività finanziaria o delle classi governanti per lo Stato, a lungo vagliato qui come strumento
esplicativo di tendenze fenomeniche) ritengo sia già stato visto anche dal lato della insufficienza e soprat-
tutto per la contraddittorietà logica di esso rispetto ai fenomeni medesimi.
Va posto l'accento sull'uso del termine contraddittorio, riferito non soltanto, in senso filosofico, agli
elementi o parti del ragionamento, come si è visto, nel dimostrare la non necessarietà logica del rapporto
fra ipotesi di tipi di Stato e uniformità o leggi teoriche nel campo finanziario.
Invero, nel rilevare contraddizioni fra «schemi», «impostazioni» e fatti e fenomeni, non si intende
significare la irrealità delle ipotesi, nel senso in cui se ne è discorso in precedenza.
Infatti si è avuto frequente occasione, nei capitoli che precedono di dare risalto a:
a) legittimità logica delle ipotesi, anche se esse non riflettono fatti attuali, ma eventi e circostanze
future o probabili;
b) divergenza delle ipotesi dai fatti, anche passati, nel senso che la teoria che in base ad esse si sia
costruita, rispecchi a spieghi aspetti a idealizzazioni del concreto, che non può essere teoricamente analiz-
zato in tutta la complessità del reale, ma attraverso semplificazioni dei fatti medesimi.
c) rilevanza di fatti, considerati tipici anche se non necessariamente più «frequenti» nel significato
storico statistico dei termine;
d) α) accordo fra teoria ed esperienza; β) legami con la realtà; γ) concordanza con essa delle ipo-
tesi, nel significato di cui alla lettera b).
Ma nei casi a) - d) non si è inteso discorrere di contraddizione fra ipotesi e fatti.
Siffatte contraddizioni, pur accogliendo come in queste lezioni, il più esteso dominio delle ipotesi,
non possono essere ammesse in una scienza che abbia per oggetto la spiegazione di fatti e fenomeni esami-
nati in semplificazioni o idealizzazioni ipotetiche, spinte, quanto si voglia nell'astrazione. Ma non possono
mai essere ammesse in senso contrario al normale manifestarsi dei fatti e dei fenomeni, ed alle eccezioni o
alle marginali manifestazioni di essi, senza limitazioni di tempo e di spazio (95).

__________
95
GANGEMI L., Elementi di scienza delle finanze, Jovene, Napoli, 1948. Egli aveva avuto l'intuizione generica del-
l'importanza che per me è decisivamente ed unicamente rilevante per la teoria pura finanziaria del tipo di struttura e-
conomica, caratterizzata dalla gradualità dei vincoli posti dalle diverse legislazioni.
A mio avviso, non interessa per la teoria economica che «un regime totalitario» o «governi democratici», abbiano
vincolato l'economia. Non ci interessa che si tratti di «corporativismo fascista», di «nazionalsocialismo» o di «falangi-
smo» con relative «preoccupazioni» della «classe eletta» governante o con relative visioni sociali e politiche dell'inte-
resse dei singoli e della comunità. Non interessano i regimi politici e sociali per il relativo coordinamento di interessi
di singoli, con quelli del gruppo e della generalità. Nè che la Nazione sia considerata o meno come un tutto, e che la
«condotta politica e la conseguente condotta economica» siano «basate sui concetto che lo Stato sia un'idea, una cate-
goria ma anzitutto una realtà».
Che i tipi di organizzazione economica tendano a aggiungere i fini dello Stato sociale moderno (con relative tenden-
ze a realizzare finalità sociali a contenuto economico) non riguarda la teoria finanziaria nel caso nostro. La quale teo-
ria, qualunque sia l'organizzazione politica, si trova ad ipotizzare condizioni astratte di rapporti economici i più varia-
mente vincolati, che determinano la soluzione dei problemi quantitativi. Ciò avviene quando si introduca la specifica-
zione di vincoli fiscali, qualunque ne sia stato il presupposto politico-sociale.
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Sarebbe facile compiere una rassegna critica delle cosiddette «concezioni» per dimostrare: 1) la in-
sussistenza di capacità esplicativa [di alcuna parte del fenomeno finanziario] che si individua nelle «conce-
zioni» o «impostazioni», negli «schemi»; 2) la parzialità di tale attitudine esplicativa di codesti schemi. Essi
sono, spesso, fragili esercitazioni di laboratorio che costituiscono la preoccupazione di molti esordienti nel
campo della scienza delle finanze (magari senza impostarne razionalmente e risolverne alcun problema par-
ticolare, nella ambizione di offrire lo strumento «originale» capace di illuminare e spiegare coerentemente e
costantemente tutti i fatti osservabili nella attività finanziaria).
Come a casi-limite, si pensi: a) alla concezione che ha l'intento di spiegare il quantum del potere
d'acquisto sottratto dallo Stato all'edonista, posto di fronte ai bisogni da soddisfare (compatibilmente con un
massimo di ofelimità o di utilità soggettiva, estendendo al consumo di servizi pubblici uniformità dell'eco-
nomia pura, come quella della eguaglianza tra le ofelimità marginali ponderate). In un campo in cui molto
domina la coazione per i consumi di servizi pubblici e l'edonista si trova di fronte ad ignote quote di costo
di detti servizi (e non di fronte a prezzi noti «a priori», dei servizi), codesto intento di «concezione» non
regge. Questa potrebbe essere applicata, direttamente, per spiegare i prezzi privati, quasi-privati, pubblici e
le tasse (cioè gli istituti caratterizzati da elemento volontaristico o da libertà della «scelta») b) O si consideri
il caso di semplice parafrasi della definizione di una parte della attività finanziaria, con cui si scopre che
l'attività medesima dello Stato è caratterizzata (tutta?) dalla coazione, stranamente distinta in formale o so-
stanziale. Infatti, essa (data la prevalente definizione di bisogni pubblici) non può che riguardare (in quanto
«coattiva») tanto l'obbligo di consumare il servizio quanto l'obbligo di integrare, pro-rata, il costo del servi-
zio. E anche ammesso che ciò illumini più di una definizione, si nota come rimangano fuori i problemi ri-
guardanti i «modi» di procurarsi le entrate, senza coazione . Questo è il caso dei mezzi (istituti indicati alla
precedente lettera a), e delle varie forme di prestiti pubblici volontari, che fronteggiano consumi volontari e
coattivi in termini di servizi pubblici od equivalenti strumentalmente.
Nel precedente corso di scienza delle finanze «ad uso degli studenti», ho fatto richiamo a teorie
come ad ipotesi per spiegare con esse i fatti finanziari fino al limite della loro strumentalità gnoseologica o
logico esplicativa, o per esaminare la razionalità dei «modi» di ottenere le entrate fiscali e gli effetti del pre-
lievo e della spesa, ad un tempo, sui rapporti economici di quantità in equilibrio.
Nell'ordine della materia, in queste lezioni, le subiettive ipotesi o teorie o concezioni o impostazio-
ni, emergeranno indirettamente, solo se atte a spiegare istituti e modi di essere delle entrate e delle spese e
nei problemi che sorgono per la ripartizione del costo del servizi pubblici, o a spiegare la pressione della
coazione statale, il ricorso al prestito pubblico con relativa pressione sul mercato in termini di costo della
redistribuzione degli investimenti o di utilità subiettiva sacrificata dai contribuenti, ecc.
Sempre ai fini della conoscenza della storia delle teorie, cioè a fini culturali, rimando .alle numero-
se citazioni ed ai riassunti bibliografici contenuti nell'opera apparentemente monografica di E.R.A. Selig-
man96. Inoltre suggerisco la lettura di Ricca Salerno97.

__________
96
SELIGMAN E.R.A., La traslazione e l'incidenza delle imposte, prima traduzione italiana dalla II edizione (1898)
contenuta nella V serie, vol. XVI della Biblioteca dell'Economista.
97
RICCA S., Storia delle dottrine finanziari, 2a edizione, Palermo, Reber, 1896.
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CAPITOLO I.

BISOGNI PUBBLICI - SPESE PUBBLICHE

I.

I BISOGNI PUBBLICI

A) Queste lezioni sono destinate agli studenti e agli iniziati nelle scienze economiche, che abbiano
seguito corsi di economia politica, tenuto conto che, nelle principali trattazioni generali economiche, si è
dedicato ben poco spazio alla categoria dei bisogni. Invero di essi si occupa la psicologia, come specializ-
zazione scientifica.
Chi si sia formato sui Principii di Economica di Marshall, ricorda come, fatto omaggio alle indagini
che si sono occupate della classificazione formale dei bisogni, egli l'abbia ritenuta «non necessaria per i no-
stri scopi».
Riferendosi alle analisi dei bisogni e dei desideri che si trova «nella gran maggioranza dei trattati
d'economia francesi o del continente», Marshall asseriva che: «i rigidi confini che gli scrittori inglesi hanno
assegnato alla loro scienza, hanno escluso per essi tali discussioni».
Non possiamo dimenticare l'orientamento del Pareto, il cultore «continentale» dell'economia politi-
ca secondo lo schema dell'equilibrio economico generale. Egli, nel Manuale (cap. IV) tratta si può dire in-
cidentalmente dei bisogni e chiarisce soprattutto, in rapporto ai gusti (piacere che prova l'uomo consuman-
do certe cose e comunque usandone), che: α) mentre la relazione di equivalenza (fra i consumi corrispon-
denti ad un dato bisogno), riferita ai «gusti» dell'individuo, altro non è se non la relazione che dà la «curva»
di indifferenza; nel caso (β) in cui la equivalenza si riferisca ai «bisogni», non ci sarebbe più identità fra re-
lazione di equivalenza e quella della curva di indifferenza. Questo mi sembra il suo principale accenno al
concetto di bisogno.
Siffatte autorevoli prese di posizione non possono essere trascurate e sono ancora attuali. Si apra il
Corso di economia politica (del 1949) del prof. C. Bresciani Turroni, che ragiona nell'ambito logico degli
schemi Marshalliani e Paretiani). Ebbene, egli ci avverte che: il capitolo «bisogni» sempre troverebbe posto
in un trattato di scienza economica, «qualunque cosa fosse il regime politico-sociale e sarebbe l'introduzio-
ne naturale all'analisi scientifica dei fatti economici». Ma aggiunge: «Non Spetta, però, all'economia politi-
ca approfondire la nozione di bisogno». E più oltre: «qualunque sia l'origine dei bisogni, a noi basta consta-
tare che ad un dato momento l'individuo senta dei bisogni diversi, ai quali egli non attribuisce la stessa im-
portanza»; indi critica la tentata grossolana classificazione dei bisogni secondo la loro importanza «assolu-
ta», con risultati «vaghi e incerti».
Lo stesso dicasi di F. Vinci. Nella sua opera del 1950 di «bisogni di varia natura» egli dice appena,
iniziando la trattazione. E ne tiene conto indirettamente assumendo che il soggetto (che viene denominato,
come da L. Amoroso, unità di consumo) attribuisce all'insieme delle quantità dei beni e servizi consumati
nell'unità di tempo in indice di appagamento ricavato da una scala arbitraria. Così la nozione di bisogno,
appena noverata, si eclissa. Essa è un dato nelle esposizioni di codesti autori, che non si allontanano dalla
posizione dell'Amoroso, uno dei più autorevoli sostenitori della teoria dell'equilibrio economico.
Orbene, in una trattazione di economia della finanza pubblica, non si ha motivo di assumere un at-
teggiamento diverso per quanto riguarda il riferimento dei bisogni della collettività alla attività del soggetto
(Stato o ente pubblico minore) che, per soddisfarli, preleva entrate e compie spese.
Il De Viti De Marco, nel precisare il «Carattere teorico dell'economia finanziaria» (1886), aveva
ammesso: 1) che, «come non e necessario che l'economista discuta quali bisogni l'uomo deve soddisfare e
quali non deve, così non è necessario alla indagine finanziaria discutere dei bisogni dello Stato, cioè delle
sue attribuzioni e delle spese che deve incontrare. La spesa è un presupposto perché di fatto un'attività fi-
nanziaria sorge per la copertura di qualunque spesa, cioè per il raggiungimento di qualunque fine»; 2) che
«la diversità delle funzioni pubbliche secondo le varie epoche e i vari paesi, è un fatto, ed è pure un fatto
che un'attività finanziaria in ogni caso si svolge per parte dello Stato». Ma ciò ammesso, crede di aggiunge-

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re98: 3) «una cosa è riconoscere che la sfera dei beni pubblici è un dato di fatto della attività finanziaria, al-
tra cosa è analizzare e spiegare il fatto medesimo, per ricercare la legge del suo essere e del suo divenire».
Peraltro una analisi del contenuto oggettivo di quelli che si sogliono denominare bisogni pubblici, si
è rivelata di scarsa forza esplicativa e non necessaria. Si può partire dalla supposizione dell'esistenza di vari
bisogni da soddisfare, correlati con i fini o le funzioni dell'ente pubblico e, quindi, con le spese che esso so-
stiene. I bisogni pubblici sono cioè dati di fatto anche nella nostra esposizione. Basta ricordare che pubblici
sono quelli soddisfatti in ogni momento storico dall'ente pubblico, affrontando spese a cui provvede con
pubbliche entrate. Così ho concluso in precedenti edizioni.
Questa definizione può parere, come è stato da altri osservato, una pura «petizione di principio».
Ma i tentativi di analizzare il contenuto oggettivo della nozione di bisogni pubblici, compiuto da economisti
e cultori di scienza sociologica o politica non si possono considerare soddisfacenti. Pertanto, non avendo in-
teresse in sè, ma essendo supposti come dati, li si può individuare con riferimento al soggetto della attività
finanziaria, come è stata delimitata nella definizione di scienza delle finanze od economia della finanza
pubblica che informa omogeneamente queste lezioni.
Invero l'elemento «storicistico» domina in questa materia e travolge i tentativi di logica economica
tendenti a qualificare, per la loro natura o il loro contenuto, i bisogni pubblici. Essi sono i più diversi e va-
riabili, nel tempo e nello spazio, potendo gli stessi bisogni essere soddisfatti, alternativamente e successi-
vamente, dai privati e dalle loro organizzazioni - che qualche studioso in veste di sociologo ha voluto de-
nominare «gruppi privati» - e dalle pubbliche organizzazioni quali eminentemente: lo Stato, le Regioni, le
Province, i Dipartimenti, i Comuni ed altri enti territoriali e istituzionali di diritto pubblico, a cui la legge
conferisca la funzione di soddisfare bisogni ed esigenze delle collettività corrispondenti, cioè l'autorizza-
zione a compiere spese e il potere di procurarsi le entrate occorrenti.
In omaggio alla autorità dei primi nostri studiosi, che avevano compiuto i tentativi di trovare un
fundamentum divisionis fra bisogni privati e pubblici, si può dire che esso ha gravitato, specie sulla fine del
secolo scorso e all'inizio di questo secolo, intorno a queste quattro gruppi principalmente:
a) applicazione al fenomeno finanziario del principio del minimo mezzo ovvero del soddisfacimen-
to, da parte degli enti pubblici, dei bisogni che essi fronteggerebbero con costo minore o, a parità di costo,
con maggior soddisfazione per la collettività. Fra i sostenitori del criterio di differenziazione figuravano:
Berardi, Mazzola, Cossa, De Viti De Marco, in certo senso Einaudi, Graziani ed altri;
b) applicazione al fenomeno finanziario del concetto di massimi edonistici. Per questa visione (so-
prattutto illustrata da Pantaleoni e Bertolini) sarebbero «pubblici» i bisogni necessariamente soddisfacibili
da parte dell'ente pubblico. E ciò perché si può raggiungere, nel soddisfarli, il massimo edonistico collettivo
(e non anche quello individuale) dovendosi costringere alcuni a compiere sacrifici per il vantaggio colletti-
vo. E detta coazione può essere esercitata dall'ente pubblico.
Egli vede nel «contrasto di interessi» la caratteristica dei bisogni «collettivi», contrasto che richiede
l'intervento dello Stato. In questo senso, il De Viti è indotto a considerare il bisogno collettivo, rappresenta-
to dalla somma algebrica99 di bisogni positivi (produzione dei servizi pubblici) e negativi (non produzione
__________
98
DE VITI DE MARCO A., Principii di economia finanziaria, cit. p. 19.
99
Nota di N. LUCIANI (curatore di questa edizione). Gli addendi di questa “somma algebrica” di De Viti De Marco
sono cose completamente diverse dalla somma “tassi di sostituzione” a cui Samuelson fa riferimento per l’ottimo pare-
tiano applicato ai beni pubblici. In primo luogo, perché detta somma algebrica è ivi definita come somma di compo-
nenti positivi e negativi, mentre in Samuelson la somma è aritmetica (direbbe De Viti), ossia è definita come somma
di componenti tutti dello stesso segno (positivi). Infatti Samuelson, ipotizzata la definizione di bene pubblico come
bene che, una volta offerto a qualcuno, è disponibile per tutti illimitatamente, egli definisce ottima la produzione e il
consumo di un determinato bene pubblico quella quantità di esso, in corrispondenza della quale la somma dei tassi
marginali di sostituzione tra un bene pubblico e un bene privato ( a cui si rinunci per produrlo) dev’essere uguale al
tasso di trasformazione tra i beni medesimi (detto altrimenti, in corrispondenza alla uguaglianza tra la somma dei
prezzi che gli utenti del bene pubblico sono disposti a pagare e il costo marginale del medesimo).
In secondo luogo perché, da questa sintesi delle caratteristiche dei bisogni pubblici (e, dunque, dei bisogni soddisfa-
cibili con beni e servizi pubblici), non risulta che nella scuola italiana si immaginasse, neppure lontanamente, che un
bene pubblico, una volta offerto a qualcuno, fosse disponibile per tutti gli individui illimitatamente. Il punto caratteriz-
zante era, per essa, la “non escludibilità” dei non paganti o, per meglio dire, la “indivisibilità dei beni pubblici”. Il fatto
che un bene pubblico, una volta offerto a qualcuno, fosse disponibile per tutti senza limiti, era al più riferibile al fre-
quente di beni pubblici, la cui quantità minima producibile fosse superiore al bisogno di un singolo individuo, così da
essere, esso, per sua natura un bene fruibile da più persone, ossia solo in comune. Pertanto, sia a causa (di norma) della
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di servizi pubblici – egli indicava il caso del ladro, danneggiato dalla azione di polizia). Anche il Barone
potrebbe classificarsi nel gruppo b), in quanto anche per lui sarebbero «pubblici» i bisogni soddisfatti dal-
l'ente pubblico, costringendo alcuni a compiere sacrifici per il bene maggiore di tutti.
Al tempo stesso il De Viti si potrebbe porre nel gruppo a), quando ritiene che la divisione dei com-
piti fra organizzazioni private e pubbliche presupponga una più efficiente offerta dei servizi pubblici.
c) applicazione al fenomeno finanziario del concetto di monopolio, nel senso che, in assenza dell'in-
tervento dello Stato, taluni bisogni potrebbero essere soddisfatti da organizzazioni private o da singoli pri-
vati, in regime di monopolio, con prezzi superiori a quello che diventa, per i singoli beneficiari del servizio.
pubblico, rimborso di costo di produzione. Il criterio ricorre in molti autori;
d) applicazioni di nozioni psicologiche e tecniche, nel senso: I) che i bisogni privati sono sentiti,
avvertiti dai singoli e quelli pubblici non sarebbero sentiti né avvertiti dai componenti la collettività; ma sa-
rebbero interpretati, valutati dagli organi collettivi, indipendentemente da ogni sensazione dei singoli; II)
che si tratterebbe di esigenze indistinte e indivisibili, con difficoltà relativa di imputare, ai singoli, sacrifici,
vantaggi, esigenze, soddisfazioni.
Questi concetti danno luogo a contraddizioni in termini e con la storia dei fatti finanziari, figurano
in molti studi di economisti. Non occorre che ricordi i casi storicamente verificatisi, nel tempo, di bisogni
soddisfatti dagli enti pubblici, con servizi come la difesa militare dall'esterno, il mantenimento dell'ordine
pubblico interno, l'amministrazione della giustizia, l'istruzione, la viabilità comune ferroviaria, aerea, l'assi-
stenza sanitaria, la beneficenza, ecc., per far rilevare come i tentativi che sono indicati per il senso logico
sotto le lettere a), b) e c) non riescano a spiegare se non momenti o aspetti del fenomeno finanziario. Invero
la contraddizione dei fatti che si intende spiegare, fa perdere fecondità alle visioni ipotetiche in gran parte,
rendendo inadatta la relativa teoria o parziale rispetto alla spiegazione del fenomeno concreto, pur se rima-
ne la legittimità logica di alcune ipotesi.
Come casistica tipica della fenomenica storica, si consideri, attingendo alla cultura comune, come
la stessa difesa dello Stato sia stata affidata a compagnie di ventura oltre che all'ente pubblico direttamente;
come il mantenimento dell'ordine in terno veda in alcuni Stati e nei nostri stessi comuni (sorveglianza not-
turna, campestre, ecc.) funzioni svolte da corpi privati; si pensi alla amministrazione della giustizia a mezzo
anche di privati collegi arbitrali; al servizio dei trasporti, contemporaneamente o alternativamente affidato a
società private o alle pubbliche amministrazioni; alla istruzione fornita come servizio da organizzazioni
private e pubbliche; alla assistenza con iniziativa pubblica e privata simultaneamente; alle nazionalizzazio-
ni, o meno, di banche, industrie, ecc., al variare di circostanze economiche e politiche: sintomatica la «ripri-
vatizzazione» di banche in Germania, dopo l'intervento statale, ecc.
Ciò posto, lascio alla facile intuizione di studenti e lettori:
I) i numerosi casi di servizi pubblici prodotti od offerti dall'ente pubblico a costo superiore a quello
che sarebbe stato per il soddisfacimento degli stessi bisogni da parte della privata iniziativa. L'intervento di
ragioni (che diremo sinteticamente politiche) può, storicamente, far assumere servizi con gestione assai
spesso contrastante con la premessa del minimo mezzo, per soddisfare bisogni che la pregiudiziale politica
fa ritenere pubblici.
__________
“non escludibilità” sia a causa di questo eccesso di offerta, si riteneva impossibile di valersi di una legge di domanda
per il riparto del costo, tra gli utenti, vale dire nasceva un problema di “indivisibilità”, per l’impossibilità di separare
gli utenti, mediante l’applicazione di un prezzo (e dunque escludere i non paganti un prezzo). Detto caso estremo (ec-
cesso di offerta, rispetto al fabbisogno di uno o di pochi) era considerato ponesse una problematica simile a quella che
si trova, in economia politica, per i costi fissi, vale dire per costi dei beni indiretti, la cui quantità non varia (nel breve
periodo) al variare della produzione, ma anche il cui costo non poteva essere ripartito tra le produzioni, qualora relati-
ve ad una impresa avente più produzioni al proprio interno.
Ma va anche chiarito che il problema di economia pubblica nasceva solo dall’impossibilità tecnica di escludere i non
paganti. Oggi abbiano una casistica divenuta privata, ma che tempo fa era pubblica. Un esempio è la radio o la televi-
sione. In origine l’irradiazione dei segnali era offerta a tutti indistintamente. Ma dopo la scoperta dei decodificatori, è
divenuto possibile escludere i non paganti.
Quanto segue, nel testo, è tutto centrato in questa direzione, ossia sul problema del grado di “divisibilità” dei bisogni
pubblici, ai fini della loro produzione e impiego ottimale. Dopo una lunga disamina sulla possibilità di individuare ca-
ratteri tipici dei beni pubblici, d’Albergo conclude che essi sono pubblici perché così definiti (ossia classificati come
indivisibili) da un “ente o gruppo pubblico”. Pertanto, infine, il problema centrale diviene non la definizione dei carat-
teri dei beni pubblici, ma quella della natura pubblica dei soggetti che interpretano i bisogni pubblici della collettività.
Notevole è la posizione di Seligman, al riguardo, a cui è dedicata molta attenzione nel seguito.
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Il) I casi in cui non ci sia «contrasto di interessi», necessariamente, e la scelta o domanda del servizi
prodotti dall'ente pubblico sostenendo, esso, spese e conseguendo entrate, siano libere compatibilmente con
detta assunzione di servizi da parte dell'ente pubblico.
III) I casi in cui l'assunzione del compito di soddisfare i bisogni pubblici non sia necessariamente
dettato dalla convenienza od opportunità di evitare che, in mancanza della iniziativa pubblica, possa aversi
sul mercato condizione di monopolio nell'offerta di servizi e beni da parte di produttori privati, a parità di
bisogno dei membri della collettività o di gruppi di essa.
IV) Il giudizio sulla teorica, che ritiene i bisogni pubblici non «sentiti» dai singoli componenti la
collettività, essendo proprio essi capaci di sensazioni che la classe governante «interpreta».

RELAZIONE TRA BISOGNI PUBBLICI ED ENTE PUBBLICO. Una spiegazione del sorgere di bisogni detti
pubblici perché soddisfatti dall'ente pubblico (o gruppo pubblico) è estranea alla economia della finanza
pubblica. Mi riferisco ai tentativi di carattere sociologico soltanto perché economisti si sono cimentati in
questa costruzione che ha il solo pregio di rinunciare alla definizione dei bisogni pubblici per il contenuto
obiettivo e di riferirsi ai bisogni che storicamente tendono a soddisfare gli enti o gruppi pubblici, ragionan-
do «a posteriori», allo scopo di rilevarne i caratteri dominanti nella tendenza storica.
In proposito ricordo ancora la teoria delle illusioni finanziarie di A. Puviani. In generale apparten-
gono alle teorie politico-sociologiche le spiegazioni del bisogni pubblici in funzione dell'interesse delle
classi governanti a dichiarare, o meno, pubblici i bisogni. Rimando, per sintesi di esposizioni ed indicazioni
bibliografiche, agli scritti di R. A. Murray100.
Ne posso tacere di un saggio, da me tradotto, di R. A. Seligman101, il quale rilevava che i sociologi
hanno risposto ben poco alla domanda che egli avanzava: «quali applicazioni della teoria sociologica si può
fare alla scienza economica o alla finanza ?».
In detto studio della finanza dal punto di vista «sociale», l'A., definiti, a conclusione, come pubbli-
ci, i bisogni soddisfatti dal «gruppo pubblico», li differenzia dai bisogni privati, in base alle caratteristiche
del gruppo pubblico.
Invero egli afferma che i bisogni comuni privati (i quali richiedono, per la soddisfazione di essi,
l'associazione di un individuo con parecchi altri) divengono bisogni pubblici quando vengono soddisfatti
dal gruppo pubblico o dallo Stato. E, viceversa, un bisogno si trasforma in privato se il gruppo che provve-
de, storicamente, al soddisfacimento è privato. In breve il Seligman afferma che il concetto di gruppo pub-
blico importa quello di bisogni pubblici.
Dopo avere introdotto nel modo più tassativo l'elemento soggettivo nella distinzione fra bisogni
privati e pubblici, facendo dipendere il carattere pubblico dei bisogni dalla natura pubblica del soggetto che
provveda al soddisfacimento, il Seligman ha voluto precisare i caratteri del gruppo pubblico. Nel far ciò,
peraltro, egli si è riferito anche alle caratteristiche intrinseche od oggettive dei bisogni soddisfatti o dei ser-
vizi resi dal gruppo pubblico. Ma si tratta più di generalizzazione di elementi tipici accertati «a posteriori» o
storicamente, anziché di distinzione aprioristica su base deduttiva. Per questo autore, lo Stato, o gruppo
pubblico: 1) soddisfa bisogni fondamentali per la vita degli individui viventi in consociazione; 2) è univer-
sale, ovvero agisce su tutto un territorio geografico determinato, comprendendo (eccettuati gli apolidi) tutti
i membri di una data collettività; 3) esercita la coazione, nel senso che una volta appartenente ad un gruppo
pubblico l'individuo non può disciogliere il rapporto di appartenenza al gruppo, essendo tale rapporto (a dif-
ferenza di quelli con i gruppi privati: società, associazioni, ecc.) indissolubile nel senso dell'obbligo degli
individui di rimanere a far parte di un gruppo.
Oltre a codeste caratteristiche positive del gruppo pubblico, il Seligman ne avanza tre di carattere
prevalentemente quantitativo anziché qualitativo: 1) non reciprocità, nel senso che i rapporti di «do ut des»
che costituiscono la vera essenza dello scambio, trovano scarsa applicazione fra gli individui ed il gruppo
pubblico. Lo Stato può gestire imprese commerciali e vendere i prodotti ed i servizi al singolo, oppure può
fornire servizi particolari dietro il pagamento di tasse e contributi; ma riguardo al complesso dell'onere tri-
butario, la frazione costituita da tali corrispettivi è insignificante, rispetto cioè alla quota che gli individui
debbono pagare all'ente pubblico obbligatoriamente. 2) La seconda differenza di grado, che si trova nel
gruppo pubblico consiste nella indivisibilità. Con questo termine si intende la impossibilità di distinguere i
__________
100
MURRAY R. A., Le nozioni di Stato, dei bisogni pubblici e della attività finanziaria, Roma, Athenaeum, 1913 ed i
citati suoi Principii.
101
SELIGMAN R. A, .Nuova Collana di Economisti, vol. IX, Finanza.
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vantaggi di cui gode il singolo. A differenza del caso del rapporto di scambio fra privati, in cui vi è sempre
un vantaggio definito e singolarmente accertabile, nel caso dell'azione del gruppo pubblico i limiti di divisi-
bilità dei vantaggi sono molto ristretti. La distinzione si riferisce, non tanto al carattere intrinseco dei gruppi
privati e pubblici, quanto alla natura delle soddisfazioni da essi fornite; e spesso l'ente pubblico soddisfa bi-
sogni fondamentali (difesa, ordine pubblico, ecc.) di cui è difficile praticamente imputare ai singoli una
quota di vantaggio individuale. 3) La terza differenza di grado consiste nella non misurabilità dei vantaggi
resi dal gruppo pubblico, allorché si tratti di servizi indivisibili. Naturalmente non è possibile misurare il
vantaggio che due persone, rispettivamente, ritraggono ad es. dal servizio di polizia, specie se si ha riguardo
alla persona anziché ai beni che possiede; ma non manca il caso dei servizi che procurano vantaggi secon-
dari e particolari misurabili.
L'analitica classificazione del Seligman, basata soprattutto sulla natura pubblica dei soggetti (Stato
od altri enti pubblici) che soddisfano i bisogni della collettività, supera la prova dell'esperienza storica, nel
senso che essa è sempre attuale. Sono pubblici i bisogni che lo Stato soddisfa: cessano, quindi di esserlo al-
lorché il soddisfacimento degli stessi bisogni viene assegnato a gruppi privati. Soltanto in base alla classifi-
cazione soggettiva si può spiegare come, nello stesso periodo o momento storico, il medesimo servizio (ad
es. trasporti, polizia) sia prodotto da enti pubblici e privati, nei differenti paesi. E come, nello stesso paese,
in differenti periodi storici, lo stesso bisogno (ad es. comunicazioni ferroviarie, telefoniche, ecc.) sia prima
soddisfatto da gruppi (imprese) privati e poi dal gruppo pubblico (Stato) e viceversa.
Deve, però, esser tenuto presente che la differenziazione qualitativa e quantitativa del Seligman in
merito alle caratteristiche dei gruppi pubblici o dei rapporti fra i singoli ed gruppi pubblici, non si applica a
tutti i bisogni soddisfatti dal gruppo, per l'esistenza di casi nei quali tutti od alcuni dei caratteri testè indicati
non trovano applicazione, pur avendosi attività finanziaria tendente al soddisfacimento di bisogni pubblici.
Per limitarsi ad un carattere (coazione) si pensi al diverso «grado» in cui esso si riscontra nei casi in cui lo
Stato vi provvede procurandosi i mezzi ricorrendo a prezzi privati, quasi-privati e pubblici, tasse, contributi
e imposte speciali.
Alle qualifiche del Seligman, il Fasiani(102) ha aggiunto altri caratteri differenziali del gruppo (o en-
te) pubblico che soddisfi desideri della collettività attraverso una attività finanziaria. Tali caratteri o «con-
notati» derivano da quelli dei bisogni che dallo Stato o gruppo pubblico, vengono soddisfatti. Fasiani, in
merito all'accertamento delle caratteristiche oggettive dei bisogni pubblici, ha aggiunto le seguenti caratteri-
stiche: a) eterogeneità e variabilità dei bisogni che vengono soddisfatti dal gruppo pubblico.
A differenza di quanto avviene nei confronti dei gruppi privati i quali «normalmente» sorgono ed
operano per un determinato scopo, al punto che, dopo averlo conseguito, il gruppo può anche cessare di esi-
stere; i bisogni che soddisfa il gruppo pubblico sono della più svariata natura.
La sfera d'azione del gruppo pubblico può allargarsi o restringersi, mutare anche notevolmente,
senza che il gruppo cessi di esistono. Anzi la coazione, elemento a cui sopra si è accennato (Seligman) ap-
pare appunto necessaria perché i bisogni da soddisfare sono eterogenei e variabili e non sempre incontrano
il consenso della totalità dei consociati.
Altra caratteristica del gruppo pubblico è, per il Fasiani, la (b) indefettibilità, per i riflessi che code-
sto carattere esercita sulla natura e l'estensione, soprattutto nel tempo, dei bisogni da soddisfare. Così esso
predisporrà beni strumentali (ad esempio: vie, ferrovie, ecc.) non soltanto in vista della intensità dei bisogni
attuali, ma scontando quelli futuri di una collettività numericamente crescente e progressiva.
L'Einaudi, che pure ha accettato come inevitabile la distinzione su base soggettiva (essere bisogni
pubblici quelli a cui provvede lo Stato per mezzo di una sua attività peculiare detta finanziaria), ha discusso
alcuni «connotati» o caratteri dello Stato, allo scopo di individuare i limiti «storici» della esistenza di sif-
fatti connotati (103).
Per l'Einaudi una classe governante che consideri anzitutto il proprio interesse particolare, compirà
soprattutto (non necessariamente sempre) opere e svolgerà attività relativa a periodi di tempo correlati alla
probabilità che quella classe governi per lo Stato, e che come generazione attuale se ne avvantaggi. L'Ei-
naudi: a) si riferisce ad un solo tipo di Stato che agisca attraverso governanti preoccupati soprattutto del
proprio interesse o che tale appaia ai governanti contemporanei; b) non considera la eventualità che anche
in tal caso ipotetico e storico la classe governante che succeda al potere accolga in eredità e continui servizi

__________
102
FASIANI M., Op. cit., Vol. I, pag. 31. Nelle pagine 18-19 e ss. sono delineate le caratteristiche dei gruppi pubblici.
103
Sulla «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», dicembre 1942.
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già posti in essere dalla classe scomparsa (come governante), appunto per la parte di interesse o vantaggio
generale che scorga nei servizi medesimi (problema di grado e non di specie).
Sempre secondo l’Einaudi: a) non giova allo studioso assumere come dato di partenza per i suoi ra-
gionamenti, la definizione per cui bisogno pubblico è quello soddisfatto dallo Stato nella attività finanziaria.
Invero suggerendo di indagare intorno alla scelta dei bisogni che «si debbano» o «convenga» o si «usi»
soddisfare, l'illustre studioso riporta al campo delle distinzioni oggettive che vorrebbero individuare criteri
intrinseci e immanenti (non storici ma logici) di separazione dei bisogni pubblici dai privati. E questo as-
sunto mi pare che vada oltre i fini delle precisazioni contenute nell'articolo (104); b) egli anche sottolinea
l'opportunità di studiare l'attribuibilità di taluni compiti allo Stato (fini della attività statale) e assegna tale
oggetto di studio al cultore di scienza delle finanze.
Anche il Fasiani ha distinto fra la casistica storica che può essere più o meno abbracciata da una de-
finizione tendente a sistemare la teoria e fra distinzioni generiche di prima approssimazione riferite a tipi a-
stratti di Stati o di gruppi pubblici. Inoltre ha distinto ciò che è marginale da ciò che è essenziale, ciò che è
giuridico da ciò che è economico nei concetti di sovranità, di universalità, ed ha limitato i concetti di coa-
zione e di indefettibilità(105)
Il Seligman coerentemente, affermava di aver voluto integrare «l'opera dei sociologi che si può dire
non abbiano compiuto alcun tentativo di applicare le loro teorie alla vita economica». «La teoria sociale
della scienza delle finanze», in Seligman «riassume gli sforzi degli economisti di porre in rilievo il contenu-
to sociale della loro scienza» (106).
Non ritengo che, sebbene atto a recare qualche lume sui fatti, detto compito dovesse cadere proprio
nella competenza degli economisti, per cui i bisogni pubblici, quali nel tempo e nello spazio si possono ipo-
tizzare soddisfatti dagli enti pubblici, sono per il cultore di economia finanziaria dei dati di fatto o premessa
della attività finanziaria. Essi interessano in quanto correlate con esse sono le spese pubbliche, come ele-
mento quantitativo che da contenuto ai problemi di carattere economico.
Le origini della società per i bisogni dei singoli componenti le «orde», i «clans», le famiglie, le
«tribù», le «genti in senso romano di «gentes» e lo Stato al di sopra delle genti, si trovano ben lumeggiate in
dette opere a sfondo giuridico e storico-filosofico, con la elencazione dei fini dello Stato, in funzione delle
condizioni storiche e della evoluzione della coscienza del popolo. E gli scopi o le funzioni, e i fini «essen-
ziali», «fondamentali», «complementari», «integrativi», «necessari», «indispensabili», ecc., si trovano in
sede che non occorre che sia quella economica.
Questa è anche la posizione scientifica della migliore e attuale produzione anglosassone. Di pubbli-
ci bisogni si tratta incidentalmente nel definire la finanza pubblica ovvero per indicarne la premessa o il da-
to di fatto: per il resto densi capitoli concernono il concetto logicamente correlato con i bisogni pubblici,
cioè le spese pubbliche che hanno razionale rilevanza per la loro ripartizione, il loro flusso, i loro effetti,
ecc. nella trattazione che è degna di assumere la denominazione di ramo della scienza economica o econo-
mia della finanza pubblica.

__________
104
Si veda: EINAUDI L., - Di alcuni connotati della Stato elencati dai trattatisti finanziari, nella «Rivista di diritto fi-
nanziario e scienza delle finanze», dicembre 1942.
105
Di alcuni connotati del gruppo pubblico e di una definizione dei bisogni pubblici «Riv. di diritto finanziario e
scienza delle finanze», giugno 1943.
106
Potrebbe sembrare un contributo diretto al progresso della teoria economica finanziaria, una ricerca di carattere
sociologico come quelle di Seligman, del Fasiani o di altri, qualora si qualificasse, come ha fatto il Gini, il contenuto
parziale della Sociologia, denominandola Economica vedasi il saggio, Alle basi della scienza economica, cit..
Ma non appena si considerano gli esempi di problemi che dovrebbero assumersi ad oggetto di codesta scienza, e la
definizione di essa, come avente per oggetto l'osservazione di fenomeni sociali in quanto «hanno attinenza con la ric-
chezza» non soltanto ci si trova e questo non sarebbe criticabile in sé nel campo della ricerca induttiva; ma si fanno
rientrare nella Sociologia economica le ricerche della «Scuola storica» dell'economia ovvero le ricerche storiche che
pervengono a stabilire leggi storiche nel campo economico. Nel caso nostro, di relazioni con il fatto finanziario, è così
ammesso il carattere storico della ricerca come è stato considerato per Seligman, Einaudi, Fasiani, sistematiche in
queste pagine cioè come non direttamente attinente all'oggetto dell'economia finanziaria, visto come deduzioni razio-
nali, eminentemente basate su concezioni o idealizzazioni ipotetiche.
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II.

LE SPESE PUBBLICHE.

La sequenza logica: bisogni pubblici - spese pubbliche ci porta a considerare da quale punto di vista
le spese pubbliche, con contenuto obiettivamente quantitativo, sono considerate in queste lezioni.
La scienza delle finanze, come economia, non può limitarsi, a considerare come dato l'ammontare
delle spese, ed occuparsi soltanto dei modi più convenienti di procurare le entrate per fronteggiarle. Il moti-
vo è che i problemi teorici vengono influenzati e le soluzioni modificate dalla simultanea considerazione di
entrate e spese pubbliche, in via ipotetica. Vi sono, poi, problemi per cui la limitazione delle ipotesi al solo
prelievo delle entrate non è logicamente legittima, se le spiegazioni teoriche pretendono di illuminare la fe-
nomenica concreta nella sua complessità, che va abbordata almeno facendo intervenire nei ragionamenti i
due aspetti del fenomeno: le entrate e le spese pubbliche. Le imposte, come voleva G. B. Say, non sono in
ogni caso «grandine» che cade, colpisce e distrugge, se non per ipotesi che rende parziali logicamente le in-
dagini di pura teoria, e le fa inutilmente divenire irreali, ovvero senza necessità.
Con ciò escludo i riferimenti storico-statistici, che, sebbene interessanti, in sè, considero indiretta-
mente per le ipotesi e le uniformità che il fenomeno presenta. E per fini di informazione indico altri aspetti
dai quali, tradizionalmente, si è considerata la spesa pubblica.
1) Da un punto di vista contabilistico, si è affermato spesso che nei bilanci pubblici le spese sono la
variabile indipendente alle cui variazioni di valore si adatta la variabile dipendente costituita dalle entrate
pubbliche. Invece nei bilanci delle persone fisiche e giuridiche private, le entrate determinano le spese.
Codesta enunciazione, invero, è troppo rigida. Non è raro, in concreto, il caso in cui lo Stato ed altri
enti pubblici rinuncino al soddisfacimento di nuovi bisogni pubblici o ad un più ampio soddisfacimento di
bisogni già formalmente riconosciuti come pubblici, a causa delle difficoltà (economiche, politiche, ecc.) di
procurarsi le nuove entrate corrispondenti. In altre parole, anche la possibilità di procurarsi il fabbisogno, fa
da limite alla espansione delle spese pubbliche.
Altra cosa, è ammettere che il rapporto fra bisogni pubblici e spese pubbliche è immediato e che la
relazione fra bisogni pubblici ed entrate fiscali è mediata. Invero il riconoscimento della convenienza di far
assumere allo Stato determinati compiti equivale ad imputazione di date spese a carico dello Stato. In via
logica, al momento della delimitazione delle spese segue quello della ricerca dei mezzi di entrata, adeguati
alle spese: ma bisogna tener presente che tale successione di momenti non è assoluta, poiché la variabile
«entrata» (possibilità di ottenerne un incremento) fa simultaneamente, spesso, da limite all'aumento delle
spese pubbliche ed alla estensione del compiti dello Stato.
2) Un altro punto di vista dal quale si considerano le spese pubbliche è quello storico-statistico
107
( ). Trattasi della cosiddetta «legge di tendenza», dell'aumento progressivo delle spese pubbliche.
Una analisi delle cause di tale legge fa agevolmente rilevare i seguenti coefficienti determinanti: a)
l'aumento della popolazione degli Stati e di altri enti locali; b) il maggior costo dei mezzi di soddisfacimen-
to degli stessi bisogni per effetto del progresso tecnico (ad esempio costo della difesa militare, con l'evolu-
zione della meccanica, della a chimica e della fisica); c) l'aumento tendenziale dei prezzi, a causa dell'au-
mento della produzione dei metalli preziosi dalla scoperta delle principali miniere ad oggi. Negli anni 1933-
1941 e 1949 1950, le svalutazioni monetarie hanno fatto aumentare fortemente la produzione aurea e allar-
gare i limiti del credito bancario; d) la svalutazione monetaria rispetto all'oro ed alle merci, col conseguente
aumento dei prezzi dei beni e dei servizi; e) la maggior facilità di ottenere le entrate straordinarie (prestiti
pubblici) con l'accentrarsi della ricchezza mobiliare nei grandi mercati finanziari; f) l'evoluzione della costi-
tuzione politica, nel senso che aumentano storicamente le funzioni che si assegnano allo Stato.
Da punti di vista diversi, l'orientamento democratico-sociale e quello «corporativo» posso-
no condurre ad una estensione delle funzioni dello Stato, a vantaggio rispettivamente delle classi
più numerose e meno abbienti, oppure a vantaggio teoricamente della nazione nel suo insieme
(Stato corporativo). L'influenza di questo fattore non è continua. Può avvenire che nell'alternarsi
delle direttive politico sociali, per date fasi storiche, le classi governanti informino l'attività statale
__________
107
Per esso si rimanda all'apposito, documentato capitolo degli Elementi cit. di L. Gangemi e ad altre trattazioni vec-
chie e nuove.
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a presupposti liberistici, in base ai quali si limiti notevolmente la funzione degli enti pubblici, la-
sciando all'iniziativa privata il soddisfacimento di bisogni per lo innanzi assegnato allo Stato. Co-
desti coefficienti sono fra i principali, storicamente accertati, che hanno determinato l'aumento
progressivo delle spese pubbliche.
2 bis) Circostanze politiche (giustizia sociale e benessere collettivo) ed economiche (leggi dello svi-
luppo economico) hanno fatto sì che si realizzasse, tendenzialmente, quello che per Pantaleoni è processo di
«trasformazione di spese specifiche in spese generali», con l'assunzione di compiti (prima di competenza
dei privati) a carico dello Stato. Su ciò hanno, poi, insistito, Clark, Arena, Villani ed altri, compreso lo scri-
vente, a proposito delle teorie che spiegano il fenomeno finanziario nel limitare e criticare il concetto che il
destinare una parte del dividendo alle spese pubbliche costituisca «consumo di ricchezza»..
3) Un altro aspetto dal quale si considerano le spese pubbliche è quello della loro classificazione in:
a) spese ordinarie che fanno fronte a bisogni pubblici ricorrenti con una certa regolarità nel tempo
(sono la maggior parte a cui si provvede nel corso dell'esercizio finanziario annuale);
b) spese straordinarie con cui si provvede ai bisogni straordinari di cui spesso non è prevedibile il
rinnovarsi nel tempo (alluvioni, terremoti, carestie, guerre, ecc.);
c) spese federali, sostenute dallo Stato federale negli Stati composti; statali, negli Stati unitari o ne-
gli Stati aderenti a federazioni (Stati Uniti, Germania); locali (sostenute da province, contee, dipartimenti,
comuni);
d) spese obbligatorie, che specialmente gli enti locali, sono tenuti in forza di legge d'autorizzazione
a sostenere, durante gli esercizi finanziari; spese facoltative la cui attuazione è lasciata all'apprezzamento
contingente dell'ente, in rapporto alle mutevoli circostanze di fatto.
4) La classificazione delle spese pubbliche si compie anche in rapporto alla natura dei servizi pub-
blici a cui esse corrispondono. A seconda della costituzione politico-amministrativa, si avranno tante cate-
gorie di spese quanti sono i dicasteri che sovrintendono ai servizi pubblici, nella amministrazione centrale
(Ministeri) e in quelle locali. In linea generale, presso tutti gli Stati si può distinguere fra due grandi catego-
rie, ossia: a) fra spese fondamentali per la funzione giuridico-politica dello Stato (servizi della difesa milita-
te, giustizia, ordine pubblico, ecc.); b) e spese relative alla funzione economico-sociale dello Stato, a favore
del benessere materiale e del progresso sociale e morale (ad es. per: lavori pubblici, comunicazioni, svilup-
po demografico, industriale ed agricolo, tutela del risparmio, assistenza pubblica, ecc.).

Classificazione per la sistematica della teoria finanziaria. Per la sistematica della teoria finanzia-
ria interessa la seguente classificazione della spesa pubblica.
a) Classificazione degli istituti di entrata a fronte della spesa. A seconda che le spese facciano fron-
te a servizi divisibili, di cui si può imputare a singoli contribuenti o a gruppi di essi un vantaggio talora mi-
surabile e, comunque, individuabile, si avranno in tutto od in parte rapporti di quid pro quo. Sorgeranno,
cioè, i casi di prezzi privati, quasi privati, pubblici, tasse, contributi ed imposte speciali. Nel caso di spese
per servizi indivisibili si avrà l'istituto dell'imposta, come mezzo. Ai due tipi di spese qui contrapposti, cor-
risponde in gran parte la distinzione da parte del Pigou (108) fra «real expenditure» e «transfer expenditure»
e quella dei «selling prices» e dei «grants» del Dalton (109).
Altri ordini di problemi di pura teoria, di alcuni dei quali si farà parola più innanzi, in cui si terra
conto dell'elemento spesa pubblica, sono quelli:
b) degli effetti economici delle imposte. In alcuni schemi, si tiene conto delle ripercussioni che eser-
citano, sull'equilibrio economico, il prelievo del reddito e l'erogazione del provento tributario;
c) della pressione fiscale, la quale non va concepita soltanto come rapporto fra tributi prelevati e
reddito nazionale (tenuto conto della popolazione). Ma i termini del rapporto vanno modificati in funzione
anche dell'utilità economica, politica, ecc. arrecata alla collettività dalla spesa pubblica;
d) della determinazione del costo dell'attività finanziaria, del quale la spesa pubblica costituisce so-
lo la parte oggettiva, misurabile in moneta;
e) del produttivismo finanziario, nel senso che lo Stato, se vuole agevolare la massima produzione
ed accumulazione della ricchezza, deve tener conto dei modi del prelievo di essa e della erogazione della
medesima;

__________
108
A Study in public finance, Londra, 1928.
109
Public Finance, Londra, 1936.
80
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f) del «rischio» dell'imposizione, nel senso, che accanto all’eventualità di un aumento di date impo-
ste, vi è la probabilità che il provento venga speso in modo da avvantaggiare (aumento di domanda statale
ed offerta di servizi strumentali) dati gruppi di contribuenti;
g) degli «sgravi fiscali», in quanto un giudizio, sulla opportunità o meno di una riduzione di tributi,
deve tener conto dell'uso che, rispettivamente, in dati periodi storici, avrebbero fatto o farebbero lo Stato ed
i contribuenti della ricchezza, passata dall'impiego pubblico (spesa) a quello privato;
h) della capacità contributiva, la quale, da concetto generico di “capacità contributiva assoluta”
(arbitrariamente presunta ad es. in base all'altezza del reddito o del patrimonio) può divenire un concetto di
“capacità contributiva relativa”, più razionale, se si tenga conto (in un secondo momento logico e storico)
degli speciali vantaggi che determina la spesa pubblica anche quando, in prima approssimazione, appaia in-
divisibile; s'intende, ragionando nel senso del più e del meno e senza pretendere misurazioni differenziali
perfette;
i) delle variazioni del gettito delle imposte in rapporto alle fluttuazioni economiche, in quanto la na-
tura della spesa pubblica influenza variamente le fonti tributarie, ed influenza il provento di distinti tributi,
nelle alterne fasi della congiuntura.
Già la sommaria elencazione dei problemi di spesa fa comprendere quanto sia notevole il fattore
«spesa» nei confronti della sistemazione della teoria finanziaria; così come i cenni contenuti nei paragrafi 1-
4 fanno intravedere l'importanza della spesa pubblica ai fini della soluzione di problemi concreti e teorici di
finanza.
Mi limito, infine, a richiamare taluni effetti di particolari. modi di intervento della spesa pubblica
sullo sviluppo delle forze economiche tendenti all'equilibrio in una condizione molto prossima a quella di
«pieno impiego» delle risorse produttive.
Ho già distinto fra flussi discontinui ed eventuali di potere di acquisto immesso nel mercato (meto-
do del «pump-priming» nella terminologia inglese ed americana soprattutto), lasciando poi che il sistema
proceda con le proprie forze; e flussi continui (nello spirito del criterio del «deficit financing») con conce-
zione ciclica del bilancio statale e soprattutto con visione del trend o degli andamenti a lunga scadenza. In
questo secondo caso la spesa pubblica dovrebbe avere una funzione permanente di integrazione delle forze
che determinano l'equilibrio del sistema economico nel tempo.
L'uno e l'altro procedimento, dal punto di vista dei loro effetti, non differiscono se non per ragioni
di grado e non per quelle che sono le pretese, esclusive ripercussioni:
a) sul volume dei beni di consumo di cui si sollecita l'aumento;
b) sul volume degli investimenti in beni strumentali promossi dalla predetta espansione del consu-
mo, dovuto all'intervento della spesa pubblica.
Detta equivalenza non è, di solito, ammessa o considerata nelle trattazioni di economia della finan-
za pubblica e anche di economia teorica generale.

III.

CRITERIO DI DECISIONE DELLA QUANTITÀ DI BISOGNI PUBBLICI DA SODDISFARE


(“SECONDO CRITERIO DI PARETO”)

Lo Stato decide la quantità di bisogni pubblici da soddisfare, sulla base del calcolo dei relativi costi
e vantaggi, per la collettività.
Nel 1932110., con il saggio dal titolo “Intorno al concetto di costo dell’attività finanziari”, avevo
mostrato come, per la determinazione delle quantità di beni pubblici (servizi indivisibili, eminentemente),
da produrre, il calcolo del costo e utile per la collettività passa dai singoli individui alla classe governante
per lo Stato (111).

__________
110
Questo paragrafo è nel cap. II, par. 2, p. 202, nell’edizione cartacea Steb del 1952
111
L'apprezzamento del costo e della soddisfazione potrà variare, storicamente, per vari motivi con l'avvicendarsi
delle varie classi politiche e dei rispettivi ideali. Come ho dimostrato in codesto saggio, non è soltanto l'effetto utile
soddisfazione massima per la collettività, che non può essere misurato facilmente in modo oggettivo in quanto è in
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In questo senso, entrambi gli elementi del calcolo, essendo valutati dalla classe governante per con-
to della collettività, risultano paragonabili. I costi sono i «danni» economici (oggettivamente, essi sono il
fatto negativo del prelievo tributario; soggettivamente, essi sono, invece, le utilità sacrificate) sopportati dai
cittadini; e i vantaggi sono le utilità di cui godono i singoli, fruendo dei servizi pubblici.
Questo processo implicito nel giudizio (soggettivo) della classe governante, è stato rappresentato in
termini matematici, come è noto, dal Pareto112, il quale trovò dei punti di massima utilità collettiva, dai qua-
li l'attività finanziaria non può scostarsi senza infliggere inutili sacrifici alla collettività intera o a parte di
essa.
«Nel giudizio della classe governante, il costo collettivo apparirà minore dell'utilità collettiva fino
ad un punto massimo (P del Pareto, nel quale il costo marginale eguaglia l'utilità marginale) dopo di che il
costo supererà l'utile e lo sforzo appare sproporzionato allo scopo».
Data l'importanza, tra l’altro, anche data dal Fasiani (Giornale degli Economisti) al contributo del
sociologo (V. Pareto) alla spiegazione del fenomeno finanziario, richiamo la genesi del calcolo complessivo
di prelievi e spese, sottratto alla influenza determinante delle decisioni autonome e libere dei singoli (e
dunque estraneo alle uniformità della economia politica). Questo calcolo è fatto sulla base di una funzione
di utilità pubblica, così definita:

φ = φ (φ1, φ2, φ3,…..,)

in cui φ indica la funzione di utilità del reddito nazionale, e φ1, φ2, φ3,… indicano rispettivamente le funzio-
ni di utilità dei redditi degli individui o classi sociali 1, 2, 3 …, che costituiscono la collettività.
Per una facile intelligenza della genesi del calcolo, che si sposta dai privati alla classe governante
che impone il consumo di dati servizi pubblici (in luogo di altri consumi privati o pubblici) e il rimborso,
pro quota del costo del soddisfacimento di essi (prelievo tributario), occorre avere presenti alcune premesse
che vengono qui attinte al Pareto, e che il lettore può logicamente coordinare, rispetto al problema che se-
gue (Pareto, V. Sociologia, cap. XII).

I) «Se le utilità dei singoli individui fossero quantità omogenee e che quindi si potessero paragonare
e sommare, il nostro studio (di massimi di utilità di un individuo e di una collettività, quando si paragonano
fra loro gli individui o le collettività) non sarebbe difficile, almeno teoricamente. Si sommerebbero le utilità
dei vari individui e si avrebbe l'utilità della collettività da essi costituita».
II) «Ma la faccenda non corre tanto liscia. Le utilità dei vari individui sono quantità eterogenee, e
una somma di tali quantità non ha senso alcuno, non c'è, non si può considerare. Se si vuole una somma che
stia in relazione con le utilità dei vari individui, occorre da prima trovare modo di fare dipendere queste da
quantità omogenee, che poi si potranno sommare».
III) «La podestà pubblica che operi logicamente (in via di ipotesi) con il solo scopo di conseguire
una certa utilità, deve necessariamente paragonare le varie utilità degli individui che compongono la collet-
tività per la quale la podestà medesima (classe governante) agisce. Essa paragona tutte quelle utilità di cui
può aver nozione».
«In sostanza, essa compie grossolanamente l'operazione che con rigore compie l'economia pura, e
rende omogenee, mercè certi coefficienti, quantità eterogenee».
IV) «Supponiamo di avere una collettività in condizioni tali che ci sia solo la scelta fra l'avere la
collettività molto ricca con grande disuguaglianza di entrate dei suoi componenti, oppure povera con entrate
pressoché eguali. La ricerca del massimo di utilità della collettività può avvicinare al primo stato, quella del
massimo di utilità per la collettività, può avvicinare al secondo».
«Diciamo può, perché l'effetto dipenderà dai coefficienti usati per rendere omogenee le utilità ete-
rogenee delle varie classi sociali».

__________
rapporto con l'apprezzamento subiettivo del soggetto o classe governante che compie il calcolo. Ma anche il costa dei
servizi pubblici non è costituito soltanto a prescindere dai servizi personali quasi gratuiti, quali: milizia, scabinato, ecc.
dall'ammontare della ricchezza sottratta al consumo di beni privati; ma anche dagli effetti negativi a cui il prelievo può
dar luogo danno economico, nonché dal sacrificio psicologico per le insoddisfazioni di taluni bisogni privati e da altri
effetti come: diminuita capacità individuale di consumo o diminuita efficacia dei fattori produttivi, ecc.
112
Pareto V., Il massimo di utilità per una collettività in sociologia, Giornale degli Economisti, aprile 1913.
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Ciò premesso, riferiamoci al caso in cui lo Stato o la podestà pubblica svolga attività finanziaria, in
modo da ottenere il massimo di utilità per la collettività in termini di prosperità materiale e di soddisfazioni
vertenti nel campo psicologico.
Ciò premesso, allo scopo di fornire più chiaramente le basi logiche del perché il calcolo debba ne-
cessariamente spostarsi dai singoli alla classe governante per lo Stato, in tema di contrapposizione di costo
a utilità di prelievi e spese nel campo eminentemente del consumo obbligatorio dei servizi pubblici, e del-
l'ottenimento delle entrate a mezzo di tributi, procedo ad una simbolica schematizzazione.
Per semplificare il calcolo del costo della attività finanziaria, come nelle precedenti pagine è stato
configurato (cioè di quantità oggettive - moneta - e soggettive - utilità - sottratte ai bisogni di privati con-
sumatori e produttori) e della contrapposta utilità per la collettività della medesima attività finanziaria, si
potrebbe immediatamente far riferimento alla visione e all'atteggiamento in proposito, della predetta classe
governante per lo Stato.
Infatti l'esponente, o gli esponenti della classe governante, con piano coordinato, formulano un pro-
prio giudizio intorno a quello che ad essi appare il costo addossato a tutti o ad alcuni membri della colletti-
vità e i vantaggi (o le utilità in senso ampio) che, provvedendo con le entrate ai servizi pubblici, arrecano
agli stessi o ad altri membri e gruppi della collettività o a tutti i membri della collettività medesima.
Indichiamo, ad es. con δφ1, δφ2, δφ3,….., le variazioni di utilità soggettiva (ofelimità) del reddito dei
vari individui o gruppi sociali, determinate da prelievi di entrate ed erogazioni di spese, secondo i criteri di
distribuzione della classe governante, nei confronti di se stessa e di singoli membri della collettività o di
gruppi più o meno estesi di essa.
I coefficienti M1, M2, M3..... indichino l'importanza (peso, quantità e segno positivo o negativo) che
nel giudizio di valutazione di utilità per la collettività, classe politica annette alle variazioni rendendo omo-
genei sacrifici ed utilità, conseguenti alla attività finanziaria pubblica. Detti coefficienti, variabili e diversi,
vanno riferiti, appunto, alle variazioni di utilità, così come vengono omogeneamente ricalcolate dal gover-
no.
L'attività finanziaria sarà svolta dalla classe governante sino al punto di massimo utile per la collet-
tività, dal quale, per usare le parole del Pareto, «non ci si potrebbe allontanare senza infliggere inutili sacri-
fici all'intera collettività o a parte di essa».
Nel giudizio della classe governante, detta attività finanziaria sarà coerentemente spinta sino a ren-
dere massima (punto P nella terminologia Paretiana) l'utilità per la collettività. Proprietà di detto punto di
massimo (P) è di rendere, al margine, eguali sacrifici e utilità per la collettività nel giudizio statale113.
In simboli, detta proprietà si esprime con l'equazione che annulla le variazioni di utilità per la col-
lettività, ponderate come sopra:

0 = M1 δφ1 + M2 δφ2 + M3 δφ3 + …..

in cui:
a) δφ1 , δφ2 , δφ3,… come già abbiamo detto, rappresentano le variazioni di utilità del reddito dei
singoli individui o gruppi, secondo l’interpretazione della classe governante. Tali variazioni sono i saldi (tra
prelievo fiscale e spesa pubblica) che vanno, rispettivamente ad aumentare (se positivi) o diminuire (se ne-
gativi) i redditi iniziali (ossia esistenti prima della attività finanziaria pubblica;
b) i coefficienti M1, M2, M3..... rappresentano la ponderazione o l'importanza relativa, annessa alle
variazioni utilitarie, che detti coefficienti, appunto, rendono omogenee, sommabili e confrontabili, nel cal-
colo utilitario generale per la collettività, istituita dalla classe governante per lo Stato (114).

__________
113
Nota del curatore. Negli studi successivi, questo “ottimo” sarà ridefinito da d’Albergo come “Secondo criterio di
Pareto”, per distinguerlo dallo “ottimo paretiano”, con cui è comunemente inteso l’ottimizzazione dell’impiego dei
beni, nello scambio, vale dire in economia politica, e che d’Albergo ridefinirà come “Primo criterio di Pareto”.
114
Allo scopo di semplificare la esposizione della genesi del calcolo utilitario per la collettività, che serve alla spie-
gazione razionale della parte della attività finanziaria, le cui decisioni sono indipendenti direttamente dalle scelte o de-
cisioni di singoli o gruppi di membri della collettività, non si è seguita l'analisi atomistica del Pareto, riferita appunto
alla visione, volta a volta, dei singoli membri della collettività intorno a quella che ad essi sembri la variazione utilita-
ria determinata dalla attività finanziaria nel bilancio edonistico di essi e degli altri membri e gruppi della collettività.
Addirittura in questa semplificata esposizione della logica Paretiana, si è esposto soltanto la serie dei coefficienti che
sintetizza M1, M2, M3, la ponderazione che volta a volta i singoli membri della collettività adotterebbero, per figurarsi
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Un esempio chiarirà la genesi su cui logicamente e simbolicamente ci si è qui soffermati.


Supponiamo che lo Stato attinga ai redditi della collettività, in modo da prelevare tributi soltanto o
prevalentemente dai bilanci dei membri più ricchi della collettività medesima, per procedere a spese pub-
bliche (assistenza, educazione, benessere in genere), attraverso servizi che avvantaggino esclusivamente i
membri o gruppi di membri più poveri della collettività ipotizzata. In tal caso, il solo modo di giustificare
siffatto tributi prevalentemente sui ricchi è che la classe governante per lo Stato:
a) prenda a riferimento le funzioni di utilità marginale del reddito dei ricchi e dei poveri (in via
semplificata, supponiamo che esse abbiano uguale andamento e uguale livello iniziale sia per i ricchi (B)
sia per i poveri (A); b) ed applichi, poi, alle rispettive curve dei coefficienti minori alle curve dei ricchi, ri-
spetto a quelli applicati alle curve dei poveri115.
Il limite fino al quale sarà spinta detta attività finanziaria, sarà dato, in questo schema di calcolo
compiuto dalla classe governante per la collettività, dalla eguaglianza, nel giudizio della stessa, di sacrifici
e vantaggi considerati nel complesso. Un ulteriore impoverimento del membri più ricchi della collettività,
determinerebbe necessariamente un abbassamento del punto di massimo utile per la collettività. E ciò pur-
ché l'incremento di sacrifici di utilità non sarebbe compensato da un corrispondente incremento di utilità,
dati gli apprezzamenti e le valutazioni edonistiche che la classe governante attribuisce ai membri rispetti-
vamente più ricchi e più poveri della collettività.
E' questo un caso-limite, che può divergere dal caso storico che in queste pagine indirettamente si
tende a spiegare con ragionamenti di valore universale. Ma esso può servire a chiarire i ragionamenti neces-
sariamente complessi che, tuttavia, si è cercato di rendere più accessibili di quanto lo sia lo schema che fi-
gura nello scritto che Pareto richiama nel trattato di Sociologia (cap. XII).
In conclusione, una prima innovazione logica che occorre accettare è che il giudizio sulle utilità
della ricchezza posseduta ed erogata, che nel campo dell'economia pura e dell'economia della finanza pub-
blica non tributaria è ipotizzato come esclusivo dei singoli, nel campo invece della economica finanziaria
che spiega il fatto tributario può spostarsi, per ipotesi più di quella atomistica interpretativa del concreto,
dai singoli alla classe governante per lo Stato. Abbiamo ricordato il concetto di utilità (massima) per la col-
lettività nello spiegare la genesi del prelievo e della spesa di una parte della ricchezza ad opera dello Stato.
Occorrerà ancora riferirsi ai calcoli edonistici che, per la collettività, imposta probabilmente e verosimil-
mente la classe governante, nel giudicare della eguaglianza delle contribuzioni, ad es. a titolo di imposte
generali e personali progressive, contrapposte alle proporzionali.
Persistendo nell'ipotesi individualistica o atomistica - che spetti all'individuo il giudizio utilitario,
anche in sede di fenomeni che spiega l'economia finanziaria (prelievi e consumi coattivi) - dovremmo con-
tinuare a ripetere le critiche che addirittura arrivano a ritenere estraneo a questa scienza il campo di spiega-
zioni che ci occupano, per contro, diffusamente in queste pagine.
L'ipotesi individualistica era stata abbandonata dal Pantaleoni e dal Pareto, Maestri di metodo e di
gnoseologia, allorché, senza uscire dal campo della teoria di carattere economico, rispettivamente concepi-
vano, come si è già detto, schemi di massimi edonistici collettivi e massimo di utilità per la (e della) collet-
tività. A questo schema arrivava Pareto, come ho avvertito nella Introduzione, dopo avere constatato che
__________
dal loro angolo visuale il quantum delle variazioni che essi, a giudizio della classe governante, annetterebbero agli ap-
prezzamenti utilitari propri e degli altri membri della collettività, in rapporto a singoli fatti della attività finanziaria.
115
(N.d.C). Ad es., come conseguenza, data una curva originaria AB (di entrambi, a parità di reddito) la curva dei
ricchi diviene la curva A, mentre quella dei poveri diviene laa curva B).

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«le utilità dei vari individui sono quantità eterogenee, e una somma di tali quantità non ha senso alcuno, non
c'è, non si può considerare. Se si vuole una somma che stia in relazione colle utilità dei vari individui, oc-
corre da prima trovare modo di fare dipendere queste da quantità omogenee, che poi si potranno sommare»
(N. 2127, vol. III, Sociologia). E il massimo di utilità per la collettività veniva determinato «indipendente-
mente da qualsiasi paragone fra le ofelimità di individui diversi». (N. 2130).
Pareto affidava alla «podestà pubblica» il compito di «necessariamente paragonare - non occorre ri-
cercare con quali criteri - le varie utilità». «In sostanza essa (podestà) compie grossolanamente l'operazione
che con rigore compie l'economia pura, e rende omogenee, mercé certi coefficienti, quantità eterogenee»
(N. 2131).
Pareto illustrava i suoi criteri per la spiegazione dei fenomeni o fatti di massa, non ritenendo estra-
nea alla scienza economica la sua posizione logica; ma ne scriveva proprio sul «Giornale degli Economisti»
(1913) facendo largo richiamo allo scritto nella Sociologia.
Che io sappia, nessuno ha privato di contenuto scientifico il tentativo di spiegare i calcoli utilitari
che lo Stato o la podestà pubblica per la collettività compiono proprio nel campo estremamente subiettivo
delle variazioni ipotizzate delle ofelimità dei singoli e di gruppi di componenti la collettività. Pareto, in ge-
nerale, e l'autore di queste lezioni di finanza non hanno incrociato le braccia scetticamente, dichiarando
l'impotenza della scienza economica in tema di spiegazioni di un fatto normale della azione statale, come
vorrebbe Einaudi.
Perché l'introduzione della variabile utilità soggettiva della ricchezza non dovrebbe divenire analiz-
zabile teoricamente, nella spiegazione del fatto tributario della imposizione proporzionale, regressiva e pro-
gressiva, non si comprende davvero. Basta, cioè, adeguare le ipotesi e non insistere esclusivamente su quel-
le a carattere individualistico, ma avvalersi di altre che, come dico oltre, tengano conto della socialità dei
soggetti o individui. I quali non sono da considerarsi solo od esclusivamente come gli isolati Crusoè da ro-
manzo, ma quali tipicamente emergono dalla vita reale dei complessi sociali, con caratteri psichici, gusti,
scelte, apprezzamenti utilitari, talora radicalmente trasformati dalla convivenza sociale: E il problema di
massa, quale è quello della distribuzione delle imposte generali, in base, ad. es., a criteri di eguaglianza og-
gettiva (in denaro) o soggettiva (in termini di sacrifici corrispondenti ai tributi) richiede che si aggiornino le
ipotesi, affinché esse si prestino ad una interpretazione delle soluzioni dei problemi tributari ed a una spie-
gazione plausibile di questi fatti.
Ciò è tanto più necessario, logicamente, in quanto proprio i più importanti fatti odierni si discostano
assai da quelli ormai meno rilevanti, anche se coesistono, che avevano soprattutto e continuano ad avere
sottocchio quanti, come economisti, insistono nella posizione scettica in questo campo. Invero, non soltanto
Crusoè appartiene troppo al romanzo, ma anche gli individui supposti inesorabilmente separati dal vallo del
no bridge, o nessun ponte o legame omogeneo, fra le loro decisioni edonistiche per la pretesa estrema auto-
nomia e diversità di gusti e apprezzamenti utilitari, sembra appartengano ad un ricordo di un passato che
forse non tornerà. Mi riferisco all'affermarsi nel mondo, in modo impressionante, dell'ideale di eguaglianza
che permea tutte le forme dell'ideale, più o meno sentito, di libertà del vivere materiale e spirituale anche.
Non soltanto, quindi, l'evoluzione sociale, nel cui quadro operano i soggetti della attività finanzia-
ria, rende logicamente necessarie ipotesi più feconde, come capacità interpretativa dei fatti e fa divenire, o-
biettivamente osservando, un ricordo storico i fatti a cui si riferivano le ipotesi individualistiche di econo-
misti superati. Ma occorre, anche in relazione ai fatti nuovi, una spiegazione ipotetica che prenda il posto di
una dichiarazione di incapacità esplicativa o di incompetenza gnoseologica di questa scienza, a cui oggetto,
fin dalla prima enunciazione della definizione, ho posto la spiegazione dei «modi» di distribuzione delle
imposte.
L'ipotesi di un modo uniforme di variare della utilità marginale in funzione del crescere dei redditi,
per individui diversi, in base alla visione individualistica appare a taluni talmente contro la realtà da spiega-
re, da far ritenere che «non appartenga alla scienza economica discutere di progressività dell'imposta». Con
detta ipotesi non si considera un ostacolo insormontabile il «no bridge». Questo assioma, rigido, dell'inesi-
stenza di ponte fra gli apprezzamenti edonistici individuali, ha il difetto di considerare davvero come isolot-
ti psichici gli uomini che, per contro, hanno molto in comune, fra loro, di gusti e scelte. Quando si ammet-
tano ipotesi di questo genere (uniformità collettiva), ciò si fa per affrontare spiegazioni di problemi di mas-
sa, per i quali sembrano inadeguate le ricordate posizioni tradizionalistiche di molti studiosi. Naturalmente,
a titolo soprattutto di notazione storica della teoria, considereremo anche l'ipotesi di diverso variare delle u-
tilità al margine, senza trasformazione di esse nell'omogeneo giudizio della classe governante.

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CAPITOLO II.

LE ENTRATE PUBBLICHE

I.

LA LOGICA DELLA SEQUENZA:


BISOGNI PUBBLICI - SPESE PUBBLICHE - ENTRATE PUBBLICHE.

1) In questo capitolo si completa la sequenza logica, economica che interessa massimamente: a) bi-
sogni pubblici; b) spese pubbliche; c) entrate pubbliche. Essa si traduce nella seguente proposizione: dati i
bisogni pubblici, essi si traducono, nel loro soddisfacimento, in corrispondenti spese, alle quali si provvede
con congrue entrate.
α) Secondo alcuni : I) nella economia o finanza privata, il reddito, come entrata, «determina» l'am-
montare possibile della spesa del soggetto; II) e nella economia o finanza pubblica la spesa «determina»
l'ammontare dell'entrata necessaria.
Osservo che questa approssimata visione può presentare tali eccezioni, considerando la casistica
della condotta del soggetto economico, da non poter considerarsi uniformità acquisita e indiscussa. Lo stes-
so dicasi dei casi e dei limiti quantitativi delle ipotesi di adattamento di spese alle entrate, nella condotta
degli enti pubblici, come soggetti della attività finanziaria.
Inoltre il reddito nel primo caso non segna il limite delle entrate, potendo il singolo attingere a pre-
cedente accumulazione di redditi passati ovvero a risparmio: e quando anche per questa via il bilancio delle
entrate e delle spese non sussista, anche nella attività individuale, studiata dalla economia politica, è previ-
sto il ricorso al prestito.
β) Ciò che, secondo alcuni, differenzia, tecnicamente, i due campi di azione è la possibilità: a) di ri-
corso a prestiti esteri; b) di ricorrere alla forma di prestiti costituita dalle anticipazioni da parte dell'Istituto
di emissione, in misura tale da dar luogo ad inflazione e da trasformare il rapporto statale di debito in pre-
lievi tributari indiretti, per redistribuzione di potere di acquisto sul mercato fra categorie di redditieri.
A rigore, se si prescinde dai fini o dalla natura dei bisogni da soddisfare, dal lato della tecnica del
finanziamento e degli effetti economici di esso si può dire che anche nell'economia privata: a) ricorrono i
prestiti esteri, contratti con gruppi privati e con enti ed istituti creati da Stati (vedasi l'odierna esperienza per
quanto riguarda i prestiti concessi dagli Stati Uniti); b) inoltre anche i privati, come sistema bancario, pos-
sono dar luogo a finanziamento del loro bisogni con inflazione, sia attraverso ampliamento del volume del
credito, sia attraverso il ricorso a risconti ed anticipazioni non prontamente controllati e frenati dalle pub-
bliche e competenti autorità. Si consideri la genesi del «risparmio forzato» nella sua genuina ed originale
formulazione, che faccio risalire a Keynes-Pigou soprattutto. E si osserverà come da una espansione di cre-
dito che metta a disposizione di alcuni privati, un incremento (praticamente notevole) di potere d'acquisto,
possono derivare aumenti di prezzi che obbligano altri redditieri-consumatori a rinunciare a taluni consumi,
con forzato risparmio. La redistribuzione di potere d'acquisto determinata dalla inflazione provocata dallo
Stato, non ha effetti diversi, se si procede ad una analisi approfondita delle modificazioni dell’equilibrio e-
conomico.
γ) Un altro punto di vista dal quale, secondo alcuni, vi sarebbe una «netta differenza fra i mezzi del-
la finanza e i mezzi dell'economia» consiste nel ritenere che «i mezzi in finanza non sono relativamente
scarsi ma praticamente abbondanti» che i «mezzi sono relativamente abbondanti» rispetto ai fini pubblici, o
che «i mezzi della attività finanziaria sono praticamente abbondanti di fronte a fini talora relativamente li-
mitati» (116).
Questa visione del Griziotti, seguita da altri, merita una precisazione. In essa ricorrono, invero, ter-
mini che consentono di ragionare in modo ben diverso, a seconda del loro uso.

__________
(116) Mezzi dell'attività economica e mezzi della attività finanziaria, negli Studi in memoria di G. Masci, vol. II,
Giuffrè edit., 1943.
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O si fa questione di grado (abbondanti) con riferimento diretto a determinati casi concreti (pratica-
mente). E in questa ipotesi si può rispondere che l'economia privata offre esempi di mezzi abbondanti ri-
spetto ai bisogni del singoli e di gruppi privati, confrontando situazioni diverse o rapporti disformi fra biso-
gni e fini, e mezzi.
O si ragiona in base a dati assoluti o a quantità totali. E allora occorre abbandonare il termine «rela-
tivamente», che, per contro, il Griziotti stesso introduce nel ragionamento. Il che non può farsi senza con-
traddizione; infatti 1'A. sente il bisogno di affermare «che il politico con una analisi e sintesi di fattori, più
grandi di quelle dell'economista, saprà valutare se il raggiungimento dei fini valga il costo economico del-
l'erosione dei redditi, oltre che l'ammontare e la natura della spesa e della rispettiva entrata».
Ciò che fin da ora occorre, infatti, riconfermare, in previsione di ulteriori capitoli di finanza razio-
nale, che seguiranno, è che si tratta in teoria proprio di problemi relativi o, meglio, basati su quantità mar-
ginali, siano di spese o di entrate da destinare ad esse, in rapporto alla coesistenza di bisogni privati e pub-
blici. Nell'economia ed in finanza pubblica, problemi e teoremi sono parimenti impostati su utilità e disutili-
tà confrontate su costi e vantaggi in termini obiettivi e subiettivi (ovvero di moneta data e servizi e beni ri-
cevuti o di utilità sacrificata e di utilità conseguita) per quantità differenziali e marginali. Il che conferisce
omogeneità logica ai problemi della privata economia e della finanza pubblica, anche se, come vedremo,
diversi possono essere i soggetti che apprezzano o valutano le quantità predette, che volta a volta si pongo-
no in equilibrio per procedere a decisioni o scelte nel campo della attività privata (di scambisti, consumato-
ri, produttori) o della attività finanziaria pubblica.
Non può, quindi, farsi posto al criterio di differenziazione scientifica che si è proposto da siffatto
punto di vista. Tanto più che la osservazione storica (se non proprio la verifica storica) consente, infatti, di
rilevare che non è stato contraddittorio il limitare l'attività dello Stato (concezione detta liberale-
individualistica) pur non sussistendo, come vuole il Griziotti, «limitazione di mezzi». Ma appunto codesta
constatazione dà la prova della bontà della mia posizione logica. E, cioè - limitandomi a considerare l'aspet-
to economico del problema (117) conformemente ai propositi di questa trattazione - se proprio allorché i
«mezzi non erano limitati» vigevano concezioni restrittive della attività dello Stato, ciò avveniva perché il
giudizio sulla fecondità, produttività, utilità relativa, ecc. della destinazione di parti o incrementi di mezzi a
fini pubblici o a spese pubbliche, faceva ritenere a quanti impostavano calcoli di penosità e utilità compara-
te, relativamente meno conveniente il sottrarre alla azione di soggetti agenti nella sfera del soddisfacimento
di bisogni privati, rispetto a destinazione degli stessi mezzi a bisogni gravitanti nel campo delle funzioni
che si credeva di assegnare allo Stato. Sono «stati di coscienza» che presuppongono calcoli utilitari nel
campo, appunto, del relativo e in senso marginale.
Naturalmente, non si ammette, in questa sede alcun «giudizio di valore» (sulla bontà di siffatto at-
teggiamento dei protagonisti della storia), ma si chiarisce la omogeneità dei processi logici, nella interpre-
tazione razionale della condotta di soggetti, privati e pubblici, nel confrontare mezzi a fini, nel campo del-
l'economia privata e della finanza pubblica trattando, nei due casi, i problemi al margine.
2) Nonostante si ammetta da alcuni la priorità storica e logica del fatto della spesa pubblica, imme-
diatamente collegata con la formulazione in via storica e ipotetica dei bisogni pubblici, non tutte le tratta-
zioni di scienza delle finanze ne traggono le conseguenze razionali. Così che, invece di far posto anzitutto
alle spese pubbliche e poi alle entrate, si segue il procedimento inverso, che non ha significato logico, se
non si contrappone altra sequenza a quella con cui ha inizio il N. 1 di questo capitolo.
Inoltre, l'ordine espositivo del problemi economici della finanza pubblica, in queste lezioni, è detta-
to anche da una esigenza ad un tempo didattica e di logica sostanziale.
Invero, il riferimento alle spese pubbliche deve precedere logicamente, perché: 1) il vantaggio di-
retto e divisibile che deriva ai singoli (dietro loro domanda libera) dalla offerta di beni e servizi statali e
pubblici in genere; 2) e i vantaggi indiretti più o meno divisibili che derivano dal consumo coattivo di beni
e servizi pubblici, contribuiscono a far coerentemente determinare il modo e il quantum delle entrate pub-
bliche.
Inoltre, l'esperienza dei precedenti corsi di lezioni, ha fatto rilevare nell'esporre criticamente le «te-
orie principali tendenti a spiegare il fenomeno finanziario», che esse prima recano luce, sebbene ormai
scarsa, sui limiti delle spese pubbliche, poi sui modi dell'ottenimento delle entrate, con particolare riferi-
__________
(117) Prescindo, cioè, dall'influenza di forze politiche, non perché esse non saranno state probabilmente determi-
nanti come passioni, o sentimenti e interessi, ma per l'impossibilità che finora, si è rilevato di teorizzare su di essi, a
giudicare dall'odierno stadio di sviluppo della scienza politica o sociologica.
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mento alle somme coattivamente prelevate in relazione implicita alla maggiore importanza che le entrate
tributarie hanno nei bilanci degli stati moderni. Vengono, cioè, successivamente i modi delle entrate, costi-
tuiti: da prezzi privati, quasi privati, pubblici, tasse, contributi, imposte speciali, imposte generali. Detti
modi di ottenere le entrate presupponevano oltre al quantum razionalmente spiegato, delle spese, i modi
delle spese e finivano per essere esempi di istituti finanziari, attinenti specialmente alle pubbliche entrate,
correlati con le spese, spiegati entro certi limiti attraverso la tradizionale esposizione di dette teorie.
Queste, invero, per la maggior parte, costituiscono oggi materia di storia della scienza, perché scar-
so, parziale e spesso nullo è il loro apporto alla spiegazione dei fatti della finanza pubblica, che qui ci inte-
ressano in sede di analisi delle pubbliche entrate. Coloro a cui interessi codesto sviluppo di storia delle teo-
rie, possono averne una esauriente indicazione, con dati bibliografici, nei citati Elementi del Gangemi, che,
da questo punto di vista,- hanno il pregio della trattatistica, o in altri manuali e trattati.
Dette «teorie» convergevano, più o meno adeguatamente, nel dar ragione di parti del fenomeno, ri-
spettivamente vertente nella sfera in cui domina la volontarietà della domanda di consumo dei servizi pub-
blici, a fronte della quale domanda stanno forme di entrata da cui esula la obbligatorietà della contribuzione
che caratterizza i tributi.
Le stesse teorie miravano a dar ragione della parte del fenomeno finanziario concernente prelievo,
appunto; di tributi, coattivamente, in rapporto ai vantaggi generici e indiretti e indivisibili che derivano dai
servizi il cui consumo sia obbligatorio, e per i quali si siano sostenute pubbliche spese.
Dato il carattere di queste lezioni informate alla odierna teoria economica pura, di cui si fa sistema-
tica applicazione o trattazione nuova, appare logico, anche a maggior chiarimento delle basi logico che di
questa scienza senza incorrere nella confusione che deriva da numerosi riferimenti storici a teorie superate,
che si limiti la assunzione dei criteri di differenziazione delle pubbliche entrate a quelli che di seguito si e-
spongono come razionalmente sufficienti.

DISTINZIONE TRA LE ENTRATE. Le entrate vanno distinte in ordinarie e straordinarie a seconda: 1)


che con esse lo Stato fronteggi bisogni continui, prevedibili, che si assume di soddisfare sostenendo spese
pubbliche e procurandosi adeguate entrate; 2) che esse costituiscano, rispettivamente, il provento per biso-
gni discontinui, e non prevedibili.
In queste pagine si ferma l'attenzione sulle entrate ordinarie, riservando il capitolo XVI alle entrate
straordinarie, caratterizzate da entrate non ricorrenti con regolare periodicità.
Ciò avvertito, faccio riferimento alle seguenti relazioni fondamentali fra spese pubbliche e relativi
servizi statali, da un canto, ed entrate pubbliche corrispondenti.
R. a) La relazione che intercorre fra:
I) specie di beni e servizi, liberamente per i membri che lo compongono, offerti dallo Stato e da al-
tri soggetti attivi della finanza pubblica, e connessi vantaggi o utilità direttamente conseguiti e valutati
comparativamente dai singoli membri o da gruppi di membri della collettività, da un canto;
Il) corrispettivi chiesti dallo Stato e liberamente accettati dai singoli, senza obbligo di consumo dei
beni e del servizi rispettivamente;
III) consente di dare la spiegazione razionale, economica del corrispettivi (modi e ammontari) di
entrate pubbliche non aventi natura tributaria.
R. b) La relazione che intercorre:
I) fra beni e servizi, il cui consumo lo Stato renda obbligatorio, con beneficio: a) diretto, prevalente
della collettività, e indiretto, ma misurabile o almeno divisibile e relativamente meno rilevante di singoli
gruppi come membri della collettività; b) diretto e prevalente della collettività e indiretto e indivisibile di
singoli, da un canto;
II) e contribuzioni coattivamente prelevate a carico di: a) singoli e gruppi di membri della colletti-
vità; b) a carico di tutti i membri della collettività (con le eccezioni previste storicamente dalla legislazione
positiva che non interessano in questa sede), dall'altro;
III) consente di dare la spiegazione di entrate pubbliche caratterizzate: (α) da obbligo di consumo di
beni e servizi; e (β) da obbligo di contribuire al rimborso delle spese, di cui abbia assunto la iniziativa lo
Stato o altro soggetto attivo della finanza pubblica, o da coattivo prelievo. Caratteri questi [(α) e (β)] che
consentono di individuare le entrate pubbliche di natura tributaria.

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II.

LE ENTRATE PUBBLICHE DAL PUNTO DI VISTA DEI SINGOLI MEMBRI DELLA


COLLETTIVITÀ CHE DOMANDINO O SUBISCANO IL CONSUMO DI SERVIZI PUBBLICI.

A) Dal punto di vista dei singoli membri o gruppi di membri della collettività, come consumatori e
produttori di beni e servizi, considererò, come criterio di differenziazione delle pubbliche entrate, la validità
logica o la non validità logica della estensione delle seguenti leggi teoriche già note agli studenti:
I) livellamento delle utilità marginali;
II) livellamento delle produttività marginali.
Secondo quanto precede nei capitoli anteriori (in cui si è insistito sul carattere teorico dell'economia
della finanza pubblica) può risultare logico l'inserire direttamente nelle equazioni che caratterizzano l'equi-
librio del consumatore e del produttore anche il termine costituito dalla relazione su indicata di tipo R. a).
Inoltre, occorrerà considerare le ripercussioni che indirettamente sui valori dei termini delle suddet-
te equazioni, con differenze di grado, si rifletteranno sulla ipotetica relazione R. b), che sopra figura.
Nel primo caso (R. a) si individueranno entrate pubbliche razionalmente classificate come non a-
venti carattere di tributi, nel senso sopra indicato; nel secondo caso (R. b) si individueranno entrate pubbli-
che aventi carattere tributario.
I) La prima delle due uniformità (118), ovvero il livellamento delle utilità marginali, viene conside-
rata in senso discriminante, per negare che essa possa trovare applicazione per spiegare il fenomeno finan-
ziario, nella sfera di servizi di cui sia obbligatorio il consumo e indivisibile il vantaggio.
__________
118
Sebbene detta uniformità debba supporsi nota agli studenti che abbiano seguito i corsi propedeutici di economia
politica pura, si ricorda brevemente lo schema, con riferimento al consumo anche di beni e servizi pubblici, simultane-
amente a quello di beni e servizi privati. Detto schema edonistico, secondo Gossen, Jevons ed Edgeworth in un primo
tempo, si può enunciare sinteticamente succintamente dicendo che, secondo la psicologia sperimentale, allorché un in-
dividuo che abbia a propria disposizione una certa quantità di ricchezza, divisibile in dosi eguali, ne dedichi ininterrot-
tamente dosi successive al soddisfacimento di un bisogno, risente un piacere via via minore. Parimenti, detto individuo
distribuirà la ricchezza in modo da soddisfare prima i bisogni più intensi e poi quelli meno intensi. Se si fa l'ipotesi di
dosi infinitesime di ricchezza, il grado marginale o rapporto fra l'utilità di una ricchezza e la sua quantità è misurato
dal rapporto fra un incremento infinitesimo dell'utilità totale e il corrispondente incremento infinitesimo della quantità
di ricchezza.
Questa legge di tendenza come quella relativa all'utilità totale, considerata come funzione crescente della ricchezza è
però astratta: in concreto poco o nulla si sa degli apprezzamenti psicologici diversissimi degli individui nei confronti
dell'uso della ricchezza a loro disposizione.
Prescindendo dalla premessa psicologica, il Menger e gli economisti della scuola austriaca si sono basati sulla logica
del consumatore come homo oeconomicus, guidato nei suoi giudizi di utilità da un raziocinio perfetto e soltanto da es-
so.
Postulata la premessa che precede, nella distribuzione della ricchezza fra i vari con consumi, l’edonista perfetto Si
fermerà in una condizione di equilibrio che gli assicuri un massimo di utilità. Essa si può dire raggiunta allorché -
supposta l’eguaglianza dei prezzi dei vari beni - siano livellati i gradi finali di utilità. La tabella del Menger, quindi, si
presta alla «registrazione» Einaudi delle decisioni volontarie del consumatore rispetto ai beni privati.
L'applicazione che di questa legge economica di tendenza si fa, per tentare la spiegazione del fenomeno finanziario,
è storicamente ammissibile in quanto si suppone in base alla domanda attiva ed alla volontarietà del consumo, che
l'individuo possa apprezzare l'utilità del beni e servizi privati e di quelli pubblici, in modo da distribuire la ricchezza
fra consumi privati e pubblica conseguendo l'eguaglianza fra l'utilità delle dosi marginali di ricchezza, rispettivamen-
te destinate a soddisfacimento di bisogni privati e pubblici.
Per illustrare tale teorica si ricorre alla predetta tabella del Menger, supponendo i beni e servizi, privati e pubblici,
nonché la ricchezza a disposizione di ciascun consumatore, divisibili in dosi infinitesime. Dalla legge di tendenza testè
richiamata risulta che le successive dosi di beni e servizi hanno importanza decrescente. Supponiamo che i vari biso-
gni abbiano diversa intensità e che essa sia così rappresentata da indici empirici relativi ad a, b, c, d, e, i quali, pertan-
to, stanno a significare la soddisfazione che all'individuo deriva dall'aver destinato, successivamente ed ininterrotta-
mente dosi eguali di ricchezza ai vari beni o servizi privati e pubblici.
Espongo, per fini di evidenza formale, i servizi pubblici dopo i beni privati. Ma è ovvio che i beni pubblici sono fra i
beni privati desiderati dagli individui.
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Ponendomi, anzitutto dal lato della attitudine positiva di detta uniformità a spiegare i fatti e gli isti-
tuti finanziari, si può affermare che essa contribuisce a dar ragione, dal punto di vista dei singoli membri e
gruppi di membri della collettività, dei seguenti modi di procurarsi le entrate.
In esse ricorrono le caratteristiche costituite: 1) dal prezzo o corrispettivo, nato a «priori», sia esso
risultante dalle condizioni di libera concorrenza in cui agisca lo Stato, come offerente di beni e servizi, sia
esso fissato dallo Stato che si riservi il monopolio dell'offerta dei servizi; 2) dalla libertà per il membro del-
la collettività (o gruppo di membri) di consumare (o meno) beni e servizi, di cui essi abbiano facoltà di far
domanda, in base ad apprezzamento utilitario nei confronti del tipo di beni o servizi e della quantità che, nel
quadro del bilancio dell'edonista-consumatore, appaia utile richiedere.
Detti estremi ricorrono, in linea generale, nel seguenti modi di procurarsi le entrate a cui ricorre
l'ente pubblico, e che si possono così elencare:
prezzo privato;
prezzo quasi privato;
tassa (in senso non tributario e rispondente ai caratteri 1) e 2) sopra indicati).

__________

Dosi di Servizi
Gruppi beni privati
ricchezza pubblici
a b c d e
1 10 9 8 7 6
2 9 8 7 6 5
3 8 7 6 5 4
4 7 6 5 4
5 6 5 4
6 5 4
7 4

Dopo la ripartizione della ricchezza disponibile fra consumi pubblici e privati, l’individuo deve trovarsi in una con-
dizione di massimo utile in cui le utilità marginali siano livellate. Quindi, se supponiamo che abbia a propria disposi-
zione soltanto 10 dosi di ricchezza, egli le dedicherà soltanto al soddisfacimento del bisogni privati, destinandone 4 al
gruppo a, 3 al gruppo b, 2 al gruppo c, e 1 al gruppo d; e ciò perché l'intensità dei bisogni privati supera quella del bi-
sogno pubblico nello schema ipotetico di Menger
Se disponesse, invece, di 20 dosi, potrebbe passare al consumo di servizi pubblici, la cui utilità supera indice 6 quella
di talune dosi di beni privati 5 e 4. Quindi, distribuendo le 20 dosi di ricchezza o reddito in modo da livellare le utilità
marginali dovrà impiegarne: 6 nell'acquisto di beni del gruppo a; 5 del gruppo b; 4 del gruppo c; 3 del gruppo d cioè
18 dosi in consumi privati e 2 in servizi pubblici gruppo e. Invero soltanto tale distribuzione attua la condizione di
massima soddisfazione dei bisogni, in cui le utilità marginali sono eguali indice 5 per tutti i consumi.
Qualunque scostamento da tale distribuzione ottima, apporterebbe una perdita di utilità.
In forma più rigorosa, analitica, si ha la seguente rappresentazione, con l'ipotesi, aderente alla fenomenica concreta,
che i prezzi dei vari beni siano disuguali. In tal caso, affinché si abbia una condizione di equilibrio per l'edonista per-
fetto, occorre che le utilità marginali si livellino ai prezzi, ossia risultino proporzionali ai prezzi, ovvero, in altre paro-
le, che si livellino le utilità marginali ponderate con i prezzi. Se a, b, c,... n è l'utilità totale corrispondente ai consumi
δϕ δϕ δϕ δϕ
di beni e servizi; , , , ….. sono i gradi finali di utilità derivate parziali, e Pa, Pb, Pc, ….. Pn i prezzi
δa δb δc δn
dei predetti consumi, l’edonista consumatore otterrà il massimo di utilità dalla erogazione dal suo reddito monetario,
allorché sarà:
I δϕ I δϕ I δϕ I δϕ
. = . = . ….. = . ;
Pa δa Pb δb Pc δc Pn δn
espressione a cui si perviene dopo avere considerato rispettivamente: un incremento da di a consumo di un bene o
δϕ
servizio; l'utilità marginale corrispondente . da ed avere supposto che si spenda Pa . da per comperare l'incremen-
δa
to da.
δϕ
da
δa I δϕ
Così che il rapporto diventa eguale a .
Pa.da Pa δa
Lo stesso dicasi per gli altri incrementi di consumo, privati e pubblici, per i quali si paghino prezzi o si corrisponda-
no corrispettivi in base a libera scelta o determinazione dei soggetti.
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II) Gli stessi modi di procurarsi le entrate (a cui ricorre lo Stato, con prezzi e corrispettivi per beni e
servizi chiesti in base a calcolo utilitario dei membri della collettività) possono consentire la estensione del-
la legge o uniformità del livellamento delle produttività marginali, ai produttori che compiano combinazio-
ni per arrivare razionalmente al risultato della «produzione» con il consumo di detti beni e servizi offerti
dallo Stato senza coazione.
Nessun dubbio che, direttamente [e non come economie esterne, di cui ci si è occupati in preceden-
za nel capitolo VIII (119) per accennare alla fecondità indiretta della funzione statale per la produzione] beni
e servizi offerti dallo Stato siano complementari, in quanto richiesti per propria «scelta» dai membri e
gruppi della collettività, operanti come produttori. Essi possono tener conto dei beni e servizi offerti dallo
Stato in regime di concorrenza e di monopolio, non diversamente da come agiscono nei confronti di altri
beni e servizi, nel vagliare produttività di essi e prezzi per essi pagati, rispetto alla migliore organizzazione
o combinazione dei singoli fattori, a cui assimilano quelli statali. Possono essere costituiti da beni (stabili,
terreni, aree occupabili, ecc.); o servizi (postali, telegrafici, ferroviari, ecc.), di cui alcuni (amministrazione
della giustizia, dell'istruzione) organizzati in modo da offrire la tutela di diritti e crediti, o da consentire la
formazione culturale e professionale di imprenditori nella espressione più ampia del termine. Ricordo, in
proposito la legge o uniformità del livellamento delle produttività marginali, la quale si esprime dicendo
che: ogni imprenditore limita le quantità impiegate dei singoli fattori in modo che le singole produttività
marginali (o incrementi di prodotto in rapporto all'incremento di fattore di produzione considerato), siano
proporzionali ai rispettivi prezzi.
Le equazioni che esprimono codesta legge economica sono state esposte, con riferimento ai servizi
statali indivisibili e con vantaggio indiretto per i contribuenti-imprenditori, nel capitolo VIII a cui si riman-
da per evitare ripetizioni di formulazioni simboliche.
Ciò premesso, faccio una breve spiegazione del contenuto degli istituti sopra elencati: prezzi priva-
ti, prezzi quasi privati, prezzi pubblici, tasse (non tributarie).
Le caratteristiche di detti modi di procurarsi le entrate dimostreranno la applicabilità, nei loro con-
fronti, delle due uniformità che riguardano la condotta dei membri e gruppi della collettività e come con-
sumatori e come produttori di ricchezza, con libere scelte.
a) Prezzi privati. Sono quelli che singoli membri della collettività e gruppi di membri, privati, come
edonisti-consumatori e come produttori, corrispondono allo Stato, allorché esso offre prodotti del patrimo-
nio, ad es. immobiliare, frutti di terreni, o dia in locazione immobili urbani, o consenta l'occupazione, dietro
canone, di aree pubbliche, senza imporne il consumo, ma tenendo conto della domanda, volta a volta, di
membri o gruppi privati della collettività.

b) Prezzi quasi privati. Sono corrisposti allo Stato per prodotti di imprese o industrie che lo Stato ri-
tenga di assumersi allo scopo di soddisfare contemporaneamente bisogni dell'intera collettività. Ma a fini
della nostra differenziazione è rilevante che, ad es., i prodotti dell'industria forestale statale, vengano vendu-
ti a prezzi corrisposti dai privati in base a loro scelte o a domanda liberamente formulata. Anche in questo
caso manca l'obbligo del consumo del bene o prodotto forestale. E la circostanza che immediatamente e si-
multaneamente, - a prescindere dalla destinazione che sarà data ai proventi monetari o prezzi dei prodotti
dell'azienda statale – assumendosi l'azienda forestale lo Stato assolva esigenze collettive indivisibili, o co-
muni (prevenzioni di alluvioni, frane, inondazioni, agevolazione di regolari precipitazioni atmosferiche, in-
fluenza su temperatura e sui venti, ecc.) non fa sorgere obbligo di consumo dei beni che, come prodotti fo-
restali, esso offre sul mercato a quanti ne facciano libera richiesta.

c) Prezzi pubblici. Vengono così detti quelli che lo Stato fa pagare a coloro che fanno libera do-
manda di servizi da esso resi, ad es., nel campo delle comunicazioni postali, ferroviarie, telefoniche, ecc.,
per la parte di vantaggi divisibili o vagliati in termini di utilità dai membri della collettività come edonisti-
consumatori o produttori di ricchezza.
Anche in questo caso teorico, con l'assunzione della produzione di detti servizi, lo Stato, immedia-
tamente e simultaneamente, soddisfa bisogni indivisibili della collettività (agevolazione di traffici o scambi,
della diffusione della cultura, della mobilitazione di forze militari, ecc., ed altri fini e bisogni di cui si dirà
ragionando della logica dell'offerta).
__________
119
Il cui contenuto ha già visto, in parte, la luce in un mio articolo apparso sulla Riv. di dir. fin. e scienza delle fi-
nanze, 1950, IV.
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d) Tasse. E' la denominazione di varie categorie di entrate pubbliche. Dal punto di vista che ci inte-
ressa, alla luce della applicazione delle uniformità teoriche economiche. su indicate, sono tasse i corrispet-
tivi che lo Stato esige non soltanto, talvolta, per i servizi divisibili suddetti (invero tasse come tariffe spesso
vengono denominati i casi di prezzo pubblico); in particolare, per servizi resi dalla amministrazione od or-
ganizzazione statale.
Casi tipici sono le tasse giudiziarie quando spontaneamente i membri della collettività abbiano inte-
resse ad adire la magistratura, o a chiedere il servizio della istruzione (in Italia, media e superiore) per valu-
tazione autonoma o privatistica del vantaggio o dell'utilità di detti servizi, in rapporto ai corrispettivi che li-
beramente siano chiesti dallo Stato, appunto denominati tasse. In tali casi, lo Stato soddisfa bisogni pubblici
indivisibili, in modo immediato e simultaneo. Anche in tal caso la quota di costo non coperta dal singolo
beneficiario sarà coperta dalla collettività.

B) Il lettore può compiere la verifica della compatibilità e della coerenza delle caratteristiche che ri-
corrono in questi modi di procurarsi le pubbliche entrate, che abbiamo visti in rapida rassegna, con le due
uniformità teoriche, di economia pura, designate come: I) livellamento delle utilità marginali e II) delle
produttività marginali.
Infatti nei casi dei modi di entrate indicati qui alle lettere a), b), c), d), ricorre la libertà delle scelte
e degli apprezzamenti utilitari, in base a prezzi e corrispettivi da un canto e a tipi e fecondità di servizi. Ciò
consente ai consumatori e produttori di ricchezza di procedere alle combinazioni nei bilanci di edonisti e di
organizzatori di imprese, rispettivamente, alla luce delle leggi che l'economista puro ha potuto formulare
nel confronti della condotta dei due tipici soggetti qui considerati.
Questa mia impostazione della differenziazione fra entrate non tributarie e tributarie, rispettivamen-
te caratterizzate da «non-obbligo» ed «obbligo» di consumo di servizi pubblici, ha il pregio di chiudere net-
tamente le discussioni sui caratteri di alcuni strumenti, attraverso i quali lo Stato provvede al fabbisogno per
fronteggiare i bisogni e le spese pubbliche120.
Correttamente lo Zanobini (121) riserva il termine di tributi «a quelle entrate che lo Stato ottiene im-
ponendo prestazioni obbligatorie ai suoi componenti, senza far corrispondere a queste nessuna particolare
utilità e rivolgendone il provento unicamente a fini generali di organizzazione, di difesa e di progresso
dell’intero ordinamento». «Soltanto queste entrate possono dirsi in senso proprio «tributi»: esse apparten-
gono esclusivamente al diritto pubblico e si identificano con le varie specie di imposte». Fra queste vanno
considerate anche i tributi impropriamente detti «tasse» in alcuni ancora arretrati testi di legge.
Non posso, invece, accogliere come coerente nel pensiero dello Zanobini, la estensione della quali-
fica di entrate a titolo commutativo che la Zanobini «per designare quei proventi - siano essi di diritto pri-
vato o di diritto pubblico - che derivano da uno scambio di utilità fra il cittadino e lo Stato», al caso dei con-
tributi, ad es., di miglioria (che sono, per contro, coattivi) solo perché ad essi corrisponde una specifica con-
troprestazione. E ciò perché manca per essi la caratteristica della «utilità che ciascuno richiede ed è disposto
a pagare» che questo autore pone a presupposto del pagamento della tassa.
Come già chiarito, in generale occorre distinguere l'obbligo del pagamento di corrispettivi, che è
ovvio anche nei casi di rapporti contrattuali privati una volta che si sia fatta domanda del bene oggetto di
scambio, dall'obbligo del consumo dei servizi, che è l'elemento discriminante della mia differenziazione
__________
120
Ciò riguarda, in particolare, la tassa che nel campo giuridico ha ricevuto definizioni troppo rigide e unilaterali, e
in contrasto con il fenomeno concreto che si cela dietro una medesima denominazione, promiscuamente e non pro-
priamente, adottata dai legislatori, qualcuno dei quali in Italia si è deciso ad una correzione di buona parte delle dizioni
(tasse) che riguardavano veri e propri tributi e imposte nella specie, per la coazione esercitata sulla corresponsione,
anche senza specifica controprestazione in servizi (se si prescinde da casi marginali e differenziali: come la registra-
zione degli atti per trasferimenti di ricchezza). Questo accenno conferma, ancora una volta, la difficoltà di conciliare
l’aspetto economico con quello giuridico della costruzione scientifica, nello studio dai due punti di vista, della attività
finanziaria. Si è, cioè, rilevata la natura di tributo, con coazione esercitata per il suo pagamento, come se questo fosse
sempre connesso con obbligo di consumo del servizio. Finalmente si è potuto leggere in Zanobini, Corso di diritto
amministrativo, vol. IV (I mezzi dell'azione amministrativa) che, poiché le conclusioni «si fondano sulla disciplina
concreta fatta ai vari servizi dalle leggi positive, è necessario rinunziare a qualunque criterio astratto di distinzione e
risolvere il problema, volta per volta, tenendo conto del modo come il rapporto risulta organizzato dalla legge che lo
riguarda».
121
DANIELE e MARANA: presi alle lezioni tenute a Venezia 1932-1935 e riprodotti nel 1936.
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delle entrate. Soltanto quando esso sussista, si è nel campo dei tributi, così intesi. In tal modo si evita di u-
sare promiscuamente il termine di «prezzo» e di «tributi», come si nota nella trattazione specifica del Ricca
Salerno (Studi sulla teoria delle tasse, Palermo, Società Editrice Libraria, 1928). Analogamente si evita di
trattare di «obbligazione tributaria» nel caso di tasse, per le quali non si ha obbligo di consumo di servizio,
come è occorso di fare a M. Pugliese (Le tasse nella scienza e nel diritto positivo italiano, Cedam, 1930).
Lo stesso è occorso al Griziotti che le considera in genere tributi o prelevamenti coattivi, solo perché lo Sta-
to si riserva, in regime di monopolio, l'offerta di certi servizi. Ma detta inevitabilità di pagamento si ha in
caso di domanda di servizi resi da monopolisti privati.
1) Osservo, al tempo stesso, che la natura di tributo esiste in entrate che hanno impropria denomi-
nazione legislativa di «tasse», ma che nella sostanza sono tributi e, in particolare imposte.
Invero, allorché sotto la denominazione di tassa si celano casi di prelievi coattivi senza relazione
con servizi specifici offerti dallo Stato, e soprattutto senza facoltà per il singolo di chiedere di consumare il
servizio, si è nel campo tributario.
2) I contributi di miglioria specifica possono figurare fra i «tributi», per la coazione che il caratte-
rizza, connessa ad obbligo di consumo di servizi. Trattasi si pagamenti obbligatori per servizi divisibili rela-
tivamente ad un gruppo di individui (differenziato territorialmente), ed ulteriormente divisibili tra gli indi-
vidui del gruppo. Il relativo vantaggio è divisibile «a posteriori», ossia dopo che lo Stato o altro minore ente
abbia preso l'iniziativa del compimento di opere di pubblico interesse. In tal caso lo Stato impone il contri-
buto, anche se non si sia fatta richiesta (di dette opere a mezzo di iniziativa privata) da parte di coloro che
risultino particolarmente avvantaggiati, per incremento di valore conseguito dai beni immobili adiacenti al-
la zona a cui si estenda il vantaggio specifico.
3) Altra categoria di tributi, distinta, è quella detta dei «tributi speciali», che sono «imposte che
gravano su determinati gruppi o classi sociali, i quali risentono, come tali, un beneficio particolare da un
servizio pubblico, reso per soddisfare prevalentemente un bisogno collettivo del gruppo stesso». Ma, a dif-
ferenza del contributo di miglioria, il beneficio non è divisibile all’interno del gruppo, per cui (per la ripar-
tizione interna) si applica il criterio di riparto delle imposte (ossia in base a capacità contributiva).
(Si pensi, ad es., al contributo integrativo di utenza stradale, secondo precedenti legislativi dovuto
da quanti per l'esercizio di una industria o commercio, cagionano con il transito di veicoli «a trazione mec-
canica o animale» un eccezionale logorio delle strade. Ecco individuato un gruppo che si avvantaggia in
modo particolare del servizio pubblico della viabilità, che risponde anche all'interesse generale).
4) Infine si ha l'imposta generale, come eminente modo di ottenere le entrate pubbliche, che in pre-
cedenza ho definito come «il tributo che i contribuenti sono tenuti a pagare in moneta e talora in equivalen-
te allo Stato (e ad enti pubblici minori) per i servizi di utilità generale, il cui vantaggio non è in linea di
massima ripartibile e individuabile, ed il cui costo, quindi, indivisibile fra i singoli.

In conclusione, le due uniformità fondamentali:


I) del livellamento delle utilità marginali;
Il) del livellamento delle produttività marginali,

non possono razionalmente spiegare le categorie di entrate che sono state esposte sotto i nomi di tasse (con
carattere tributario), contributi, imposte o tributi speciali, imposte o tributi generali: entrate che hanno carat-
tere tributario.
I) α – Infatti, per quanto riguarda la prima uniformità, occorrerebbe ammettere, anzitutto, che i sin-
goli membri della collettività siano in grado di apprezzare l'importanza dei servizi pubblici indivisibili. Ma
anche ammesso che siffatta capacità sussista in concreto e che si possa ammettere in sede ipotetica, astratta,
rimane una circostanza non conciliabile con i tributi, a cui corrisponde obbligo di consumo di servizi pub-
blici.
Detta circostanza, essenziale nello schema illustrato in base alla tabella del Menger ed alle equazio-
ni che generalizzano la legge o il criterio della eguaglianza delle utilità (subiettive) ponderate, nelle pagine
precedenti, presuppone «scelte» volontarie dei soggetti, suggerite dalla sensazione dei bisogni, giudicati
dalla logica economica, supposta perfetta, dei soggetti medesimi.
Lo Stato, ha osservato l'Einaudi, se vuole avere una ragione di esistere, deve fornire i servizi pub-
blici indivisibili o a consumo obbligatorio, prima che sorga la sensazione del mancato soddisfacimento di
questa categoria di bisogni pubblici. Continuando in questo ragionamento, il singolo non troverebbe ragio-
ne di tener conto, nel proprio bilancio di edonista, della destinazione di una parte del suo reddito a paga-
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mento dei servizi pubblici, quando questi abbiano soddisfatto bisogni (pubblici) di cui non si avverta indi-
vidualmente la sensazione.
β - Ma il punto di vista ancora meno conciliabile con la applicazione della prima uniformità, consi-
ste nella mancanza di un dato, ossia il prezzo dei servizi pubblici, che deve essere conosciuto «a priori», per
l'impostazione del calcolo dell’edonista (allorché questi provveda alla distribuzione della ricchezza fra i be-
ni privati, sino a raggiungere la condizione di massima soddisfazione, e debba tener conto anche della de-
stinazione di parte di reddito a consumo di servizi pubblici indivisibili, per coazione statale, già vista come
contraddittoria rispetto alla uniformità).
Invece il dato medesimo, ossia il prezzo dei servizi pubblici, è noto solo «posteriori» come quota
variabile fissata dallo Stato, a titolo di rimborso del costo dei servizi pubblici indivisibili.
Infatti, allorché si voglia decidere razionalmente quale quantità di ricchezza si voglia investire in
servizi pubblici, è noto come debbano conoscersi: a) la ricchezza disponibile per i bisogni da soddisfare; b)
i gusti o apprezzamenti utilitari dei singoli soggetti come edonisti; c) i prezzi dei beni e servizi (secondo lo
schema che sopra si è esposto nel ritenere applicabile lo schema edonistico alla spiegazione delle forme di
entrate, connesse con servizi e beni di cui i membri della collettività possano fare libera domanda).
Ebbene, nel campo dei servizi a consumo obbligatorio a cui si destinano dallo Stato o da enti mino-
ri, contributi (obbligatori), tributi speciali e imposte generali, non è noto preventivamente come un dato,
quello che convenzionalmente potremmo denominare il «prezzo imposto» per i servizi corrispondenti a det-
te forme di entrate. Esso, «a priori», non determina il quantum di domanda di servizio, domanda che è e-
sclusa per ipotesi, e che inoltre non potrebbe sorgere come grandezza determinata, mancando la conoscenza
del prezzo. Questo non esiste come tale, ma è una quantità imposta «a posteriori» a rimborso di quota del
costo di servizio a consumo obbligatorio.
Cosi che il prezzo che dovrebbe essere un dato, diventa una incognita, cioè nel caso del «prezzo
imposto» o del tributo, diviene una quantità incognita, il cui valore è determinato dallo Stato, che ne impo-
ne il pagamento, in base a criteri che sono lungi dalla logica della genesi dei prezzi e corrispettivi, allorché
l'apprezzamento utilitario dei singoli o membri della collettività, come nei rapporti di scambio fra privati,
possa rapportarsi al prezzo, noto «priori» all'edonista.
Non soltanto, a titolo di rimborso di costo dei servizi generali ad utilità indivisibile ed a consumo
obbligatorio per i membri e gruppi della collettività, il quantum è fissato con criteri che, perfino nel caso del
contributo di miglioria, non coincidono con la genesi dei prezzi liberamente accolti da consumatori di ser-
vizi; ma l'apprezzamento utilitario è riservato allo Stato. Esso sostituisce (attraverso il giudizio della classe
governante, volta a volta), il proprio giudizio sulla utilità, per la collettività (nel senso Paretiano che di se-
guito preciso) dei servizi pubblici, ai giudizi liberi dei singoli membri, che sarebbero supposti nel caso che
si intendesse estendere alla economia finanziaria - per spiegarne i modi e il quantum della ricchezza desti-
nata alla attività statale - la tabella del Menger e formule dell'equilibrio del consumatore.

II) I ragionamenti, mutatis mutandis, non sono diversi circa la impossibilità di spiegare con la uni-
formità costituita dal livellamento delle produttività marginali, il quantum che, a titolo di tributi, dovrebbe
essere corrisposto, tenendo conto della produttività o fecondità dei servizi a cui si provveda con tributi (e
non prezzi e corrispettivi, che abbiamo considerato, in precedenza, come compatibili con questa uniformità
che regola la produzione), di cui si imponga il pagamento, in rapporto all'obbligo di consumo dei servizi
medesimi. Di essi è, cosi, sottratta ai singoli la possibilità di combinazione, nell'impresa produttiva, ovvero
la scelta del quantum del servizio pubblico da combinare con altri beni e servizi, che entrano nella equazio-
ne della tecnica. Per questo o Per la mancata conoscenza «a priori» di prezzi liberamente corrisposti, nel ca-
so dei tributi, non si può impostare, con l'intervento di essi nelle equazioni che esprimono il livellamento
delle produttività marginali, il calcolo razionale, direttamente introducendo valori per i servizi pubblici e lo-
ro prezzi.
Dell'influenza indiretta (economie esterne) dei servizi pubblici, a fronte dei quali si corrispondono
tributi per consumo obbligatorio dei servizi medesimi, rimando a quanto è stato detto a proposito della vi-
sione della economia della finanza pubblica come ramo della economia applicata nel senso in cui ne discor-
re il Pareto (capitolo VIII, paragrafo d) a dell’Introduzione).
Concludo ancora che, nel campo logico in cui si ipotizza: α) consumo di servizi pubblici indivisibi-
li; β) prelievi coattivi di tributi per fronteggiarne il costo; il calcolo individuale (dei membri della collettivi-
tà) di convenienza per quanto riguarda l'utilizzazione dei servizi pubblici, nelle condizioni (α, β) qui ipotiz-
zate, viene meno direttamente del tutto.
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III.

LE ENTRATE PUBBLICHE DAL PUNTO DI VISTA DELLO STATO CHE: I) OFFRE E II) IMPONE
CONSUMO DI SERVIZI.

Il riferimento allo Stato, la cui classe governante si assume il calcolo del quantum delle entrate e i
criteri di ripartizione del costo dei servizi pubblici, ci porta logicamente a considerare le entrate pubbliche
dal punto di vista del modo e del quantum della copertura o del rimborso del costo dei servizi pubblici.
Secondo quanto esposto nel cap. VIII dell'Introduzione, per differenziare il contenuto della econo-
mia politica (di mercato) dalla economia della finanza pubblica, occorre procedere alla spiegazione della
genesi della gamma di prezzi privati, quasi-privati, prezzi pubblici, tasse (non tributarie), contributi, impo-
ste speciali, imposte generali, dal punto di vista dei limiti in cui essi procacciano entrate allo Stato, che offre
tale possibilità (con domanda attiva di membri della collettività) oppure impone di consumare (esigendo
tributi) servizi pubblici.

A) Prezzo privato e quasi-privato.


Non occorrono particolari rilievi per quanto riguarda il prezzo che lo Stato subisce o adotta come un
privato, senza preoccupazione di conseguire simultaneamente e immediatamente fini di pubblico interesse.
Esso si ha nel caso in cui lo Stato svolge attività, come si è visto, per procurarsi un'entrata come proprieta-
rio o imprenditore, che subisca il prezzo del mercato, corrispondente alle condizioni in cui avviene l'offerta
in ipotesi di concorrenza o lo adotti in regime di monopolio parziale o totale, in una economia di mercato.
Detta entrata destina, poi, alla spesa pubblica.
Alla stessa conclusione, per il prezzo quasi-privato, in linea di massima, deve pervenirsi anche se lo
Stato, assumendosi economicamente l'impresa, immediatamente soddisfa bisogni pubblici, come si è visto
(122) . Ciò avviene per le finalità che raggiunge provvedendo ad investimenti, a cui negli stessi modi e limiti
non procederebbero i privati. Tipico è il caso della foresta che richiede investimenti pubblici a lunga sca-
denza, meglio, si pensa, di un privato, sia perché, come ente indefettibile, affronta i lunghi periodi che si ri-
chiedono per la produttività, sia per la possibilità di realizzare l'«età economica» (Einaudi), dopo la quale
l’incremento annuo, legnoso dell'albero è minore dell'interesse che si guadagnerebbe tagliando l'albero e
mettendo a frutto il ricavo.
Valgono, di regola, per questo modo di qualificare il prezzo, le leggi teoriche che regolano l'offerta
di beni sul mercato in generale e negli esempi dei prodotti forestali, minerari, ecc., che lo Stato abbia ritenu-
to di assumersi di produrre per il conseguimento simultaneo di altre finalità di pubblico interesse. Queste
sono compatibili con la condotta dello Stato, non dissimile da quella dell'imprenditore che consegua ricavi
ed utili di gestione, in regime di economia di mercato, in rapporto ai costi sostenuti, come nel caso su espo-
sto per il prezzo privato.

B) Prezzo pubblico.
Ben diverso è il caso del prezzo pubblico che lo Stato consegue, come ricavo totale, dalla gestione
di pubbliche imprese. A tale riguardo, in linea generale, l'offerta avviene in base alla condizione che il costo
totale medio sia eguale al prezzo di vendita di prodotti e servizi.
Qualcuno ha rilevato essere relativamente più frequente, storicamente, il caso in cui il prezzo sia in-
feriore al costo medio di produzione, globalmente. Ma in questo caso [che si può far corrispondere al III ti-
po di fenomeni economici prospettati dal Pareto (L'economia matematica cit., pagg. 363-364) ossia «del
monopolio esercitato nell'interesse della collettività»] si può aderire alla visione di questo economista, mae-
stro anche nella conoscenza ed interpretazione del fenomeno concreto. E si può dire che, per questo tipo di
offerta di servizi, «non è stabilito a priori alcun rapporto fra il costo di produzione e il prezzo di vendita.

__________
122
Rimando al precedente paragrafo in cui le entrate a mezzo di prezzo quasi-privato sono state considerate dal pun-
to di vista della domanda di beni da parte dei membri della collettività.
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Tale rapporto - continua il Pareto - consiste nella realizzazione di un certo “massimo per la colletti-
vità”. Il che porta nel campo della relatività dell'apprezzamento della classe governante per lo Stato, che
può ritenere raggiunto il massimo vantaggio collettivo, quando l'offerta dei servizi, agevolando il massimo
consumo compatibile con il reddito sociale e la sua distribuzione, avvenga in condizioni che si scostino da
quelle che sarebbero proprie della politica dei prezzi di imprese private, tendenti a realizzare il proprio tor-
naconto e il reddito (o profitto) relativo.
In particolare la condotta dello Stato può essere caratterizzata:
a) dalla rinuncia al profitto di monopolio (totale o parziale), limitandosi lo Stato a praticare prezzi
atti a coprire il costo di produzione totale, compatibili con l'ipotesi di libera concorrenza. Questa consente,
come noto, rendimenti o redditi pari al tasso di interesse normale o di mercato, essendo supposto compreso
detto interesse nel costo di produzione (come le quote di ammortamento degli impianti). Questo è il caso
del prezzo pubblico in senso stretto;
b) dalla rinuncia alla copertura del costo totale di produzione, a mezzo di un prezzo o di una politi-
ca di prezzi multipli (tariffe) che non faccia conseguire il rendimento compatibile con l’ipotesi di concor-
renza suesposta (lettera a). E' il caso-limite del servizio offerto in perdita, che non si registra solitamente
presso le imprese private e che se tende ad essere normale giustifica la tassa.
Lo Stato nell'ipotesi b) ricorre normalmente a tributi prelevati coattivamente sulla collettività per
sanare il disavanzo, se tendenziale, delle imprese di pubblici servizi. Il rapporto fra quota del costo globale
coperta da proventi (prezzi) dell'offerta del servizio e fra quota coperta ricorrendo a tributi a carico di utenti
e soprattutto di non utenti del servizio, dovrebbe dare la misura empirica dell'importanza collettiva o dell'u-
tilità che la classe governante annetta alla estensione del consumo a membri della collettività che, altrimen-
ti, sarebbero esclusi dal consumo del servizio, che lo Stato tendenzialmente voglia diffondere al massimo.
In tal caso lo Stato segue, come legge di tendenza, nel lungo andare, la copertura del costo di pro-
duzione totale. Con ciò si ammettono, teoricamente, periodi di offerta di servizi: 1) a prezzi che non con-
sentano di coprire il costo; 2) a prezzi che consentano di coprire il costo di produzione; 3) a prezzi che la-
scino, pro-tempore, una eccedenza sul costo globale (con natura di rendita di concorrenza imperfetta o di
profitto di monopolio), eccedenza equivalente ad un tributo a carico degli utenti o di parte di essi.
Ciò che vale in questa casistica ipotetica, è la tendenza a coprire, in media, il costo di produzione,
sia ordinando le possibilità istantaneamente, sia facendo riferimento intuitivo alla dinamica della politica
dell'offerta dei servizi pubblici e dei correlativi prezzi (tariffe).
Il problema del massimo vantaggio o utile, in senso ampio, che la classe governante imposti nell'of-
frire i servizi a prezzo pubblico, diviene un problema di grado, nella fissazione del quantum di servizio to-
tale che si intenda offrire alla collettività medesima, in funzione del prezzo d'offerta. Detto prezzo, invero,
può essere discriminato ai fini della estensione massima del consumo di dati servizi da parte dei membri
della collettività che ne facciano richiesta. L'estensione del consumo, tende al massimo compatibile con il
reddito a disposizione di diverse classi di utenti e con il prezzo d'offerta relativo sufficiente, in media, a co-
prire soltanto il costo di produzione, totale, e costituirebbe un modo di soddisfare un bisogno della colletti-
vità nel suo insieme.
Di solito, codesto tipo di attività del produttore pubblico di servizi, è sostitutivo di quella preesi-
stente o virtualmente atta a sorgere ad iniziativa di monopolista o quasi-monopolista privato, che potrebbe
informare la privata politica dei prezzi al principio del tornaconto e del massimo utile netto. La discrimina-
zione dei prezzi infatti, eventualmente attuata da un monopolista privato, risponderebbe a siffatto massimo
utile o guadagno netto nel bilancio di private imprese. La quantità di consumo complessivo o collettivo di
servizi, resi in base al tornaconto privato, potrebbe non coincidere con la quantità di consumo che all'ente
pubblico appaia desiderabile determinare con una politica di prezzi d'offerta non condizionati dalla ipotesi
di massimo utile netto, monopolistico, privato.
Il regime della concessione (che è tipico nel caso dei servizi dei trasporti) può consentire di far rag-
giungere il massimo vantaggio per la collettività, con una politica di prezzi d'offerta approvata dallo Stato e
attuata da imprese private. Queste possono conseguire rendimenti il cui massimo è vincolato dalla accetta-
zione di una politica di prezzi, quali tendenzialmente lo Stato adotterebbe se dovesse assumersi direttamen-
te detta offerta di servizi. Rendimenti di concorrenza, teoricamente, istantanei; o, in uno schema dinamico,
prevedibili in rapporto alle scontate variazioni del tasso d'interesse.
Nel caso tipico dei servizi resi a prezzo pubblico, la politica di prezzi d'offerta multipli (nell'ambito
della tendenza a coprire globalmente il costo di produzione) tiene conto, di solito, per i servizi resi alle per-

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sone, della relazione fra elasticità della domanda e altezza del reddito spendibile per grandi classi di reddi-
tieri.
Per rappresentare il calcolo che ispira il prezzo pubblico, è utile tenere presenti concetti di Marshall
(123) sulla elasticità della domanda, quali:
a) «l’idea più chiara della elasticità della domanda l'avremo prendendo in considerazione una classe
sociale alla volta»; b) «quando il prezzo di una cosa è molto alto per una classe qualsiasi di persone, questa
classe non ne comprerà se non in piccola quantità»; c) «l’elasticità della domanda è grande per i prezzi alti e
grande o almeno considerevole per i prezzi medii; ma decresce con lo scendere del prezzo e gradualmente
svanisce se la diminuzione arriva sino a far raggiungere la sazietà»; d) «questa regola sembra valere per
quasi tutte le merci e per la domanda di ogni classe; con questo. Però il livello, in cui finiscono i prezzi alti
e cominciano i prezzi bassi, è diverso per le diverse classi sociali (scrive Marshall, ma tenendo presenti i
diversi gruppi di redditieri) e similmente avviene del livello in cui terminano i prezzi bassi e cominciano
quelli bassissimi».
Alla luce di codeste considerazioni, si può intuire come una «curva di domanda totale», costituita
dalle domande delle «persone ricche», delle «persone di medio ceto» e delle «persone povere», (ipotizzan-
do un prezzo dell'altezza PQ, per la quantità OQ ) possa

scomporsi in tre curve corrispondenti alle domande delle classi ricca, media e povera rappresentate nella
stessa scala adottata per la domanda totale. Da esse la somma delle quantità domandate, ossia

OH + OK + OL

si può desumere e riportare sulla ascissa della rappresentazione della domanda totale, la quale risulta, quin-
di, dalla sovrapposizione in senso orizzontale delle curve di domande parziali, ed eguale ad OQ.
Le argomentazioni che precedono, relative al prezzo unico, possono contribuire in via logica a for-
nire la base per la discriminazione dei prezzi, adattando conseguentemente in certa misura, le modalità

dell'offerta (124). Parimenti spiegano la tendenza da parte dello Stato a produrre taluni servizi divisibili al
prezzo = costo medio ed al minor costo medio, inferiore a quello privato).
__________
123
MARSHALL A., Principii, Biblioteca dell'Economista, pp. 160-164. Può ritenersi implicito in questi ragionamenti,
il concetto di «rendita del consumatore che viene precisato più oltre e del quale, in tema di discriminazione dei prezzi
di monopolio fiscale, si fanno applicazioni analoghe a quella che potrebbe farsi qui.
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Il caso più tipico del prezzo pubblico discriminato (tariffa) si ha nella gestione delle ferrovie da par-
te dello Stato. In questo caso l'ente pubblico si assume l'impresa con fini, già ricordati, di interesse generale
che non sono fiscali, ma extra-economici (distribuzione delle linee con fini strategici, gestione del servizio
anche in zone che economicamente non coprirebbero il costo, per la agevolazione della produzione, degli
scambi, del benessere delle classi sociali più numerose, ecc.) e quindi tiene conto delle premesse indicate
testè.
Nella rappresentazione del problema sullo schema statico, le ipotesi figurano per il loro ordine suc-
cessivo, nell'istante del tempo. Ma è evidente che per i servizi pubblici si tiene conto della politica delle
quantità consumabili e dei prezzi relativi nel tempo. Poiché questa dimostrazione vuol dare soltanto il senso
della soluzione, si lascia al lettore di intuire lo svolgimento del fenomeno concreto secondo la dinamica rea-
le, di cui le imprese di pubblici servizi (statali e pubbliche in genere, e concessionarie private, compatibil-
mente con l'interesse pubblico) offrono esempi rappresentativi.
I tre diversi tipi di domanda, che si fondono nella unica curva di domanda collettiva, giustificano un
rispettivo prezzo, nella politica dell’offerta da parte dello Stato che ispiri la propria condotta di produttore
di servizi al fine di soddisfacimento di bisogni privati e di raggiungimento simultaneo di utilità per la collet-
tività. Invero, ferma la tendenza a coprire il costo di produzione globale, riferendoci alla figura 3 si indivi-
duano tre prezzi d'offerta:

1) pq, che - nell'ipotesi semplificata di costi costanti (qui adottata soltanto per rendere chiara la illu-
strazione geometrica, ma che non è normale per il servizio ferroviario) supponiamo rappresentativo dell'i-
potesi di prezzo in condizioni di concorrenza perfetta. In tal caso manca un guadagno differenziale con na-
tura di rendita o profitto e pq rappresenta il livellamento di prezzo = costo unitario = costo marginale (punto
di incontro della mm' con le curve di domanda DD' e dei costi SS', qui supposti costanti). Tale livellamento
consente, come si è visto, un rendimento pan al saggio di interesse sul mercato.
La quantità di offerta a detto prezzo, che livelli i due costi e copra il coso totale senza rendite e pro-
fitti (consentendo il già ricordato rendimento compatibile con l'ipotesi di concorrenza perfetta) risulta Oq.
2) Però, l'ipotizzato fine pubblico di realizzare un massimo di utilità per la collettività, può suggeri-
re di estendere la produzione od offerta e, quindi, il consumo del servizio sino ad Oq'. In tal caso (con prez-
zo p'q' ) si avrebbe una divergenza fra costo medio e ricavo per la quantità aggiuntiva qq', rappresentato
dall'area p'cpv, in funzione della scelta con criteri estranei a quelli del tornaconto dei privati imprenditori,
che può consentire l'estensione o aumento del consumo del servizio della quantità qq'.
3) L'esistenza ipotetica delle tre ricordate curve di domanda, con diversa rendita di consumatori,
può consigliare l'adozione del prezzo pq, per la quantità Oq, e del prezzo p'q' per la quantità qq', con ten-

__________
124
E' notevole, nel caso della distinzione delle tre classi di vetture ferroviarie lo «sfruttamento» «dei pregiudizi e del-
la vanità dei consumatori per differenziare apparentemente quello che in sostanza non è che un unico bene». E' la con-
dotta che il Barone attribuisce al monopolista, trattando dei prezzi multipli, nei Principii di economia politica, pag.
297.
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denza a non coprire il costo di produzione. Essa può anche consentire una discriminazione ulteriore (III ca-
so) di prezzi, atta a consentire la copertura del costo di produzione totale, ovvero della quantità Oq', prodot-
ta ed offerta ai prezzi pq (per q''q), p'q' (per la quantità qq') e p''q'' (per la quantità Oq'').
Invero la curva di domanda meno elastica (come, per ipotesi, il ramo Dp" della curva DD' della fig.
3), corrispondente alla classe di redditieri relativamente la più elevata (con correlativa maggiore rendita di
consumatori) può far adottare anche il prezzo p''q'', per la quantità Oq" di servizio offerto. Nel qual caso si
potrà avere una eccedenza di ricavo sul costo corrispondente che, nell'ipotesi della rappresentazione geome-
trica può essere delle dimensioni rstp" = pvp'c, ovvero atto a compensare la perdita per l'offerta di qq' al
prezzo p'q', ed a far coprine il costo totale.
Quindi, la discriminazione dei prezzi d'offerta può consentire tendenzialmente o pro-tempore, in
rapporto alla intensità dell'interesse pubblico a giudizio della classe governante, di coprire il costo di produ-
zione totale, attingendo alla parte rstp" della rendita del consumatori (spD, qui esposta in termini Marshal-
liani, cioè supponendo costanza di utilità marginale della moneta) della classe di redditieri più elevata. E ciò
si fa per creare la possibilità di un consumo qq' a favore della classe più bassa di redditieri, che, altrimenti,
sarebbe esclusa dal consumo del servizio pubblico.
L'interesse pubblico, quindi, ovvero il giudizio sul massimo di utilità per la collettività potrà volere
che si estenda il consumo da q a q', compatibilmente con la condizione tendenziale o pro-tempore di coper-
tura globale del costo di produzione, come legge dell'offerta di pubblico servizio.
Va da sé che la possibilità della discriminazione dei prezzi presuppone la possibilità di una qualche
differenziazione tra le offerte del servizio (nel caso delle ferrovie, il trasporto è differenziato con cabine di
I, II, III classe, ed è possibile separare le diverse curve di domanda, in quanto il fruitore di un servizio a
bassa tariffa non ha la possibilità di cederlo ad altro, a tariffa maggiore).
Il prezzo pubblico, in regime di prezzi multipli di offerta, non è senza eccezioni. Si faccia il caso
del prezzo (tariffa) unico nelle pubbliche imprese. Tale è il caso delle tariffe postali, telegrafiche, ecc., che
non variano con il variare della quantità di servizio offerto (distanza) ma della specie (gradi di rapidità, di
certezza o di rischio, ecc. del servizio).
Si tratta di casi di generalizzazione talmente rilevante del servizio, che l'offerta viene compiuta a
prezzi che non tengono conto delle particolarità quantitative allorché se ne faccia domanda individuale (re-
lazione ad es. con la distanza, come fattore quantitativo omogeneo); purché nell'insieme si copra, tenden-
zialmente, il costo di produzione complessivo. La semplificazione che deriva dal non proporzionare il prez-
zo alla quantità di servizio reso (distanza di comunicazioni postali e telegrafiche) è tale che essa influisce
sul livello assoluto del costo medesimo, che risulta abbassato ulteriormente, a vantaggio di un maggior nu-
mero di utenti.
Quando la generalizzazione della domanda del servizio non sia tale (telefoni intercomunali) da ren-
dere conveniente la unificazione delle tariffe (prezzi pubblici) per il servizio reso a prezzi d'offerta «pubbli-
ci», si procede normalmente a discriminazione di essi. Il caso è tipico del servizio ferroviario.
Si è avvertito che nella dimostrazione geometrica si è assunta l'ipotesi semplificata di costi costanti
per porre immediatamente in facile evidenza la logica dei prezzi di offerta multipli, con aderenza alla con-
dizione della copertura del costo di produzione, globale, del servizio reso agli utenti ed alla collettività.
Ma il caso normale, storicamente, per il prezzo pubblico del servizio ferroviario, è quello dei costi
decrescenti. Le tariffe ferroviarie, come esempio di prezzi multipli, tengono conto della estensione (distan-
za) del servizio in senso quantitativo e della specie del servizio (classi di viaggiatori, grande e piccola velo-
cità per le merci, qualità di esse: merci di lusso, «povere» ecc.).
Le condizioni che determinano gli scambi nello spazio (convenienza degli scambi interprovinciali,
interregionali, internazionali) e le condizioni (economie interne o leggi dei costi) dell'offerta del servizio,
rendono logica e necessaria una politica di tariffe differenziali decrescenti. Infatti: a) il vantaggio degli u-
tenti del servizio non è proporzionale alla distanza (tanto per viaggiatori che per trasporto di merci); b) nella
media di periodi di gestione l'esercizio ferroviario non ha luogo a costi costanti, ma decrescenti unitari. Vi
sono spese generali il cui onere unitario diminuisce (ammortamento di opere e impianti, spese di personale
degli uffici o viaggiante, ecc.) con l'intensificarsi del servizio. Questo giustifica logicamente tariffe diffe-
renziali decrescenti con il crescere della quantità del servizio offerto agli utenti e indirettamente a vantaggio
dell'intera collettività.
Casi di prezzi d'offerta, che possono oscillare fra l'ipotesi di prezzo quasi-privato e quella di prezzo
pubblico possono riscontrarsi nei casi in cui lo Stato intervenga, ad es. nel campo: a) creditizio, per agevo-
lare l'erogazione del credito nell'interesse della produzione di reddito sociale (nel settore del credito fondia-
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rio, agrario, industriale o mobiliare, ecc.) con gestione a prezzo (saggi di interesse) di mercato o inferiore ad
esso (contributo a carico della collettività fronteggiato con imposte generali); b) industriale e minerario
mediante aziende pubbliche o attraverso la forma delle imprese miste o dello azionariato di Stato. Questo
avviene al fine di far valere le direttive statali intese al conseguimento di fini di interesse pubblico, nella ge-
stione di aziende che sono affidate anche all'iniziativa privata (esempi, fra l'altro, finora sono costituiti dalle
partecipazioni azionarie statali alle Miniere Cogne, alla Raffineria Petroli, all'A.G.l.P., ecc.).
In questi casi e, in genere, allorché l'azienda pubblica, parastatale o mista, sorge per conseguire fini
di pubblica utilità o prevalentemente tali, i prezzi che i consumatori dei prodotti o gli utenti dei servizi pa-
gano sono caratteristici del caso teorico del prezzo pubblico o tendono ad avvicinarsi a questo tipico mezzo
delle entrate pubbliche.

C) Tassa (come corrispettivo non tributario).


La tassa è un corrispettivo a fronte di una parte del costo di produzione o dell'offerta dei servizi
pubblici.
Nei confronti della classificazione di questo istituto, si sono avuti di recente, in Italia, nuovi orien-
tamenti dottrinari. Taluni studiosi di economia finanziaria hanno abolito questa denominazione nella classi-
ficazione delle entrate pubbliche, facendo rientrare i casi concreti corrispondenti nella categoria astratta dei
prezzi politici, discorrendo di prezzo pubblico e di prezzo politico (alternando, alcuni, il termine, con quello
di tributo, da me scartato logicamente).
Poiché una più analitica considerazione dei caratteri distintivi della tassa la fa distinguere dal prez-
zo pubblico, rilevo elementi differenziali nella classificazione, rispettivamente, dei prezzi pubblici e delle
tasse.
I) In una delle più felici edizioni del Corso di Luigi Einaudi (Torino, «La Riforma Sociale», 1926)
nella classificazione delle entrate tributarie, l'economista italiano definiva la tassa come il compenso infe-
riore al costo totale (medio), pagato dai contribuenti per un servizio speciale e divisibile reso loro, dietro
domanda, per il soddisfacimento di un bisogno indivisibile di tutti i consociati. In quanto si tratta (come nel
caso dei prezzi finora esaminati) di servizi speciali e divisibili resi al singolo dietro sua domanda. Ma poi
l'Einaudi aggiungeva che si tratta di un servizio particolare e divisibile, anche destinato al soddisfacimento
di un bisogno indivisibile di tutti i consociati e, perciò, reso ad un prezzo inferiore al costo totale dell'eser-
cizio. «Questa - aggiungeva - è la caratteristica che distingue la tassa dal prezzo pubblico». Quando si parla
di prezzo pubblico - continuava - si parla di prezzo pagato per soddisfare al costo perfettamente divisibile di
un bisogno individuale, ma che lo Stato intende, nell'interesse pubblico, che sia soddisfatto regolando i
prezzi pubblici in maniera diversa da quella in cui sarebbero regolati i prezzi privati.
Nel caso del prezzo pubblico, poiché il costo del soddisfacimento è tutto divisibile, così il prezzo
deve comprendere tutto il costo. Invece, quando si fa pagare la tassa, il costo del soddisfacimento del biso-
gno non è più interamente divisibile fra gli utenti: in parte si tratta di un costo indivisibile. L'esempio avan-
zato era quello della istruzione pubblica, che soddisfa al bisogno divisibile (a costo divisibile) costituito dal-
la istruzione e dal conseguimento di diplomi professionali; ma contemporaneamente soddisfa al bisogno in-
divisibile (od a costo indivisibile) costituito dalla convenienza della formazione delle classi dirigenti colte.
Orbene la parte divisibile del costo, in tale caso, va coperta con la tassa; la parte indivisibile, a mez-
zo di imposte gravanti su tutti i contribuenti, anche se non domandano il servizio. Per quanto difficile possa
essere in pratica tale distinzione, si comprende come ne sia logico il fondamento teorico.
Nell'edizione del 1932 e in quella del 1940, spogliato della parte poggiante su variabili norme posi-
tive, il «Corso» ha assunto la portata teorica di un trattato (assumendo il titolo di Principii di scienza delle
finanze, G. Einaudi, Torino, 1940). In esso l'Einaudi - seguito, poi, dal Fasiani - ha sostituito il termine di
tassa, precedentemente illustrato, con quello di prezzo politico, relegando il termine tassa alla funzione di
indicare determinati tributi che nell'ordinamento positivo italiano sono raggruppati secondo particolari si-
stemi amministrativi.
E' probabile che sulla nuova adozione terminologica abbia influito la pubblicazione nel frattempo
(fra il 1926 e il 1932, date di edizioni dell'opera dell'Einaudi) dei Principii di Economia finanziaria dell'al-
lora maestro dell'Università di Roma, il De Viti De Marco.
Nei «Principii» del De Viti De Marco, invero (Sampaolesi, Roma, 1928), si rilevava come la tassa
fosse un caso di prezzo pubblico, purché ciò (avvertiva) serva ad indicare che è il prezzo di un servizio
pubblico. Ma il De Viti, distinguendo soltanto fra servizi speciali e generali, trova che per i primi si paga in
corrispettivo un prezzo che prende il nome di tassa; per i secondi si paga l'imposta.
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Il De Viti De Marco ammette che, nel caso in cui la tassa superi il costo globale, il «supero» serve a
coprire il costo di servizi pubblici generali: in tal caso la tassa assumerebbe carattere d'imposta.
Orbene nel caso in cui la tassa, sistematicamente (e non in via transitoria per i necessari adattamenti
fra offerta e domanda) non copra il costo di produzione, bisogna ammettere che l'eccezione permanente alla
eguaglianza fra costo e prezzo globale di taluni servizi, dia luogo a una specie di figura finanziaria (appunto
la tassa di cui si conserva la denominazione in queste pagine per spiegare l'omonimo caso concreto) da te-
nersi distinta dalla specie affine, costituita dal prezzo pubblico sensu stricto. L'interesse pubblico, in que-
st'ultimo caso, è meno pronunciato e lo Stato può limitarsi a rinunciare ad un profitto di monopolio all'in-
fuori della copertura (con il prezzo pubblico) del costo di produzione come tendenza nel senso già precisa-
to.
In conclusione, l'elemento costituito dal fine di pubblica utilità, che già era rilevante nel caso del
prezzo quasi-privato, si afferma ancor più notevolmente nel caso del prezzo pubblico, ma assume importan-
za ulteriore nel caso della tassa, al punto da dar luogo a una parte di costo indivisibile. Allora, la parte divi-
sibile sarà coperta dal pagamento delle tasse; la parte indivisibile del costo di dati servizi (lasciata scoperta
dalla tassa, globalmente esatta dagli individui che abbiano fatta domanda attiva del servizio) sarà coperta a
mezzo di imposte sulla generalità dei contribuenti.
La prima definizione di tassa dell'Einaudi è quella che si può ritenere più pacifica e razionale, anche
allo stato attuale della teoria più analitica. Tanto più che, nel 1940, questo autore intende, come prezzo poli-
tico, quello caratterizzato da un elemento pubblico più rilevante di quello che si riscontra nel prezzo pubbli-
co. Codesto concetto è stato qui esposto nei confronti della tassa.

D) Commistione di tasse non tributarie e di tasse con natura di tributi.


La promiscuità e la improprietà di linguaggio legislativo italiano, con la designazione, quali «tas-
se», di entrate che sono tributi coattivamente prelevati per fronteggiare indiscriminatamente i costi di servi-
zi a vantaggio indivisibile, ha ingenerato confusioni (che permangono in campo giuridico) nella classifica-
zione di queste forme di entrate pubbliche.
La confusione è stata aggravata da casi in cui, in parte, ricorrono i due estremi logici che stanno a
base di queste classificazioni: a) l’interesse specifico privato, che potrebbe determinare la richiesta o do-
manda del servizio, nel caso in cui la tassa non fosse commista al tributo generale o imposta, in un unico
pagamento; b) la copertura di parte del costo specifico del servizio reso, anche, nell'interesse dei singoli
membri della collettività, oltre che a vantaggio dell'intera collettività.
I) Un caso tipico, italiano, si ha per la «tassa» di registro (poi in sede legislativa, dal 1937, denomi-
nata imposta). Come tassa «non tributaria» (ossia non obbligatoria) essa potrebbe essere, separatamente, il
corrispettivo in rapporto con la domanda del servizio consistente nella registrazione pubblica (in occasione
di trasferimenti di ricchezza) allo scopo di: a) accertare la legale esistenza e il tenore degli atti che costitui-
scono strumento della circolazione della ricchezza fra investitori, produttori di ricchezza nuova; b) attribui-
re agli atti la data certa nei confronti dei terzi; c) assicurare facilmente la prova e l'esecuzione delle con-
venzioni.
Ma il quantum globale dei corrispettivi per detto servizio, domandato a iniziativa di singoli membri
e gruppi privati della collettività, non soltanto copre, ma supera di molto il costo del servizio di registrazio-
ne. Questo fatto ci avverte della simultanea esistenza di un contenuto tributario nella cosiddetta «tassa» di
registro, il cui ammontare va genericamente a fronteggiare, con altri tributi generali, il costo indivisibile dei
servizi pubblici.
In attesa di spiegare i criteri in base ai quali si spiegano logicamente le imposte o i tributi sui trasfe-
rimenti, si rileva l'esistenza di codesti casi di tasse «miste ad imposte», come tributi generali, o «con ele-
menti di imposte» coesistenti con le tasse medesime. Questa commistione e coesistenza di forme di entrate
pubbliche che permangono anche se, come di fatto (dal 1937) si è mutata la denominazione di codesto mo-
do di attingere prevalentemente entrate tributarie. Invero, rovesciando il dire, è da ammettere che l’imposta
di registro, italiana, contiene un elemento di «tassa non tributaria» o «misto» a questa seconda forma non
tributaria di ottenere entrate pubbliche ordinarie, in rapporto a servizio che, se considerato separatamente o
come tale (registrazione) potrebbe essere domandato per autonomo apprezzamento privato e coperto, per il
costo relativo, in parte almeno, con tassa corrisposta dai diretti beneficiari.
Il) Considerazioni analoghe valgono per la «tassa» di successione (dal 1941, imposta). Oltre che,
come si vedrà, per prelevare una parte della ricchezza sotto veste di patrimoni lasciati e ricevuti in eredità,
lo Stato si avvaleva delle «tasse» di successione per coprire il costo di un servizio che potrebbe essere do-
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mandato su iniziativa dei membri della collettività, per loro scelta utilitaria riferita alla strumentalità del
servizio. Esso consiste: a) nel «tutelare il trapasso dei beni ereditari»; b) nel «registrare e conservare la trac-
cia del passaggio di proprietà, ereditario» garantendo, in una materia così soggetta a controversie, «la sicu-
rezza del diritti e la successione giuridica della proprietà, dalla persona del de cuius a quella dell’erede»
(Pugliese).
E poiché la tassa medesima supera il costo della registrazione, vale anche qui la tesi che. dopo la
denominazione di imposte di successione, questi tributi hanno in sè una parte di natura “non tributaria
(«tassa»), nel senso sopra illustrato, e una parte di natura tributaria (quella eccedente il costo della registra-
zione).

E) I contributi (di miglioria specifica).


Continuiamo su questo criterio della relazione fra copertura del costo dei servizi e forme di entrate
che si pongono in essere razionalmente, da parte dello Stato che offra i servizi medesimi. Questo facciamo
per distinguere fra vantaggi a favore dei singoli e vantaggio a favore della collettività, a giudizio della clas-
se governante.
Nel trattare di prezzi privati, quasi privati e pubblici, e di tasse non tributarie, l'interesse dei singoli
membri della collettività o di gruppi privati è stato posto in relazione con la domanda attiva dei singoli (e-
donisti e produttori). Si è, poi, mostrato come la classe governante ripartisca il costo del servizio con vari
criteri (di prezzi e corrispettivi) a carico: a) dei beneficiari diretti dei servizi; b) della collettività indiretta-
mente avvantaggiata (tributi, di solito, generali).
Invece, nel caso dei contributi di miglioria, l'elemento utilità diretta o vantaggio dei servizi, non è
più rivelato dalla domanda attiva de gli stessi, ma cessa di essere una variabile discriminante, ai fini della
copertura del costo del servizi medesimi.
L'offerta avviene, ipoteticamente e storicamente, in regime di consumo obbligatorio a carico dei
privati, in base a «scelte» o decisione da parte dello Stato (o di altro ente pubblico); e il vantaggio indiretto
è misurato o presunto con criteri esclusivamente di iniziativa di detti soggetti (pubblici) della attività finan-
ziaria.
Questa schematizzazione non nasce solo dalla investigazione teorica ma anche, in questo caso, per
esplicito richiamo di leggi, da quella della fenomenica concreta. Infatti si può attingere, ad es., a casi con-
creti per trovare richiamata la relazione fra costo di produzione del servizio e destinazione alla copertura di
parte di esso, di un'entrata prelevata a carico di membri della collettività, indirettamente avvantaggiati o
abbiano subito l'obbligo del consumo del servizio medesimo.
Detti casi sono forniti: a) dall'art. 7 del D. L. novembre 1938, n. 2000, che (a proposito del contri-
buti di miglioria per le opere eseguite dallo Stato o col suo concorso), ammette che «la somma di tutti i con-
tributi, dovuti per una stessa opera, non può superare il 30% del costo dell'opera stessa»; b) dall'art. 238 del
T.U. del 1931 sulla finanza locale, il quale, fra l'altro, dispone che «la somma da ripartire a carico di tutti i
proprietari colpiti dal contributo di miglioria specifica, non può eccedere, in alcun caso, il 30% della spesa
sostenuta dal comune o dalla provincia per l'esecuzione dell'opera» ecc.
Ebbene, il fenomeno concreto dà fondamento alla seguente correlazione ipotetica: a) mano mano
che si passa dai modi di procurarsi le entrate [dal prezzo privato, al prezzo quasi-privato, al prezzo pubbli-
co; dalla tassa (con contenuto non tributario, dell'espressione) al contributo di miglioria (specifica)] cresce
gradualmente il vantaggio generale o l'utile per la collettività vagliato dall'ente pubblico (Stato ed enti mi-
nori); b) decresce gradualmente la quota di spese o di costo complessivo dei servizi, a carico dei membri (o
gruppi privati) della collettività direttamente (domanda attiva privata) e indirettamente (consumo obbligato-
rio con vantaggio divisibile) beneficiari, uti singuli, o come gruppo, dei servizi fronteggiati con le suddette
forme di entrate.
Il contributo di miglioria segna l'introduzione dell'obbligo del consumo dei servizi pubblici, con la
simultanea introduzione del limite minimo o della quota (globale) minima di costo del servizio a carico dei
membri della collettività, che ne ritraggano un vantaggio indiretto ma divisibile ed empiricamente misurabi-
le.
Conseguentemente, dovrebbe ammettersi che per la tassa la quota sia normalmente superiore al
30% del costo dei servizi. Considerando lunghi periodi, o tendenze storiche, il fenomeno concreto può esse-
re interpretato dicendo che la quota di costo di produzione complessivo del servizio, a fronte del quale si e-
siga globalmente il corrispettivo della tassa, è maggiore della quota di costo che viene coperta con contribu-
ti di miglioria (specifica) o derivante da una statale e particolare iniziativa di opera pubblica.
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Ciò premesso, definisco il contributo di miglioria specifica come il compenso obbligatorio, pagato
all'ente pubblico in occasione di un'opera da esso compiuta per utilità pubblica, ma di cui si siano partico-
larmente e indirettamente avvantaggiati i proprietari di immobili adiacenti all'opera pubblica (125).
Per quanto riguarda l'aspetto giuridico, il contributo di miglioria rappresenta una figura inversa ri-
spetto a quella dell'indennità di espropriazione. Infatti nel contributo si ha l'obbligo del singolo di rimborsa-
re all'ente pubblico una parte della spesa o costo mediante la quale esso gli ha recato un vantaggio. Nel se-
condo caso (espropriazione), c’è l'obbligo dell'ente pubblico di risarcire un danno arrecato ai singoli.
Allorché apparvero i Principi del De Viti De Marco (1928), si poté rilevare come egli, svolgendo la
teoria dell'imposta speciale ritenesse come caso tipico dell'imposta speciale, il cosiddetto contributo di mi-
glioria. A suo parere, si ha l’imposta speciale quando lo Stato assume la produzione di un servizio a van-
taggio prevalente od esclusivo di un gruppo sociale e pone a carico prevalente ed esclusivo di questo il tri-
buto necessario a coprirne il costo relativo)
Avendo presenti, in materia di tributi speciali, i concetti di Jannaccone, Seligman, Sax, Dalla Volta,
C. F. Ferraris, Tangorra, ecc., mi sembrò che l'esemplificazione del De Viti spostasse le premesse teoriche
in base alle quali si era da altri distinto il contributo di miglioria dalle imposte speciali. Nel 1929, ripresi
l'argomento della classificazione di tali istituti che ricorrono come mezzi delle entrate dello Stato e dei co-
muni (126).
Successivamente, negli «Appunti di Scienza delle finanze» (1933) di G. Borgatta, il contributo di
miglioria figurò ancora come «l’istituto più tipico dei tributi speciali» non distinto da altri casi che possono
comprendersi nella esemplificazione relativa all'istituto dell'imposta speciale. Altri autori come Cassola e
Bertolino, nel 1932 e nel 1935, sono ritornati sull'argomento, in modo specifico o ex-professo.
Il De Viti De Marco non ritiene che vi sia nel tributo speciale la divisibilità del servizio in unità di
vendita; ma il vantaggio del servizio è divisibile nel caso di contributo di miglioria. Ciò riconosce anche il
Borgatta che, però, ritiene non individualizzabile il vantaggio. Secondo Borgata, esso si estende necessa-
riamente ai componenti un gruppo (nel caso proprietari degli immobili compresi nel raggio di influenza del-
l'opera pubblica). A mio modo di vedere la obbligatorietà del pagamento del contributo assimila il contribu-
to alla imposta. Da questa, però, il contributo si stacca nettamente, per la misurabilità del vantaggio ovvero
della «miglioria». A mio avviso, questo tributo presenta tali caratteri da poter essere considerato nonostante
le recenti, diverse classificazioni, secondo la visione inizialmente avanzata dal Seligman e cioè come cate-
goria a sè e coordinato con le imposte speciali.

Distinguiamo il contributo dalle tasse. Il primo è una contribuzione dei privati, a cui corrisponde,
da parte dell'ente pubblico, un servizio parzialmente divisibile il cui vantaggio indiretto è misurabile, sia pu-
re con approssimazione, presso ogni singolo proprietario di immobili che ne abbia beneficiato. Al pari del
contributo, la tassa è pagata come parte del costo di un servizio, divisibile, sia pure con la ricordata diffe-
renza di grado relativo.
Ma mentre il campo di applicazione delle tasse è illimitato e generale, in quanto ad esse corrispon-
dono servizi d'ogni genere resi dallo Stato, quello del contributi è circoscritto, localizzato; in modo che il
servizio reso dall'ente pubblico, non può essere in tal caso che un miglioramento arrecato a beni reali (im-
mobili) da un'opera pubblica.
Da ciò discende una terza differenziazione: nel caso della tassa, i singoli, come tali, fanno domanda
e pagano per ottenere un servizio, mentre il contributo di miglioria è levato generalmente sull'individuo co-
me membro di una categoria di persone. Cioè, in questo caso, deve sempre esservi un'area tassata sulla qua-
le il tributo è levato per intero e poi suddiviso secondo un piano di ripartizione globalmente limitato (ad es.,
30 per cento del costo). Trattandosi di un'opera pubblica di miglioria, è naturale che essa si estenda ad una
parte del territorio e che investa quindi i beni stabili di più proprietari: i quali, intanto risentono un vantag-
gio indiretto divisibile in quanto i propri immobili risultino migliorati. Laddove i singoli, che pagano una
__________
125
Il contributo di miglioria generica va corrisposto per l'incremento di valore specialmente delle aree fabbricabili, il
quale possa attribuirsi al complesso delle opere pubbliche eseguite nel Comune od al complesso organico di opere an-
che di trasformazione compiute dallo Stato. Esso ha natura di imposta, anche quale strumento di politica finanziaria,
nel quadro della politica edilizia degli enti pubblici.
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D'ALBERGO E., contributo di miglioria e le imposte speciali nella scienza delle finanze e nel diritto finanziario
italiano, S. E. M., Catania, 1929.
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tassa, possono ottenere un vantaggio, sia personale che reale, poiché possono beneficiarne elementi diversi,
quale il patrimonio individuale od altri attributi della persona, non aventi relazione con i beni reali ed im-
mobili.
Una quarta differenza fra le due forme d'entrate sta in questo: che, di solito, le tasse si pagano pe-
riodicamente tante volte, quante si richiede un servizio all'ente pubblico; mentre il contributo di miglioria è
pagato una volta tanto, per un ammontare determinato globalmente, in seguito al compimento di un'opera
pubblica. E, se, d'altra parte, vi sono dei contributi rateati in un lungo periodo, per facilitarne la pratica ap-
plicazione, tuttavia il pagamento è capitalizzato in una somma globale, unica, pagabile generalmente in una
sola volta ed eccezionalmente in più quote.
In quinto luogo, il contributo e la tassa sono pagati per coprire una parte del costo di un'opera pub-
blica compiuta nell'interesse della collettività; vi è quindi una parte di spesa che viene addossata a questa, e
quindi indivisibile. Mentre nel servizio reso in compenso di una tassa può predominare l'interesse indivi-
duale dei privati sull'interesse generale; oppure, pur essendo preminente l'interesse pubblico, esso può non
raggiungere il grado di prevalenza che si ha per il contributo. Per contro, nelle opere compiute dall'ente
pubblico e per le quali esso impone un contributo ai privati, è l'interesse della generalità che prevale ed il
vantaggio dei singoli è indiretto e secondario, più che nel caso dei servizi chiesti anche dai privati o membri
della collettività che corrispondono tasse.
Infine il contributo è un pagamento, in ogni caso, obbligatorio mentre la tassa è dovuta in seguito a
domanda attiva di un servizio. Il beneficio, nel caso del contributo, non è chiesto di massima dai privati, ma
deriva da necessità sociale, da considerazioni di pubblica utilità. Quindi il compenso, che si fa pagare a co-
loro la cui proprietà risulti migliorata, è necessariamente obbligatorio come il consumo del servizio pubbli-
co.
Un carattere comune alle imposte è dunque la obbligatorietà del consumo del servizio e del paga-
mento del contributo: per questo motivo il contributo rappresenta il ponte di passaggio dal sistema de prez-
zo pubblico e della tassa a quello dell'imposta. Però il contributo, a differenza dell'imposta, viene pagato per
il servizio parzialmente divisibile, in quanto è reso anche ad un dato gruppo sociale, i cui membri indiret-
tamente beneficiano singolarmente di un vantaggi misurabile; laddove l'imposta si attua per servizi di carat-
tere generale, indivisibili, resi alla collettività come tale e nel suo insieme solitamente indifferenziato.
Un altro carattere, che differenzia le due forme di entrate finanziarie, consiste nel fatto che il campo
di azione dell'imposta non ha limiti. Infatti essa, in quanto universale, si applica a tutti i contribuenti e ri-
verbera ad un tempo i suoi vantaggi indiretti su tutti i membri della collettività che siano nel territorio dello
Stato della provincia o del comune. Invece il contributo di miglioria, che per definizione dianzi menzionata,
si paga per servizi che apportano un miglioramento alla proprietà immobiliare, si applica necessaria mente
ad una zona delimitata del territorio.

F) Imposte speciali.
Nel passaggio dalla illustrazione della tassa a quella dell'imposta generale, il contributo di miglioria
precede le imposte speciali. Queste rivestono con maggiore approssimazione i caratteri logici del successi-
vo istituto dell'imposta generale.
Carattere del contributo, che tanto lo avvicina alla tassa, è che i singoli proprietari di beni ricavano
dalla esecuzione di un'opera pubblica un vantaggio indiretto ma particolare, misurabile presso ogni indivi-
duo. Di conseguenza i contribuenti, singolarmente, lo pagano in proporzione al vantaggio (incremento di
valore) che i propri beni hanno risentito dal compimento dell'opera di utilità generale. Per contro, nel caso
dell'imposta speciale, il rapporto di prestazione e controprestazione ha luogo tra l'ente pubblico e il gruppo
come tale. Per questa ragione, il vantaggio è distinto solo per il gruppo, mentre i singoli componenti il
complesso risentono del beneficio in modo indistinto: il tributo, in questo caso, è commisurato, di massima,
alla capacità contributiva dei singoli.
Le imposte speciali, che si sono già tenute distinte, per sufficienti ragioni di principio, dal contribu-
to di miglioria, occorre siano differenziate, per i loro peculiari caratteri, dalle tasse e dalle imposte (genera-
li).
a) Una caratteristica che avvicina l'imposta speciale alla tassa è costituita dalla presupposizione di
un vantaggio del servizio pubblico o del benefit: nel senso che nella tassa avviene uno scambio diretto, per
i singoli utenti dei servizi, tra il compenso (inferiore al costo totale), pagato da essi, ed il servizio particola-
re, divisibile, reso dall'ente pubblico, dietro loro domanda. Invece nell'imposta speciale si ha un consumo
obbligatorio di un servizio reso dall'ente pubblico di propria iniziativa a prevalente vantaggio di una deter-
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minato gruppo di contribuenti, su cui esso fa gravare tendenzialmente, in tutto (o in parte), il costo del ser-
vizio da essi consumato all’interno del gruppo.
b) L'affinità fra le due forme d'entrata si mantiene su un altro punto. E cioè allo stesso modo l'utente
paga la tassa, in quanto chieda all'ente pubblico una prestazione, così vengono normalmente assoggettati al-
la corresponsione dell'imposta speciale soltanto coloro che abbiano goduto, come membri di un gruppo, il
vantaggio derivante dal servizio. In altri termini, le imposte speciali levate su gruppi di contribuenti sono
erogate di solito e soprattutto a vantaggio di piccole collettività, ed unicamente come membro della colletti-
vità medesima e non come individuo richiedente servizi. Quindi chi le paga ritrae un utile dall'adempimento
del servizio prevalentemente relativo al bisogno del gruppo.
c) Una circostanza, che avvicina l'imposta speciale all'imposta (generale), si ha in quanto, in en-
trambe, l'ente pubblico produce un servizio senza attendere la domanda individuale o di gruppo né, dopo
averlo prodotto, ed in entrambi i casi, si cura della maggiore o minor misura in cui i membri del gruppo di
tutta la collettività ne beneficeranno.
d) Altro carattere comune tra l'imposta generale e la speciale è, in conseguenza, la obbligatorietà
del pagamento del tributo nei due casi: sia esso imposto su membri di una determinata categoria sociale o
sulla collettività intera.
e) Una differenza importante è che, nelle imposte speciali, il tributo viene pagato in quanto si ap-
partenga ad un gruppo o ad una categoria, la quale, come tale, gode di un particolare vantaggio: di modo
che l'imposta speciale non viene pagata se non esiste una prestazione di servizi, da parte dell'ente che la ap-
plica, a favore di un gruppo privato. Invece nelle imposte generali il tributo viene pagato anche da coloro
che non beneficiano, in modo differenziato e sensibile, di un dato servizio pubblico ed i proventi delle im-
poste vengono sommati insieme per provvedere al costo complessivo dei pubblici servizi, nell'insieme con-
siderati.
Ne consegue che, di solito, i tributi speciali non si sommano, agli altri per provvedere ai bisogni
della collettività, ma vengono destinati a provvedere soprattutto alle esigenze particolari di una categoria o
di un gruppo sociale (127).

__________
127
Esempi di imposte speciali: 1 è una imposta speciale quella levata dalle Camere di Commercio imposta camerale.
Oggetto dell'imposta sono i redditi commerciali ed industriali od agricoli soggetti ad imposta di ricchezza mobile; e
debitori ne sono i commercianti, industriali, capitani marittimi, agricoltori, ecc., inscritti presso le Camere stesse.
Il ricavo dell'imposta, assieme a quello del tributo che colpisce il commercio temporaneo e - girovago, ed alle rendite
degli enti stessi, va devoluto al servizio di tutela degli interessi degli iscritti, i quali, come tali, costituiscono una cate-
goria sociale con particolari esigenze, in confronto al resto della collettività, bisogni appunto che le Camere di Com-
mercio possono soddisfare in parte.
2 Con il T. U. (Testo Unico) per la finanza locale del 14-9-1931, n. 1175, furono adottati la impropriamente detta
«tassa di circolazione sui veicoli a trazione animale» e il «contributo integrativo di utenza stradale» dovuti da enti e
società che, in dipendenza dell'esercizio di un'industria o commercio, cagionano con il transito di veicoli «a trazione
meccanica o animale» un eccezionale logorio delle strade. Anche in questi casi è individuabile l'esempio dell'imposta
speciale su gruppi o categorie che in modo particolare si avvantaggiano del servizio pubblico della viabilità che ri-
sponde anche all'interesse generale. La stessa natura di imposta speciale si può riscontrare nella «tassa unica di circo-
lazione» istituita con il R. D. L. 29-7-1938 n. 1121 che sostituisce le «tasse» di circolazione degli autocarri e rimorchi
e il «contributo» di utenza stradale.
3 Gli studiosi di finanza, di fronte all'organizzazione sindacale attuata in Italia, hanno esaminato la natura dei contri-
buti sindacali, ed alcuni hanno ravvisato in essi i caratteri dell'imposta speciale.
Altri, svolgendo la propria teoria, non vedono ancora nei contributi sindacali la figura delle imposte speciali, in
quanto occorrerebbe che, della totalità dei membri soggetti ai sindacati, una parte fosse gravata di onere speciale, in
vista di un particolare vantaggio. Ma anche allo stadio iniziale, quale venne realizzato dal cessato regime, si poteva
trovare, nel contributo sindacale, qualche estremo dell'imposta speciale. E' ben vero che l'obbligo del pagamento dei
contributi era talmente generalizzato che tutte le categorie di produttori, in senso ampio, ne costituivano soggetti pas-
sivi in Italia. Ma è anche vero che essi, e soltanto essi, in quanto produttori, conseguivano un vantaggio particolare,
costituito, prevalentemente, dalla tutela degli interessi delle singole classi, ciò che può considerarsi il corrispettivo ot-
tenuto dall'ente, a cui andava, come ad un bilancio speciale, soprattutto il provento dei contributi. Ad es., i percettori di
interessi sui titoli dello Stato, ottengono un reddito che dicesi prodotto in contrapposto a goduto. Ma, non appartenen-
do, come tali, a nessuna categoria sindacale, non avevano obbligo di versare i contributi relativi: però non avevano di-
ritto di avere alcun servizio sindacale, esclusione che non avviene nel casi di servizi generali veri e propri a vantaggio
della intera collettività. E, non volendo classificare il contributo come imposta speciale di Stato, in quanta la legge ri-
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IV.

LE IMPOSTE GENERALI E LA LORO CLASSIFICAZIONE.

Nel passare dall'istituto del prezzo quasi-privato a quelli rispettivamente del prezzo pubblico, della
tassa, del contributo di miglioria e delle imposte speciali, si è visto come l'interesse privato, individuale o di
gruppo, sia andato sempre più attenuandosi, e come abbia conseguito, gradualmente, una importanza cre-
scente l'elemento interesse pubblico, indifferenziato.
Il caso dell'imposta generale è quello in cui il costo dei servizi pubblici è indivisibile per definizio-
ne, senza individuazione sistematica di gruppi, come particolarmente avvantaggiati da taluni servizi, Essa
grava su tutti i contribuenti che si trovino nelle condizioni previste dalle singole leggi.
Dal punto di vista teorico, l'imposta generale è il tributo che maggiormente interessa, perché pre-
senta il più gran numero di problemi, alcuni dei quali tuttora insoluti. Dal punto di vista razionale, si può di-
re tuttora aperto il problema del criterio «ottimo» di ripartizione, fra i contribuenti, dell'imposta generale
per fronteggiare con essa il costo globalmente indivisibile dei servizi pubblici, resi dallo Stato. Questo av-
viene nei casi la classe governante per lo Stato impone il consumo dei servizi medesimi, con vantaggio
normalmente indiscriminato della collettività.
E' questo il problema centrale, alla cui soluzione ormai da più di due secoli contribuisce la teoria fi-
nanziaria. Le conclusioni teoriche non soddisfano in tutto alla soluzione del problema concreto, e le norme
positive con cui i legislatori lo risolvono sono, per lo più, da considerarsi empiriche od approssimate a talu-
ni schemi scientifici di ripartizione dell'imposta generale per la copertura del costo dei servizi indivisibili di
massima.
Prima di affrontare tale problema ed altri notevoli della teoria finanziaria, occorre procedere oltre
nella classificazione tributaria.
Da un punto di vista prevalentemente amministrativo, si considerano generali le imposte che colpi-
scono tutte le categorie di taluni fatti economici e giuridici. Ad esempio, le imposte che colpiscono tutte le
forme di patrimonio (immobiliare e mobiliare) dei contribuenti; oppure tutti i redditi di essi o, tendenzial-
mente, tutti i consumi, come l'imposta italiana sull'«entrata». Sono, per contro, imposte speciali o particola-
ri (o cedolari) quelle che colpiscono una parte del patrimonio (ad es., immobiliare soltanto) o il reddito da
una data fonte (terreni, fabbricati) o date voci dei consumi (colpite da imposte di fabbricazione, dazi, ecc.).

A) Imposte dirette e indirette.


Una classificazione è quella che distingue le imposte in dirette e indirette da vari punti di vista.
1) Dal punto di vista amministrativo, sono imposte dirette, quelle che vengono accertate e riscosse
mediante formazione di ruoli nominativi dei contribuenti. Sarebbe caratteristico il caso delle imposte dirette
sui redditi prodotti dalla terra, dai fabbricati, da un'attività commerciale, professionale o impiegatizia.
Esulerebbe, per contro, il caso degli atti saltuari di scambio, del consumo di beni e merci, non es-
sendo possibile fissare, «a priori», i ruoli di coloro che trasferiscono ricchezze o consumano in modo di-
scontinuo date merci. Questi fatti danno luogo ad imposte che si denominano, quindi, indirette. Ma la di-
stinzione non è rigorosa.
Vi sono, in concreto, consumi di beni durevoli e di servizi che danno luogo alle cosiddette imposte
suntuarie (sul valore locativo dell'abitazione, sui domestici, sulle vetture, sulle automobili, ecc.) nei cui con-
fronti è possibile procedere alla formazione di ruoli dei contribuenti.
2) Una seconda distinzione si basa sul concetto teorico della trasferibilità delle imposte. Si ha la
traslazione di un tributo allorché il contribuente, indicato dalla legge (de jure) riesce, attraverso una varia-
zione di prezzo, a far sopportare, in tutto o in parte, l'onere del tributo a terze persone con le quali egli sia in

__________
conosceva ai sindacati il potere di applicare tributi sui propri appartenenti, non si può a meno di considerarlo come
imposta speciale levata da enti istituzionali di diritto pubblico.
Per brevità di esposizione si omettono altri esempi di imposte speciali individuabili nella legislazione vigente e pas-
sata della finanza italiana.
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rapporto di scambio (di beni o servizi). Contribuente (de facto) diviene, allora, una terza persona, in quanto
economicamente incisa dal tributo.
Sarebbe diretta l'imposta che non si trasferisce, e dunque incide sul contribuente indicato inizial-
mente dalla legge che introduce un tributo o ne eleva l'aliquota. Sarebbe, invece, indiretta l'imposta che si
trasferisce su terze persone.
Questa distinzione si presta a due ordini di critiche:
a) anzitutto non esistono secondo la concezione più ampia e razionale del processo, imposte non
trasferibili. Altra cosa è il consolidamento o ammortamento di cui si parlerà in seguito, che del resto alcuni
teorici considerano come caso di traslazione regressiva. Infatti si intende per traslazione non solo quella
che può avvenire nei rapporti fra colui che offre e colui che domanda beni o servizi (in avanti) colpiti da
una data imposta, ma anche quella che ha luogo mediante variazioni di rapporti di scambio diversi da quello
il cui oggetto venga colpito da una data imposta.
Quando, ad esempio, si afferma che l'imposta sugli stipendi e pensioni dello Stato non è trasferibile,
si vuol dire che non può il dipendente chiedere allo Stato un aumento di stipendio né di pensione, quando
questo ente abbia elevato l'imposta; o, pur chiedendolo, può non ottenerlo. Ma è possibile in date condizioni
l'impiegato: ottenga una riduzione nella pigione della casa abitata o una riduzione del prezzo del vestiario,
ecc., e trasferire (all'indietro o regressivamente) l'imposta. Lo stesso è da dirsi per le imposte personali e per
quelle sui casi di rendita che, come vedremo in date circostanze, sono in tutto o in parte non trasferibili (in
avanti).
Ma soprattutto la definizione è criticabile considerando che tutte le imposte modificano l'equilibrio
dei rapporti di scambio, sul mercato.
b) La critica più decisiva sta nel fatto che, se si accettasse pure la concezione dei classici o di Panta-
leoni, della traslazione, e ci si affidasse alla casistica concreta, le stesse imposte, col variare delle circostan-
ze economiche e dei vincoli politico-giuridici, diverrebbero, in momenti diversi, trasferibili o meno e quin-
di, dirette o indirette, senza un costante fundamentum divisionis.
3) Un terza distinzione è individuabile nella contrapposizione tra le imposte dirette e quelle indiret-
te in base alla immediatezza o meno con cui la capacità contributiva (concetto che illustrerò più innanzi) dei
singoli individui si manifesta all'ente pubblico tassatore.
Allorché i fatti economico-giuridici manifestano immediatamente (o direttamente) una capacità
contributiva, l'imposta che li colpisce viene definita diretta. Trattasi di fatti come il possesso di un bene, la
percezione di un reddito da un'attività continuativa, indici immediati o diretti dell'esistenza di una ricchezza
accumulata o di una ricchezza (reddito) che si formi.
Quando, invece, si tratti di fatti interpretabili come indici indiretti o mediati di capacità contributiva
(quali l'apertura di una successione, una compravendita, il consumo di un bene, ecc.), le imposte che colpi-
scono il trasferimento ed il consumo si considerano indirette.
Ma anche questa distinzione non è esauriente. Ed è facilmente equiparabile l'imposta sui trasferi-
menti (indice indiretto) a titolo oneroso o gratuito, ad un'imposta diretta sul patrimonio oggetto di compra-
vendita o di eredità. Dal canto suo, il reddito (percepito o prodotto come esempio di manifestazione diretta
o immediata di capacità contributiva) non è sempre indice sufficiente a far appurare la capacità contributi-
va: e talora viene integrato da indici indiretti per l'accertamento di quella che è la capacità contributiva ai
fini dell'applicazione di imposte dirette. Tali sono i casi dell'imposta complementare sul reddito e dell'impo-
sta di famiglia. Esse sono imposte dirette per eccellenza, il cui imponibile (reddito complessivo prodotto e
disponibile) viene accertato, a scopo integrativo, ricorrendo agli indici del consumo del reddito, manifesta-
zioni indirette, cioè, di capacità contributiva che dovrebbe riscontransi soltanto in sede di imposizione indi-
retta.
Nonostante, peraltro, non sia esattamente determinato, nei suoi estremi differenziali, questo terzo
criterio di distinzione delle imposte dirette dalle indirette, trova frequente applicazione legislazione positi-
va.

B) Imposte reali e personali.


Un'altra classificazione delle imposte che ha notevole importanza teorica e varie applicazioni nella
legislazione finanziaria, è quella che distingue le imposte in reali e personali.
Sono reali quelle che colpiscono, in sè, la ricchezza od il reddito all'atto della produzione, del tra-
sferimento o del consumo, prescindendo dalle condizioni economiche complessive, dalle condizioni fami-

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liari (persone a carico, stato civile e di famiglia), dai rischi a cui va incontro (invalidità, vecchiaia) la perso-
na. Questa produce o percepisce il reddito, acquista la ricchezza o la consuma.
Sono personali o presentano alcuni elementi di «personalità» quelle imposte che tengono conto del-
le predette e di altre condizioni riguardanti la persona fisica del contribuente.
Caratteri della realità sono i seguenti: 1) l’imposta reale colpisce il reddito alla fonte e segue questa
presso le persone che divengono successivamente proprietarie (nel caso di ricchezza mobile (reale), è colpi-
to il reddito netto da spese e passività in quanto necessarie alla produzione del reddito medesimo o gravanti
su di esso); 2) l’imposta colpisce il reddito o la ricchezza nel territorio dello Stato o di enti minori in cui es-
so si produce o nel territorio dello Stato in cui il patrimonio si trovi o si trasferisca; 3) l’imposta può appli-
carsi razionalmente mediante tributi particolari sui redditi da date fonti (128).
Caratteri della personalità dell'imposizione sarebbero soprattutto i seguenti:
1) Nel caso delle imposte dirette sul reddito e sul patrimonio, l’imponibile è solitamente costituito
dall'insieme dei redditi e dei patrimoni. Questa condizione è razionalmente necessaria (come si spiegherà
più innanzi) affinché si possa applicare la progressività delle aliquote; 2) la considerazione del minimo per
l'esistenza o per far fronte alle «esigenze normali di vita» delle stesse persone dei contribuenti; 3) la discri-
minazione dei redditi, nel senso della tassazione meno «forte» - a mezzo anche della detrazione di una quo-
ta costante a titolo di minimo per le esigenze normali vitali - dei redditi dovuti al lavoro (professionale, di
imprenditore o impiegatizio) della persona fisica, rispetto alla tassazione dei redditi «fondati» su beni pa-
trimoniali, il cui rendimento è in gran parte indipendente dalle vicende della vita della persona fisica (terre-
ni, fabbricati, capitali mobiliari); 4) la detrazione dal reddito imponibile di tutti gli interessi passivi (su de-
biti del contribuente) che menomano la disponibilità del reddito complessivo di cui gode la persona fisica
nell'imposta personale (infatti si mira ad accertare il reddito disponibile, dopo la detrazione di tutte le spese,
passività e oneri personali); 5) la detrazione, ai fini dell'accertamento dell'imponibile, di premi per l'assicu-
razione della vita della persona fisica e di quote di reddito per persone al cui sostentamento il contribuente
debba per legge (diritto agli alimenti) provvedere. [Invece nell'imposta prevalentemente reale, ad es., di ric-
chezza mobile italiana, sono detratti soltanto gli interessi passivi (e annualità) per debiti che siano in rap-
porto di inerenza con il processo produttivo attraverso il quale un dato reddito sia stato prodotto o gravino
detto reddito].
Alcuni degli elementi qui indicati, come caratteristici della personalità delle imposte, si trovano, ta-
lora, presso imposte che, per altri prevalenti aspetti, sono da considerarsi reali (tale è il caso, ad es., dell'im-
posta di ricchezza mobile italiana, in cui si nota l'esenzione di alcune categorie di redditi minimi e la di-
scriminazione degli imponibili o delle aliquote a seconda della natura o fonte del reddito, rispettivamente
fondato su capitali mobiliari o su capitali aziendali o sul lavoro della persona fisica).

C) Imposte proporzionali e progressive.


Trattando poi della distinzione delle imposte fra proporzionali e progressive, si hanno i problemi
teorici della ripartizione delle imposte.
Detta classificazione distingue, in: a) proporzionali, le imposte la cui aliquota (percentuale) si man-
tiene costante man mano che, presso lo stesso contribuente o presso contribuenti distinti, aumenta il reddito
da essi percepito (prodotto) o la ricchezza da essi posseduta (accumulazione di patrimonio) o conseguita
(per compravendita o successione); b) progressività, le imposte, la cui aliquota varia (cresce) col crescere
del reddito o della ricchezza; l'imposta sarà, quindi, più che proporzionale col crescere dell'imponibile. Le
basi logiche di questa classificazione saranno analizzate negli sviluppi successivi di queste lezioni.
Frattanto, ho insistito molto sulle classificazioni, perché esse aiutano a spiegare il fenomeno logico
dei fatti della finanza pubblica.
__________
128
Questi elementi distintivi, elaborati dalla scienza delle finanze, non vanno confusi con l'elemento giuridico costi-
tuito dalla garanzia reale. Con questa o a mezzo dei privilegi lo Stato garantisce il proprio diritto di credito verso la
persona del contribuente, ma ciò non vuol dire che il diritto di imposta sia un diritto reale sulle cose.
Inoltre è da avvertire che la natura della garanzia del credito dello Stato non è sufficiente a far classificare, ad es. re-
ale un'imposta. Invero, come ho dimostrato altrove E. D'ALBERGO: Sul carattere di tributo reale dell'imposta straordi-
naria immobiliare, «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», settembre 1938, si è offerto, nella legisla-
zione positiva italiana, il caso duplice dell'imposizione straordinaria sul patrimonio che nel tributo istituito nel 1919
era assistita da garanzia reale o privilegio speciale sugli immobili e che, nel tributo del 1936, era assistita da analoga
garanzia. Eppure non vi è dubbio che, per altri caratteri salienti e decisivi, la prima fosse personale e la seconda reale.
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Richiamo il pensiero di A. Roncali (apparso sulla «Riforma Sociale», dell'aprile del 1896), che così
era espresso:
«La classificazione delle entrate pubbliche, dal punto di vista logico, se non storico, è la prima con-
dizione dell'analisi, anzi l'analisi stessa nella sua forma sensibile.
Lo studio delle forme diverse con cui lo Stato attinge e partecipa al reddito nazionale ha importan-
za, non solo teorica, ma essenzialmente pratica perché, in fondo, l'eterna questione da risolvere in finanza è
sempre quella della sufficienza delle entrate pubbliche e della giusta distribuzione dell'onere».

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CAPITOLO III.

LA DISCRIMINAZIONE QUANTITATIVA DEGLI IMPONIBILI.


DEI CRITERI SOGGETTIVI DI RIPARTIZIONE
DEL COSTO DEI SERVIZI PUBBLICI INDIVISIBILI

I.

LA CLASSE GOVERNANTE, COME SOGGETTO


DELLE VALUTAZIONE EDONISTICHE, PER LA COLLETTIVITA’

In questo capitolo, tento di dar conto della genesi logica dell'imposta progressiva, per l'aspetto eco-
nomico, e di spiegare il passaggio dalla imposta proporzionale all'imposta progressiva.
Secondo alcuni autori, sarebbe estraneo al compito dell'economista questo ordine di problemi, in
quanto graviterebbe nel campo genericamente detto «politico» o, se si vuole, storico.
Ma questa tesi è il frutto di alcune insufficienze ipotetiche rispetto anche all’evolversi dei fatti. Mi
sembra di poter notare confusioni metodologiche e logiche anche nella trattazione di maestri di questa
scienza e, in particolare, di famosi studiosi italiani.
I) Una insufficienza di ipotesi si nota, anzitutto, in molti studi di finanza, anzi una scelta inadeguata
di ipotesi rispetto ai fatti da spiegare.
E proprio vero che le ipotesi hanno natura soggettiva ed intuitiva e variano da studioso a studioso,
essendo diversa l'attività mentale allorché lo scienziato si accinga a spiegare la ragion d'essere del fenome-
no o a rendersi conto delle sue manifestazioni (pur rimanendo aderente alla analisi di un solo aspetto, come
si fa in queste lezioni).
Per questo si hanno ipotesi più o meno feconde. Anche i fisici (ad es. il Planck) hanno adottato del-
le ipotesi medesime, più che distinguerle in «vere» e «false». Sono esse ipotesi che, quando siano grande-
mente in accordo con i fatti, conducono alla formulazione di leggi scientifiche, od a principi come quelli su
cui ci si intratterrà nelle prossime pagine.
In altri termini, lo scetticismo tradizionale, soprattutto prevalente in Italia, in tema di possibilità lo-
gica di trattare il problema dell'imposta progressiva, deriva: 1) dal permanere del pensiero esclusivamente
nell'ambito dell'ipotesi atomistica ovvero dal considerare giudici del sacrificio o della utilità sacrificata ((nel
corrispondere le imposte, generali e personali) gli individui singoli medesimi; 2) dal pretendere di compiere
necessariamente calcoli oggettivi di misurazione e confronto delle utilità dei redditi prelevati a titolo di tri-
buti per procedere alla formulazione della teoria in questo campo.
Nella spiegazione delle entrate tributarie abbiamo visto come il calcolo della convenienza del pre-
lievo di esse si sposti dai singoli alla classe governante. Il problema da atomistico diviene problema di
«massa» e richiede ipotesi adeguate per la sua spiegazione: ipotesi che facciano ragionare spostando il giu-
dizio sulla utilità sacrificata dal fatto tributario, dai singoli (visione atomistica) alla classe governante (vi-
sione macroscopica del problema di massa), la quale, come afferma il Pareto(129) - è il giudice degli apprez-
zamenti utilitari che riguardano gli individui componenti le collettività in cui essi vivono.
In economia pura il giudice ed arbitro in sede edonistica è stato considerato preminentemente l'in-
dividuo. In economia finanziaria, che affronta problemi di massa con soluzione, se « all'individuo vogliamo
torre l’ufficio di giudice, occorre che troviamo altri a cui assegnarlo» (Pareto). Già su questo ordine logico-
ipotetico si era posto il Pantaleoni (nei Cenni sui massimi edonistici individuali e collettivi), che infatti ave-
va ammesso la legittimità teorica di fare calcoli edonistici per altre persone, in base quel che è noto della
psicologia umana. Nell'esempio, egli faceva il caso del fanciullo per il quale i genitori o i maestri compiono
__________
129
Avverto che questo riferimento alla visione ipotetica Paretiana non significa adesione alle considerazioni dell'e-
conomista e sociologo in tema di finanza pubblica e di imposta progressiva in particolare.
Mi interessa soltanto ricordare, per quanto di seguito si osserva sul tema della ripartizione delle imposte in ragione
proporzionale e progressiva o regressiva e degressiva, nel significato che si chiarisce più oltre, quale sia stato il tratta-
mento della categoria edonistica utilità della ricchezza e, più in generale e in astratto, della categoria soggettiva utilità
soggettiva od ofelimità dei singoli e gruppi di componenti la collettività, nello spiegare fenomeni collettivi o di massa,
la cui soluzione sia dominata dalle decisioni della classe governante.
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scelte). Si tratta di rappresentarsi le valutazioni altrui e, nel problema sociale o collettivo o di massa, di rap-
presentarsi le valutazioni utilitarie dei componenti la collettività considerati tipicamente (130).
Ma, come ho ricordato già, più adeguata alla spiegazione del fenomeno finanziario e degli istituti di
cui si avvale la classe governante per lo Stato, è la visione Paretiana, a cui torno a riferirmi anche per questa
spiegazione del modo di ripartire i tributi pur se il Pareto non se ne avvale a questo fine scientifico partico-
lare.

II) Un'altra confusione, con conseguente critica razionalmente indebita, che si nota nella letteratura
corrente, è costituita dal ritenere che la scienza debba suggerire criteri di distribuzione delle imposte e non
solo tentare di spiegare, con il sussidio di congrue ipotesi, i fatti che pone in essere il legislatore per mettere
in evidenza quanto di razionale, da punti di vista precisamente ipotetici, possano avere in campo tributario.
Quando troviamo affermazioni come questa dell'Einaudi, secondo il quale «la scienza economica,
fa d'uopo riconoscere, non ha alcun merito nel porre le fondamenta dell'imposta progressiva» (Riforma So-
ciale, N. 4, 1933) ovviamente riscontriamo una confusione fra precettistica o «arte» finanziaria e tentativi
gnoseologici o esplicativi, in sede logica, delle «fondamenta» poste dalla classe politica. Sia pure con pro-
cedimento che i filosofi considerano abstractio formalis, lo studio di economia finanziaria isola l'aspetto
economico, qui costituito dalla interferenza della variabile subiettiva (utilità del reddito), per spiegare il
concorso probabile o plausibile o verosimile di detto fattore, in via ipotetica nel campo tributario. Così na-
scono i principii o le leggi della teoria che assuma a proprio oggetto aspetti di fatti e fenomeni.
Del pari, anche il Barone (Principii di economia finanziaria), dopo avere compiuto una esposizione
critica dei criteri teorici per la ripartizione del carico tributario, perviene ad una conclusione non attinente al
campo scientifico. Egli ha scritto: «Tutte queste minute analisi sulla utilità delle varie parti del reddito, oltre
che mancanti di qualsiasi (storico-statistica?) base seria, sono anche inadatte, nella pratica, ad essere tradot-
te in formole legislative». Io osservo che egli ragiona come se alla scienza toccasse anche la funzione del-
l'arte, ovvero di dar suggerimenti sui modi di risolvere il problema concreto. Per contro spetta alla scienza
avvalersi di ipotesi atte a spiegare il fatto, costituito dai modi di definire la giustizia tributaria o la egua-
glianza tributaria e dai modi concreti tecnico-matematico-statistici, adottati già dalle leggi per la distribu-
zione di imposte generali e progressive contrapposte a proporzionali e regressive.
Il D'Addario («Economia Internazionale», 2, 1952), ragionando di modi di ripartire le imposte, af-
ferma correttamente che esula dall'oggetto della Scienza delle finanze la formulazione degli ideali di giusti-
zia o il giudizio di valore (giusto o ingiusto) in tema di principii di ripartizione dell'imposta. Tuttavia egli,
poi, cade in confusione metodologica quando non si avvede che hanno fatto arte coloro che nei trattati han-
no «ricercato», «proposto», «osannato» principii di ripartizione dell'imposta; e invece hanno fatto (o fanno)
scienza coloro che hanno «esaminato», «spiegato» qualunque criterio, comunque qualificato, avvalendosi,
in sede critica e costruttiva, del procedimento per via di ipotesi, la cui scelta è soggettiva e legata alla genia-
lità dell'indagatore e solo per questo arbitraria.
E’ anche vero che la teoria scientifica deve armarsi delle ipotesi adatte a spiegare i fatti, quando essi
continuino a fornire una ricca, univoca e normale casistica. E dunque, di fronte a questa casistica, sarebbe
ben magra consolazione il concludere scetticamente che, anche procedendo per astrazione (ovvero conside-
rando il solo aspetto che interessi l'economia finanziaria) sia un hortus conclusus, solo perché, come fatto
complesso le imposte proporzionali e progressive rispondono anche ad altre ragioni che si suol denominare
politiche, statistiche, di politica economica od economiche oggettive ecc. nel caso concreto.
In conclusione, non aderisco all’opinione di coloro che addirittura (ad es. De Viti De Marco) rele-
gano nel campo della politica la sola possibile spiegazione dell'imposta proporzionale e progressiva; e ri-
tengono che, assumendo adeguate ipotesi, si possa tentare di recare luce esplicativa sui criteri che presiedo-
no alla ripartizione di detti tributi.

III) «Spiegare» non significa giustificare sentimenti, interessi che ispirano i criteri che in concreto
adottano i legislatori. Invero per il solo aspetto che qui si considera, nello spirito della interpretazione dei
fenomeni di massa, non si intende emettere giudizi di valore sulla bontà, equità, giustizia dei criteri. Ma, al

__________
130
Sulla ragionata applicazione in finanza della concezione Pantaleoniana dello Stato, come un «tutore» che tenda a
far raggiungere ai tutelati una posizione di soddisfazione massima, si veda di C. Cosciani l'articolo apparso sulla «Ri-
vista Internazionale di Scienze sociali», 1936. che la documenta con riferimento a tutta l'opera del Pantaleoni.
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contrario, date le definizioni di eguaglianza, giustizia ecc., si noterà se la soluzione, razionalmente interpre-
tata dagli studiosi, sia coerente rispetto alle varie ipotesi.
Ritengo, infatti, che vadano aggiornate le ipotesi interpretative del reale, in senso comprensivo della
tendenza, socialmente crescente, della condotta del soggetti a scelte tipiche, a gusti medii, ad azioni che si
ripetono con frequenza che denota uniformità. In questo modo si può contribuire a dare una spiegazione
condizionata dalle ipotesi medesime, anziché una critica infeconda e scettica di fronte al fatto imperante. E
invero mi pare che si ecceda, come interpreti, nel rimanere aderenti a vecchie ipotesi, di fronte alla evolu-
zione dei fatti nel senso dell'affermarsi della psicologia di massa. Essa, infatti, contrasta con il rigido no
bridge fra gli apprezzamenti utilitari e gusti odierni degli uomini, ancora supposti come del tutto psicologi-
camente indipendenti e con mentalità totalmente autonoma da stiliti medievali.
Ma soprattutto trascura di vedere il problema dal punto di vista della classe governante, la quale
rende subiettivamente omogenei detti giudizi edonistici che, per se stessi, storicamente, tendono obiettiva-
mente alla omogeneità. Non che si neghi la necessità (che è logica e storica) «che lo Stato sostituisca una
sua valutazione a quella dei singoli». Ma l'Einaudi, ad es. (Miti e Paradossi), considera «esercitazioni sco-
lastiche» i ragionamenti teorici in base alla curva «inventata» dal legislatore o di «sostanza economica ze-
ro» (pagg. 164/165) per una confusione fra concezione ipotetica e accertamento empirico a cui accenno più
oltre. Oppure si teme che si arrivi ad infinite soluzioni in corrispondenza al «numero indefinito di curve
immaginabili», come se ciò non convalidasse la attitudine dell'impostazione ipotetica a spiegare le numero-
se scale di progressione già note e vane e quelle di numero indefinito che presenterà l'avvenire.
Avanzata questa avvertenza metodologica e gnoseologica, passo ad illustrare le intuizioni e le di-
mostrazioni della logica della imposizione proporzionale e progressiva dal limitato punto di vista della eco-
nomia della finanza pubblica.

II.

SULLE RAGIONI DEI “PRINCIPII E CRITERI O MODI”


DI DISTRIBUZIONE DEL COSTO DEI SERVIZI PUBBLICI INDIVISIBILI

Nel capitolo II (Le entrate pubbliche) è stato sostenuto che la classificazione delle entrate non è pu-
ra logica concettuale, ma presuppone od implica la soluzione di problemi teorici, come nel caso della con-
trapposizione delle imposte proporzionali alle progressive, di cui si è già data una sommaria definizione.
Una indipendenza logica non esiste, a rigore, neanche fra: a) configurazione e caratteristiche tecni-
co-matematiche di tipi di imposte (proporzionali e progressive) esaminate per il modo di variazione del
saggio di esse e delle aliquote, raffigurabili con rette, spezzate, curve continue e non (concave, convesse,
ecc. rispetto all'asse delle ascisse); e b) ragioni del loro diverso andamento, dal punto di vista dei presuppo-
sti economici non soltanto obiettivi, ma anche soggettivi (reazioni psichiche dei contribuenti ipotetici ri-
spetto alla applicazione di diversi saggi di imposte).
In termini ancora più generali non si può rinunciare a rispondere alle domande:
I - Perché sono sorte le imposte proporzionali e tuttora vigono nei sistemi tributari? Il quesito si
può considerare secolare e tuttavia sempre attuale.
II - Perché si è passati, in sede di imposte generali e personali per le quali si contrappongono ric-
chi e poveri per redditi e patrimoni globali a disposizione rispettiva, dalla imposizione proporzionale a
quella progressiva variamente atteggiata? Lo stesso dicasi tendenzialmente per la contrapposizione di si-
stemi proporzionali ad altri progressivi.
Porre siffatti interrogativi, significa collegare razionalmente (e storicamente) le imposte distinte per
la loro ragione in proporzionali e progressive, a criteri o modi di ripartizione dei tributi che fronteggiano
spese per servizi indivisibili.
Il motivo principe, extra-economico, è quello di giustizia tributaria. Abbiamo visto nella Introdu-
zione (paragrafo IV) come la giustizia interessi gli studiosi di economia finanziaria, in quanto concetto da-
to, traducibile in quello di universalità o di eguaglianza. Ammessa detta traduzione, si pone il problema di
studiare quali spiegazioni razionali e quantitative siano compatibili con i concetti medesimi correlati con

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quello di giustizia. Si tratta, cioè, di tentare di dare una spiegazione logico-quantitativa di ciò che ha luogo
storicamente o è immaginabile in sede di ripartizione dei tributi generali e personali, sotto la forza dell'idea-
le di giustizia che informa diritto, morale e storia.
Prima di dimostrare se sia competenza dello studioso, teorico della finanza pubblica, il tentativo di
dare detta spiegazione scientifica della ragione economica del sorgere e diffondersi della imposizione pro-
gressiva, come soluzione del problema della ripartizione delle imposte o della genesi dei sistemi tributari
«più giusta» di quella che era stata offerta dall'imposizione proporzionale, occorre far parola
Non sembri estraneo a questo corso il premettere le intuizioni intuizioni che hanno informato il di-
ritto, la morale e la fase precettistica dello sviluppo della teoria della finanza pubblica. Esse, infatti, hanno
creato i fatti o il tipo di fatti che a questa scienza spetta di analizzare e spiegare, siano essi già offerti dalla
storia o semplicemente ipotizzabili. E la mia definizione di questa scienza implica anzitutto lo studio dei
modi di ottenere le entrate.
Così considero: a) intuizioni giuridiche; b) morali; c) economiche (finanza cameralistica o precetti-
stica) per dare, anche, un fondamento all'ipotesi edonistica di una uniformità di apprezzamenti utilitari, vi-
sta dallo Stato, a quale sembra più adeguata di quella individualistica o atomistica alla spiegazione dei fatti
collettivistici o dei fenomeni di massa quali sono quelli tributari.
a) Intuizioni giuridiche si trovano, in conseguenza di rivoluzioni politiche tendenti a realizzare l'e-
guaglianza anche nel campo tributario, nelle carte costituzionali.
Per brevità di riferimenti si pensi, in Italia, allo Statuto “Albertino” del 1848, che si richiamava ad
analoghe dichiarazioni. di diritti costituzionali francesi. «Essi (i cittadini) contribuiscono indistintamente,
nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato» è la dizione dell'articolo 25 della carta Albertina, che
contiene i due concetti di eguaglianza: a) nel senso della generalità del dovere (che si estendeva a tutti i
contribuenti), con abolizione conseguente dei «privilegi» i quali ai tempi dei sovrani assoluti, per classi so-
ciali e per singoli, potevano essere creati a mezzo del tradizionale «biglietto del re»; b) nel senso della uni-
formità dell'imposizione o della uguaglianza economica dei cittadini di fronte al dovere tributario (proble-
ma quantitativo).
A differenza di quanto avevano pensato letterari interpreti della idea di giustizia consacrata nello
Statuto, studiosi illuminati hanno individuato, nella dizione su riferita, il concetto di generalità e uniformità
dell'imposizione, come modi di essere della eguaglianza.131
Qualche interpretazione va ricordata. Il De Viti De Marco, che all'alto intelletto di scienziato univa
esperienza e saggezza di politico, fra l'atro (nell'edizione del 1928 del Principii, pagg. 155-159) affermava
che la norma statutaria, come tutte le dichiarazioni di diritti astratti e assoluti, non ha un contenuto concreto
e positivo. Di conseguenza egli vede l'imposta proporzionale e quella progressiva come due modi di appli-
cazione del principio dell'eguaglianza. Del pari il Graziani, autorevole illustratore di teorie e ordinamenti
concreti, a proposito dell'art. 25 dello Statuto132 asseriva che «nulla indica di concreto intorno al modo di ri-
partizione dell'imposta, ed esprime solo un concetto di equità tributaria, contenuto pure in precedenti carte
costituzionali, per fermare il principio della scomparsa delle immunità e dei privilegi di classe». E con do lo
Statuto appare conciliabile con la progressione dell'imposta che si manifesta e si accentua in riforme «im-
pregnate di spirito di progressività tributaria».
Questa ed altre citazioni di economisti e giuristi bene illustrano quanto fosse comprensivo la intui-
zione della eguaglianza nel campo tributario, compatibile con le realizzazioni di essa.
La nuova norma, nella Costituzione del 1948, dichiara: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese
pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressi-
vità» (art. 53). Con questa evidente contrapposizione si è inteso ritenere che la vecchia carta costituzionale
abrogata contenesse il criterio tecnico della proporzionalità. Il che è un errore, alla stregua della interpreta-
zione di giuristi ed economisti, richiamati nel mio citato scritto.
Inoltre la contraddizione tra principio generale di giustizia attuata attraverso l'eguaglianza, e regola
tecnica o modo specifico di distribuzione delle imposte, è rivelata dalla constatazione che la pretesa regola
dello Statuto (contribuzione in proporzione agli averi) non ha impedito che la nostra legislazione si evol-
vesse in qualche misura nel senso della progressività, senza essere incostituzionale. Orbene, in base a quale
__________
131
Questa posizione logica ho illustrato nello scritto a cui rimando: E. D'ALBERGO E., Proporzionalità e progressività
dei tributi nelle carte costituzionali italiane, negli Annali della Facoltà di economia e commercio dell'Università di Pa-
lermo, 1949-I.
132
Si vegga: GRAZIANI, Istituzioni di scienza delle finanze, Utet, 1929, p. 279.
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principio non s'è trovata detta incostituzionalità, se non in base a quello della giustizia e di quello correlato
di eguaglianza in cui può tradursi, che ammette i corollari della proporzionalità e della progressività?
Con il riferimento unilaterale a questo criterio tecnico (progressività) i creatori della nuova costitu-
zione hanno creduto di poter indicare nuove vie aperte alla moderna attuazione della progressività tributa-
ria, «con criterio più democratico, più aderente alla coscienza della solidarietà sociale e conforme alla evo-
luzione delle legislazioni più progredite» (Scoca). Come si è visto, l'evoluzione si era avuta anche sotto il
regime dello Statuto Albertino, come testimoniano l'imposta di successione progressiva (1902), le imposte
straordinarie patrimoniali (1919-22), l'imposta complementare sul reddito (1923) per accennare alle statali
(anche l'imposta comunale di famiglia era già progressiva prima della abrogazione dello Statuto di Carlo
Alberto), ecc.
L'essere il sistema informato a criteri di progressività non dimostra che esso sia, in definitiva o co-
me risultante, progressivo, potendo, i tributi del genere, neutralizzare o compensare la regressività. Per usa-
re i termini del Barone a cui si farà richiamo più oltre - date le componenti del sistema (imposte parzialmen-
te regressive, proporzionali e progressive) ciò che conta è la risultante storico-statistica che ne consegue. E
questa può divergere dalla visione costituzionale.
Al di sopra della critica del testo nuovo che ha inteso aggiornare o perfezionare il vecchio Statuto,
interessa confermare che l'una e l'altra carta costituzionale, come molte altre straniere, hanno rivelato una
enunciazione più o meno perfetta della intuizione della eguaglianza tributaria. Questo concetto, traducen-
dosi nelle realizzazioni della proporzionalità e della progressività, praticamente contemperate, ha attirato
l'attenzione degli studiosi che, volendo o dovendo spiegare questa incarnazione di un ideale di giustizia,
hanno ricorso a tipi di dimostrazioni a cui tosto faccio riferimento.
b) La intuizione della giustizia tributaria, come eguaglianza di trattamento o di oneri e sacrifici a
carico dei contribuenti, è nella coscienza dei popoli, più o meno chiaramente espressa e interpretata. Ciò
giustifica l'assunzione dell'ipotesi che abbiamo considerata edonisticamente più atta a spiegare questi feno-
meni di massa o collettivistici.
Ho fatto precedere un esempio di consacrazione, in sede legislativa, del pensiero che domina la co-
scienza popolare, perché il dato legislativo è quello che più immediatamente si profila dinanzi al teorico
dell'economia che debba dare una spiegazione, tendenziale almeno, del logico significato dei modi di distri-
buzione delle imposte, consacrati nella legge tributaria.
Ma nella legge è trasfuso il frutto di rivoluzioni ideali e di sistemi sociali, sotto la spinta di senti-
menti e «stati di coscienza», appunto, il pensiero dominante in tema di giustizia tributaria. Il far riferimento
a «stati di coscienza» o alle opinioni dominanti può parere opera estranea a questa trattazione. Ma chi abbia
compreso il valore della “ipotesi” nelle scienze può apprezzarne il legame con i fatti, nel tentativo di trovare
una spiegazione anche economica dell'imposta progressiva, che rappresenta il superamento, in sede di im-
posizione personale, dell'ideale di giustizia che, in prima approssimazione, era stato rappresentato dall'im-
posizione proporzionale.
L'intuizione della eguaglianza personale o soggettiva dell'imposizione fiscale e delle contribuzioni
alla cosa pubblica, da secoli, viene presentata nei seguenti termini:
- se tutti i redditi netti (aggiungo, globali) fossero tassati al 10 % ad es. un individuo con un reddito
di 1.000.000 di lire dovrebbe pagare un'imposta di 100 mila lire, e un individuo con un reddito di 1oo mila
lire dovrebbe pagare un'imposta di 10.000 lire. E' vero che la posizione economica oggettiva, in termini
monetari, rimane immutata. Ma il primo individuo sostiene forse un onere psichico o sacrificio minore, nel
privarsi della decima parte del suo reddito, rispetto a quello più rilevante che sopporta il secondo individuo
meno ricco. Questi annette una maggiore importanza economica o una più alta utilità alla somma percen-
tuale attinta ad un reddito minore rispetto ai bisogni da soddisfare ai quali vengono destinate le somme di
redditi che l'ente pubblico non prelevi a titolo tributario.
Questa affermazione può essere, appunto, presentata come una intuizione, ma non è ancora un ra-
gionamento che possa assumere dignità di dimostrazione scientifica. E una generalizzazione di «stati di co-
scienza» diffusissimi, che può assumersi ad ipotesi nello spiegare il verosimile modo di argomentare della
classe governante che, riferendosi a soggetti e gruppi tipici, può giudicare dei sacrifici imposti ai compo-
nenti la collettività, secondo questa intuizione popolare.
A detti «stati di coscienza» si fa richiamo anche nel corpo di quei ragionamenti su ipotesi atomisti-
co-individualistiche, di teorici che tentino una spiegazione della logica che presiede allo sviluppo dei tribu-
ti, dal criterio proporzionale a quello progressivo, anche quando si concluda negativamente, addirittura af-

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fermando che non appartiene alla scienza economica la spiegazione in termini subiettivi (sacrificio di utilità
o di godimenti) dell'imposta progressiva.
Pur insistendo sulla difficoltà di misurare in modo oggettivo la diversità di sacrificio, il mio prede-
cessore nella cattedra di Bologna (Flora) nel Manuale ammetteva non potersi «distruggere il fatto primor-
diale» che il valore di 10 per chi non ne possiede che cento è «di molto superiore» al valore di 100 per chi
ne possiede mille. Del pari Pescatore (La logica delle imposte, 1867) da gran tempo aveva ricordato che
l'opinione degli uomini dotati di senso pratico non si decide (ma per preoccupazioni riguardanti gli effetti
del sistema), ad adottare l'imposizione progressiva, «benché senta essere nelle dottrine della progressione
un qualche vero e un pregio di equità». Il Ferrara distingue (Lezioni) il caso dell'imposta proporzionale nel-
la quale si considera il reddito come un «corpo morto» indipendente dalle mani di chi lo possiede, dalla cir-
costanza dell'effetto morale che si produce sul «fisico e sul morale dell'uomo».
Nella foga della polemica, ammette l'Einaudi che i fondamenti dell'imposta progressiva stanno in
concetti di eguaglianza, di giustizia, in esigenze della «coscienza» collettiva e del buon senso e ritiene che il
politico debba attenersi alle idee piane le quali scendono al cuore del popolo («La Riforma Sociale», 1933).
Questo deve avvenire, pur negando che ciò possa interessare la scienza economica, come se questa non a-
vesse sempre studiato, per via di ipotesi, la condotta dell'uomo nel disporre di mezzi per soddisfare bisogni.
Di «coscienza generale», di «criterio di giustizia largamente inteso», di «opinione diffusa che poco
o tanto uno stesso percento toglie più al povero che al ricco», di coscienza generale che un'imposta propor-
zionale pesa più al povero che al ricco» ecc. discute L. Rossi (Sull'imposta progressiva, 1932).
A postulato etico accenna Robbins a proposito di «utilità sociale» considerata dalla finanza pubbli-
ca: nega che vi sia mezzo per accertare la grandezza della soddisfazione (quindi, del sacrificio) di A in con-
fronto a quella di B. Ma ammette che «nella vita quotidiana noi continuamente assumiamo che la compara-
zione possa esser fatta» (Sulla natura e importanza della scienza economica, Utet). S'intende dai terzi e dal-
lo Stato, in ispecie.
Nel trattare di imposte eguali, regressive e miste, il Fasiani, di fronte ad esempio numerico di impo-
sizione assolutamente eguale (capitazione o un tanto a testa), asserisce che «nessun uomo di buon senso osa
contestare che il far pagare 1.000 lire tanto a chi ha un reddito di 6.000 all'anno, come a chi ha un reddito di
50 mila o di 100 mila, non è il miglior modo di ottenere un'eguaglianza di sacrifici. Il sacrificio che in tal
modo si impone al povero è, nel giudizio universale, maggiore del sacrificio inflitto al ricco». «Nessuna
classe eletta sfugge a questa communis opinio». E a proposito di imposizione proporzionale e di imposta
progressiva riafferma che gli «uomini sono universalmente propensi a ritenere che una imposta di eguale
ammontare causa sacrifici maggiori al povero che non al ricco e tanto maggiori quanto più è povero». E ol-
tre continua: «per quanto nulla si sappia circa la grandezza assoluta dell'utilità del reddito di questi soggetti,
e poco circa l’ammontare della differenza delle loro utilità marginali, tuttavia si sa o si crede che una diffe-
renza esista». E ammette ragionamenti semplici e grossolani della classe eletta, quali il buon senso suggeri-
sce a uomini normali che vivono la vita politica di ogni giorno.
A proposito dello scrupolo teorico, circa la possibilità di procedere a comparazioni di utilità relativa
di soggetti con diversi gusti e diversi volumi di mezzi per appagarli, L. Fraser precisa che la difficoltà (di
comparare le utilità e quindi i sacrifici) concerne soltanto comparazioni accurate e quantitative. «Gli eco-
nomisti parlano talora come se le utilità di persone diverse fossero così completamente incommensurabili
che il dire che un bene ha lo stesso o un diverso grado di utilità per due persone sarebbe completamente
senza senso. Questa opinione è completamente ingenua in senso tecnico: vale a dire, essa implica una dot-
trina che nessuno cercherebbe seriamente di adottare nella vita ordinaria, e nega la possibilità di qualcosa
che, in realtà, continuamente avviene. Tutti noi facciamo comparazioni di quel genere. Ogni padre o madre
di famiglia, ogni sottoscrittore ad un'opera di beneficenza, ogni ministro delle Finanze ne fa e deve fame.
Infatti è compito di ciascuno di essi il decidere come distribuire fra altre persone (i membri della sua fami-
glia, o beneficiari della sua filantropia, i suoi concittadini) la limitata quantità di mezzi di cui dispone, in
modo da rendere massima l'utilità. E per far ciò egli deve chiedersi se uno scellino (o un dato milione di
sterline) sarà meglio speso per una persona (o categoria di persone) o per un'altra; il che val quanto dire
ch'egli deve comparare la utilità di una data quantità di beni per tutti gli eventuali percettori diversi» (v.
Pensiero e linguaggio, ecc., Utet). Dirà Einaudi (Miti e paradossi della giustizia tributaria) che si tratta di
sentimenti: ma essi danno corpo a quella che è la coscienza giuridica di una nazione (come la chiama Co-
hen Stuart) e sbocca in leggi che sono i fatti su cui l'economia cerca di portare luce razionale, con il sussidio
di congrue ipotesi.

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Non voglio chiudere questo florilegio senza Gesù Cristo, la massima interpretazione della coscien-
za dell'umanità, interpretazione sinora mai smentita. Essa implicitamente introduce la variabile edonistica
che, a seconda delle ipotesi, spiega l'eguaglianza tributaria in base a tributo proporzionale, progressivo e re-
gressivo, rispettivamente.
Invero, Gesù Cristo, confrontando l'alto obolo dei ricchi con quello offerto dalla povera vedova, ri-
teneva che questa avesse contribuito di più (in termini di sacrificio di utilità), pur avendo versato (in dena-
ro) una somma relativamente minore, ma che per lei era tutto. Continuando nel ragionamento implicito, l'u-
tilità di ciò che serve al «sostentamento» o per «vivere» è maggiore di quella della ricchezza «superflua».
Così che, ai fini della eguaglianza di sacrificio di utilità, dovuto a pagamento di tributi, occorreva che «tutti
gli altri» («molti ricchi») versassero ancor più dell'«assai», versato dai ricchi. G. Cristo pensava probabil-
mente: 1) a contribuzioni più che proporzionali alla ricchezza dei componenti il popolo «che metteva dena-
ro» nella cassa del tempio, nel caso che già questi avessero contribuito proporzionalmente; 2) ad accentua-
zione della già supposta, osservata contribuzione progressiva. Ho fatto appello alla sapienza dei Vangeli
(133), sapienza che si riflette nella coscienza della masse, che inseriscono la variabile sacrificio nel prelievo
della ricchezza dai contribuenti più o meno ricchi. Può, davvero, di fronte al concetto di giustizia fiscale e
sociale, così altamente affermato, la scienza dichiararsi fondatamente impotente ad una spiegazione logica?
Il fatto da spiegare, con il sussidio di ipotesi, quando sia precluso l'esperimento ad hoc, dunque, esi-
ste in quanto la coscienza collettiva od umana permea di sè le dichiarazioni costituzionali e le singole leggi
di imposta, in cui la proporzionalità si afferma accanto alla progressività correlata alla personalità nelle leg-
gi tributarie (134).
L'antica intuizione enunciata da G. Cristo, quale interprete della coscienza umana e collettiva, non
può essere lasciata nella sua eloquenza evidente, senza che la pur piccola mente umana ripercorra con gli
strumenti odierni della analisi, le ipotesi e le osservazioni su cui essa razionalmente si sarà basata. Del pari
le ammissioni, che figurano nel florilegio di altre citazioni, dicono che il fatto esiste e merita ed esige spie-
gazione in sede scientifica.

c) Ancora allo stato di intuizione è apparsa la enunciazione del principii o canoni della tassazione,
quali sono stati visti nelle prime sistemazioni della scienza economica.
Il pensiero corre ai canoni della tassazione e, anzitutto, a quello di A. Smith, il quale suggeriva, in
forma precettistica: i sudditi di ogni Stato dovrebbero contribuire al sostegno dello Stato, per quanto possi-
bile, in proporzione alle loro capacità, cioè, in proporzione al reddito di cui rispettivamente godono sotto la
protezione dello Stato.
In questo senso Smith era preceduto da Petty, Pietro Verri ed altri. Nella precedente edizione ho ri-
cordato la posizione di un «cameralista», il Carl, il cui pensiero riporto per dire che il secondo principio di
questo autore suggeriva che le imposte dovessero essere proporzionali. Ora ricordo come anche il titolo
(Traité de la richesse des principes e de leurs états et des moyens simples et naturels pour y parvenir, 1722)
facesse comprendere come l'intuizione stesse più a servizio della storia (arte di governo) che della logica. In
altri termini, alla fase della precettistica, che culmina nella proposizione di A. Smith, non si può dire che si
__________
133
Parabola contenuta: a nel capo XXI del Vangelo di Luca; b nel capo XII del Vangelo di Marco.
Si legge nel Vangelo di S. Marco, a proposito dell'obolo della vedova:
«Poi, seduto innanzi al Gazofilacio edificio del Tesoro, osservava come il popolo metteva danaro nella casa, e molti
ricchi ne mettevano assai.
Venuta poi una povera vedova, ci mise due spiccioli che fanno un quadrante. E chiamati loro i suoi discepoli, disse
loro:
In verità vi dico: questa povera vedova ha dato più di tutti quelli che hanno messo nel Gazofilacio, perché tutti hanno
dato del superfluo; ma costei nella sua povertà ha messo tutto quanto aveva, tutto il suo sostentamento».
Ed annota S. Luca per la stessa parabola:
«Alzando gli occhi vide i ricchi che gettavano le loro offerte nella cassa del Tempio. Vide anche una povera che vi
gettò due spiccioli, e disse:
Io vi dico in verità che questa vedova poverella ha offerto più di tutti gli altri; perché tutti costoro hanno offerto a
Dio una parte del loro superfluo, mentre costei, nella sua povertà, ha offerto quanto le serviva per vivere».
134
Questi richiami al Vangelo, che per lo innanzi non erano esistiti in altrui trattazioni, figuravano nella edizione del
1942 di queste lezioni a ragion veduta e per dimostrare che se chi la vedova aveva dato di meno in termini monetari
aveva dato di più, questa differenziazione di oneri doveva basarsi su quantità edonistiche, extra-monetarie, cioè su sa-
crifici di utilità.
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sia ancora tentata la spiegazione razionale del perché delle imposte progressive viste dal teorico dell'eco-
nomia limitatamente a quanto egli possa dire in questa materia.
Sono stati gli interpreti dei concetti sopratutto Smithiani, per la maggior diffusione che hanno avuto
nel mondo, a chiedersi quale potesse essere la portata del concetto di «ability» o capacità di contribuire o
possibilità rappresentata dal reddito o, come si è visto in sede statutaria italiana, dagli «averi» del contri-
buenti.
Anche essi sono stati, per lo più, del parere che Smith non intendesse rimanere aderente al criterio o
modo tecnico di ripartizione delle imposte costituito dalla proporzionalità in senso tecnico. Anche in Smith
l'idea della proporzionalità era un modo di esprimere la eguaglianza dell'imposizione. Si mediti su queste
parole con cui si inizia, sia pure in via di intuizione, l'interferenza esplicativa della variabile «utilità» o «sa-
crificio», non di denaro ma di entità edonistiche, con le seguenti idee tratte dalla Wealth of nations (libro V,
cap. 2): essere razionale che il ricco contribuisca alle spese pubbliche in proporzione maggiore che il pove-
ro, giacché per i ricchi la capacità di contribuire crescerebbe più che proporzionalmente al crescere delle
ricchezze. Prima visione intuitiva di quella che, in tempi recenti della scienza economica, è divenuta l'anali-
si teorica con l'intervento dell'elemento utilità marginale del reddito e della ricchezza in genere.
Comunque anche le intuizioni degli studiosi che hanno concluso le loro idee con sintetiche affer-
mazioni sul modo di far contribuire alle pubbliche spese, come le dichiarazioni costituzionali e le opinioni
comuni che le parole del Vangelo hanno fatto assurgere a verità universali, richiedono il cimento della teo-
ria per la dimostrazione di dette intuizioni giuridiche, morali ed economiche, in base agli strumenti della lo-
gica e della osservazione (se non proprio dell'esperimento statistico).
Tutto ciò ricordato nei paragrafi a), b), c) che precedono, non può la nostra scienza dichiararsi a
priori impotente di fronte alla esigenza di una dimostrazione. Tanto più che, come ho rilevato, oltre tutto si
insiste in una confusione fra preoccupazioni di pura conoscenza ed esigenze di pratica applicazione; fra ra-
zionalità di concezione e possibilità di verificare misurando e confrontando empiricamente ad opera di sin-
goli e non della classe governante.
Queste ultime distinzioni hanno ad es. talmente colpito il pensiero del Borgatta che egli ha ulte-
riormente preso posizione contro la critica dei presupposti dell'imposta progressiva.
Egli asseriva: « Se respingiamo i principii dedotti dalla decrescenza dell'utilità marginale della ric-
chezza, quale spiegazione scientifica possiamo dare di questo fenomeno finanziario si può dire universale?
Esso rimane un fatto, meramente politico: è questa la conclusione cui vuole arrivare l'Einaudi ?».
La risposta l'ha data l’Einaudi già ante litteram, ritenendo che non appartenga alla scienza econo-
mica occuparsi di imposta progressiva, che graviterebbe integralmente fuori del suo campo.
Le citazioni e i riferimenti che precedono alle lettere a) b) c) mirano a far comprendere come le i-
potesi a cui tosto faccio ricorso, traendole da molteplici analisi teoriche, non siano lontane dal reale o con-
tro la realtà, se diritto, morale e intuizione dei primi economisti le assumono come atte a interpretare i fatti
che danno corpo alla progressività dell'imposizione.

III.

ALTRE AVVERTENZE DI METODO PER LA VISIONE RAZIONALE DEL PROBLEMA.

Per la dimostrazione della logica dei modi di ripartizione del costo dei servizi pubblici indivisibili a
mezzo di imposte progressive (oltre che proporzionali), occorre avanzare alcune avvertenze.
I) Si rimane aderenti alla successione dei problemi, quale figura nella definizione già data di eco-
nomia finanziaria come contenuto della scienza delle finanze. Cioè si analizzano i «modi» secondo i quali
lo Stato ed altri enti pubblici possono procurarsi i mezzi (per fronteggiare le spese con cui si provvede ai bi-
sogni pubblici), prima dello studio delle variazioni degli equilibri economici particolari o parziali e dell'e-
quilibrio economico generale. Queste variazioni sono imputabili al prelievo di quantità di ricchezza ed alla
erogazione di essa sul mercato.
Questa avvertenza di metodo deriva da sostanziale questione di logica. Invero l'influenza degli ef-
fetti dei tributi per la società o meno di essi, come modi di ripartire il costo dei servizi pubblici indivisibili,

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non si può negare. Di ciò dirò ancora e più diffusamente nella introduzione allo studio degli effetti econo-
mici dell'imposizione. Intanto avverto che, nell'opinione di molti, detta influenza ha talvolta carattere prati-
co per la soluzione del problema empirico o in sede di applicazione in concreto di principi che vivono di
propria vita nel campo della logica, indipendentemente dagli effetti a cui danno luogo.
Invero, quando Einaudi, in sede di discussione delle premesse logiche dell'imposta progressiva, as-
serisce che lo studio degli effetti delle imposte «serve» allo stesso legislatore; quando egli suppone che il
politico, ubbidendo al comando della giustizia, ha istituito l'imposta progressiva e la scienza economica a-
dempie all'ufficio dello schiavo seduto dietro al trionfatore con l'incarico di ricordargli che accanto al Cam-
pidoglio v'ha la Rupe Tarpea, l'egregio Autore confonde teoria e pratica.
Faccio un esempio. Vedremo tosto le proprietà di un modo di distribuzione delle imposte, informato
al principio del sacrificio minimo collettivo. Ebbene, le conseguenze logiche del principio, in via ipotetica,
potrebbero portare al livellamento delle fortune o ricchezze. Allora, concluso il ragionamento, sorgono pre-
occupazioni pratiche. E lo stesso Edgeworth avanza temperamenti e accorgimenti per tenerne conto, per
«riguardo allo sviluppo della ricchezza e ad altri vantaggi». Argomentazioni che stanno su terreno diverso
da quello strettamente razionale della deduzione del modo di distribuzione dell'imposta ragionando in teoria
pura, in base a date ipotesi (e definizioni di giustizia).
Si tenga presente un distinto autore nord-americano che, come in queste lezioni e in molti trattati, fa
seguire lo studio degli effetti delle imposte a quello dei modi di prelievo delle stesse. Ebbene il Taylor (The
economics of public finance) ammette che la «scelta» tra imposta proporzionale e progressiva dà luogo ad
«incertezze» (p. 293). Il che ci fa comprendere che ci si trova non nel campo teorico, ma in vista della solu-
zione di problemi pratici, avendo lo studioso il solo compito di analizzare in sè i singoli modi di distribu-
zione delle imposte. E quando ammette che le incertezze dell'imposta progressiva possono, in una certa mi-
sura, essere mitigate da «emendamenti dopo l'osservazione degli effetti della scala delle aliquote sulle varie
classi di redditieri», si comprende come il legame fra considerazione di effetti e tipi di distribuzione di im-
posizione progressiva concerna il concreto. Infatti, non è concepibile nelle leggi del pensiero un emenda-
mento di ragionamenti di quelli che danno corpo alla teoria pura. I ragionamenti sono logici o meno e non
degni di emendamenti, i quali vertono nel campo dell'empirico, in vista di fini pratici o di applicazione sto-
rica di sistemi e principii teorici.

II) Altra avvertenza. Il problema del prelievo dei tributi (in base ai criteri in cui ci si avvalga della
variabile utilità della ricchezza) è indipendente dal problema della utilità relativa dei servizi pubblici.
Si prescinde, in sede di analisi dei criteri informati alla variabile edonistica, dall'utilità dei servizi
pubblici perché, per definizione, si tratta di modi di distribuzione di servizi a costo e utilità indivisibile.
In proposito, ricordoe una singolare contraddizione in cui è caduto, da vari punti di vista, un fine
ingegno che risponde al nome di Ugo Mazzola135. Egli considera arbitraria l'ipotesi dell'andamento delle
curve dell'utilità quali sono state supposte dal Cohen Stuart o dal Bernoulli, «ed arbitraria la media delle i-
potesi arbitrarie». Inoltre cade nella confusione fra fra teoria ed empirismo, asserendo che «nulla prova»
che la curva di utilità sia quella ipotizzata dai suddetti autori.
Però il Mazzola, per dare una spiegazione dell'imposta progressiva non indugia a porre innanzi una
ipotesi non meno arbitraria di quelle criticate: «E’ assai probabile che si possa riuscire alla dimostrazione
che la somma delle utilità differenziali realizzate e successivamente accumulate dai possessori di redditi
crescenti, permetta una valutazione comparativamente più alta dell'utilità dei pubblici servizi». L'A. mette
in connessione detta ipotesi con il principio simultaneo della produttività crescente o dei compensi crescen-
ti, nel senso che «successivi investimenti di ricchezza nei servizi medesimi, danno fino ad un certo limite
un risultato più che proporzionale alle dosi di ricchezza investita». Ognuno può notare il largo margine di
arbitrio, rispetto ai fatti di cui si sono preoccupati i critici della spiegazione razionale, utilitaria dell'imposi-
zione progressiva, in questo «principio» del Mazzola.
Il saggio crescente di imposta si spiegherebbe con l'ammettere che i «servizi pubblici, considerati
come coefficienti di produzione o di godimento, acquisterebbero un carattere utilitario assolutamente più al-
to a misura che gli investimenti produttivi o i godimenti permessi dai redditi crescenti si verificassero» (p.
57).
Ma il Mazzola con questa costruzione: a) trasferisce nel campo della utilità dei servizi pubblici l'ar-
bitrio e le difficoltà teoriche che rileva nel criticare gli scritti altrui, basati sulla variabile della utilità decre-
__________
135
MAZZOLA U., L'imposta progressiva, Pavia, 1895.
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scente del reddito, al margine; b) non evita la critica della non comparabilità e non misurabilità degli ap-
prezzamenti utilitari oggettivi, a cui aderisce seguendo altri autori; c) non ci dà una spiegazione del modo di
variare della imposizione più che proporzionale fra gli infiniti saggi di variazione concepibili in base alla
ben discutibile utilità crescente dei servizi pubblici al crescere della ricchezza realizzata ed accumulata; d)
ci porta nel «momento» della produzione della ricchezza, laddove si discute della spiegazione di imposte
personali e progressive commisurate alla ricchezza complessivamente disponibile e godibile, dopo che essa
è stata prodotta.
In conclusione, non si fa un passo avanti nel campo scientifico introducendo l'utilità dei servizi
pubblici in sede di spiegazione del modo di ripartire i tributi. Comunque si contrappongono principio od i-
potesi arbitrarie ad altra ipotesi arbitraria che non si può rigettare (utilità marginale decrescente) in base alla
caratteristica che è comune (arbitrarietà) al principio ed alla ipotesi affacciata dal Mazzola.

III) Quanto alla pretesa contraddizione a cui pure (p. 42) il Mazzola accenna, fra utilità marginale
decrescente del reddito e costo crescente dell'ottenimento di essa, valgono le osservazioni che seguono. In
questa dimostrazione o presentazione critica dei modi di distribuire le imposte (proporzionali e progressi-
ve), invero, si prescinde dai sacrifici o dal costo dell'ottenimento della ricchezza che si ipotizza disponibile
nelle mani dei contribuenti. Cioè, si prescinde dal fatto che la ricchezza sia pervenuta con diverso sforzo (in
sede di produzione di essa), compreso il caso di accessione gratuita di essa nel bilancio dei contribuenti (per
donazione o successione). Infatti, come è stato avvertito (da L. Rossi, cit.) a proposito della introduzione di
detta circostanza (da parte del De Viti De Marco) nei ragionamenti che assumono a base l'utilità della ric-
chezza, la sede logica adatta (equilibrio edonistico nella produzione della ricchezza) è diversa da questa del-
la erogazione o del consumo della ricchezza.
Non nego che l'una fase (produzione od ottenimento della ricchezza) eserciti un'influenza sulla se-
conda (erogazione o consumo o godimento. Non avrebbe altrimenti valore alcuno la volgare opinione se-
condo la quale si dilapida più facilmente la ricchezza per cui non si sia faticato nell'ottenerla, che non quella
che si sia penato più o meno per produrre e conseguire. Il che significa che si apprezza meno la ricchezza,
ad es., ereditata od ottenuta mediante vincita ad uno dei tipi di lotteria che la società umana ha organizzato.
Ma si tratta di prima approssimazione o di ipotesi non univoca, che ammette addirittura l'ipotesi contraria.
Infatti nella mia traduzione dei Principii dello Stamp è detto, ad es.: «Forse la persona meglio qua-
lificata a giudicare se una data scala di progressione assicura un uguale sacrificio marginale, è colui che è
passato, in breve intervallo di tempo, da una situazione ad altra assai differente in seguito ad un grande
cambiamento di fortuna. Ciò, anche se fosse così commosso dal suo improvviso accrescimento di ricchezza
da prendere alla leggera il nuovo onere, fino a che si è abituato alle necessità sociali e al tenore di vita delle
nuove dimensioni del suo reddito. Come scrive Pascal: il costume è una seconda natura che distrugge la
prima», (p. 427 del vol. IX, Nuova Collana di Economisti).
Questo egli scrive, dopo aver ricordato, con le parole del Chapman, che l'utilità marginale della
moneta può essere maggiore, per una persona, dopo che le sue condizioni sono migliorate: «E' un caso co-
mune incontrare persone che hanno raggiunto un piccolo aumento di reddito ed i cui godimenti della vita
sono naturalmente aumentati in modo del tutto sproporzionato all'incremento di reddito» (pagg. 421-422).
Comunque, specialmente in una trattazione come la mia, della discriminazione qualitativa degli
imponibili, nella quale dominerà la variabile utilità subiettiva, la genesi della ricchezza disponibile troverà
la sede logica adatta.

IV) Infine non ritengo che, logicamente, lo studio degli effetti dell'operare dei come modi di distri-
buzione dei tributi debba precedere la scelta dei modi o criteri di ripartizione delle imposte, perché questa
posizione razionale è più propria degli studiosi di politica finanziaria, come si è visto nella Introduzione. La
sistematica di detta disciplina, come si ricorderà, considera relazioni fra mezzi e fini, che presuppongono,
per necessità logica, la nozione tendenziale degli effetti dei mezzi prescelti come idonei a far raggiungere
dati fini. Lo scettico Kendrick136 definisce sbrigativamente «defective» i criteri edonistici dell'utilità decre-
scente e del sacrificio, ma senza occuparsi di spiegare la realtà di detti motivi nella legislazione, nella mora-
le e nelle stesse ipotesi degli studiosi. Infine egli suggerisce di abbandonare la «nebulosa dell'edonismo».
L'imposizione progressiva, per lui, deve essere fondata sulla realtà del sistema economico, e le decisioni
debbono essere fondate su considerazioni economiche. Le imposte prelevate per azione collettiva hanno ef-
__________
136
KENDRICK, The ability-to-pay Theory of taxation, in American Ec. Review, 1939.
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fetti economici, con conseguenze per la società; e la scelta delle imposte con la preferenza per alcune di es-
se va vista alla luce degli effetti economici e sociali di esse. Questo, in sintesi, rileva Kendrick, è come se
scoprisse novità, dopo quanto si è visto e si vedrà in queste pagine. Ma, dopo avere saltato il problema della
spiegazione del senso in cui la variabile edonistica può influenzare la distribuzione dell'imposte, egli si po-
ne dal punto di vista della politica finanziaria o fiscale: scelta di mezzi rispetto a fini; oppure tiene conto dei
motivi empirici, che si elencano alla fine di questo capitolo, per indicare i principali fattori che contribui-
scono a determinare la progressività concreta delle imposte.
Nel capitolo che avrà per oggetto la ripartizione economica o di fatto dei tributi (effetti delle impo-
ste), partiremo da date distribuzioni formali di esse, ovvero dalla ipotesi di modi di distribuzione legislativa
per analizzare le conseguenze che ne derivano sui rapporti di scambio fra singoli o sulle quantità global-
mente considerate: produzione, consumo ecc.

IV.

LEGITTIMITA LOGICA E FECONDITA TEORICA DELL' IPOTESI


DI UNA DECRESCENZA «TIPICA» DELL’UTILITA MARGINALE
DEL REDDITO, SECONDO IL GIUDIZIO DELLA CLASSE GOVERNANTE

Fatte queste avvertenze di metodo, mi soffermo su due rappresentativi autori italiani, il De viti De
Marco e l’Einaudi. Il primo trova che la spiegazione del tributo stia quasi esclusivamente nel campo politi-
co, e nega che essa sia rintracciabile razionalmente in campo economico. All'Einaudi, ho già più volte ho
già fatto riferimento, ha espresso opinione analoga;
In generale questi autori (che non sono la maggioranza), giustificano il loro atteggiamento su af-
fermazioni come le seguenti:
1) Ponendosi da un punto di vista estremamente atomistico, cioè riferendosi a tutti i singoli compo-
nenti la collettività (e non «contentandosi di una curva di utilità del reddito» che il «legislatore suppone
propria di una astrazione detta uomo medio»), l'Einaudi asserisce che allo stato attuale delle conoscenze,
nessuno è riuscito a varcare il ponte fra: 1) le valutazioni individuali, difformi l'una dall'altra ed inconosci-
bili, della curva di utilità della ricchezza; 2) la uniforme valutazione statale.
2) Non esiste uno strumento introspettivo, il quale fotografi le reazioni psicologiche quantitative di
ogni uomo di fronte all'acquisto od alla privazione delle successive unità di ricchezza. Siffatto strumento
chiama “psicoscopio”, e la sua esistenza sarebbe «condizione necessaria per la costruzione di un tipo razio-
nale di imposta progressiva» («manometro morale» lo denominava il Loria).
3) Non esiste ponte di passaggio (no bridge) dalla coscienza di uno a quella di un altro.
4) La supposizione che la scala di decrescenza sia uniforme per tutti è un'ipotesi «intieramente di-
sforme dalla realtà».
5) La scala della decrescenza non è uniforme bensì variabile e variabile secondo regole non cono-
sciute o conosciute in modo così imperfetto da non consentire alcuna misurazione.
6) In finanza non si fa della logica per fare della logica. Il finanziere pratico non è propenso alle e-
sercitazioni astratte, che possono invece essere utili in scuola allo scopo di addestrare i giovani al ragiona-
mento.
7) Quando sarà dagli economisti costrutta una teoria sicura della misurabilità dell'utilità, i finanzieri
potranno, a loro volta, affrontare il problema e gli uffici statistici costruiranno indici misuratori (dell'utili-
tà).137
De Viti De Marco, con minor foga polemica ma con non minore fermezza, aveva negato la teoria
economica dell'imposta progressiva:
a) Il principio del valore subiettivo non consente confronti di sensibilità - ossia di dolore e di piace-
re, di sacrificio e di godimento fra individui diversi, e non consente l'ipotesi che la scala del sacrificio sia
uniforme per i (tre) contribuenti (ipotizzati in un esempio numerico); ché anzi «è più probabile» che le scale
__________
137
Rinvio a EINAUDI L., Principii e a Miti e paradossi della giustizia tributaria.
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siano diverse; a parità di reddito, il dolore o sacrificio (della medesima imposta) di due contribuenti «può
essere» e «di regola» è diverso.
b) Il principio progressivo resterebbe dimostrato nell'ambito autonomo di ogni singola economia e
ne sarebbe resa impossibile l'attuazione per la impossibilità teorica di confrontare le scale progressive dei
varii contribuenti, e per l'impossibilità tecnica di stabilire imposte per ogni individuo.
Sembra basti questa scelta di affermazioni per poter vedere in esse una confusione di punti di vista
metodologicamente e logicamente eterogenei. Inoltre questi (ed altri autori come Barone, Fasiani, ecc.) non
fanno posto, dovuto come avviene in tutte le scienze e in fisica in particolare, all'ipotesi, proprio in sede di
ricerca od analisi o di ragionamenti astratti.
Quanti, assai probabilmente, avranno criticato in cuor loro la valorizzazione gnoseologica dell'ipo-
tesi nelle scienze possono, ora, rendersi conto della importanza che deve annettersi alla supposizione di cer-
te premesse dei ragionamenti logici.
Prima di porre innanzi gli strumenti di logica e simbolici che servono alla dimostrazione, in via ipo-
tetica, delle intuizioni e dei fatti in cui esse vivono (leggi fiscali che esistono e, tendenzialmente, si svilup-
pano come numero e importanza storica), occorre rintracciare l'esigenza logica di detta dimostrazione nel
pensiero degli autori qui ricordati (A. De Viti De marco e L. Einaudi), come critici scettici.
Invero Einaudi vede l'astrazione di uomo medio, come se essa fosse più legittima in concreto (fatta
dal legislatore) e invece non razionalmente legittima in via ipotetica, fatta dallo studioso, che spiega l'attivi-
tà della classe governante per lo Stato. Pare non si venga meno al fine di conoscenza neanche quando si
compiono le esercitazioni scolastiche. La «convinzione che ogni singolo studioso si è formata intorno a
quel che egli crede sia la sensibilità dell'uomo medio rispetto alle dosi successive di ricchezza», è una ipote-
si, che non si può dire sia «intieramente» contro la realtà o in contraddizione completa con essa, se proprio
le intuizioni, che ho in precedente paragrafo illustrato, vengono dagli interpreti della realtà che lo studioso
si accinge a spiegare.
Dopo avere detto che «in materia di fondamento, giustificazione, base, punto di partenza per la di-
stribuzione dell'imposta brancoliamo talmente nel buio che bisogna aggrapparci a qualsiasi rampino per an-
dare avanti», Einaudi vuol rassegnarsi a riconoscere che si tratta di «rampini, espedienti, predilizioni, ecc.
tutto salvo che di proposizioni economiche anzi scientifiche» e non fa posto alle ipotesi in base alle quali
procede qualsiasi scienza.
A probabilità che le scale di utilità di vari contribuenti siano diverse, non ad impossibilità del con-
trario, ha accennato il De Viti: e su probabilità che le ipotesi interpretino la realtà da spiegare o si approssi-
mino ad essa si basa la scienza senza dichiararsi in ogni caso impotente a spiegare i fatti. Nel caso nostro, la
teoria sarebbe incapace di dimostrare le generali e universali intuizioni, affermate anche da autori, come
quelli qui citati, che diremo «scettici» ed altri che si trovano in questo discutibile ordine metodologico e lo-
gico.
Ancora una volta debbo ricordare che neanche la genesi del tributo come prezzo non libero, ma im-
posto a titolo di quota di rimborso del costo dei servizi ad utilità indivisibile, sarebbe razionale, se si acce-
desse a posizioni mentali come quelle qui criticamente esposte. Il massimo di utilità per la collettività, con-
cepito razionalmente dal Pareto, non sarebbe da ammettersi né in sé né per l'uso che ne ho fatto per la con-
trapposizione univoca dei tributi alle forme di entrate non tributarie. Anche in quel caso si trattava di co-
struire ponti fra le ofelimità o utilità soggettive dei singoli, per la spiegazione del quantum da prelevare per
soddisfare bisogni pubblici, cioè immaginati o interpretati dallo Stato. Questo facevo nello spirito dei mas-
simi edonistici collettivi, ideati e vagliati per conto di più individui, dai terzi, come impostati da Maffeo
Pantaleoni. Nessuno ha preteso di dare, che io sappia, valore storico-statistico ai coefficienti che figurano
nella equazione Paretiana del massimo di utilità per la collettività. Tali coefficienti di variazione di utilità
soggettiva erano riferiti ai singoli soggetti od a tipici gruppi di membri della collettività, ipotizzati per dare
la razionale ed economica spiegazione del fenomeno.
Il concetto di soggetto tipico, o medio o che presenti le caratteristiche più frequenti, è quello che fi-
nisce, peraltro, per dominare anche nelle costruzioni di teoria pura economica. Mi riferisco di nuovo al Pa-
reto per ricordare che si «deve giudicare una teoria generale in base a fatti generali e medi» (Corso, vol. I.
p. 25). Ebbene al concetto del tipo medio o modo più frequente di reazione dei soggetti economici, al varia-
re delle dosi di ricchezza a disposizione ovvero in tema di ofelimità, fa riferimento il Pareto dando forza al-
la ipotesi che può consentire di fornire la dimostrazione delle inoppugnabili intuizioni di tipo a), b), c) so-
pra esposte.

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Pongo in relazione alcune proposizioni significative, ai fini del problema da risolvere in queste pa-
gine, in tema teorico di distribuzione delle imposte.
«Tra due soggetti distinti, nessun confronto di ofelimità è, a rigore, possibile. L'affermazione, che
un essere umano gode di una maggiore quantità di ofelimità di un altro, non può avere alcun senso: come
mai potrebbe una cosa essere maggiore o minore di un'altra se è impossibile confrontarle? Come si può de-
cidere se l'uomo preistorico era più o meno felice dell'uomo civile moderno? Si può mai decidere se la for-
mica sia o più o meno felice dell'uomo; il leone più o meno felice della gazzella? » (Corso, vol. II p. 51).
«Eppure se ci si astiene, in genere, da questi ultimi confronti, si confrontano invece, ogni giorno, le
sensazioni di uomini di una stessa società e, talvolta, di società diverse. Possiamo, col pretesto che non si
possono confrontare le sensazioni di due esseri distinti, ammettere che tutti questi ragionamenti siano erro-
nei e riposano interamente su un'illusione? Siffatta conclusione sarebbe contraria al buon senso e manife-
stamente assurda. Sembra dunque che vi sia una contraddizione che bisogna spiegare».
Pareto fa una efficace analogia con le sensazioni fisiche dei colori, per i quali «è vero, a rigore, che
è impossibile confrontare la sensazione che un individuo riceve da un colore con quella che ne riceve un al-
tro». «Eppure - continua - una infinità di azioni, anche fra le più importanti, riposano, nella società, sulla
convinzione che gli uomini percepiscano all'incirca nella stessa maniera i colori. La prima ha presenti due
individui determinati; la seconda degli individui che non si scostano troppo da un certo tipo medio». Pas-
sando ai problemi della scienza economica, ammonisce il Pareto : «Bisogna ben persuadersi che i fenomeni
studiati dall'economia politica e dalla scienza sociale sono dei fenomeni generali e medi e che si perviene a
risultati assurdi se si pretende di sostituir loro fenomeni individuali e singolari».
Tornando al caso dell'ofelimità o dell'utilità soggettiva, su cui interessa tanto autorevole e ragionata
testimonianza, continua: «Vediamo ora che non vi ha alcuna contraddizione tra l'affermazione che non si
possono confrontare le ofelimità di cui godono due distinti esseri viventi e i confronti quotidiani che si fan-
no fra il benessere di certi uomini e quello di certi altri. Si tratta, in realtà, di due cose del tutto diverse. Nel
primo confronto si hanno presenti due individui determinati; nel secondo degli individui che non si allonta-
nano troppo da un certo tipo medio».
«La base di tutti i confronti che noi facciamo è dunque la supposizione che negli uomini posti a raf-
fronto esista un certo fondo di qualità comuni. In seguito si può tener conto delle differenze che tali uomini
presentano; ma, lo si tenga ben presente, si suppone sempre che questo fondo comune esista» (p. 54).
«Se si potesse stabilire una classificazione gerarchica dei bisogni, si potrebbe concludere con tutta
certezza che gli uomini che possono soddisfare solo i bisogni più urgenti sono più disgraziati di quelli che
possono soddisfare pure i bisogni meno urgenti. Una consimile classificazione non si può stabilire che per
un certo tipo medio e noi siamo così ricondotti al criterio che abbiamo già precisato (a proposito di confron-
tabilità delle ofelimità)».
Intendo a questo proposito, ricordare un'altra posizione ipotetica del Pantaleoni, uno dei massimi
analizzatori della variabile edonistica nel campo economico, per il conforto che il suo pensiero apporta in
tema di assunzione di uniformità di variazione della curva di utilità del reddito complessivo di soggetti (e
famiglie) tipici.
Proprio nell'analisi degli effetti comparati di diverse imposte (dirette o indirette) a parità di prelievo
- teorema su cui intratterrò pin oltre studenti e lettori - analizzando bilanci di famiglia come modelli di
«modi» di distribuzione del reddito fra i vari consumi, egli affermava (nel saggio che si può leggere nel vo-
lume Studi di finanza e di statistica, ZanichelIi, 1938):
I) «I bilanci di famiglia palesano, nelle loro quantità assolute e nei rapporti percentuali dei mede-
simi, linee precise di movimento, a seconda delle variazioni dei prezzi e dei redditi, linee che sono empiri-
che e che devono essere tali agli scopi di ogni diagnosi concreta, ma che rispecchiano, quando si generaliz-
za, con grande approssimazione la legge delle utilità marginali» (138).
II) «L'effetto di un'imposta è quello di una forza che determina una redistribuzione dei redditi in
modo che, da quella che essa era, diventa quella che si ha nella classe immediatamente inferiore: oppure
se l'imposta è forte, essa diventa quella che è per una classe di redditi ancora inferiore».
III) Ma ancora più importante è il legame con il modo di variare della utilità marginale: «Occorre
(per qualificare la proposizione di cui al punto II) in primo luogo ricordare che parliamo di piccole varia-
__________
138
Sulla luce che gettano i modi omogenei di distribuzione del reddito fra i vari consumi, mi sono intrattenuto nello
scritto giovanile sulla crisi dell'imposta personale sul reddito Cedam, 1931 per illustrare il fondamento logico di u-
n'imposta sul reddito consumato, .personale e progressiva.
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zioni; che se fossero grandi manca l'esperienza psicologica in coloro che sono buttati giù dalla scala sociale,
come manca a coloro che sono stati portati su, perché le loro curve di utilità coincidano con quelle di colo-
ro che da tempo sono adagiati in una classe di reddito».
Ho voluto sottolineare la ammissione ipotetica di Pantaleoni della, addirittura, coincidenza di curve
di utilità di persone diverse per il solo fatto del variare del reddito, perché questa supposizione legittima la
possibilità teorica di tracciare una curva unica di variazione dell'utilità col variare del reddito, in rapporto a
detta rappresentazione soggetti diversi (quando le variazioni siano piccole nei redditi). Le divergenze dal
moto teorico sono spiegate dall'autore illustre sia per salti notevoli di reddito sia per altri adattamenti psico-
logici.
La lunga citazione del Pareto e il riferimento ulteriore al Pantaloni, non erano evitabili, dopo la gra-
ve affermazione esplicita dell'Einaudi che non appartiene alla economia (finanziaria in ispecie) la spiega-
zione dell'imposta progressiva, per la non confrontabilità delle utilità, ed altre implicite o indirette, affini
obiezioni su esposte.
Leggesi nel Corso di economia politica di Pareto (vol. I) che non bisogna confondere due questioni
assai diverse: quella dell'esistenza di una quantità e quella dei mezzi pratici per misurarla. «Le distanze del-
le stelle dalla terra sono delle quantità di cui è certa l'esistenza. Alcune soltanto di tali distanze sono state
misurate e in modo assai imperfetto. Dalla sola circostanza dell'esistenza di una quantità si traggono impor-
tanti conseguenze». E riferendosi, a proposito dell'ofelimità, ai fenomeni economici, il Pareto rilevava come
«con l'osservazione di essi si potrebbero indirettamente ottenere i valori, nello stesso modo in cui si dedu-
cono le lunghezze delle onde luminose dall'osservazione dei fenomeni ottici. E appunto l'osservazione quo-
tidiana fa accertare la diminuzione delle ofelimità con l'aumento della quantità consumata di un bene» (pa-
ragrafi 16 e 17).
Questi ultimi potrebbero essere riferimenti a ricerche statistiche, come quelle tentate dal Fisher e
dal R. Frisch per la misura dell'utilità marginale della moneta, ricerche non ancora soddisfacenti, ma in cui
lo stesso Einaudi mostrava di credere, come campo d'osservazione (139).
Ma non si può dire che «non esista» la teoria, che è ipotetica, se non esiste l'accertamento dei fatti
più o meno corrispondenti. Invero proposizione veramente scientifica è quella che Einaudi enuncia nei se-
guenti termini (a p. 108): «la fecondità di un principio non si misura dalla immediatezza delle applicazio-
ni». Questo asserisce dopo avere rimproverato, ai critici dello Stuart Mill, «di confondere grossolanamente
il ragionamento di principio con lo studio delle applicazioni concrete dei principio».
A chiarimento di rappresentazioni, che seguiranno, geometriche ed analitiche dell'utilità marginale
(e totale), ricordo che la letteratura più razionalmente aggiornata in campo economico ha tenuto conto della
distinzione fra quantità misurabili direttamente (a cui può essere applicato l'aspetto cardinale dei numeri),
e grandezze non misurabili direttamente, a cui può essere riferito l'aspetto ordinale dei numeri.
Ordinale è considerata l'utilità dei beni e del reddito che li rappresenta tutti. (Il Boulding in Econo-
mic Analysis, 1948, la denomina «intensive magnitude», contrapposta a quelle «extensive», come la lun-
ghezza, il peso e il tempo direttamente misurabili e addizionabili in particolare).
Ma è logicamente possibile considerare una grandezza non direttamente misurabile come dipenden-
te da variabili misurabili. La grandezza (o concetto) di detta utilità, che è di natura ordinale, può essere po-
sta in relazione di dipendenza con la quantità misurabile, ad es. bene o reddito, secondo la funzione dell'uti-
lità totale:

y = f(x)

la cui derivata y' = f'(x) esprime con l'utilità marginale il modo di variare dell'utilità allorché la quantità x
aumenti ad ( x+dx) (per dx tendente a zero).
Se si considera l'area racchiusa fra la curva della funzione f'(x), l'asse delle ascisse, l'asse delle y e
l'ordinata di un punto generico x = a, si ha la possibilità di dare significato all'integrale definito che, appun-
__________
139
Asseriva egli infatti nei Miti e paradossi della giustizia tributaria: «Con l'esame di un numero sufficiente di bi-
lanci di famiglia, distinti per classi di reddito, professione, di origine sociale, di dimora, in rapporto alle variazioni dei
prezzi, potrà forse qualche futuro statistico costruire indici misuratori, soggetti a revisioni continue, delle reazioni psi-
cologiche alle variazioni della ricchezza».
Per gli studi del Frisch rimando al vol. «Economia pura» della Nuova Collana di Economisti ed alla critica, senza
scetticismo, del Vinci nella «Rivista italiana di economia e statistica», 1935.
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to, misura l'area medesima, e che per l'intervallo (a, b) che definisca la funzione f(x), notoriamente si espri-
me simbolicamente con

∫a f' (x)dx
volgarmente detta somma di infiniti prodotti infinitesimi, che consentono di conferire la proprietà additiva
all'area, con un processo, come si vede, indiretto (di dipendenza funzionale della grandezza utilità, ordina-
le, da variazioni di una quantità direttamente misurabile x, bene fisico o reddito monetario.
Voglio anche ricordare un altro grande economista, l'Edgeworth, cimentatosi, appunto, nella ricerca
di un «modo» di ripartizione delle imposte a cui di seguito si accennerà, basata anche essa su ipotesi di de-
crescenza e di confronti dell'utilità marginale del reddito.
Egli si riferisce al Sax che, in tema di imposta progressiva, obiettava che «da premesse non provate
non può mai seguire una conclusione che si deve considerare come provata, da mere ipotesi non può mai
derivare un fatto reale». L'Edgeworth ribatte: «il carattere di certezza della conclusione, mentre sono incerte
le premesse, ricorre frequentemente in quel ramo della scienza matematica, che essendo applicato ai rappor-
ti umani, è più strettamente affine all'economia pura, cioè il calcolo della probabilità. Nello stabilire la pro-
babilità che un dato effetto sia derivato da una certa causa, è generalmente necessario usare certe quantità
chiamate probabilità a priori o antecedenti sulle quali nulla è noto, eccetto che esse non sono molto piccole
(o molto grandi o molto diseguali)
Con ciò Egli sta nel solco delle leggi che contrastano con il timore eccessivamente manifestato dal-
l'Einaudi e da altri circa l'arbitrio delle ipotesi che si assumono per dare la spiegazione razionale dell'impo-
sta progressiva. Qui noi ci facciamo uso di ipotesi probabili più o meno nello spirito della visione Paretiana,
che accredita il ricorso al concetto di tipo medio di individuo, in campo in cui occorrerà trattare del con-
fronto, nel giudizio della classe governante, fra ricco e povero, nella ripartizione delle imposte.
Anche quanti muovono obiezioni alla utilità decrescente quale fondamento della progressività delle
imposte, finiscono per conformarsi a questo tipo di ipotesi. All’estero, sono inclusi, fra questi, il Chapman e
il Fagan.
Il primo eccepisce che scostamenti dalla legge di tendenza normale (decrescenza dell'utilità margi-
nale) siano in parte plausibili ed ovvi. Lo stesso Chapman, però, ammette che lo Stato non deve avere molti
riguardi per i singoli, ma assumere la stessa ipotesi che è indispensabile in una dottrina così eminentemente
politica (intendasi che affronta fenomeni di massa) e adottare una forma o tipo medio per l'intiera classe.
Questa che sottolineo, come si vede, è la posizione di coloro che fanno obiezioni di principio, dal lato della
differenziazione atomistica dei singoli componenti la collettività! Si veda in proposito la mia citata tradu-
zione (in collaborazione col Borgatta) dei Principii dello Stamp, in Nuova Collana di Economisti, cit.
E questa ipotesi di decrescenza tipica viene riferita dal Taylor (op. cit.) a intere classi di redditi oltre
che a singoli. La negazione di questa «typically marginal utility curve», che è stata avanzata da Fagan (Re-
cent and contemporary theories of progressive taxation, Journal of pol. ec., 1938) è verosimilmente asserita
come conoscenza empirico-statistica. Ma ciò non autorizza la conseguenza non logica che, per questo, l'im-
posta progressiva possa essere giustificata su basi etiche.
Il Cohen Stuart ha finemente argomentato assumendo l'ipotesi di un'unica curva di utilità, basata
sulla premessa che «lo stesso percento di reddito procaccia a ciascuno un godimento eguale», e l'ipotesi che
il grado di utilità dev'essere inversamente proporzionale all'ammontare del reddito. Questa ipotesi è del
Bernoulli.
Ciò posto egli ammette la linea di utilità possa notevolmente divergerne, differenziatamene per
gruppi ed epoche. Ma anche ritiene che «per redditi molto grandi» o «per l'ultimo tratto» quella linea di uti-
lità «probabilmente divergerà assai poco dalla ipotesi; così poco che si può calcolare che essa coincida con
quella»140.

__________
140
COHEN STUART, Contributo alla teoria della imposta progressiva sul reddito, 1889, Biblioteca dell'Economista,
V serie, vol. XV, paragrafi 17-20.

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V.

UNA «TIPICA» DECRESCENZA DELLA UTILITÀ MARGINALE DEL REDDITO,


ASSUNTA COME IPOTESI RAZIONALE IN QUESTO CORSO.

Il concetto di curva media di utilità decrescente del reddito, o con andamento più frequente o nor-
male viene da risultati provvisori e tendenziali, tuttavia significativi, di altre «scienze» che assumono il
nome di sociologia o psicologia sociale e anche con la «Teoria sociale della scienza delle finanze» del Se-
ligman (nel cit. volume IX della Nuova Collana di Economisti).
E’ vero che si crede poco a dette sistemazioni teoriche, che stanno ancora fra le intuizioni e le di-
mostrazioni. Ma non si può negare un certo valore orientativo alle uniformità, che frattanto vengono tratte
dalle osservazioni dei fatti, come fenomeni di massa.
In scritti della Montessori, benemerita dell'orientamento educativo dell'infanzia, si legge «che l'in-
dividuo non può scindersi dall'ambiente». Questa tesi è tanto più profonda per la vita psichica, pur sapendo
“che l'individuo, non il suo ambiente, ha una vita a se».
Ma per il nostro problema è interessante la letteratura che tratta della mentalità di un gruppo (group
mind) o mentalità collettiva (collective mentality), nel campo della psicologia sociale o psicobiologia socia-
le. Per essa è «indiscutibile il fatto che gli individui sono influenzati nei loro gusti, fini, modi e morale dal
gruppo sociale in cui capita di nascere o a cui appartengono nella loro vita». Vi sono molte limitazioni ed
eccezioni.
L'osservare una organizzazione collettiva con mentalità individualistica, la quale oppone che si trat-
ta di forze inosservabili e intangibili, è fare critica esatta. Ma negare il problema non è risolverlo. E intanto
va divenendo sempre più generale la conclusione che (qualunque siano gli individui che compongono tin
gruppo psicologico, comunque simili o dissimili siano i modi di vivere, le occupazioni, il carattere rispetti-
vo, l'intelligenza), il fatto che si siano trasformati in gruppo li pone in possesso di una specie di mentalità
collettiva. E questo li fa sentire, pensare, agire in modo del tutto differente da quello secondo il quale ogni
individuo sentirebbe, penserebbe e agirebbe in uno stato di isolamento (141).
A questo tipo di trattazioni teoriche forse ha attinto il Seligman nel trattare della Teoria sociale del-
la scienza delle finanze. Ma ciò che è interessante è che le affermazioni del Seligman hanno avuto la incon-
dizionata adesione del Fasiani, nello stesso volume (primo) dei Principii, poche pagine dopo avere scredita-
to le «falangi di scrittori che si sentirono commossi all'idea di una imposta progressiva e si affannarono alla
ricerca di un principio scientifico, che» - a suo parere - «non esisteva e non esiste». E rileva che «ancor oggi
i trattati di finanza sono pieni di dimostrazioni basate sulle più arbitrarie interpretazioni della legge di Gos-
sen» (sulla decrescenza dell'utilità).
__________
141
Si vegga: BROWN J. F., Psichology and the social order, Mac Graw Book Companv, New York, 1936.
Giova ricordare - nonostante le critiche che si rivolgono al Pareto per i riferimenti sociologici a fatti del suo tempo -
l'odierna testimonianza, sia pure legata alla cronaca, come incidentale circostanza che l'ha fatta esprimere a proposito
di un'inchiesta sull'andamento del prezzi nel mondo, su cui ha scritto sul Tempo, Roma, il 27-2-1951, di uno studioso
di problemi, si potrebbe dire, esattamente, di psicologia collettiva o di sociologia, quale è il prof. Prezzolini che pro-
fessa detta scienza sociale alla Columbia University di New York. Occupandosi, in base ai bilanci di famiglia, del co-
sto della vita media negli Stati Uniti, documenta che «la differenza fra il modo di vivere dei ricchi e dei poveri non è
così sensibile come in Europa, e questo non tanto perché i ricchi e i poveri non ci siano, ma perché la vita del ricco
non è molto diversa per gusto, nelle cose fondamentali, da quella del benestante e quella del benestante non è molto
differente, per questo, già quella del povero. Il ricco si pagherà una crociera o un viaggio in Europa che il benestante
non può pagarsi; e il benestante si pagherà una serata in un club di notte che il povero non potrebbe avere. Ma il loro
modo mangiare e di spendere per le cose più comuni, non è gran che diverso. Il cibo e le letture di Truman non sono
molto superiori a quelli di un impiegato comune. Quindi la cifra delle spese medie di una famiglia negli Stati Uniti ri-
specchia più realisticamente il modo di vivere della maggioranza».
Si ponga mente alla correlazione che Pantaleoni ha istituito più coraggiosamente di altri economisti fra orientamento
del bilancio e andamento dell'utilità, e si vede quanta parte di fondo comune, per dirla col Pareto, esiste negli uomini
in tema di apprezzamenti edonistici e quanto risulti alquanto fondata e tutt'altro che «intieramente» discorde dal con-
creto, l'assunzione di un modo uniforme e tendenziale di decrescere dell'utilità del reddito, con l’aumentare degli in-
crementi positivi di esso a disposizione delle persone fisiche.
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Fasiani accetta i seguenti concetti e le seguenti uniformità di Seligman:


I) L'azione di ogni individuo non è soltanto influenzata dall'esistenza di altri membri del gruppo,
ma assorbita dalla azione del gruppo. L'individuo ora agisce non in modo indipendente ma all'unisono con
gli altri. I suoi sentimenti personali, come essere isolato, ora sono influenzati dai suoi sentimenti come
membro del gruppo. Tutta la sua psicologia cambia. Tutto ciò che egli avrebbe fatto come individuo isolato
ora non lo fa più. Quello che fa ora come membro del gruppo è qualcosa di diverso da ciò che avrebbe fatto
se non vi fosse stato alcun gruppo.... .
II) Dacché singole persone distinte entrano a far parte di un gruppo che soddisfa a bisogni comuni, i
bisogni separati degli individui sono sommersi. Ma se i sentimenti personali degli individui sono assorbiti o
tramutati nella psicologia molto diversa di membro del gruppo, è quasi indifferente che noi parliamo dell'e-
sistenza del gruppo come tale o dell'esistenza dei sentimenti di un gruppo degli individui, considerati distin-
ti dai loro sentimenti separati. Il punto importante è che il membro del gruppo sente ed agisce in un modo
diverso dall'individuo che non appartiene a nessun gruppo o dall'individuo isolato….. Abbiamo, in altre pa-
role, non semplicemente una somma di individui isolati, ma una trasformazione di individui isolati in mem-
bri di gruppo, vale dire qualche cosa di più di una somma.
Dopo l’adesione del Fasiani a questi concetti del Seligman, si spiega l'atteggiamento nel senso della
sua ammissione (Principi, II volume) della: a) possibilità di costruire la curva (unica) che «rappresentando
l'utilità di soggetti medii delle vane classi, può grossolanamente rappresentare le valutazioni di un perso-
naggio metafisico che possiamo chiamare contribuente, dotato della sensibilità media dei soggetti rappre-
sentativi delle varie classi di redditieri»; b) dell'esistenza di «buone ragioni per ritenere che nel giudizio del-
la classe eletta, la curva così costruita abbia un andamento decrescente».
Quanto precede vuole fare comprendere come la posizione mentale individualistico-atomistica,
scettica di autori che ragionino, per intenderci, come De Viti De Marco, Einaudi, Barone e seguaci, non pa-
re atta ad inquadrarsi nella visione che anima tutte le scienze nelle odierne ricerche in ogni campo del pen-
siero.
Molti hanno citato Mac Culloch, che opponeva (a quanti tendevano ad abbandonare la tassazione
proporzionale in favore di quella progressiva, basata sulla decrescenza dell'utilità marginale, non misurabi-
le) che ciò era come «mettersi in mare senza bussola o compasso». A ciò è stato risposto che basta per la
teoria che l'utilità marginale diminuisca tipicamente.
Ma sopratutto si è risposto con le affermazioni di Cohen Stuart, secondo cui: «con l'assumere la
proporzione si commette un errore; è possibile cercare una scala di progressione della quale possa dirsi che,
assumendola, si commetterà un errore minore»; oppure si è risposto con le affermazioni di Taylor, secondo
cui «la scelta fra tassazione proporzionale e progressiva è una scelta fra certa ingiustizia e incerta giustizia».
Del resto, il fatto che quasi tutti gli studiosi abbiano trattato questa problematica prova che la ricer-
ca appartiene alla scienza pura. Altra cosa è che alcuni concludano, con visione atomistica, in senso negati-
vo e che altri, con i criteri di tipo “Pantaloni” e, più ancora, di tipo “Pareto”, con cui si affrontano i proble-
mi di massa, concludano in senso positivo sulla legittimità logica che l’utilità marginale sia decrescente
(142).
__________
142
Per dare un'idea di quella che sarebbe la posizione scientifica di un passivo osservatore di fatti a cui si precluda la
legittimità logica di una ipotesi verosimile sul modo di variare dei sacrifici connessi, in sede edonistica, con il paga-
mento dei tributi, espongo la paradossale visione di una società in cui l'etica corrente e meglio dominante sia la base
della politica di distribuzione delle imposte fra i ricchi e poveri. Mi riferisco alla umoristica e sarcastica visione degli
uomini paludati a guisa di pinguini, nella società che nell'Ile des pingouins cap. V A. France descrive, peraltro con
preconcetta tesi anticonfessionale. E i discorsi riferiti dal France si sentono, sia pure in termini diversi, ma alquanto af-
fini nei comizi e nei parlamenti delle società umane:
« E il vecchio Maël disse poi:
- Ora che noi abbiamo un registro di tutti gli abitanti, conviene, Bulloch mio, levare una imposta equa, a! fine di
sopperire alle spese pubbliche e at mantenimento dell'abbazia. Perciò, figlio mio, convocate gli Anziani d'Alca, e d'ac-
cordo con essi noi fisseremo l'imposta.
Gli Anziani, essendo stati convocati, si riunirono in numero di trenta, nel cortile del monastero di legno, sotto il
grande sicomoro. Essi costituirono i primi Stati di Pguinia. Essi erano formati per tre quarti da grossi contadini della
Surelle e del Clange, Greatauk, essendo il più nobile dei Pinguini, si sedette sulla pietra più alta.
Il venerabile Maël prese posto in mezzo ai suoi religiosi e pronunciò queste parole:
- Figlioli, il Signore dà, quando a lui piace, le ricchezze agli uomini e le riprende loro. Ora, io vi ho riuniti per levare
sul popolo delle contribuzioni al fine di sopperire alle spese pubbliche e al mantenimento dei religiosi. Io penso che
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VI.

I PRINCIPII DEL SACRIFICIO: a) EGUALE, b) PROPORZIONALE, c) MINIMO COLLETTIVO.

Per la spiegazione dei «modi» di ripartire le imposte generali con cui si fronteggiano i costi dei ser-
vizi pubblici indivisibili, con l'introduzione della variabile utilità (soggettiva), occorre rifarsi al criterio di
eguaglianza, enunciato da politici (legislatore), moralisti, sociologi e precettisti.

A) L'eguaglianza può essere espressa in termini obiettivi o monetari, nel senso che ogni membro
della collettività contribuisca in proporzione dei propri averi o in rapporto alla capacità contributiva, rap-
presentata dalla ricchezza sotto la specie dei redditi o dei patrimoni.
Il principio è stato detto della eguaglianza del rapporto monetario fra reddito ceduto al settore
pubblico e reddito privato complessivo (o patrimonio complessivo), per le imposte personali o generali. Il
termine «complessivo» non ha motivo di essere per le imposte reali sui singoli redditi, patrimoni di singole
specie, ecc.
Opportunamente il Cohen Stuart dice che il principio della capacità contributiva «non dà una misu-
ra per la ripartizione dell'imposta, quanto serve piuttosto a determinare l'oggetto dell'imposta».

__________
queste contribuzioni debbono essere in proporzione alla ricchezza di ciascuno. Dunque colui che ha cento buoi ne darà
dieci; colui che ne ha dieci ne darà uno.
Quando il santo uomo ebbe parlato, Morio, agricoltore di Anis-sur-Clange, uno dei più ricchi fra i pinguini, si alzò e
disse:
- O Maël, padre mio, io penso che è giusto che ciascuno contribuisca alle spese pubbliche e della Chiesa. Per ciò che
mi riguarda, io sono pronto a spogliarmi di tutto ciò che possiedo nell'interesse dei miei fratelli pinguini e, se corresse,
io darei di tutto cuore anche la camicia. Tutti gli anziani del popolo sono disposti, come me, a sacrificare i loro beni; e
non si potrebbe dubitare della loro devozione assoluta al paese e alla religione. Bisogna dunque considerare unicamen-
te l'interesse pubblico e fare ciò che esso impone. Ora ciò che esso impone, o padre mio, ciò che esso esige, è di non
domandare molto a coloro che possiedono molto; perché allora i ricchi sarebbero meno ricchi e i poveri più poveri. I
poveri vivono del beni dei ricchi; è perciò che questi beni sono sacri. Non toccateli: sarebbe una malvagità gratuita. A
prendere ai ricchi, voi non ricavereste grande profitto, perché essi non sono affatto numerosi; e voi vi privereste, al
contrario, di ogni risorsa, gettando il paese nella miseria. Mentre, se voi domandate un po’ d'aiuto a ciascun abitante,
senza riguardo alla sua ricchezza, voi raccoglierete abbastanza per i bisogni pubblici, e voi non dovrete investigare ciò
che possiedono i cittadini, che considererebbero ogni ricerca di questa natura come una odiosa vessazione. Caricando
tutti ugualmene e lievemente, voi risparmierete i poveri, poiché lascerete loro i beni dei ricchi. E come sarebbe possi-
bile proporzionare l'imposta alla ricchezza? Ieri io avevo duecento buoi; oggi ne ho sessanta, domani ne avrei cento,
Ciunic ha tre vacche, ma esse sono magre; Nicclu non ne ha che due, ma sono grasse. Fra Clunic e Nicclu chi è il più
ricco? Gli indici di opulenza sono ingannatori. Ciò che è certo è che tutti bevono e mangiano. Tassate gli uomini su
ciò che consumano. Ciò sarà la saggezza e la giustizia.
Così parlò Morio, fra gli applausi degli Anziani.
- Io domando che si incida questo discorso su delle tavole di bronzo, esclamò il monaco Bulloch. Esso è dettato per
l'avvenire; fra millecinquecento anni i migliori fra i Pinguini, non parleranno altrimenti.
Gli anziani applaudivano ancora, allorché Greatauk, la mano sul pomo della spada, fece questa breve dichiarazione:
- Essendo nobile, io non contribuirò, perché contribuire è ignobile. Spetta alla canaglia di pagare.
Con questa opinione, gli Anziani si separarono in silenzio».
Lo studioso dovrebbe incrociare le braccia, non dare spiegazioni in terna di eguaglianza tributaria, e dire che tutto do
appartiene alla politica e all’etica, ma non spiegare i sofismi e quanto di irrazionale, in leggi e motivazioni politiche. si
nasconda dietro le interessate impostazioni, di parte, di quest'ordine di problemi: cioè non dir nulla sull'onere subietti-
vo dei tributi, che può essere chiarito soltanto con l'introdurre la variabile utilitaria. E invece continuano gli studi in
questo campo, addirittura con apposite monografie relativamente recenti come quella citata di L. Rossi 1932 o quella
del Kovero: Die prinzipien der Wertproportionalität under Wertgleichkeit in der Besteuerungs Helsinki, 1938 e in
scritti e trattati odierni.
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Invero ai ricordati esempi numerici, dà cui risultava la eguaglianza obiettiva o monetaria dei rap-
porti tributari, si è opposta una massa di intuizioni che asseriscono l'inesistenza di sacrifici uguali di utilità o
godimenti a parità di onere proporzionale tributario che, abbiamo simboleggiato con il vincolo:

tr

ove t è il tributo percentuale e r è il reddito, a cui si commisuri.

Cohen Stuart sostiene che la «misura della ripartizione» (in termini di eguaglianza) «è data invece
dalla teoria del sacrificio». Ed il principio allora diviene questo: tassazione secondo la capacità contributi-
va, tale che ne derivi una eguaglianza di sacrificio.

B) Per poter dare una dimostrazione della eguaglianza, come si presume la consideri il legislatore,
in termini soggettivi (sacrifici di utilità in sede di contribuzione generale) occorre introdurre la variabile uti-
litaria nella soluzione del problema di massa quale è quello tributario. Occorre ipotizzare, all'uopo, una cur-
va di utilità che alcuni considerano media (che altri vorrebbe dire con l'andamento più frequente nel senso
della decrescenza) per gli individui che differiscano sopratutto per il reddito globale a loro disposizione e
vivano in determinato territorio, durante un certo periodo di tempo.
Onde evitare di pensare a complessi calcoli matematici della classe governante, in sede di defini-
zione della utilità espressa in unica curva collettiva, è bene accogliere il concetto di andamento più frequen-
te, normale, ecc.. nel senso che le manifestazioni individuali del fenomeno si addensino intorno ad un dato
valore (andamento, con scostamenti più o meno regolari da detta tendenza).
Il principio pacifico della economia politica, ormai assunto come un assioma, della decrescenza
della utilità al margine, con gli incrementi di singoli beni fisici, o della moneta che li rappresenta strumen-
talmente tutti, viene, quindi, esteso ad una curva di utilità che sia rappresentativa delle reazioni più frequen-
ti o normali dei soggetti considerati, nel giudizio della classe governante che rende omogenei e tipici gli ap-
prezzamenti utilitari di singoli e gruppi.
Il Cohen Stuart giustifica l'ipotesi che può essere tacciata di arbitrio, partendo dall'altra, di Bernoul-
li, (secondo la quale il grado di utilità dev'essere inversamente proporzionale all'ammontare del reddito).
Discutendo opinioni del Pierson, del Treub, del Cort van den Linden, Cohen Stuart giustifica l'ipo-
tesi in termini probabilistici, nel senso che l'ultimo tratto (della linea), come si rileverà, per redditi molto
grandi divergerà «probabilmente» assai poco dalla ipotesi: così che si può calcolare coincida con essa.
La diffusa presentazione delle intuizioni e delle ammissioni ipotetiche di teorici nei paragrafi pre-
cedenti, in tema di gusti, preferenze, utilità e sacrificio di questa, consente di avanzare l'ipotesi di una curva
di utilità decrescente uniforme per più individui facenti parte di un gruppo, con un fondo comune rilevante.
Addirittura, per citare il Dal ton (nell'assumere l'ipotesi che la relazione fra reddito e benessere economico
sia la stessa per tutti i contribuenti) annota: «alcuni economisti, specialmente in Inghilterra, della scuola
londinese individualistica, hanno messo in evidenza che questa è soltanto un'ipotesi - nessuno che vi abbia
fatto ricorso ha preteso che essa sia qualcosa di più - e l'hanno considerata unscientific, insostenibile. Ma si
tratta di un'ipotesi (o assunto) che, nei paesi civili, la giustizia esige e che politici ed amministratori, per lo
meno, debbono fare. Nè essa è così lontana dalla realtà come alcuni critici sostengono. Molti di noi, con da-
ti livelli di redditi, sono molto più simili l'un l'altro - nei bisogni e modi normali di comportarsi e nelle rea-
zioni alle variazioni del reddito - di quanto riconoscano alcuni teorici» (Public finance, 1949, p. 92).
Del pari, F. Vinci, nel 1935 polemizzando con Ragnar Frisch, non si era dichiarato «antiutilitarista»
nel criticare (sopratutto per petizione di principio) i risultati dell'indagine statistica basata sui bilanci fami-
liari degli Stati Uniti. Detta curva dell'utilità marginale della moneta in funzione del reddito, decrescente,
costituiva «un fenomeno empirico di comportamento di massa che ha un'importanza considerevole ed esige
una spiegazione». R. Frisch la riteneva plausibile soltanto in termini di utilità.
Ebbene, nel 1950, il Vinci, nel trattare della differenziazione quantitativa di somme singolarmente
prelevate per le spese indivisibili, fa il caso di un'imposta generale sul reddito di ogni unità di consumo (in-
dividuo come contribuente), «ispirata al fine di uguagliare il grande sacrificio tributario dei poveri a quello
piccolo dei ricchi». Indi, riferendosi, appunto, a questo confronto traccia una unica curva crescente di utilità
totale, per spiegare l'imposta progressiva in base ai criteri di eguaglianza e proporzionalità dei sacrifici. E
ciò anche se avverte: “Sebbene si possa asserire che, all'aumentare del reddito totale, il valore dell'appaga-
mento in generale tenda a crescere lentamente, la detta proprietà non si può appoggiare che alle osservazio-
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ni grossolane che corrono per le bocche dei diseredati. Orbene il Vinci, statistico ed economista - coinci-
denza di posizioni interessante, in questo campo che ha visto cimentarsi Fisher e Frisch nella ricerca stati-
stica della misura dell'utilità marginale della moneta - nelle Istituzioni di economica, (Zuffi, Bologna, 1950,
pagg. 141-145) si avvale di una unica curva collettiva per ricchi e poveri.
A curva collettiva di utilità totale crescente, come quella dal Vinci utilizzata, si farà riferimento più
oltre per determinare alcuni razionali prelievi tributari in base ai principi di cui qui si tratta.
Ma, anzitutto, si utilizza una curva di utilità marginale decrescente per dimostrare, con il Cohen
Stuart, che dalla uniformità della decrescenza della utilità marginale del reddito monetario, non discenda
necessariamente l'abbandono del vincolo tributario di tipo tr, per passare al vincolo tributario atr (e che si
potrebbe esprimere con ark = i , dove i indica l'imposta, r il reddito e a e h due costanti positive, che confe-
riscono progressività all'imposta).

C) La dimostrazione scientifica vera e propria, ammessa la legittimità dell'ipotesi costituisce una


rappresentazione verosimile, grosso modo, viene dopo la definizione di giustizia, interpretata nel senso di
eguaglianza, come criterio per la distribuzione dell'onere dell'imposta generale fra diversi redditieri.
Assumiamo l’ipotesi che il criterio o principio di giustizia, da applicare sia: I) ogni contribuente
debba pagare l'imposta in modo che il valore assoluto dell’utilità sacrificata sia eguale per ciascun contri-
buente. Oppure supponiamo che il criterio sia ; oppure che: II) che il valore assoluto dell’utilità sacrificata
sia proporzionale alla utilità totale del reddito rispettivo. Questi criteri sono psicologicamente detti: I) della
eguaglianza e II) proporzionalità di sacrificio; e geometricamente I) della differenza e II) del rapporto del-
le aree.
Il quesito scientifico a cui ha risposto a suo tempo il Cohen Stuart è il seguente: è sufficiente che la
curva unica di utilità del reddito monetario, a partire da un certo punto, sia decrescente per dedurne in ogni
caso la legittimità logica della sostituzione del vincolo tributario tr con il vincolo tributario di tipo arh (o atr
precedentemente indicato). In altri termini è corretto, in detta ipotesi, passare dal tipo di imposta proporzio-
nale all'imposta di tipo progressivo o più che proporzionale, al crescere del reddito-monetario a disposizio-
ne dei soggetti, come contribuenti?

I) Sacrificio uguale con imposta proporzionale. Per dimostrare come l'introduzione della variabile
utilità, non implichi, per se stessa, la progressività dell'aliquota, si è fatta l'ipotesi di una curva di utilità che
abbia l'andamento di una iperbole equilatera o rettangolare. (Si sa che, per essa, in ogni punto il prodotto
dell'ordinata per l'ascissa è costante ovvero è sempre eguale alla medesima corrispondente superficie totale,
geometricamente).
Orbene, si tracci detta curva che abbia l'andamento di una iperbole equilatera, riferita ai suoi asinto-
ti. Essa è stata considerata l'espressione matematica più semplice della decrescenza dell'utilità marginale al
crescere del reddito, secondo l'ipotesi del Bernoulli (grado di utilità inversamente proporzionale al patrimo-
nio o reddito).

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Si supponga il reddito OR, che sia la metà del reddito OR'. Se si immagina di prelevare l'imposta
proporzionale RT (ad es. del 20%) dalla quantità (rappresentata sulla ascissa) OR, si provoca un sacrificio di
utilità rappresentato dall'area TRVV' (tratteggiata).
Per le ipotizzate caratteristiche della curva (iperbole equilatera) detta area deve risultare matemati-
camente eguale a quella che si determina prelevando (proporzionalmente) T'R' dal reddito OR'. A ciò corri-
sponde l'area tratteggiata T'R'SS', che esprime l'utilità totale sacrificata per i pagamento dell'uguale propor-
zione (20%) di prelievo di reddito, nella misura di T'R'.
In simboli, l'eguaglianza del sacrificio provocato dall'imposta proporzionale si può esprimere, per la
definita iperbole equilatera, con l'uguaglianza degli integrali definiti (in cui gli estremi degli intervalli TR e
T'R' sono qualificati nel senso indicato):

R R'


T
f ' ( x)dx =
T'
∫ f '( x)dx [I]

Come si vede, l'andamento della curva di tipo Bernoulliano non giustifica la necessità logica del-
l'imposta progressiva per realizzare l'ideale di giustizia della eguaglianza del sacrifici. P sufficiente a tradur-
re concretamente detto ideale politico, morale, ecc. l'imposizione proporzionale.

II) Sacrificio proporzionale con imposta proporzionale. Una analoga dimostrazione si può dare per
quanto riguarda la realizzazione del principio del sacrificio proporzionale compatibilmente con l'imposta
proporzionale.
Occorre, in tal caso, ipotizzare un tipo di curva di utilità con le seguenti proprietà: per ogni punto
della curva, il prodotto della ascissa e dell'ordinata forma la stessa parte della superficie totale compresa fra
l'ordinata, le coordinate e la curva dell'utilità, considerata alla sinistra del punto. Esempi di andamenti retti-
linei si trovano più agevolmente, come nel caso della parallela all'asse delle ascisse per la quale il prodotto
delle coordinate coincide addirittura, per ogni punto della linea, con la superficie che rappresenta l'utilità to-
tale. Trascuro i casi di linee rette e di curve crescenti, come non compatibili con il modo più frequente di
variare dell'utilità marginale, ma aventi la suddetta proprietà geometrica.
Il Cohen Stuart ha utilizzato curve discendenti che hanno tale proprietà, e consentono di dimostrare
che non è necessaria la progressività delle aliquote per ottenersi la proporzionalità del sacrificio di utilità,
nel prelievo dell'imposta sul reddito complessivo.
La curva decrescente del tipo PQ, pure asintotica agli assi Cartesiani, ai quali si avvicina tendendo
all'infinito, ha la proprietà, appunto, che la superficie compresa fra l'ordinata corrispondente a un punto (ad
es. B), gli assi e la medesima curva ipotizzata, cioè OABPy, resta costantemente uguale al doppio del pro-
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dotto della ascissa per l'ordinata, che nell'esempio è OABD. In tal caso un'impo-

sta proporzionale, misurata sull'ascissa, da luogo a un sacrificio di utilità proporzionale.


Data detta proprietà, ad es. con l'imposta AT proporzionale (40%) si determina un sacrificio di utili-
tà, indicato dall'area geometrica TABV, che sta ad OABPy come il sacrificio determinato ad es. dall'imposta
RN (40%) sul reddito OR e indicato dall'area NRSV' sta all'area ORSPy, che rappresenta l'utilità totale corri-
spondente ad OR (come OABPy corrispondeva alla utilità totale di OA).
In conclusione, nei casi I e II qui esemplificati, è sufficiente l'imposta proporzionale (pur avendosi
utilità decrescente del reddito dei contribuenti, come interpretata dalla classe governante). Ossia non è ne-
cessaria l'imposta progressiva col crescere del reddito, per far conseguire il principio della eguaglianza del
sacrificio o quello della proporzionalità del sacrificio determinato dalla corresponsione dell'imposta all'ente
pubblico.

III) Sacrificio uguale con imposta regressiva. Si può, ora, dimostrare addirittura come da un anda-
mento decrescente della curva di utilità derivi la logica possibilità di conseguire l'eguaglianza dei sacrifici,
fra due contribuenti tipici, mediante un'imposta regressiva, ovvero meno che proporzionale.
(Lo stesso si potrebbe dimostrare per il criterio della proporzionalità dei sacrifici).

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Supponiamo una curva di uti1ità che si scosti da un'iperbole equilatera (per assumere il tipo sotto
descritto) nel senso che, rispetto ad un punto di un'iperbole rettangolare riferita ai suoi asintoti (nella figura,
a tratti), il ramo a sinistra salga meno fortemente, mentre a destra di detto punto il ritmo o saggio di decre-
scenza della curva (ossia dell'utilità marginale) diminuisca sino a divenire insignificante e ad annullarsi (di-
venendo la linea dell'utilità una retta parallela tendenzialmente all'asse delle ascisse).
In tale ipotesi un'imposta proporzionale, come è immediatamente evidente, darebbe luogo a viola-
zione del principio della eguaglianza dei sacrifici arrecati dalla contribuzione all'imposta generale. Affinché
questo ideale di giustizia possa conseguirsi razionalmente nel campo economico, occorre che l'imposta sia
non solo non progressiva, ma nemmeno proporzionale, perché quest'ultima determinerebbe per un reddito
OR' doppio di OR un sacrificio rappresentato dall'area T'R'SS' maggiore di TRVV'. Volendo rendere eguali i
sacrifici (e quindi le aree nella figura geometrica) occorre che l'imposta non sia, nel secondo caso, R'T' dop-
pia di RT, ma minore, ossia di un ammontare Rt tale, appunto, da eguagliare le due aree. In generale, il legi-
slatore che abbia ipotizzato una siffatta decrescenza dell'utilità marginale, dovrà coerentemente esigere per-
centuali d'imposta decrescenti col crescere del reddito.
IV) Sacrificio uguale con imposta progressiva. Ciò premesso, faccio l'ipotesi di un tipo di curva di
utilità decrescente con tale inclinazione rispetto agli assi, da richiedere l'imposta progressiva, per corrispon-
dere razionalmente ai principii del sacrificio eguale e proporzionale.
Si supponga una curva d'utilità che decresca secondo la UU', che si stacca dalle ipotesi delle curve
sinora considerate. In tale ipotesi, il principio del sacrificio eguale richiede che l'imposta sia progressiva.
In termini analitici si può esprimere questo principio con la relazione:
r

∫ f ( x)dx = c
r −s
[II]

dove r = redditi;
s = imposta;
f(x) = utilità marginale della quantità generica che, nel caso specifico, corrisponde al reddito r, così
che sia f(x) = f(r)
c = costante.

Essa indica che l’uti1ità totale corrispondente al prelievo dell'imposta deve essere costante (c), ossia
in quantità eguale per diversi contribuenti. Questo principio è denominato anche delle differenze delle aree.
Nella figura geometrica:

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si osserva che la differenza delle aree poste al di sotto della curva di utilità marginale del reddito (R'SUM –
RVUM, prima del prelievo dell'imposta), e la differenza fra le aree che si ottengono dopo il prelievo del-
l'imposta (rispettivamente R't ed RT, le quali realizzino l'eguaglianza del sacrifici, cioè tsUM - TV'UM) è
una costante indipendente dal reddito.
Data l'ipotesi, nel grafico 7, di andamento dell’utilità marginale del reddito, così che l'imposta deb-
ba essere progressiva, si possono fare le seguenti considerazioni.
Sempre non considerando il primo tratto dell'ascissa, che rappresenta il reddito minimo per vivere o
per provvedere alle esigenze normali di vita, e che ha una utilità marginale che si considera indefinita), se si
toglie al primo contribuente la somma RT ed al secondo, avente reddito doppio, la somma R'T' proporzio-
nalmente, il sacrificio arrecato al primo contribuente è maggiore, essendo l'area della utilità ceduta TRVV'
maggiore dell'area T'R'SS'. Per renderle uguali occorrerà prelevare dal secondo soggetto o contribuente tipi-
co, come edonista, una somma monetaria “aggiuntiva” tT’ (e dunque, in complesso più che proporzionale)
tale da determinare un sacrificio, per questo soggetto tipico, misurato da tR'Ss = TRVV', che misura il sacri-
ficio del primo contribuente tipico.
[Condizione necessaria e sufficiente perché l'imposta sia progressiva (come si evince dal tipo di
curva della fig. 7) è che, quando sia adottato il principio della differenza delle aree, la misura della varia-
zione della utilità marginale f(r) per piccole variazioni di r sia maggiore dell'unità].
La stessa dimostrazione si può fare mediante la rappresentazione del problema in termini di utilità
totale (nella fig. 8, la curva tratteggiata indica, appunto, la grandezza costante che corrisponde alla parte di
utilità totale sacrificata a titolo di imposizione).
Sia il reddito OR, da cui si sia prelevata a carico del contribuente tipico relativamente povero l'im-
posta RT, che abbia determinato il sacrificio di utilità uu'. Dal maggiore reddito OR' occorrerà prelevare una
quantità di reddito, rappresentata sull'asse delle ascisse da R'T', tale che uu' sia eguale a vv': cioè che sia sa-
crificata la stessa quantità di utilità totale.
Considero ora la critica che si rivolge a questo principio. Invero, con il principio della differenza
delle aree, si toglie una costante (utilità corrispondente all'ammontare di reddito prelevato con l'imposta) da
quantità diverse di utilità totale. E questa, come si desume anche dalla rappresentazione geometrica, cresce
con il crescere del reddito complessivo a disposizione dei contribuenti. In altri termini, la quantità di utilità
sottratta al ricco ed al povero sarebbe la stessa, laddove essa costituirebbe una quantità relativamente mino-
re, cioè in rapporto alla utilità totale, pel ricco.
Ossia, pur nei casi in cui si ha progressività d'imposizione in termini di reddito monetario preleva-
to, si determinerebbe regressività in termini di utilità ceduta o sacrificata, rapportata alla utilità totale a di-
sposizione del povero e del ricco.
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V) Sacrificio proporzionale con imposta progressiva Per ovviare a questo imperfetto modo di at-
tuare l'eguaglianza in termini subiettivi o di sacrificio, si è configurato il concetto di giustizia nel senso del-
la eguaglianza della proporzione in cui le utilità sacrificate debbono stare in rapporto alle utilità totali dei
singoli contribuenti, che qui tipicamente si contrappongono considerando diverse quantità di redditi a loro
disposizione.
Secondo il principio della proporzionalità dei sacrifici (detto geometricamente del rapporto delle
aree), ogni contribuente deve cedere non la stessa quantità assoluta di utilità totale (come nel caso prece-
dente, del sacrificio eguale), ma deve subire la stessa perdita percentuale di utilità totale a propria disposi-
zione e corrispondente al reddito complessivo di cui godeva prima della introduzione dell'imposta.

Per dare una visione della eguaglianza dei rapporti fra le aree che rappresentano le utilità sottratte
dall'imposta e le utilità totali, si faccia ancora riferimento ad una rappresentazione grafica analoga a quella
della figura 7. In essa si consideri il rapporto fra le aree TRVV' ed MRVU da un canto e quello fra tR'Ss e
MR'SU dall'altro, rispettivamente rappresentativi delle utilità perdute con il pagamento dell'imposta e delle
utilità godute in precedenza.
Volendo, anche nel caso del principio del sacrificio proporzionale, determinare immediatamente il
quantum di imposta (per ipotesi progressiva) che rende eguali i rapporti fra utilità ceduta nel pagare l'impo-
sta e utilità totale, si può far ricorso alla dimostrazione geometrica, avvalendosi della curva dell'utilità tota-
le.
Si descriva la curva che rappresenta il modo di variate dell'utilità totale, al crescere del reddito sul-
l'asse delle x, cioè si rappresenti la y = f(x). Dai punti R ed R' della ascissa che indichino, rispettivamente, la
grandezza dei redditi OR, supponiamo del ricco, ed OR' del povero, si innalzino le perpendicolari fino a
raggiungere nei corrispondenti punti U ed U' la curva dell'utilità totale. Si faccia passare per detti punti una
retta, che incontrerà l'asse delle ascisse nel punto S. ottenendo così i due triangoli simili RUS ed R'U'S. (U-
na retta parallela ad un lato di un triangolo, che incontra gli altri due, determina un triangolo simile al da-
to).
Sia R'I l'imposta sul reddito OR', del soggetto tipico povero, e IT l'utilità totale del reddito residuo
OI. PU' allora rappresenta, evidentemente, l'utilità sacrificata per il fatto tributario.
Per la determinazione dell'eguaglianza dei rapporti fra le utilità sacrificate, proporzionalmente, dai
due contribuenti, occorre arrivare a determinare l'imposta (data la curva ipotizzata, risulterà progressiva)
che deve andare a carico del contribuente tipico (ricco) che dispone del reddito OR. A questo corrisponde
l'utilità totale RU, compatibilmente con il principio di giustizia che si suppone sia stato posto dal politico,
moralista, ecc. e accolto dal legislatore e dallo studioso come ipotesi).

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Dal vertice S, comune ai triangoli costruiti, si tracci una retta che passi dal punto P e individui il segmento
UV (che è l'utilità sacrificata per il pagamento dell'imposta) su UR, che, ripeto, rappresenta l'utilità totale
del contribuente (ricco) che disponga di OR. Dal punto V si tracci la parallela all'asse delle ascisse, sino a
toccar la curva dell'utilità totale nel punto Q. La perpendicolare all'asse delle ascisse da quel punto Q fa in-
dividuare il punto I' e il segmento dell'ascissa I'R, che rappresenta la maggiore imposta relativa (rispetto,
cioè, a quella IR' a carico del meno ricco) che deve pagare il contribuente (ricco) che disponga di OR, affin-
ché si abbia la proporzione fra i sacrifici provocati dalle due aliquote di imposta: cioè:
U'P : U'R' =UV : UR.

In generale se, nel caso della applicazione o interpretazione del principio del sacrificio eguale,
l'imposta risulta progressiva; invece, nel caso del principio proporzionale, la progressività deve aver
1uogo con un saggio di aumento di aliquote maggiore. In altri termini: se il principio della differenza delle
aree dà un'imposta progressiva, a fortiori ciò deve verificarsi quando sia adottato il principio del rapporto
delle aree.
Volendo tradurre in simboli questa seconda espressione (che ci può più esplicitamente dire dell'e-
guaglianza del rapporto fra le aree rappresentative di utilità posseduta e ceduta in relazione al fatto tributa-
rio) si può fare riferimento alla figura geometrica (n. 7) e supporre l'eguaglianza dei rapporti fra le aree,
come sopra è stato indicato. La suddetta definizione di giustizia è allora espressa con l'eguaglianza degli in-
tegrali definiti143 :

r r


r −s
f ( x)dx = c ∫ f ( x)dx [III]
r

Dove:
- f(x) è la funzione di utilità marginale del reddito;
- dx la variazione infinitesima del reddito;
- (r - s) il reddito al netto dell'imposta;
- c una costante indipendente la r che appare come coefficiente di proporzionalità;

__________
143
Quando sia adottato il principio di giustizia rappresentato dal rapporto delle aree, condizione necessaria e suffi-
ciente perché l'imposta infinitesima sia progressiva in ogni punto di un certo intervallo di reddito è che, in ogni inter-
vallo, la flessibilità della utilità marginale del reddito monetario w(r) (definita come la misura relativa delle variazioni
di w(r) corrispondenti a piccoli incrementi di r) aumentata del rapporto fra l'utilità rettangolare rw e l'utilità totale W,
sia maggiore di I. Mediante i simboli di R. Frisch, cioè, sia:
dw(r ) r rw
⋅ + > I.
dr w(r ) W

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ERNESTO D’ALBERGO, ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA
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- r un ammontare di reddito maggiore di r0 (considerando r0 il minimo per l'esistenza, in prossimità


del quale l'utilità marginale del reddito è supposta infinita; meglio si direbbe indefinita).

Naturalmente, come già ho accennato, si può far ricorso ad altra ipotesi, assai probabilmente rap-
presentativa di caso-limite, cioè supporre che l'andamento della linea che esprime il modo di variare della
utilità marginale, sia una orizzontale, parallela all'asse delle ascisse: cioè l'utilità marginale non diminuisce
con l'aumentare del reddito.
In tal caso, il principio del sacrificio proporzionale giustifica l'imposta proporzionale, come risulta
dalla figura geometrica, che si può agevolmente tracciare.

VI) Occorre sottolineare l'importanza del simbolo r, nella espressione analitica del principio del sa-
crificio proporzionale.
Invero, se si considerasse anche l'utilità del reddito minimo OM (figura n. 7) per l'esistenza o ten-
dente ad r0, come si è detto, l'utilità di OR diverrebbe infinitamente grande. L'utilità del reddito (del ricco)
OR' è uguale a quella del reddito OR più l'utilità del reddito RR, rappresentata dalla area RR'SV. Pertanto, se
l'utilità di OR (ossia inclusivo della parte OM = r , minimo per l'esistenza, ad utilità infinita), diviene infi-
nitamente grande, l'utilità espressa dall’ area RR'SV diverrà una quantità relativamente trascurabile; così che
il rapporto fra l'utilità totale infinita di OR e quella di OR', tende al valore dell'unità.
Scompare, così come ha rilevato il Cohen Stuart - ed ha riportato il R. Frisch - la differenziazione
fra i principii del sacrificio eguale e del sacrificio proporzionale. Ovvero: il principio del rapporto delle a-
ree si trasforma in quello di differenza delle aree, perché l'integrale del secondo membro della relazione
[III] diviene indipendente dal suo secondo estremo r per r → 0 , cioè tende all'infinito.
Ma abbiamo già visto che il principio di ripartizione dell'imposta, che prescinde dall'altezza del
reddito (r) è proprio quello del sacrificio eguale espresso già dalla relazione [II]
r

∫ f ( x)dx = c .
r −s

Verrebbe meno, cosi, considerando il minimo esente, per l'utilità relativa, il principio del sacrificio
proporzionale.
E questo il principio che specialmente at Cohen Stuart, seguito da molti altri autori (in Italia specie
da L. Rossi) è apparso l'ideale, per eccellenza, di giustizia nella ripartizione delle imposte fra le persone fi-
siche, considerate per il reddito complessivo.
In via teorica, i confronti tra i due criteri di giustizia qui considerati (eguaglianza e proporzionalità
di sacrificio), implicano che, fatta eccezione per coloro che abbiano un minimo di reddito per vivere e nes-
suna utilità da sacrificare per provvedere ai bisogni pubblici con i loro mezzi, tutti i membri della collettivi-
tà, comunque dotati di mezzi o reddito oltre il minimo vitale, debbano contribuire in qualche misura (pro-
gressiva, secondo l'ipotesi più comune di decrescenza dell'utilità marginale del reddito) a fronteggiare il co-
sto dei servizi pubblici indivisibili.

D) Sacrificio minimo collettivo. Di fronte a questa conclusione si è avuta la visione del sacrificio
minimo collettivo, in termini di utilità, che fa capo all'autore che soprattutto l'ha propugnata in sede teorica,
cioè all’Edgeworth144.
I) A differenza dei principi che precedono, esso non implica che tutti i contribuenti che abbiano un
reddito eccedente il minimo predetto, debbano sottostare alla tassazione contribuendo in qualche misura.
Invero, intere categorie di contribuenti (il cui reddito sia inferiore ad un ammontare di reddito residuo a cui
risultino livellati quelli superiori dopo l'imposizione di essi) vengono sottratti alla tassazione.
II) Inoltre «il principio implica» che, quando l'imposta sia prelevata, il residuo di tutti i redditi tas-
sati, dopo l'applicazione del tributo, sia costante, e che tutti i redditi siano livellati ad unico valore. (Questa

__________
144
Cfr.: EDGEWORTH, Teoria pura della tassazione, Bibl. dell'Econ. serie V), e Carver (The Ethical Basis of Distri-
bution ad its application to taxation, 1895, in «The Annals of the Am. Ac. of Soc. Science», e successivamente con lo
studio: The minimum sacrifice Theory of taxation, in «Pol. Science Quarterly», 1904.
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conseguenza, come vedremo, è stata negata sotto certe ipotesi, concernenti il modo di variare dell'utilità
marginale).
III) Prescinde dal modo di decrescere dell'utilità del reddito monetario al margine, purché essa sia
decrescente, comunque, per richiedere che l'imposta sia progressiva (fermo restando l'assunto di una unica
curva di utilità marginale del reddito). Secondo la nostra ipotesi approssimata alla realtà fenomenica, i modi
di variare dell'utilità, presso soggetti considerati almeno tipici, sarebbero immaginati da un presunto legisla-
tore.
L'Edgeworth fa debitamente risalire la sostanza del principio del sacrificio minimo collettivo, alla
visione del Bentham espressa dalla condizione che la disutilità totale sia un minimum (a cui si riduce la pro-
posizione che l'utilità totale netta procurata dalla tassazione sia un massimo).
Il livellamento verso il minimo di sussistenza (m), se con t si indica l'imposta, con x il reddito, sa-
rebbe dato dalla relazione

m
t=I− [IV]
x

Ma l'Edgeworth, nella rappresentazione geometrica, che espone nella Teoria pura dell'imposta, ipo-
tizza l'imposta e la curva di utilità marginale del reddito in modo da ottenere il livellamento dei redditi netti
ben al disopra del minimo per l'esistenza. Ciò è significativo per quanto si dirà in seguito.
Questo principio di ripartizione dell'imposta è stato simbolicamente espresso con la relazione:

w(r - s) =c (costante) [V]

secondo la quale l'utilità marginale del reddito [w(r)], diminuito dell'imposta (s) è costante; e dalla relazio-
ne.

r–s=c (costante) [VI]

la quale esprime che l'imposta (s) sarà determinata in modo che il residuo di tutti i redditi (r) dopo l'applica-
zione dell'imposta sia costante ovvero che tutti i redditi risultino livellati ad un unico valore.
Di queste caratteristiche espongo due rappresentazioni: numerica e geometrica.
Si supponga che tre soggetti tipici così graduino edonisticamente le dosi di reddito per l'utilità ad
esse annessa:

Dosi di reddito Soggetto A Soggetto B Soggetto C


1a 10 10 10
2a 9 9 9
3a 8 8 8
4a 7 7
5a 6
6a 5
7a 4

Se si suppone che il costo complessivo indivisibile dei servizi pubblici richieda 5 dosi di reddito
privato, e si vuole realizzare il presupposto secondo il quale il prelievo di tali unità dovrebbe determinare il
minimo sacrificio per la collettività, di cui i tre soggetti (A, B, C) costituiscono di tipi rappresentativi, occor-
re prelevare le 5 unita chiedendone 4 al soggetto A, 1 al soggetto B, senza pretendere nulla dal soggetto C.
In generale una rappresentazione che spieghi il principio occorre che tenga conto dell'andamento
non necessariamente caratterizzato da ugual decrescenza, purché decrescente, della curva dell'utilità margi-
nale. In quella che di seguito si espone, si fa l'ipotesi dell'uguaglianza del modo di decrescere dell'utilità,
per dimostrare il conseguente livellamento dei redditi sull'ascissa.
Ripetendo il ragionamento, volendo lo Stato prelevare una data somma, in modo da rimanere ade-
rente at criterio del minimo sacrificio collettivo, nel rivolgersi ai tre soggetti tipici. dovrà chiedere gli am-
montari s - s' e z - z' ai soggetti A e B e nulla al soggetto C (dato che gli importi su indicati coprano il fabbi-
sogno richiesto). Le aree ss'tv' e zz'nr' rappresentano le minori somme di utilità sacrificate relativamente al
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prelievo degli importi monetari indicati. L'eguaglianza ts' = nz' = u'm dimostra la condizione [V], w(r - s) =
c, cioè la costanza della utilità marginale dopo il prelievo dell'imposta. Questa rappresentazione si nota la
eguaglianza

os' == oz' = om, in termini di reddito, dopo il prelievo dell'imposta in base al predetto principio. E ciò pro-
va la relazione [VI]

r – s = c.

In tal modo, si sarebbe ripartito il costo indivisibile dei servizi pubblici prelevando le dosi di reddi-
to aventi la minore utilità per il complesso dei contribuenti tipici considerati; ma si arriverebbe al risultato
del livellamento dei redditi attuali (nel momento dell'introduzione di codesto sistema di ripartizione del-
l'imposta). Questo effetto è stato opposto come critica al principio dell'Edgeworth.
Può darsi che questo costituisca, in dati paesi e in dati momenti storici, l'ideale di qualche costitu-
zione politica: ma anche in quel caso occorre considerare gli effetti futuri di una tale avocazione allo Stato
dei redditi più elevati, cioè gli effetti sulla produzione di nuovi redditi e sulla accumulazione di nuovi ri-
sparmi e patrimoni.
Ma per rendere l'onore dovuto al vigoroso ingegno dell’economista su citato, è necessario distin-
guere fra ragionamenti in sede di teoria pura e applicazioni pratiche. Per questa distinzione occorre conside-
rare, sia pure per sommi capi, integralmente il suo pensiero. L'Edgeworth, assunto il principio della massi-
ma felicità come criterio dell'azione statale almeno riguardo alla tassazione, scrive che, nella distribuzione
delle imposte, la condizione che l'utilità totale netta procurata dalla tassazione sia un massimo, si riduce alla
condizione che la disutilità totale sia un minimo. E cita in proposito (145) il Bentham per il quale «ogni go-
verno è soltanto un tessuto di sacrifici. Il miglior governo è quello in cui il valore di codesti sacrifici è ridot-
to al minimo ammontare».
Ma l'Edgeworth vede le conseguenze ultime della applicazione del principio là dove scrive che: chi
è più ricco deve essere tassato a beneficio del più povero fino al punto in cui si raggiunge la eguaglianza
completa delle fortune. E continua: «Si vede così per un momento l'acme del socialismo; ma è immediata-
mente offuscato da dubbi e riserve». E aderendo alle idee del Sidgwick intravede «gli enormi precipizi
frapposti che dissuadono il senno pratico dal muovere verso l'ideale dell'uguaglianza».
«Un imposta progressiva con una ragione cosi forte che il contribuente non avesse interesse ad ac-
crescere la sua fortuna col risparmio, mentre migliorerebbe la distribuzione ostacolerebbe l'aumento della
ricchezza sociale» (svantaggio a cui si contrappone, in compenso, l'aumento «probabile» del risparmio fra
le classi più povere e l'aumento della produttività dei lavoratori). Inoltre vi sarebbero «abusi» e fatti di «e-
vasione». Ed ancora: 1) «Queste estese, benché succinte riserve, riducono i dettami, a primo aspetto rivolu-
zionari, dell'utilitarismo puro ai limiti del senso comune»; 2) Con il Mill afferma che «l'utilitarista più che
ogni altro desidera che si prendano provvedimenti per diminuire le diseguaglianze di ricchezza, con impo-
ste sulle successioni ereditarie e sugli aumenti di valore non guadagnati»; 3) Prima egli ricorda che, per il

__________
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Edgeworth, Teoria pura dell'imposta, in Biblioteca dell'economista, serie V vol. XVI.
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Carver, il minimo ammontare di sacrificio, nei confronti dell'intera collettività, è assicurato dal raccogliere
l'intera imposta da quei pochi redditi che hanno la più bassa utilità finale. Dopo, l'Edgeworth sostiene che il
principio del minimo sacrificio è criterio «sovrano» dell'imposta; infine, che esso deve, senza dubbio, esse-
re in pratica limitato, così da essere applicato per giustificare la tassazione differenziale, sulla base di altre
differenze, come le differenze nella continuità del reddito, nello stato civile, nel numero dei figli, nella età e
dovute ad altre circostanze); 4) Critica il criterio del sacrificio eguale e quello del sacrificio proporzionale
perché: a) soprattutto (nell'ipotesi che la diminuzione dell'utilità marginale sia più che proporzionale al cre-
scere del reddito), possono condurre ad una sottrazione di reddito tanto grande da lasciare al possessore po-
co interesse ad accrescere il suo reddito oltre un certo limite; b) dal lato teorico, nella predetta ipotesi di de-
crescenza dell'utilità marginale, appare affatto arbitrario il limite all'applicazione del principio dell'eguale
sacrificio; 5) Ritiene che il principio del sacrificio eguale sia implicito in quello del minimo sacrificio col-
lettivo, «temperato - quest'ultimo - dal riguardo allo sviluppo della ricchezza e ad altri vantaggi». E a dar
forza alla propria affermazione cita il passo del Mill, in cui è detto che «qualunque siano i sacrifici che un
governo richiede a persone e classi, si deve fare in modo che per quanto è possibile essi pesino egualmente
su tutti, col quale metodo, si osservi, si cagiona il minimo sacrificio complessivo».
L’ipotesi in base alla quale si è ragionato, è quella di andamento uguale della curva dell'utilità mar-
ginale del reddito per tutti i contribuenti nella precedente dimostrazione grafica.
Se si ipotizza qualche diversità delle curve di utilità, può essere utile richiamare, ampliandola, la
dimostrazione che U. Ricci ha finemente dato, con rappresentazione grafica, della tesi secondo la quale dal-
la applicazione del criterio di tassazione che dia luogo al sacrificio minimo collettivo, non discende come
effetto il livellamento dei redditi («La Riforma Sociale», N. 6, 1933).
Questo acuto autore, supposto che gli individui appartengano a classi omogenee di redditieri, per
semplicità limitate a due (poveri e ricchi), considera due soggetti corrispondenti, con l'ipotesi che per i bi-
sogni più urgenti essi siano perfettamente identici, mentre differiscano per gli altri bisogni (e per i corri-
spondenti apprezzamenti utilitari).
Dalla premessa ipotesi, discende che le curve di utilità dei rispettivi redditi monetari saranno eguali
o coincidenti lungo un primo arco, corrispondente alle ascisse OA e OA' della rappresentazione geometrica
(146). Nel secondo arco, la curva del contribuente R (ricco) avrà una decrescenza più lenta, in rapporto al
reddito O'D', maggiore del reddito OB del contribuente (povero).

Supposto che lo Stato abbia bisogno di ripartire fra entrambi i contribuenti tipici una quantità di
reddito eguale a B'D' se il reddito di P è uguale o inferiore a OB, questi sarà esentato dall'imposta, che sarà
prelevata integralmente dal reddito di R.
Ad es., il reddito di P sia di lire 3.000 (eguale ad OB), e quello del contribuente R sia di lire 8.000
(eguale ad O'D'). Lo Stato prelevi un’imposta di lire 4.000. In tal caso si rivolgerà soltanto al contribuente R
portandogli via le lire 4.000, corrispondenti alla ascissa B'D' e non chiederà nulla al contribuente P.

__________
146
Che qui si completa
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Dalla figura risulta che, per effetto dell'imposizione così distribuita, i gradi finali di utilità dei due
redditi risultano eguali (BZ = B'N), ma i redditi corrispondenti non sono livellati. Infatti il contribuente R
rimane con lire 4.000 (= O'B') ed il contribuente P con lire 3.000, essendo OB minore di O'B'.
Se si fa l'ipotesi che il reddito di P sia minore di OB (ad es. di lire 2.500), non si ha livellamento nè
delle utilità marginali, nè dei redditi, dato che, come si desume dal grafico, CF è maggiore di B'N e, come
si è supposto, OC è minore di O'B'.
Se, infine, si ipotizza che il reddito di P sia maggiore di OB e uguale ad OQ, (ad es. lire 3.500),
l'imposta sarà distribuita fra i due contribuenti tipici (ad esempio nella misura di lire 3.700 = TD', a carico
di R che rimane con lire 4.300 = O'T; e di lire 300 a carico di P che vedrà il reddito OQ di lire 3.500 ridotto
a lire 3.200 = OK). Si avrà in tal caso eguaglianza fra le utilità marginale rispettive (KM = TS), ma i due
redditi non varranno livellati, essendo O'T maggiore di OK.
Come si vede, nell'ambito delle ipotesi del Ricci, non trova base la più grave obiezione che è legit-
tima soltanto in sede empirica e non teorica, cioè degli effetti economici e sociali che deriverebbero dalla
integrale e conseguenziale applicazione del principio del sacrificio minimo collettivo.
Ma anche questa dimostrazione, in cui il Ricci ha fatto ipotesi che hanno qualche probabilità di cor-
rispondere alla casistica concreta, tenuta presente tipicamente, è sempre appartenente alla teoria pura, che
persegue fini di astratta conoscenza a cui si ispirano queste lezioni.

F) Come «modificazioni che è necessario apportare nella pratica al principio del livellamento», il
Ragnar Frisch fa due esempi che qualifica:
a) Principio della differenza marginale, secondo il quale lo aumento assoluto subito dall'utilità
marginale della moneta, in conseguenza di un prelevamento di imposta, sarà il medesimo per tutti i contri-
buenti, cioè eguale.
Detto principio si esprime con la relazione

w(r - s) = w(r) + c (c = costante) [VII]

b) Principio del rapporto marginale, secondo il quale l'imposta dovrebbe essere determinata in mo-
do che, dall'applicazione di essa, l'utilità marginale della moneta fosse aumentata nella stessa proporzione
per tutti i contribuenti.
Si dovrebbe avere la relazione

w(r - s) = (I +c)w(r) [VIII]

Per l'illustrazione sensibile di questi principii si consideri la rappresentazione grafica di cui alla fi-
gura 7.
Per gli sviluppi analitici di essi e per l'enunciazione del principio marginale generale rimando al
volume del R. Frisch, più volte ricordato, limitandomi a dire che esso tiene conto della natura del rapporto
che intercede fra i valori dell'utilità marginale della moneta, prima e dopo l'applicazione dell'impasta. Det-
to rapporto è stato espresso con una funzione: indicata con w(r) l'utilità marginale della moneta prima del
prelevamento dell'imposta e con w(r - s) il valore successivo, essa sarà una funzione di w(r). Indicandola
con G(w) si ha

w(r - s) = G[w(r)]. [IX]

Ogni forma della G(w) è in relazione con una definizione di giustizia.


Dopo avere discusso vari casi, il Frisch si domanda se le formulazioni di «giustizia» adottate abbia-
no qualche utilità pratica. Egli la trova nella possibilità di formulare il problema di interpolazione, inerente
alla graduazione dell'aliquota di imposta sul reddito. Supposto che, per «considerazioni» politiche e sociali,
per un «giudizio di buon senso» o per altre ragioni, sia stato deciso che i tre redditi di 3.000 - 50.000 -
1.000.000 siano soggetti rispettivamente ad un'aliquota dell’1%, del 7% e del 50%, supposta nota l'utilità
marginale della moneta attraverso osservazioni statistiche, l'autore ritiene di poter determinare le aliquote
intermedie col minimo di arbitrio e comunque con un'arbitrarietà «molto meno dannosa» di quella che si in-
trodurrebbe interpolando direttamente la funzione dell'aliquota dell'imposta.

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All'Einaudi, che polemizzava con L. Rossi, sembrava un puro calcolo matematico la costruzione
dell'intera scala progressiva, dopo che siano fissati i due punti della scala secondo il comando politico-
giuridico. E' noto che per due punti passano infinite curve e che, così, il problema sarebbe indeterminato. Il
R. Frisch, anziché interpolare direttamente la funzione dell'aliquota, crede opportuno utilizzare nel proce-
dimento statistico (finora discusso degli studiosi) la conoscenza della curva di utilità della moneta. E evi-
dente anche in questo caso il grado di arbitrio, limitato però ad un settore illuminato da premesse razionali,
confermate, solo in certo modo, statisticamente.
Dopo quanto precede, non condivido l'opinione del Fasiani allorché egli (a p. 9 dell'op. cit., vol. I)
afferma non soltanto che il principio scientifico dell'imposta progressiva non esiste, ma che sono «storture
logiche» i tentativi tendenti a spiegare, in teoria pura, i sentimenti dominanti di giustizia quando di questa
si assuma una definizione ipotetica. Per contro, Fagiani correttamente afferma e più diffusamente dimostra
che non è «assolutamente impossibile arrivare a qualche induzione circa la struttura della curva di utilità»
(p. 68 e segg. del II volume dell'op. cit.).

VII.

CONSIDERAZIONI DI POLITICA FINANZIARIA E STATISTICHE CHE INFLUENZANO


L'INTRODUZIONE DELL' IMPOSTA PROGRESSIVA. SISTEMI DI PROGRESSIONE.

Conformemente all'indirizzo di questo corso di lezioni, che intende far vivere la logica economica,
come teoria pura, per la impostazione dei problemi di economia finanziaria, non si fa posto allo studio del-
l'aspetto politico. Qui ci si limita a ricordare che l'aspetto politico, considerato in contrapposizione all'eco-
nomico o ad altri, è certamente in pratica una delle componenti importanti nella determinazione della risul-
tante, concreta graduazione progressiva delle imposte, nella legislazione positiva dei vari Stati. La compo-
nente politica fa assistere a soluzioni diverse del problema concreto, in funzione non soltanto della variabile
utilitaria, cioè del giudizio che, in media, le classi governanti formulano intorno al variare dei sacrifici di
godimenti od utilità, con l'aumentare delle aliquote in rapporto al crescere dei redditi, ma di altri fattori di
carattere economico obiettivo, statistico, ecc.
A) La rivoluzione francese aveva fatto vedere l'ideale sistema di ripartizione del carico tributario
nella proporzionalità, come caso tipico di eguaglianza. Le correnti sociali, nella lotta fra ricchi e poveri,
hanno indotto i meno abbienti a scaricare l'onere fiscale sui più abbienti con le forti esenzioni dei minimi
redditi e con imposte progressive.
I più abbienti hanno tentato di resistere con la adozione di aliquote proporzionali, che coesistono
con le progressive nei sistemi tributari.
B) La preoccupazione di politica economica, di evitare di scoraggiare la produzione del reddito e
l'accumulazione della ricchezza, ha fatto limitare la progressività, facendo divenire, oltre un certo punto,
proporzionali le aliquote delle imposte progressive.
C) Infine, il diverso grado di concentrazione o di convergenza dei redditi e delle ricchezza nei vari paesi ha
fatto adottare a1iquote con differente progressività (147): Per tale aspetto, in generale, le imposte progressive
trovano un imponibile più elevato nei casi in cui più alto è il reddito medio e sono concentrati il reddito e i
patrimoni. Si pensi alla rappresentazione del Pareto (fig. 12): in essa sull'asse delle x sono rappresentati i
redditi e su quello delle y il corrispondente numero di redditieri. In tal modo, le sezioni di superfici compre-
se nella curva danno il numero degli individui aventi un reddito compreso fra X ed X + K.
Se si considerano due curve diverse (tsn e t's'n') che esprimano due diverse distribuzioni dei redditi,
sono evidenti le ripercussioni sui proventi che possono conseguirsi dalla tassazione con pari andamento di

__________
147
Si rimanda ad altra edizione di questo corso l'analisi del principio obiettivo per cui la diseguaglianza nella distri-
buzione dei redditi dovrebbe non essere accresciuta ne diminuita dalla imposizione, la quale secondo alcuni, quindi,
dovrebbe essere proporzionale, secondo altri progressiva. Il tema è tuttora in discussione scientifica, che può concorre-
re alla formulazione diversa del principio, nel senso che l'imposizione progressiva non muti il tipo di distribuzione dei
redditi.
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aliquota progressiva. Questa, di massima, avrà, ceteris paribus, un minor gettito allorché la distribuzione
dei redditi faccia risultare pochi, altissimi redditi e molto numerosi redditi modesti. Questo caso è appros-
simativamente rappresentato dalla curva tsn e ben diverso da quello espresso dalla t's'n', se non l'opposto
dal punto di vista fiscale o dello Stato (gettito).
D) Tutte le considerazioni svolte in questo paragrafo, economiche, sociali e politiche, influiscono
sulla determinazione della scala concreta di progressività della aliquota. S'intende che i ragionamenti che
precedono in materia di progressività si riferiscono al caso concreto dell'imposta progressiva personale.
Come si è accennato nella classificazione delle entrate tributarie, invero, in tanto si può ragionare
della decrescenza dell'utilità marginale del reddito (o della ricchezza), in quanto si abbia presente tutto il
reddito a disposizione delle singole persone fisiche per il soddisfacimento del bisogni.
I ragionamenti che precedono dovrebbero tener conto del rapporto fra il debito complessivo di im-
posta e la somma globale di reddito a disposizione del contribuente. Ma in gran parte si possono applicare
le premesse precedenti ai casi concreti delle imposte personali, globali.

Invece, l'aliquota progressiva non può trovar posto in sede di imposte reali per le seguenti ragioni:
1) per definizione, le imposte reali, quando non presentino elementi di personalità considerano solitamente
omogenee le quote di redditi tra loro, e ciò è ammissibile perché tali tributi considerano il reddito (o il pa-
trimonio) per se stesso, indipendentemente dalle condizioni e dagli apprezzamenti edonistici del soggetto
che consegue il reddito (o possiede date forme di patrimonio); 2) da un punto di vista razionale, che riesce
evidente quando si tengano presenti le argomentazioni avanzate in questo capitolo, non si possono estende-
re gli apprezzamenti edonistici relativi all'utilità dei reddito e le premesse politiche e sociali della progressi-
vità al caso di redditi singoli, provenienti cioè da singole fonti (immobiliari e mobiliari). Non si sa, invero,
se il reddito di 100.000 lire, proveniente da un terreno, rappresenti l'unica voce di entrata di un contribuente
oppure uno degli addendi di un complesso di L. 1.000.000, composto per le rimanenti 900 mila lire da red-
diti di fabbricati o da redditi industriali o professionali. E ciò non si può appurare per la stessa ragione che
l'imposta reale (sui redditi, ad es., dei terreni) prescinde dalla condizione economica (reddito complessivo)
della persona fisica del contribuente.
In pratica si possono, tuttavia, trovare imposte reali con aliquote progressive. Ad es., durante la
guerra 1915-1918, divennero progressive la aliquote delle imposte reali italiane (sui redditi dei terreni, del
fabbricati e di ricchezza mobile) ma per ragioni eccezionali, dovendo lo Stato conseguire, prescindendo dal
rispetto dei principii razionali, entrate straordinarie. Tali aliquote tornarono proporzionali con il R. D. L. 10
ottobre 1924. Successivamente si trova il caso della imposta progressiva sui dividendi azionari (istituita con
R. D. L. 5 ottobre 1936 n. 1744) che è reale, perché colpisce il reddito da una sola fonte (l'azione) e pre-
scinde dalle condizioni personali dei contribuenti (soci). Ma la progressività è ammissibile, in tal caso, co-
me mezzo per raggiungere fini extrafiscali, che consistono nel tutelare l'avvenire delle società commerciali
col rafforzarne le condizioni patrimoniali, e in pari tempo nell'impedire che gli alti dividendi richiamino,
verso l'impiego in azioni, capitali e risparmi che debbono rivolgersi all'acquisto di titoli di Stato, date le cir-
costanze storiche. Parimenti si giustifica alla luce di concetti in parte fiscali (capacità contributiva relativa o
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speciale o differenziale), in parte sociali e politici, la progressività dell'imposta sui profitti di guerra, conse-
guiti da alcune fonti di redditi, nella legislazione italiana ed estera, come si dirà accennando ai principii o-
biettivi per la ripartizione delle imposte.

E) Sistemi di progressività dell’imposta. Premesse queste avvertenze, consideriamo, ora, con quali
procedimenti si è realizzata, in concreto, la progressività dell'aliquota nell’imposizione.
Anzitutto, si applicò il sistema di progressione per classi. Per questo metodo si dividono i redditi in
classi, e a ciascuna classe successiva in ordine crescente di ammontare, si fa corrispondere un'aliquota per-
centuale di imposta che va aumentando progressivamente. Ad esempio, i redditi compresi tra 5.001 lire e
10.000 si colpiscono con 1'8%; quelli tra 10.001 e 15.000 con il 10%; quelli tra 15.001 e 20.000 con 11% e
così via. In simboli, essendo (x1, x2), (x3, x4)….(xn, ∞) le n classi di redditi, le corrispondenti aliquote t1,
t2….., tn rimangono costanti nell'intervallo. In senso geometrico, secondo una rappresentazione grafica di
immediata intuizione, in cui sull'asse delle ascisse figurano le classi di reddito e sull'ordinata le aliquote
corrispondenti, passando da x1 ad x2, l'ordinata y conserva valore costante. E la funzione di progressività as-
sume l'andamento di una spezzata, a forma di scala, crescente per classi di x, con gradini paralleli all'asse
delle ascisse.
Il difetto unanimemente conclamato dagli studiosi e più appariscente di tale tipo concreto di pro-
gressione è dato dal fatto che, nei passaggi immediati da una classe ad un'altra, si verificano dei bruschi
aumenti di pressione tributaria. Infatti può avvenire che i contribuenti, con reddito prossimo al limite infe-
riore di una classe, rimangano, dopo il prelevamento dell'imposta, con un reddito netto inferiore a quello
dei contribuenti contigui della classe immediatamente più bassa. Se, ad es., la classe di redditi compresi tra
9001 - 10.000 è tassata con l'aliquota del 10% e la classe 10.001 – 11.000 con l'11%, un contribuente che
goda di un reddito di 10.100 pagherà lire 1111 di imposta, restando con 8989 lire; mentre un contribuente
con 10.000 lire di reddito paga 1.000 lire d'imposta rimanendogli a disposizione 9.000 lire. La differenza si
fa più notevole, quanto più si passi a classi superiori o aumenti il tasso dell'imposta.
A questo inconveniente (finora, universalmente, condannato e anche di recente dai matematici Fol-
liet e D'Addario, a cui tosto mi riferisco), si ovviò, in un primo tempo e secondo una prima approssimazio-
ne logico-tecnica, applicando l'imposta progressiva per scaglioni. Si distinsero, cioè, successivi scaglioni di
imponibile e per ciascuno si stabilì l'aliquota dell'imposta corrispondente, in modo che uno stesso contri-
buente veniva a pagare le successive aliquote di imposta, corrispondenti ai successivi scaglioni in cui il suo
reddito si frazionava. Ad es., nel nostro caso, il contribuente con 10.000 lire di reddito, pagherebbe il 10%
su 10.000 lire e cioè 1.000 lire di imposta, più l'11% su 100: in totale 1011 lire, rimanendo così con L.
9.089.
In simboli, siano per gli imponibili contigui quelli quantitativamente su indicati per l'imposta pro-
gressiva per classe:

(x1, x2), (x2, x3)…..(xn, ∞).

La diversità della commisurazione delle aliquote nel sistema «per scaglioni» sta nel fatto che le cor-
rispondenti t1, t2, t3….., tn non si applicano agli interi ammontari, crescenti, con la graduazione delle classi,
ma, rispettivamente, alle differenze fra gli importi che costituiscono gli scaglioni ordinati in senso crescen-
te. Cioè l'imposta varia secondo la relazione:

i (x) = (x2 - x1) t1 + (x3 – x2) t2 + …..+ (xn - xn-1) tn-1 + (X – xn) tn

Ma anche questo sistema non era perfettamente razionale, poiché entro i limiti di uno stesso sca-
glione non teneva conto della presunta decrescenza continua dell'utilità del reddito e quindi della diversa
capacità contributiva.
Qualora lo scaglione sia molto piccolo (tendente a zero) la progressvità per scaglioni diviene pro-
gressività continua. Tra le espressioni, quella di solito presa a riferimento è:

y = arh

dove y è l'aliquota, r il reddito, a e h due parametri «costanti».

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Essa rappresenta una curva ascendente, col crescere del reddito e il decrescere della utilità di esso
nella visione del legislatore. Con tale formula si calcola l'aliquota e la si applica mediante tabelle che am-
mettono arrotondamenti, annesse alla legge. Si evitano così bruschi salti nel passaggio da un ammontare al-
l'altro di reddito e si ottiene un'aliquota variante minimamente in dipendenza di successivi, infinitesimi in-
crementi di redditi, in perfetta corrispondenza ai fini del legislatore.
Per l'imposta sul reddito, secondo la scala di aliquote del 1923, in Italia si applicavano le aliquote
risultanti dalla interpolazione della seguente funzione:

y = 0,04186 x0,39637

dove y, variabile dipendente, rappresenta l'imposta, ed x, variabile indipendente, rappresenta il reddito im-
ponibile, mentre i due numeri decimali sono due parametri (costanti).
La circostanza preponderante che determina la scelta dei punti (aliquota minima e massima) fra i
quali deve variare la progressività, è data dalla tendenza politica dominante impersonata dal governo e dai
parlamenti e dalle altre già ricordate circostanze economiche, psicologiche, ecc. L’imposta progressiva,
spinta agli eccessi, fu in molti casi un potente strumento di politica di parte, attuata da una classe a danno di
un'altra.
A conclusione di questo paragrafo, ripeto che l'altezza della aliquota non viene regolata in base ad
un solo presupposto, ma risulta dal concorso di elementi economici, politici, giuridici psicologici, ecc. Per-
tanto è difficile o ben raro che si possa risolvere, in base ad una trattazione (analisi) puramente economica
ed astratta, il problema della determinazione della progressività «optima» delle imposte, poiché, in concre-
to, la soluzione è influenzata dall'azione dei predetti fattori che sinteticamente adducono alle diverse solu-
zioni storiche.

VIII.

CRITICA DELLA PROPRIETA «FONDAMENTALE» DI D’ADDARIO,


DELLA PROGRESSIONE DELL’IMPOSTA

E’ noto che, teoricamente, sono concepibili i più vari modi di variare della progressione dell'impo-
sta, rappresentata da curve aventi diversa progressività in ogni punto e diversa progressività globale. Su
questi concetti si sono soffermati alcuni autori, fra cui Folliet e D'Addario, con scritti che sintetizzano i cri-
teri di misurazione e rappresentazione dei due tipi di progressività148, dei cui aspetti qui ci si sofferma a
proposito della distinzione fra: a) grado di progressività che esprime il variare della aliquota col variare dei
redditi imponibili; b) pressione di un'imposta progressiva, che riguarda l'altezza delle aliquote.
Le proprietà «generali» che appaiono, a molti autori, come condizioni razionali della progressività
addirittura connaturate con questo tipo di imposizione. Secondo la critica esposizione sintetica fattane dal
D'Addario, (nell'«Archivio finanziario», 1950, Padova, Cedam e nella rivista cit. «Economia Internaziona-
le», maggio 1952), l'aliquota [t(x)] :
a) deve assumere valori positivi;
b) deve essere continua;
c) deve essere crescente e deve convergere, per x (imponibile) tendente all'infinito, al valore positi-
vo k ≤ I, assunto come limite superiore della aliquota;
d) deve crescere in misura tale che ad un reddito imponibile maggiore corrisponda un reddito resi-
duo non minore di quello corrispondente ad un reddito imponibile minore.
Non mi soffermo sulle due prime intuitive proprietà di una aliquota di imposta progressiva.
Meritano, invece, rilievo le due proprietà c) e d), qui esposte.

A) La proprietà c) indica che l'imposta non deve assorbire l'intero imponibile.


__________
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D'ADDARIO R., in articolo sul Giornale degli Economisti, novembre-dicembre 1950.
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Questa precisazione è interessante perché, in trattati e in taluni scritti specifici (celebre l'aforisma o
il paradosso di Martello, secondo cui l'«imposta progressiva divora se stessa», nel senso che, al salire
dell’aliquota, fa venir meno l'oggetto imponibile.
Questa visione può essere compatibile con il caso specialissimo, fra i numerosissimi modi di varia-
re della curva della progressione, costituito dall'andamento della funzione, le cui ordinate crescano con il
reddito (rappresentato sull'ascissa), sino alla unità, cioè fino all'assorbimento totale.
Nella storia ci sono stati casi del genere. Anzi, pare che di recente si sia avuto detto caso tenden-
zialmente, là dove si è voluto i procedere ad una rivoluzione del sistema sociale in senso collettivistico, in-
ducendo i riottosi ad aderirvi con l'apparente forma legalitaria della «persuasiva» imposta progressiva ed
avocatrice di patrimoni oltre che di redditi. Altri casi di politica fiscale si possono avere nella tassazione e-
xtra-fiscale, progressiva, dei sopraprofitti dovuti a congiuntura creata dalla storia e dalla azione statale, sen-
za merito dei singoli, e quando la «giustizia» o la «morale» del tempo induca a ritenere indebiti e inammis-
sibili gli arricchimenti di singoli o di gruppi appartenenti a detta collettività.
Dal punto di vista economico, in generale, la condizione c) va interpretata nel senso che, normal-
mente, le aliquote si scostano dal caso di quella che viene detta imposta progressiva «pura», con andamento
sempre crescente; ma conferiscono all'imposta il carattere di imposta degressiva. Per essa l'imposta cresce
da un minimo, corrispondente ad una quantità di reddito (m) non imponibile (minimo esente) fino ad un
reddito massimo (M), a partire dal quale l'aliquota resta costante e, quindi, l'imposta diventa proporzionale.
In altri termini, ragioni pratiche suggeriscono l'eliminazione del caso-limite dell'imposta avocatrice,
che pure teoricamente discende da un tipo di progressione in astratto immaginabile. Il che dice che si tratta
di una proprietà che risponde ad esigenza empirica e non necessariamente legata alla visione razionale del
problema. Donde la probabile scelta del termine «pura» per la progressione che può arrivare all'assorbimen-
to dell'imponibile o convergere all'unità.

B) Voglio, inoltre, dimostrare, anzitutto contro quella che è l'opinione che è stata presentata come
atta a caratterizzare una proprietà dell'imposta progressiva (d), come anch'essa sia empirica, e comunque, in
sede teorica, risponda ad una data ipotesi che rispecchi una particolare psicologia che, per giunta, non è ne-
cessariamente quella dell'imprenditore a cui la si riferisce nelle parole che paiono interpretare «il buon sen-
so e la natura umana», quale con il solito pittorico stile è descritta dall'Einaudi e fatta propria dal D'Adda-
rio.
Introducendo la variabile psicologica, in calcoli su quantità obiettive, il D'Addario ritiene the la
proprietà d) sia «fondamentale». «La natura umana ed il buon senso giustificano la sua preminenza».
«Imposte livellatrici ordinarie, che livellino cioè i redditi o i patrimoni, imposte deprimenti ordina-
rie o straordinarie, che riducano i redditi o i patrimoni a valori decrescenti, col crescere del loro ammontare,
non solo non sono ammesse nemmeno dai più autorevoli teorici del principio del minimo sacrificio (Edge-
worth), ma soprattutto urtano contro la natura umana ed il buon senso». «Non si può pretendere che gli uo-
mini dimentichino la loro natura e cessino di desiderare di vivere e di operare per conseguire fini a cui sono
propensi. Perciò bisogna che l'imposta sia prelevata tenendo conto che gli uomini non lavorano, non produ-
cono, non risparmiano, non azzardano senza l'aspettativa di un reddito bastevole a legittimare il loro affan-
narsi nel lavorare, risparmiare ed intraprendere». La proprietà d) sintetizza dunque l'esigenza che l'imposta
non annulli o smorzi l'interesse del contribuente alla produzione di un maggior reddito o alla accumulazione
di un maggior patrimonio, in quanto l'effetto principale dell'applicazione di imposte livellatrici o deprimenti
sarebbe quello di terrorizzare i possidenti ed i risparmiatori, di disamorarli dall'industria e di provocare,
perciò, incremento di miseria e di disoccupazione (EINAUDI, ibidem, sempre nella citazione adesiva del
D'Addario).
Rilevo che questa non è fondamentale nel senso tipicamente universale, assoluto, di ciò che nel si-
gnificato proprio letterale pacifico «serve di principio, di primaria ragione, di sostegno alle azioni umane».
Ma è proprietà la quale risponde a visione parziale, relativa ad un tipo di ipotetica psicologia del produttore
di redditi, e quindi presume uniformità di natura umana (ovvero di psicologia) interpretata dal buon senso
dell'osservatore o del legislatore, di cui si spieghi la premessa logica che verosimilmente presieda alla di-
stribuzione delle aliquote dell'imposta progressiva, secondo la suddetta proprietà.
Invero, basta pensare ad altra psicologia che spiega il comportamento di soggetti o uomini che lavo-
rano, producono e risparmiano ed azzardano, per individuare un reddito sufficiente a legittimare l'affannarsi
nel lavorare e nell'intraprendere, diverso da quello postulato dalle parole di Einaudi, che D'Addario fa pro-
prie. Infatti, se si considera la tendenza ad ottenere il massimo (compatibile con il tipo di vincolo fiscale)
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reddito o profitto, secondo la visione dei classici, si suppone che il comportamento del produttore di reddito
aderisca alla psichica di coloro per cui il massimo reddito coincida con la massima soddisfazione ritraibile
dal lavoro, specialmente di imprenditore, che si tiene esplicitamente presente nelle parole che spiegherebbe-
ro la uniforme esigenza della ripartizione dell'imposta secondo la progressione che eviti il difetto di quella
«per classi».
Riferendomi ad aggiornati economisti, che hanno presenti ipotesi suggerite da casistica in cui la
psichica degli imprenditori è altamente rappresentativa e fortemente analizzata (Stati Uniti), si nota la di-
vergenza fra massimo di soddisfazione e massimo di reddito prodotto od ottenuto dai protagonisti della vita
economica, perché si afferma:
I) Quella che viene espressa in termini di «supply of enterprise» tradotta nei termini di espressione
volontaristica di «programma di realizzare profitti», è una quantità subiettiva, variabile, di cui si riconosce
la difficoltà di misurazione, ma non si nega l'esistenza, che si rappresenta con curve di indifferenza, di cui si
osserva il punto (o i punti, generalizzando) di tangenza alla curva dell'utile.
II) In conseguenza, l'assunto della teoria classica o tradizionale, secondo il quale la tendenza del-
l'imprenditore a realizzare il massimo profitto, come condotta razionale, è assurta a ruolo di assioma evi-
dente, e tale da non chiedere verifica o giustificazione, rende più facile l'analisi teorica, ma risponde ad una
particolare psicologia psichica e costituisce un'ipotesi speciale; non atta, cioè, a spiegare tutti i fatti, moltis-
simi dei quali sono basati sui «nonpecuniary motives» che dominano - spontaneamente o come vincolo so-
ciale - la condotta degli imprenditori.
III) Il caso di coincidenza di massimo di profitto e di soddisfazione tratta dal lavoro, si avrebbe nel-
l'ipotesi in cui la curva di indifferenza fosse parallela all'asse delle ascisse, caso scarsamente verosimile o
speciale (nel diagramma relativo al caso di monopolio che figura nel mio citato saggio, a cui qui faccio rife-
rimento, sull'asse delle ascisse è rappresentata la produzione e sull'ordinata il reddito in termini monetari);
IV) Ben lontana da questa (III) assunzione è quella di soggetto tipico come imprenditore, estrema-
mente ambizioso di far da «capitano» di una grande industria, amante del prestigio e della potenza, che pre-
ferirà spingere l'espansione dei propri affari a costo anche che di minori profitti, rispetto a quelli, intendan-
si, altrimenti conseguibili.

Il soggetto come sopra configurato:


a) In condizioni di monopolio rinuncerà al massimo utile e andrà anche ad un livello di produzione a destra
di quello individuato sull'ascissa dall'ordinata dell'utile netto massimo, nella rappresentazione tradizionale
di Cournot. Infatti, nella figura 13, il punto di tangenza r della curva di indifferenza β (che sta a rappresen-
tare l'esistenza di una sensibile supply of enterprise) con la curva dell'utile netto (ricavata, come è noto, per
differenze positive e negative - rispettivamente utili e perdite - fra ricavi totali e costi totali, in altri termini
fra le ordinate della retta OM' e della curva OH'P'K') fa individuare in ascissa una produzione (sforzo) OR

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maggiore di quella OP, sebbene l'utile netto PM, corrispondente a quest'ultima, sia il massimo, in termini
monetari - e quindi maggiore di Rr - compatibile con l'andamento del ricavi e costi totali suddetti149.
b) In condizioni di concorrenza imperfetta, che faccia sorgere rendita, spingerà la produzione verso
un limite compatibile con il minimo di soddisfazione conseguibile con la professione di imprenditore. Sup-
posto, cioè, il reddito suddiviso in due quantità, nello spirito Marshalliano: 1) salario di direzione o sovrain-
tendenza all'impresa e 2) profitto come reddito residuale con natura di rendita, il minimo reddito affinché
l'imprenditore non abbandoni la sua funzione e si occupi di altro, è quello che porta al massimo di soddisfa-
zione, correlato con il salario di direzione dell'impresa, non con il profitto differenziale.

Prendendo a riferimento la tradizionale rappresentazione grafica (figura 14) delle condizioni di e-


quilibrio della impresa dominante in concorrenza imperfetta (pertanto qui esemplificata in un caso di mo-
nopolio parziale), si ha che l'imprenditore, anziché fermarsi alla produzione OG, dove costo marginale e ri-
cavo marginale dell'impresa si eguagliano (incontrandosi le curve mm' ed ER in T) e dove è massimo il suo
guadagno monetario (PZSQ), trova maggiore soddisfazione, nei termini indicati, aumentando gli sforzi e
portandosi, ad esempio, ad OG' (dove il costo marginale eguaglia il prezzo della domanda parziale ED per
l'impresa). Questo avviene anche se il guadagno si riduce ad ABT'D; se non addirittura alla produzione cor-
relata con l'eguaglianza del costo medio (curva uu') e del prezzo, in cui si ha assenza di guadagni differen-
ziali, e l'imprenditore si comporta come se operasse in condizioni di concorrenza perfetta, che avesse esau-
rito i suoi effetti.
c) In condizioni di libera concorrenza perfetta, non ideale (figura 15), l’imprenditore tenderà siste-
maticamente a superare la produzione OP, in cui il costo. marginale eguaglia il prezzo PP' e massimo è il
reddito
HFP'S, con natura di rendita150, e spingersi sino ad OR, produzione che, realizzando l'eguaglianza del costo
medio e del prezzo in R', non consente alcun reddito differenziale.
V) L'assunto della coincidenza dei due massimi, oggettivo o monetario e soggettivo o psicologico -
che poteva riferirsi alla mentalità puritana del successo che considerava il «far denaro» come fine a se stes-
so - risponde ad ipotesi atte a spiegare la prima fase del mondo capitalistico, e può accogliersi in prima ap-
prossimazione.

__________
149
Le curve di indifferenza y sono configurate con un andamento atto a significare una scarsa supply of enterprise,
propria dell'imprenditore per così dire «pigro», che trova il massimo di soddisfazione in corrispondenza ad utili mone-
tari minori (nell'esempio ZZ') di quello massimo PM ottenibile, ma accompagnati da minore sforzo (produzione) crea-
tivo (OZ < OP). La linea di indifferenza α, parallela all'asse delle ascisse, traduce graficamente il caso (III), in cui si ha
la coincidenza del massimo di soddisfazione con il massimo guadagno monetario: è questa, come si è detto, l'implicita
ipotesi in Cournot. Sull'argomento, ripeto, tornerò diffusamente in altro capitolo, allorché sarà affrontato lo studio de-
gli effetti economici dell'imposizione.
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AMOROSO L.: Economia di mercato, cit., cap. XXVII.
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E’ ritenuto come tipico dell'imprenditore dell'epoca nostra, il considerare il lavoro come una piace-
vole fatica, che traggono soddisfazioni dal lavoro - oltre quella che ottengono dal reddito che ricevono per
esso - dominati dall'ambizione, da spirito di emulazione e di rivalità, da orgoglio e simili impulsi.
VI) L'assunzione che l'imprenditore massimizza i profitti come norma di condotta, è basata su par-
ziali osservazioni ed implica una speciale ipotesi in tema di psicologia dell'imprenditore. Costituisce una
legge empirica che non si applica necessariamente ad ogni imprenditore e può essere considerata non vera
nei confronti dell'imprenditore tipico.
Ebbene, si faccia riferimento alla proprietà d), basata appunto sulla «natura umana» di cui, in se-
conda approssimazione, si sono esaminate le tendenze e le inclinazioni proprio in sede di atteggiamento
verso la ricchezza o il reddito come flusso: Questo permetterà di notare come, in sede di imposta progressi-
va, altri autori egregi abbiano visto un solo andamento della utilità di esso in rapporto al costo o sforzo o
slancio produttivo, e l’abbiano esteso a tutti i soggetti che vengano considerati come aventi reddito, che
l'imposta progressiva riduce.
Il che ci dice che la funzione λ(x) che figura nella relazione:

λ (x) = x [I – τ (x)]

che esprime il reddito residuo corrispondente al reddito imponibile x (dopo il prelevamento dell'imposta) e
che il D'Addario ritiene che deve essere «generalmente» crescente, può non esserlo o non esserlo necessa-
riamente, senza che si cada nel campo dell'irrazionale necessariamente o che si verifichino gli effetti temuti
dall'Einaudi e di altri interpreti di un mondo psicologico che può caratterizzare un settore della casistica.
Anche negli studi in cui gli statistici (come Fisher e Ragnar Frisch, Folliet, D'Addario ed altri) arre-
cano sussidio alla traduzione in termini quantitativi, coerentemente, di premesse economiche (e, dice Fol-
liet, filosofiche) (151) dell'imposta progressiva, troviamo la variabile psicologica e subiettiva, atteggiata ar-
bitrariamente a visione generale o normale di un campo in cui dominano pure il gusto, l'inclinazione, e, ben
vario, l'edonismo individuale. Questo può non far ritenere nè fondamentale nè necessaria la proprietà d) su
esposta, come caratteristica dell'imposizione progressiva, nei sistemi concreti, matematicamente espressi.
In altri termini, la proprietà d) ha una validità limitata da quella dell'ipotesi edonistica, collegata con
la «natura umana» e con «il buon senso». La proprietà d) non è generale, se non in quanto lo sia anche l'as-
sunto psicologico che essa implica. Per contro, come si è visto, autorevole ed aggiornata letteratura econo-
mica considera come ipotesi speciale o di prima approssimazione nelle costruzioni di teoria pura la coinci-
denza di massimo di profitto monetario e di soddisfazione.
Voglio ancora ricordare il Samuelson (Economics, cit., pagg. 173-174), il quale a proposito dell'ef-
fetto netto dell'imposizione progressiva - di fronte cioè alla preoccupazione che la medesima scoraggi lo
sforzo produttivo e l'assunzione di rischi - afferma che esso difficilmente può essere dogmatico. Sono, cioè,
concepibili ipotesi che non richiedono come necessaria e razionale la proprietà d).

__________
151
FOLLIET P., Les tarifs d'impôts. Essai de mathématique fiscales, Payot, Lausanne, pag. 56 e segg.
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CAPITOLO IV.

DEL PRINCIPIO DELLA «CAPACITÀ CONTRIBUTIVA»

I.

CAPACITÀ CONTRIBUTIVA “ASSOLUTA”, E CAPACITÀ CONTRIBUTIVA


“RELATIVA”AI VANTAGGI DELLA SPESA PUBBLICA.

Per la ripartizione delle imposte, si è introdotto il concetto di capacità contributiva, definito come
oggetto secondo il quale (in ragione, in proporzione, ecc.) legislatori, moralisti ed economisti vorrebbero
che si attuasse la ripartizione tributaria.
Codesto termine (capacità contributiva) per se stesso non dice nulla e non reca luce sulla razionalità
dei modi di ripartizione dei tributi generali. Per conferirgli un primo significato, si è collegato il concetto
con il modo di variare dei sacrifici di utilità dei possessori di ricchezza al variare dell'ammontare di essa, a
cui l'ente pubblico intenda attingere per coprire il costo de servizi pubblici indivisibili.
Ma l'avere creato un rapporto fra (a) criterio o concetto del sacrificio (eguale, proporzionale, mini-
mo, ecc.) e (b) principio o criterio della capacità contributiva o di prestazione non significa necessariamente
identificazione dei due principii o criteri.
Cohen Stuart ha analizzato precipuamente la variabile subiettiva (sacrificio di utilità) per la deter-
minazione del problema del modo di distribuire le imposte. Ammessa una definizione di eguaglianza, egli
ha coordinato i due criteri o principii (a) e (b). Invero, per questo autore, il «principio dell'imposizione se-
condo la capacità contributiva» «non dà tanto una misura per la ripartizione dell’imposta, quanto serve piut-
tosto a determinare l'oggetto dell'imposta». La misura della ripartizione è data invece dalla teoria del sacri-
ficio. Ed il principio della capacità contributiva, coordinato con il principio o la teoria del sacrificio, viene
enunciato da Cohen Stuart in questo modo: «tassazione secondo la capacità contributiva, tale che ne derivi
una eguaglianza di sacrificio» (op. cit. p. 445).
Comunque si concepiscano i rapporti fra i due principii o criteri o concetti si è cercato, a mezzo del-
la variabile utilità, di determinare il concetto o principio, altrimenti vuoto ed atto a create affermazioni tau-
tologiche, della capacità contributiva in ragione della quale si dovrebbe concorrere alle pubbliche spese. E’
un truismo caratteristico della dichiarazione della costituzione italiana.
Nel tentativo di dare significato da codesto punto di vista al concetto di capacità contributiva ed al
criterio che esso intende rappresentare, si è avvertito che si trascurava la relazione fra contribuzione tributa-
ria e consumo dei servizi pubblici o utilità dei servizi per i componenti la collettività. Invero, data una defi-
nizione di giustizia o di eguaglianza, se ne sono viste le coerenti deduzioni intorno ai modi di ripartire i tri-
buti in base alla variabile edonistica della utilità subiettiva.
Ma un altro tentativo razionale di determinare il criterio della capacità contributiva si è compiuto in
sede obiettiva, tenendo conto ponendo in relazione la ricchezza o il reddito dei contribuenti col consumo
presunto ed effettivo dei servizi pubblici indivisibili da parte dei contribuenti.
Altrimenti, dopo la spiegazione del modo di ripartire le imposte, introducendo la variabile edonisti-
ca (utilità subiettiva), occorrerebbe abbandonare detto principio o criterio, perché fallace e indeterminato o
scatola vuota («empty box») come altri l'ha denominato. Cito, ad esempio, le seguenti conclusioni, in tal
senso concordi, a cui fra l'altro arrivano gli autori indicati:
a) E. Sax152 afferma che «con quel principio» non si viene a dire «nulla di positivo dal punto di vi-
sta economico»;
b) Il Graziani153, al termine di una ragionata rassegna delle visioni edonistiche, asserisce che «sotto
qualunque aspetto si consideri il principio della capacità contributiva, di per sè non fornisce i criteri di ri-
partizione del carico tributario».
__________
152
SAX E., Principii teoretici di economia di stato, Bibl. d. Econ., serie V, vol. 15, p. 372.
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c) Il concetto di capacità contributiva resta indeterminato, ha asserito nelle sue lezioni, il Borgat-
ta154, argomenta che «l'assumere il reddito guadagnato, il patrimonio netto, il consumo, il trasferimento a ti-
tolo gratuito, quali indici di tale capacità, non precisa affatto come l'imposta debba commisurarsi agli indici
stessi, non giustifica nè l'imposta proporzionale nè l'imposta progressiva». E continua che, «per giungere a
queste conclusioni, è necessario prendere in considerazione l'utilità soggettiva del reddito». In altri termini,
una prima determinazione della capacità contributiva è stata offerta dalla variabile utilità, di cui si è consi-
derato il sacrificio, in base agli esaminati criteri di eguaglianza.
d) Ma altri autori insistono sulla vacuità del principio di capacità contributiva, in sè preso: il Myrdal
asserisce che «la espressione capacità contributiva (ability) in A. Smith è propriamente una frase piuttosto
soggettiva, e, se si vuole, demagogica, senza un profondo contenuto».
E’ apparsa necessaria, quindi, dopo avere legato il concetto alla variabile soggettiva (utilità sacrifi-
cabile), l'istituzione di un rapporto o di un riferimento di detto concetto di capacità contributiva al consumo
presunto od effettivo di servizi pubblici, pur definiti indivisibili, per individuare almeno i casi tipici di con-
sumo differenziale. Ciò si è pensato per conferire qualche significato a questo principio in sede di apprez-
zamenti gravitanti nel campo delle quantità obiettivamente determinabili o per lo meno presumibili, e spie-
gare numerosi tributi speciali che abbiano siffatta base razionale oltre che variazioni di tributi generali.
Ma anche in questo ordine logico, si può far posto a presunzioni di prima approssimazione, quale è
quella notoria per il rilievo conferitole, nella sua visione, dal De Viti De Marco: Egli, per risolvere l'inco-
gnita costituita dal consumo individuale dei servizi pubblici (che è determinato dalla domanda di essi da
parte dei singoli per le entrate non tributarie), presume che tutti i componenti della collettività sono consu-
matori di servizi pubblici generali e che il reddito di ogni membro della collettività è l'indice misuratore
della sua domanda di servizi pubblici generali cioè definiti indivisibili. Poiché è evidente il divario fra la
presunzione e il fenomeno concreto, il De Viti De Marco ha ipotizzato che il consumo medio, nel tempo e
nello spazio, dei servizi pubblici (indivisibili) è proporzionale al reddito di ogni cittadino.
Autori inglesi, come Benham e Dalton considerano falso il punto di partenza di questa argomenta-
zione. Dalton definisce semplicemente inaccertabile il vantaggio individuale ritraibile da spese compiute
per il fine del comune beneficio.
Peraltro la presunzione del De Viti può essere accolta in prima approssimazione per spiegare in ge-
nerale il sorgere dell'imposizione e per la soluzione di problemi di teoria pura, che si imperniano su detta
ipotesi di massima. E' vero che Edgeworth discute come appartenente al dominio della teoria pura il princi-
pio della «capacità» o «facoltà» contributiva, «in senso piuttosto oggettivo» (p. 325 op. cit.). Ma il ragio-
namento ipotetico legittima logicamente le deduzioni che si fanno discendere da ipotesi sul tipo di quella
che possiamo accogliere nella formulazione Devitiana, sebbene essa non resista ad approssimazioni logiche
e storiche ulteriore.
Invero, ad es. il Borgatta, che intendeva procedere ad ulteriori approssimazioni, di fronte alla pre-
sunzione di un rapporto di proporzionalità fra altezza di reddito e consumo di servizi pubblici indivisibili,
ammetteva che essa «esime dalla necessità di calcolare il valore economico dei servizi individualmente go-
duti, e stabilisce nel contempo il rapporto di controprestazione in base ad un criterio oggettivo». Ma «questa
presunzione generica - aggiungeva - non è appoggiata da alcuna riprova specifica. Vi sono dei servizi per i
quali può più razionalmente supporsi che la proiezione globale prestata dallo Stato sia costante (tutela della
vita e integrità personale, difesa militare). Vi sono dei servizi per i quali i benefici assicurati alle varie for-
me e ai vari ammontari di redditi, a parità di reddito, variano a seconda della natura, modo di produzione e
consumo del reddito, località in cui il contribuente vive, gusti e sentimenti subiettivi, etc. (viabilità, bonifi-
che, assistenza sociale). Vi sono servizi la cui prestazione giova direttamente a certi gruppi, mentre non al-
trettanto evidente ed importante è il vantaggio per altri (Appunti cit., pagg. 250-253).'
E dopo avere noverato casi in cui la presunzione della proporzionalità del consumo in rapporto al
reddito possa fornire criteri positivi di ripartizione, territorialmente, non ritiene che si possa attingere alla
capacità contributiva, così concepita, come preciso criterio per la ripartizione dell'imposta.
Questo pensiero è di molti. Tra essi è il Buehler, il quale giudica il riferimento ad indici oggettivi di
capacità contributiva (reddito ad es.) per la ripartizione dei tributi, come un riferimento ad una presunta non
reale capacità contributiva. (op. cit., p. 322). Secondo questo autore, ciò costituisce un progresso apparente
rispetto ai criteri del costo del servizio e del vantaggio che ne deriva ai contribuenti. «Ma detto principio
__________
153
GRAZIANI, Istituzioni, p. 267.
154
BORGATTA G., Appunti, 1932-33).
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della capacità contributiva indicata o misurata da elementi oggettivi, lascia i problemi della giustizia (o del-
l'eguaglianza) nella tassazione largamente insoluti» (id.).
Si tenga presente che si è enunciata la presunzione della proporzione fra indici obiettivi di capacità
contributiva e consumo di servizi pubblici, come prima approssimazione, per ragioni tecniche o di pratica
difficoltà di accertare il consumo, effettivo o presumibilmente verosimile, di servizi pubblici da parte di
singoli e di gruppi della collettività. Chi abbia seguito la visione del De Viti De Marco ha possibilità di no-
tare che il servizio pubblico speciale si differenzia da quello generale per ragione soltanto tecnica. Ancora,
nei casi delle tasse e del contributi di miglioria, lo Stato controlla più rigorosamente il consumo del gruppo
in confronto della collettività.
Tutto ciò è importante per quanto dirò in seguito. La vera soluzione razionale del problema della ri-
partizione del costo dei servizi pubblici si ha, infatti, con le imposte speciali. Il relativo sistema rende pos-
sibile un controllo più rigoroso, per gruppi e regioni, della utilizzazione dei servizi pubblici. Questo ci dice
che all'imposta generale si ricorre per necessità non logica ma tecnica, ovvero per la difficoltà empirica di
individuare, accertare i vantaggi differenziali o specifici dei servizi pubblici, nei confronti dei quali manchi
una diretta domanda da parte dei membri della collettività.
Secondo il De Viti, si abbandona l'imposizione speciale quando avvengono compensazioni di con-
sumo tra i vari gruppi di cittadini, nel totale dei servizi pubblici: nel senso che un gruppo paga l'imposta
speciale pel servizio A e un altro la paga pel servizio B: quid, nel caso che dette compensazioni non avven-
gano. La logica matematica suggerisce l'estensione della tassazione differenziale, speciale, ecc. per ristabili-
re una relazione fra dovere tributario specifico per consumo altrettanto specifico presunto od effettivo
(quando accertabile, approssimativamente) di servizi pubblici.
In altri termini, la categoria definita dei servizi indivisibili sorge per empirica difficoltà di accerta-
menti di consumi differenziali di servizi pubblici. La legislazione di molti paesi continua, come passo a ri-
cordare, a: α) prevedere ed estendere imposte speciali, particolari, straordinarie anche, sostitutive o aggiun-
tive rispetto a quelle generali normali od uniformi; β) contemplare la «manovra» della stessa imposizione di
tributi generali, per neutralizzare in tutto o in parte le rendite che derivano dal beneficiare in modo partico-
lare dei servizi pubblici senza contribuire con una tassazione corrispondentemente differenziale.
Il concetto di capacità contributiva, che chiamerei “assoluta” (perché fondata sulla presunzione di
un rapporto di proporzionalità ra indici della capacità contributiva - altezza del reddito, del patrimonio - e
quantum di consumo di servizi pubblici) lascia indeterminato il concetto.
Per superare questa indeterminatezza, indicherei con y la capacità contributiva assoluta (cioè non
riferita a consumo differenziale di servizi pubblici), con r il reddito monetario, con g il godimento o consu-
mo di servizi pubblici, presunto funzione del reddito medesimo.
Il che autorizza l'espressione:

y = f [ r, g (r) ]

la quale vuol dire che la capacità contributiva assoluta è funzione del reddito monetario dei contribuenti, e
del consumo o godimento dei servizi pubblici, che è a sua volta funzione del reddito, secondo l'ipotesi sul
tipo di quella enunciata dal De Viti De Marco (e da altri).
Concludo che, se si vuole togliere dal campo della indeterminazione il principio o concetto della
capacità contributiva, collegato ad indici o misure obiettive di esso, occorre uscire dal campo dell'assoluto
per avvicinarsi a quello del relativo (155).
__________
155
I concetti di capacità contributiva assoluta e relativa ricorrono ad es. presso Dalton, in tutt'altro significato. Egli
considera, come soggetti, due collettività che debbano contribuire ad una spesa comune. Esiste per ognuna di esse una
capacità di pagare ability to pay o taxable capacity, che, in termini assoluti, secondo alcuni è misurata dalla produzio-
ne totale di un paese meno quanto occorre per mantenere la popolazione al livello di sussistenza. Ma questo concetto
non serve a far decidere come due paesi debbano contribuire al costo di una essa di cui beneficino entrambi. Dalton af-
ferma che il concetto di capacità contributiva assoluta non risolve il problema, cioè non dà soluzione determinata al
problema. Egli intende la capacità contributiva relativa nel senso che, se una spesa comune aumenta, la proporzione
pagata dai contribuenti più ricchi deve aumentare e quella corrisposta dai più poveri deve diminuire. Il che ci porta an-
cora nel confronto fra ricchi e poveri, sia pure esteso a intere collettività, come risulta dagli esempi di spese comuni fra
nazioni, cioè in campo che è indipendente da quello che qui ci induce a trovare la spiegazione: 1 di tributi particolari
sostitutivi e aggiuntivi, di natura reale prevalentemente, rispetto a quelle normali e generali; 2 della manovra di questi
per porre in correlazione gli indici della capacità contributiva con i fatti di consumo dei servizi pubblici, nell'ambito di
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Anziché accontentarsi, in prima approssimazione, di ritenere tecnicamente sempre indivisibili i co-


sti dei servizi pubblici, qualificati come tali (indivisibili) per i vantaggi resi alla collettività, ovvero come
fecondi di benefici puramente comuni, occorre procedere ad ulteriori approssimazioni, proprio sulla via che
il De Viti denomina del «controllo più rigoroso» della utilizzazione dei servizi pubblici.
Infatti, il compito dello studioso è: I) spiegare la coesistenza di imposte generali con imposte spe-
ciali, addizionali, particolari, transitoriamente o permanentemente introdotte nel sistema tributario di molti
Stati, basate sull'accertamento differenziale di consumo di servizi pubblici; II) ovvero spiegare il perché di
talune variazioni nel regime formale, giuridico o tecnico di imposte dette generali per definizione.
Il principio indeterminato di capacità contributiva assoluta, cioè funzione del solo reddito, non ap-
pare atto a dare detta spiegazione, in quanto assume come effettivamente e tecnicamente sempre indivisibili
costi e vantaggi di servizi definiti generali.
Inoltre, ho fatto riferimento alla differenziazione delle spese, non per patrocinare o suggerire, a
guisa di precettistica, una politica; ma per tener conto degli effetti voluti dall'ipotetico legislatore in senso
finalistico, effetti da collegare razionalmente alla ripartizione delle entrate. Con approssimazione ulteriore
ai fatti, una classificazione era stata esposta dal finanziere americano Plehn (che ha tenuto conto dei criteri
del Cohen). Considerando gli appartenenti alla collettività di cui lo Stato soddisfa i bisogni, sono state di-
stinte le pubbliche erogazioni in:
1) spese che danno luogo ad un vantaggio comune a tutti gli appartenenti alla collettività (vantaggio indivi-
sibile);
2) spese che apportano un vantaggio particolare a certe «classi» e che indirettamente riescono utili alla col-
lettività nel suo complesso;
3) spese che avvantaggiano particolarmente alcune «persone»;
4) spese che giovano esclusivamente ad alcune persone.
Si è pensato che le spese della 4a categoria tendono a sparire e che la tendenza storica si svolge nel
senso del passaggio dalla 4a categoria alla prima.
Ma non si è osservato che, rispetto al fenomeno concreto, la 1a è una categoria astratta a cui corri-
sponde qualche storico caso eccezionale e che senza rispettare una costante tendenza evoluzionistica anche
nei tempi moderni, nella media dei paesi, le spese per i bisogni detti indivisibili per i loro effetti assumono
prevalentemente le caratteristiche della 2a categoria e talora della 3a della classificazione del Plehn.
Ciò ricordato, metto in evidenza che le spese pubbliche dette indivisibili discriminano spesso a fa-
vore di «gruppi» della collettività, dando luogo per essi a rendite di protezione, sotto forma di minore costo
relativo o di maggiore produzione di redditi o minore spesa di reddito, in relazione, appunto, al consumo o
godimento differenziale dei servizi pubblici.
La specializzazione dell'imposizione, in rapporto a tale processo, non è nuova come dimostrano e-
sempi di istituti fiscali corrispondenti alla denominazione di contributi di miglioria e di imposte speciali.
E’ un modo di conferire determinazione al concetto di capacità contributiva, ponendolo in relazione
con il consumo differenziale dei servizi pubblici, e per questo da me detto (in tale senso) di capacità contri-
butiva relativa. E’ lo spirito logico dei contributi e delle imposte speciali, esteso, dove tecnicamente possi-
bile, ad un settore che, in prima approssimazione, riguarda le imposte generali e solo queste e non anche la
«manovra» differenziale di esse (come gli esempi chiariranno) e la loro integrazione.
Volendo far ricorso, per contrapposizione, ai simboli, che per lunga esperienza non annebbiano i
concetti ma li chiariscono agli studenti, come testimoniano i risultati degli studi, si può così esprimere la
capacità contributiva relativa (y'):

y' = f [r, g(r, s)] [II]

laddove s esprime il vantaggio particolare o speciale che la spesa pubblica apporta a dati gruppi o a classi di
contribuenti rispetto ai rimanenti membri della collettività statale. Il valore di s in termini quantitativi può
essere dato:

__________
singoli Stati. Invero, come si è visto, il problema dell'imposta progressiva distribuzione dell'imposta fra ricchi e poveri
è stato tenuto separato da quello della simultanea partecipazione al consumo di servizi pubblici.
Inoltre i concetti del Dalton possono riguardare la pressione comparata tanto di imposizioni globali quanto di impo-
sizioni particolari, di distinti Stati di fronte ad una spesa comune.
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- dal minor costo o dal soprareddito in cui si traduca (effetti) il particolare beneficio della spesa pubblica
indivisibile. Ciò avviene quando si considerino i contribuenti come produttori di reddito;
- oppure da minore spesa nei bilanci individuali, quando il predetto beneficio si risolve (effetti) n sostitu-
zione di una spesa pubblica ad una spesa privata, reale o virtuale dei contribuenti, come consumatori di
reddito.

II.

ELISIONE DI «RENDITE DI PROTEZIONE» E


«PRINCIPIO DELLA CAPACITÀ CONTRIBUTIVA RELATIVA»

La portata della espressione [II] si può allargare quando si consideri non solo la discriminazione
della spesa (s) ma la discriminazione dei servizi pubblici in generale (156). Questo avviene con il protezioni-
smo doganale ed amministrativo in genere, di cui si può tener conto per il formarsi di «rendite di protezio-
ne» suscettibili di particolare tassazione. Il merito della formulazione [II] del concetto di capacità contribu-
tiva consiste nel porre qualche elemento di determinazione nella scatola “vuota” del principio della capacità
contributiva assoluta. Infatti, essa è «formalmente» di portata generale rispetto ad altri, ma basata su pre-
sunzioni estremamente ipotetiche o di prima approssimazione e sull'arbitrio delle premesse.
Fra i due grandi settori della attività finanziaria, che si risolva in spese, ho considerato a titolo e-
semplificativo:
I) Spese per lo sviluppo economico (vie, bonifiche e lavori pubblici in genere, premi e sovvenzioni
alle industrie, premi e garanzie agli esportatori, ecc.) che abbiano come effetto un aumento della produzione
del reddito.
Spese e provvedimenti che hanno come effetto l'incremento della produzione in dati settori, grazie
alla spesa pubblica, si hanno nel caso della organizzazione della difesa militare. Spese fuori del bilancio sta-
tale si determinano a carico dei contribuenti consumatori, applicando i dazi protettivi, che intendano agevo-
lare industrie manifatturiere, agrarie, ecc. Dal punto di vista degli effetti è come se lo Stato prelevasse tributi
e ne destinasse il provento a premi e sovvenzioni. La differenza, rispetto ai premi, è sostanzialmente tecni-
ca.
II) Spese per i «servizi sociali» (per la disoccupazione, le pensioni, l'istruzione, gli ospedali, le co-
lonie marine e montane, le abitazioni, ecc.).
Trattasi di spese per servizi o beni che sono strumentali per la produzione e condizionanti il consu-
mo dei beni prodotti dai privati individui. Parecchi servizi generali «direttamente profittano più ad alcuni
gruppi che ad altri, e indirettamente giovano a tutti» (De Viti).
Ho voluto ripetere le parole del De Viti per distinguere fra fini (spese rivolte direttamente a soddi-
sfare bisogni della collettività), e vantaggi od effetti che indirettamente o mediatamente vanno alla colletti-
vità, ma che direttamente (anche nel senso temporale) vanno a beneficio di gruppi particolari. In questo
senso ho accolto la classificazione del Plehn, cioè, vantaggi che sono gli effetti della attività finanziaria.
L'indagine sugli effetti di questi ordini di spese, di cui all'estero si sono occupati Sykes, Shirras,
Dalton in passato, contribuisce a far valutare «le ripercussioni (a favore dei singoli, come appartenenti a di-
stinti gruppi di classi sociali, nonché a favore della collettività) dei due casi tipici di discriminazione della
spesa pubblica, su indicati con accenni esemplificativi».
«In linea generale, la spesa pubblica ha effetti sulla produzione e sulla distribuzione della ricchez-
za. In particolare, modifica, a secondo dell'orientamento e della discriminazione, la capacità di lavoro e di
risparmio ed influisce sulla disposizione al risparmio, e gli effetti sulla efficienza del lavoratori si estendono
dalle generazioni attuali a quelle future. In via indiretta si hanno vantaggi per la collettività». Più evidenti
sono gli effetti del concorso della attività finanziaria sulle combinazioni produttive, con creazione di redditi
differenziali dovuti a questa interferenza statale.
__________
156
La formula [II] potrebbe divenire y' = f [r, gr, s, z] dove z rappresenta il vantaggio differenziale derivante da
provvedimenti legislativi, da protezionismo amministrativo o doganale.
153
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In ogni caso, la lievitazione della spesa statale e delle altre equivalenti forme di protezione differen-
ziale richiede tempo. Invero, nel tempo, si contribuisce alla creazione di sopra-redditi, con la iniziativa sta-
tale o pubblica, che si traduce in spese o in equivalenti atti di protezione differenziale, nel provvedere ai bi-
sogni collettivi (protezione generale).
Nel tempo, l'attività finanziaria getta le basi feconde di una successiva tassazione differenziale o
della elisione parziale o totale delle rendite di protezione. Si tenga presente che siamo sempre in sede di
spiegazione di istituti e tributi che si presentano ognora più nella legislazione, nonché di variazioni diffe-
renziali della misura delle imposte normali, con la stessa funzione che si assegna ad imposte ad hoc (in ge-
nerale ho accennato al significato della «manovra» delle entrate tributarie normali e delle spese, nei saggio
cit.).
In proposito, il Gangemi(157) scrive: «Negli stati moderni, teoria e pratica hanno ritenuta giusta la
tassazione delle rendite di protezione; non può quindi disconoscersi la tesi del d'Albergo sulla tassazione
differenziale ove l'accertamento è facile, specialmente nel settore delle spese per lo sviluppo economico».
Ma egli aggiunge due osservazioni: a) adottando un sistema razionale di tassazione dei redditi nor-
mali, riesce, forse, superflua quella tassazione differenziale; b) essendo le «rendite» originate da una politi-
ca rivolta ad incoraggiare lo sviluppo di talune produzioni o iniziative sociali, la tassazione di esse potrebbe
indurre all'arresto delle attività stimolate: «le due politiche potrebbero essere contraddittorie».
La mia non è, tuttavia, una tesi che propugni riforme. Ma è una spiegazione di ciò che operano gli
Stati; cosi che il solo riferimento alla casistica dà una prima risposta a queste osservazioni caute, che tengo
presenti solo per chiarire meglio il mio pensiero.
Già la risposta alla prima osservazione era pacifica nella scienza che spiegava la legislazione coe-
rentemente assisa su queste argomentazioni: per questo non vi insistevo nel 1936. Ad es. a proposito della
tassazione dei plusvalori, dovuti alla iniziativa pubblica (opere pubbliche specificamente o genericamente
atte a creare sopraredditi), lo stesso Borgatta faceva l'esempio di un fatto eccezionale (guerra, ecc.) che ac-
cresca improvvisamente la domanda collettiva di prodotti offerti dagli industriali.
Dopo avere individuato, secondo la scienza pacifica, il fondamento per una tassazione differenziale,
alla luce della capacità contributiva (che ho denominato relativa alla discriminazione di vantaggi della spe-
sa pubblica) il Borgatta già rispondeva a chi, nel lontano passato teorico, aveva obiettato che «se esiste u-
n'imposta generale permanente, sui redditi dei capitali, anche l'incremento di valore del capitale viene ad
essa automaticamente assoggettato».
Fatto l'esempio di un improvviso raddoppiamento del livello dei fitti, il Borgatta158 aggiungeva che
la giustificazione del tributo differenziale sugli incrementi di valore capitale, che sconta il maggior reddito,
va quindi genericamente cercata nell'aumento della capacità contributiva. Infatti a tale aumento già automa-
ticamente corrisponde una maggiore imposta in talune caratteristiche della capacità contributiva che, in
questo caso, giustificano la tassazione. Ciò sia per le condizioni (concorso statale specifico o differenziato)
in cui il plusvalore si forma, in parte senza adeguata opera personale del proprietario di beni; sia, secondo
Borgatta, per l'incidenza dell'imposta su colui che è proprietario nel momento in cui si forma il plusvalore.
«Ne si può opporre - scrivevo, a mia volta, nel 1936 - che, ammesso un sistema di tassazione nor-
male o generale su tutti i redditi prodotti, si possa con esso automaticamente colpire il vantaggio differen-
ziale arrecato dalla spesa pubblica a dati gruppi di contribuenti produttori, perché tale vantaggio si tradur-
rebbe nella produzione di un maggior reddito (rispetto al tempo in cui non si aveva la discriminazione della
spesa pubblica e quindi dopo l'aumento della spesa pubblica discriminante)».
Invero la relazione fra produzione di reddito e consumo di servizi pubblici non è uniforme (come si
suppone, solo in prima approssimazione): l'ente pubblico ha fornito le condizioni esterne del sorgere di un
reddito differenziale. E la tassazione delle «rendite di protezione» sorge dalla fondata presunzione di mag-
giori vantaggi relativi che il soggetto medio può ritrarre da spese pubbliche discriminanti a favore di dati
gruppi.
Inoltre il secondo motivo, per cui non «basta» la tassazione «normale» ad esaurire la capacità con-
tributiva relativa, sta nella teoria pacifica che, da almeno mezzo secolo, spiega e giustifica la documenta-
zione storica (nei vari paesi) della coesistenza di imposte generali sul reddito prodotto con imposte speciali
sui gruppi di contribuenti, che si avvantaggiano in modo speciale di servizi di utilità generale.

__________
157
Il Gangemi op. cit., pag. 425-26 e 473-4.
158
Gino Borgata, (Appunti, pagg. 147-50)
154
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I lettori ricorderanno le genesi logica del contributo di miglioria. Esso colpisce parte dell'incremen-
to di valore determinato dall'opera pubblica.
Lo stesso dicasi per la tassazione differenziale del consumo di servizi di viabilità, da parte di impre-
se che si avvalgano di mezzi di trasporto: non potrebbe lo Stato attendere soltanto il maggior reddito pro-
dottosi in grazia del servizio efficiente di viabilità offerto dall'ente pubblico e tassarlo (ad es. in Italia) con
l'imposta reale sui redditi industriali e commerciali (di ricchezza mobile)?
Ma il maggior reddito sorge da particolare e differenziato concorso dell'ente pubblico con effetto
particolare a vantaggio di alcuni. Inoltre l'intervento differenziale di produttività, nel caso particolare, po-
trebbe venir meno per incapacità subiettiva degli imprenditori di trarre vantaggio dalla “economia esterna”,
costituita dal concorso pubblico in sede di strumentalità del servizio compiuto con la spesa pubblica. Dun-
que, lo Stato presume il vantaggio apportato, scontando la capacità media di avvalersene economicamente
(159). E preleva un contributo a carico di coloro che si avvantaggiano in misura differenziale del servizio
della viabilità, consumandolo particolarmente o maggiormente.
Detta politica legislativa non è contraddittoria, e non conduce all'arresto delle attività stimolate.
Non si è mai visto - per quello che conosco - che si sia rinunciato a costruire o ad essere investitori
proprietari per la pressione del contributo di miglioria specifica, e raramente può essere avvenuto per l'im-
posta sulle aree fabbricabili, logicamente basata sulla utilizzazione differenziale di più spese pubbliche de-
gli enti locali, che creano lo sviluppo sociale ed economico. Né è avvenuto che si sia rinunciato ad essere
possessori di mezzi di trasporto per sola tema del contributo di utenza stradale o di tasse di circolazione di
autoveicoli; o che si sia rinunciato alla attività di imprenditori come fornitori dello stato per armamenti e di-
fesa militare, solo perché lo stato elida in parte o in tutto la rendita di protezione, dovuta al fatto che imme-
diatamente si avvantaggino i fornitori e mediatamente la collettività (160).
Già aveva annotato il Borgata che le imposte di questo genere non deprimono le attività produttive,
le iniziative economiche (riferendosi a quelle sulla tassazione differenziale del plusvalori). Lo stesso autore
afferma che i sovraredditi resi possibili dalla limitazione della concorrenza debbono sopportare l'imposta
sui sovraredditi, oltre quella normale. Ciò è contro il pensiero espresso dall'Einaudi a proposito dell'ecce-
denza di reddito che deriva dal possesso di brevetti, da protezioni doganali, da leggi di limitazione di nuovi
impianti industriali, ecc.: «Il legislatore non può nel tempo stesso volere la causa e negare gli eventuali ef-
fetti, che sarebbero le eccedenze di reddito, anch’esse volute per ottenere ed affrettare il raggiungi mento
del fine. Non può illudersi di tassare l'eccedenza di reddito e ottenere ciononostante i risultati desiderati»161.
Ma l'Einaudi ha pur premesso che il legislatore volle quei brevetti, quelle protezioni industriali, e
quelle limitazioni non a scopo di arricchimento di privilegiati, ma di pubblico vantaggio. E’ proprio questa
la sua confusione. Invero, ciò che si desidera, coerentemente, è che l'effetto non rimanga o non rimanga tut-
to nelle mani di coloro che sono strumento per il conseguimento di scopi o fini di interesse generale.
Quando ha compiuto opere pubbliche per scopi di interesse generale e ha determinato, come effetto,
rendite di protezione o guadagni differenziali, il legislatore ha colpito con contributi di miglioria o con im-
poste i profitti di congiuntura (creata, appunto, a loro favore nell'avvalersi di imprenditori, capitalisti, inve-
stitori, ecc. per soddisfare (fine) bisogni della collettività). E non ha allontanato sempre o certamente i pro-
tagonisti della vita economica dal compito che hanno assolto, determinando vantaggi indiretti (effetti) per la
collettività e immediati a proprio profitto.
La contraddizione sembra ancora più flagrante, a quanti non pensano secondo la logica economica,
nel caso di spese sociali o per il benessere della collettività.

__________
159
STAMP J, nei Principii fondamentali pag. 434 della mia traduzione nella Nuova Collana di Economisti, addirittu-
ra, riferendosi alla congiuntura bellica, considera l'imposta sui sopraprofitti, come il corrispettivo delle condizioni che
lo Stato come perché porgano i sopraprofitti medesimi. E qualifica detta imposta basata sulla capacità contributive
speciale, come pagamento fatto sui profitti «lordi», «prima che essi possano divenire reddito vero e proprio».
160
A proposito di effetti della spesa pubblica nel tempo si tenga presente - cosa che i pretesi critici di queste visioni
non hanno capito, pur sottolineando inconsciamente la parola tempo - che negli Stati Uniti, non appena iniziato il ri-
torno, si è discussa nel 1950 l'introduzione del tributo sui profitti sopranormali, connessi con la spesa pubblica che
immediatamente va a vantaggio dei fornitori statali in via eccezionale; le autorità responsabili hanno affermato che
l'efficienza della difesa, ovvero l'effetto del servizio per la collettività, si avrà mediatamente, nonostante sia il fine di-
retto.
161
EINAUDI LUIGI , Miti e paradossi, cit., cap. III)
155
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Sarebbe contraddittorio la tassazione differenziale di categorie (i meno abbienti) di cui si sia, siste-
maticamente, migliorata la condizione economica, con le spese per i “servizi sociali, senza tener conto del
fattore tempo. Invero per far «nascere» una capacità contributiva relativa a vantaggi differenziali, occorre
che si abbia un periodo di tempo durante il quale l'attività dell'ente pubblico, che massimamente si attui con
spese a favore di determinate classi, fecondi strumentalmente l'attività privata.
I) Così nello spiegare il concetto di protezione, usato dai classici a riassumere il complesso dei ser-
vizi pubblici resi dallo stato alla collettività, scrivevo che i vantaggi differenziali provenienti dalla spesa
pubblica possono considerarsi come con-causa determinante minor costo oppure maggiore produzione di
reddito, e come causa di minore spesa di reddito, individuale per sostituzione di una spesa pubblica ad una
spesa privata nella fase del consumo della ricchezza.
II) Il processo di trasformazione delle quantità economiche, nel tempo, anche attraverso l'impiego
di esse al fine della elevazione delle capacità di lavoro e della produttività di esso, era stato visto dal Baro-
ne, allorché egli temperava la visione unilaterale di coloro che ponevano l'accento sulla variabile costituita
dal risparmio monetario e in beni reali, come quantità da rendere massima.
Ma è tutt’altro che contraddittorio con l’intento di far accrescere di accentuare il processo di capita-
lizzazione, da cui dipende il benessere dei popoli, un indirizzo della spesa pubblica rivolto a migliorare le
condizioni di vita e le qualità dei «lavoratori», nel senso della loro efficienza come unità produttiva. Il Ba-
rone162 ne dava una intuitiva visione attraverso l’espressione grafica, rappresentando sull’asse delle ordinate
sia la produttività del lavoro (secondo le curve p e q), sia l’altezza del reddito prodotto in

relazione a detta produttività. Sull’asse delle ascisse figura il flusso di risparmio monetario che «si accom-
pagna» ai lavoratori. Rimanendo costante l’efficienza produttiva dei lavoratori, per assenza di spesa pubbli-
ca discriminante a favore di una data classe (nel caso i lavoratori privi di propri mezzi capitalistici), con un
incremento nl di risparmio monetario fatto «accompagnare» ai lavoratori, rimanendo cioè immutata la pro-
duttività del lavoro, si avrebbe un incremento di reddito misurato da RS.
Ma se il risparmio monetario venisse destinato anche ad elevare le condizioni di vita e l’efficienza
dei lavoratori, ad es. nella misura nl, sia direttamente ad iniziativa dei datori di lavoro, sia e sopratutto at-
traverso la funzione sociale dell'ente pubblico e, in particolare, a mezzo della spesa pubblica discriminante
a favore di detta categoria, si potrebbe avere una più elevata curva di produttività (q), e quindi, rispetto alla
situazione precedente, un incremento di reddito MT maggiore di RS. (Queste idee erano nelle mie lezioni
del 1944).
Alla fine di detto processo di trasformazione del risparmio monetario in maggior efficienza di un
fattore, qui costituito dal lavoro, si possono coerentemente rivedere i ragionamenti in campo tributario. E
mentre Rl - t (essendo t l'imposta, ad es., diretta o indiretta con specifica incidenza sul reddito dei lavoratori
come prestatori d'opera), potrebbe dare come risultato m, cioè un minimo reddito privo di capacità contribu-
tiva secondo un giudizio storico; per contro la quantità Tn - t, (essendo Tn maggiore di SR), dato anche il
tributo t testé ipotizzato, potrebbe costituire un residuo r > m. Coerentemente, cioè, verificatisi gli effetti

__________
162
BARONE E., Principii di economia finanziaria, cit., p. 160.
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sperati dalla discriminazione della spesa pubblica, si avrebbe creazione di una materia imponibile senza
contraddizione fra politica sociale e politica fiscale, la prima apprestando le basi logiche della seconda (163).
III) Agevolando i soggetti o membri della collettività in sede di consumo della ricchezza in un pri-
mo tempo, si provocano effetti sulla capacità di lavoro e sulla efficienza dei lavoratori in un secondo tempo,
oltre ad aumentare istantaneamente il reddito reale degli appartenenti alle classi basse di redditieri. Ho cita-
to il Sykes164 per documentare il fatto che: a) le classi più povere hanno beneficiato più delle classi ricche
(nel periodo esaminato – vedi fattore tempo), delle spese per i servizi sociali, che si sono tradotte in aumen-
to relativo dei redditi reali; b). tali classi hanno potuto risparmiare più di quelle più ricche confrontando
l'anteguerra con il dopoguerra. Inoltre ho ricordato lo Shirras165 per rilevare analoghe conclusioni, nel con-
frontare variazioni di redditi e risparmi e investimenti del ricchi e dei poveri nelle due epoche.
IV) Si tratta di trar profitto da spese pubbliche discriminanti, di concorso della spesa nel maggior
reddito, di spesa che si risolve in vantaggio differenziale. E cosi via. Tutti processi creativi, nel tempo.
Nel dimostrare, fra Taluni problemi della finanza, il Borgatta166 giustificava il largo interesse dedi-
cato ai fenomeni della spesa pubblica ed allo studio degli effetti economici della spesa stessa nella più re-
cente dottrina», noverando fra gli scritti di Shirras, Pigou, Dalton, Adarkar, d’Albergo167. Da par suo, non vi
trovava alcuna contraddizione, ma capacità di spiegare istituti e orientamenti di politica tributaria che, al-
trimenti, rimarrebbero senza spiegazione alcuna.
Egli critica la supposizione («erronea e transeunte impostazione metodologica») «che la ricchezza
prelevata dallo Stato non rientri nell'equilibrio economico modificando a sua volta domande, costi, redditi
privati e valori», e discute anche il criterio di esenzione di reddito minimo: «Poiché vi sono dei servizi e
funzioni statali che concorrono a creare le condizioni essenziali di esistenza e lavoro per tutte le classi, non
vi sarebbe ragione di escludere la parte di reddito che corrisponde al costo di tali funzioni».
Questo richiamo non è un fuor di luogo, ma serve a dare ai lettori una qualche spiegazione di un va-
sto esempio storico a cui si assiste nel dopoguerra in Inghilterra, paese in cui, come la bibliografia sopra ci-

__________
163
Nel caso inglese, invero, da un canto si sono avute agevolazioni formali, quale l'aumento del reddito minima im-
ponibile da 135 a 140 sterline per il celibe: ma tenuto conto della svalutazione della moneta, sulla base di un terzo cir-
ca di diminuzione del potere d'acquisto, il minimo è realmente abbassato.
Nei casi di contribuenti coniugati senza prole e specialmente di coniugati con tre figli, si è avuta una diminuzione di
pressione tributaria per imposizione diretta. Ma essa è stata più che neutralizzata dalla introduzione di un'imposta che
non esisteva, con tale ordinamento e con tanta estensione, prima che la spesa pubblica discriminasse in senso sociale a
favore delle categorie dei meno abbienti, con redditi di lavoro.
Invero, da 181 milioni di sterline nel 1946-7, l'onere di detta imposta, che colpisce per più di meta del proprio pro-
vento, vestiario e articoli casalinghi, è passato a circa 300 milioni di sterline nel 1950-51. Parallelamente ed anche a
causa di questo tributo nuovo, indiretto e di rimaneggiamenti nel regime di altri tributi indiretti il gettito comparato
delle imposte dirette e indirette, che era di 64,1% del totale per le dirette e del 35,9% per le indirette è mutato note-
volmente. Infatti nel 1949-50 già si aveva per le imposte una percentuale del 55,7 e per le indirette del 44,3. Si pensi al
periodo anteriore, allorché i conservatori erano at potere 1938-39, e si trovano quasi le identiche proporzioni che si os-
servano dopo cinque anni di esperimento laburista a indirizzo «sociale», soprattutto nella discriminazione delle spese
pubbliche, «indivisibili» per definizione. Invero nel 1938-39 si aveva per le imposte dirette, del totale, il 55,7% e per
le indirette il 44,3%, cioè la stessa proporzione a cui ha condotto la politica sociale laburista. Contraddizione? No, cer-
tamente. Ma la manovra delle spese pubbliche ha verosimilmente modificato, simultaneamente alla politica tributaria,
la capacità contributiva relativa, talmente che su questa base si è dovuta orientare la distribuzione dei tributi, curando
capacità di sostenere nuovi oneri fiscali nei settori avvantaggiati in modo particolare dalla spesa pubblica, discriminan-
te in senso finalistico.
Senza l'introduzione del criterio della capacità contributiva relativa non si saprebbe dare congrua spiegazione di que-
sti fatti, che altrimenti, appunto, apparirebbero contraddittori laddove rispondono ad una logica connessa con la redi-
stribuzione del potere d'acquisto sull'intero mercato e con la nuova distribuzione dei redditi. La contraddizione, secon-
do le cronache di cui si tenta di dare una parziale spiegazione, data la complessità del concreto, in sede fiscale è sem-
brata tale e inammissibile ad esponenti della classe governante che hanno mosso critiche, in tal senso, al bilancio della
propria parte e creato crisi di direzione politica in Inghilterra.
164
SYKES, British public expenditure 1921-31, Londra, 1933.
165
SHIRRAS, Science of public finance, vol. I, 1936, p. 65
166
BORGATTA G., Studi in onore di Giovanni Pacchioni», Giuffrè, 1939.
167
D’ALBERGO E., Discriminazione delle spese pubbliche indivisibili ed elisione delle rendite di protezione.
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tata dimostra, si esamina razionalmente l'insieme di effetti e di rendite dovuti alla azione statale nel campo
della spesa pubblica (168).
Infatti perfino il governo Laburista, che ha un programma sociale altamente assistenziale, ha intro-
dotto misure che potrebbero parere contraddittorie. In bilanci, in cui si teneva alla incentività dei provve-
dimenti, nei confronti dell'aumento del reddito e della occupazione delle forze di lavoro, e man mano (tem-
po) che le ingenti spese sociali hanno dato il loro effetto (che la distribuzione nuova dei redditi già faceva
rilevare tendenzialmente) a carico soprattutto dei meno abbienti, nel 1948-49, con apparante contraddizio-
ne s'elevavano le imposte indirette sui consumi anche popolari; e parimenti si mantenevano i minimi di e-
senzione dall'imposizione diretta sul reddito (income tax) al livello eccezionale di anteguerra, con detrazioni
sostanzialmente inferiori a quelle del 1939, tenendo conto della sopravvenuta svalutazione monetaria.
Qualora si trascuri il fattore tempo con gli effetti delle distribuzioni della ricchezza operate attraver-
so la manovra delle entrate e delle spese, si erra in quanto si è portati a ritenere che lo stato si contraddica
come il seminatore che, gettata la semente e apportato il fertilizzante e compiuta la irrigazione (spesa pub-
blica, nella parabola), istantaneamente se ne penta e ne riprenda in tutto o in parte. Ma esso attende che si
abbiano gli effetti della seminagione con il concorso oltre che dell'humus, naturale, del fertilizzante e dell'ir-
rigazione. E poi miete più, come raccolto, dove abbia apportato la propria azione fecondatrice. In questo

__________
168
In un lavoro di laurea del 1950 ho fatto esaminare, senza prevenzioni dottrinarie, gli aspetti della politica finan-
ziaria britannica nel dopoguerra. Non soltanto ne è emerso il riaffermarsi di imposizione basata sul criterio che qui di-
co, ancora, della capacità contributiva relativa ai vantaggi effetti differenziali oggettivamente accertati o presunti della
spesa pubblica con fini di carattere generale, nel caso dell'excess profits tax, sui redditi di congiuntura bellica, accanto
all’income-tax, e come trasformazione della excess-profits duty; ma si è consolidata, assumendo il nome di profits-tax,
l'imposizione speciale alternativa dell'EPT, che come National-defence-contribution, prima che si arrivasse alla guerra
del 1939. con la legge di bilancio per il 1937-38, colpiva l'aumento dei profitti industriali, eccedenti la media del 1933-
35, per presunta utilizzazione differenziale del servizio della difesa Vedi il saggio cit. E. D'ALBERGO, Discriminazione
delle spese pubbliche, ecc..
Ma questo riguarda la strumentalità per i fatti di produzione. si pensi a ciò che è avvenuto per le spese destinate al
servizio sociale o al benessere, secondo il programma di Beveridge assistenza «dalla culla alla morte».
Per provvedere a queste esigenze di carattere sociale, lo stato ha contribuito con apporti attinti anche ai maggiori
redditieri, con una progressività avocatoria, che ha modificato se non il tipo secondo Pareto, costante la forma della di-
stribuzione dei redditi dell'Inghilterra.
La statistica che ho riportato in altra sede, prima che sulla «Rivista di studi economici aziendali», è stata talmente
impressionante che il Griziotti l'ha riferita proprio nel trattare di capacità contributiva relativa, assumendo senza vole-
re la mia dizione e i mie concetti del 1936, nello scritto sulla capacità contributiva «Rivista di diritto finanziario e
scienza delle finanze», 1949, N. 1. si tratta di provvidenze a favore dei lavoratori finanziate oltre che con iniziative vo-
lontarie con l'imposizione progressiva che «per la sua progressione fino al 90% ed oltre ha ridotto da 7.000 nel 1938-
39 a 60 nel 1944-45, il numero dei redditieri venti 6.000 e più sterline» di reddito globale.
Ma è bene avvalersi dell'intera tabellina seguente:

Numero di individui per classi di redditi netti in sterline accertati nel 1938-39 e 1945-46 al netto di altre imposte:

1938-39 1945-46
da 250 a 500 1.820.000 5.225.000
“ 500 “ 1.000 450.000 652.000
“ 1.000 “ 2.000 155.000 137.000
“ 2.000 “ 4.000 56.000 34.605
“ 4.000 “ 6.000 12.000 840
“ 6.000 e più 7.000 45

la quale non si ferma alla decimazione delta piramide o della parte più alta della sezione di fuso che rappresenta ge-
ometricamente la distribuzione dei redditi come si visto è l'imposta progressiva nel precedente capitolo. Ma lo schiac-
ciamento della figura predetta si è accompagnato all'aumento del numero di coloro che godevano di redditi minori e
medi anche, e in misura considerevole, per l'innalzamento di redditieri prima appartenenti a classi di reddito inferiori
al minimo di 250 sterline.
Orbene non si vuole eccedere nella interpretazione dei fatti, per tema di incorrere nel post hoc ergo propter hoc: cioè
nell’arbitrio della induzione. Ma conforta nel ritenere che la politica della spesa pubblica abbia dato luogo a «rendite
di protezione», e l’insieme delle misure ad elisione delle stesse, in parte.
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senso, credo vada interpretato il Taylor169, nel concludere sugli effetti dei lavori pubblici e sui programmi di
sicurezza sociale e di benessere collettivo (compresa l'educazione, l'assistenza ai giovani, la nutrizione, l'i-
giene pubblica, ecc). I progetti di sviluppo, attuati mobilitando le pubbliche risorse, non soltanto innalzano
la produttività e il tenor di vita delle «aree» in cui sono compiuti, ma aprono possibilità di investimenti ai
privati. Per di più «le spese per il benessere sociale agiscono come un sistema di irrigazione, che distribui-
sce il potere di acquisto ampiamente sull'intero paese, innalzando come effetto (si intende nel tempo) il li-
vello della spesa nei consumi e l'attività produttiva».

A dimostrazione della fecondità del criterio e della attitudine esplicativa del principio della capacità
contributiva relativa, ricordo alcuni esempi attinti a legislazione introdotta in questi anni o in discussione,
oltre a quello della tassazione differenziale degli utili derivanti dal riarmo:
a) La stessa legislazione inglese ha introdotto per iniziativa laburista la special contribution sui
redditi da investimenti, che si suppongono avvantaggiati dalla politica incentiva che orienta il bilancio in-
glese (entrate e spese);
b) La legislazione italiana (28-4-1947 n. 330) ha introdotto l'imposta sugli utili di contingenza del
commercio estero, di cui in altra sede ho discusso la parzialità. Taccio di altre imposte straordinarie ben no-
te su utili di congiuntura economica e politica, di questo dopoguerra;
c) si discute dell'imposta di inflazione, che vide la luce nel primo dopoguerra tedesco. Essa mirava
ad elidere le rendite di protezione derivanti dalla spesa pubblica. L’imposta non mirava a colpire eccedenze
«apparenti» di redditi, di cui discorre l'Einaudi (Miti e paradossi, cit., p. 82-83), ma effettivi guadagni diffe-
renziali. Questi sono intesi come i saldi netti che rimangono a favore di quanti operino in campo economico
in dati periodi, in cui non varino nella stessa misura: α) i costi (fitti, imposte, tariffe, salari, ecc.), e β) le vo-
ci del passivo (debiti accertabili, ecc.).
La motivazione, di cui in α), dà contenuto alla logica che, in parte, stava alla base dell'imposta ita-
liana del 1936 sul patrimonio immobiliare; mentre la seconda motivazione β) spiegava le imposte d'infla-
zione tedesca del 1924-25 (170).

__________
169
TAYLOR, The economics of pubblic finance, cit., p. 142.
170
Con l'ordinanza del 24 febbraio 1924, il governo tedesco introdusse quattro tributi speciali, per colpire i vantaggi
di cui erano venuti a godere alcune vaste categorie di debitori, in conseguenza della svalutazione del marco, che, come
è noto, aveva assunto proporzioni tali da annullare praticamente i debiti contratti, a loro tempo, in moneta sana. Basti
ricordare che nel novembre 1923 il marco-oro venne fatto equivalente a mille miliardi carta; e suite borse estere le
quotazioni andavano anche oltre.
Questa ordinanza veniva a regolare l'assai dibattuta questione della rivalutazione dei crediti, sulla quale in senso po-
sitivo si era ormai orientata, dopo numerose controversie, la giurisprudenza, che aveva riconosciuto come atto contra-
rio alla buona fede il rimborso con moneta nominalmente immutata, ma di potere d'acquisto pressoché del tutto annul-
lato, di crediti ipotecari, ad esempio, su immobili ancora posseduti dal mutuatario.
1 Per quanto riguarda i prestiti obbligazionari le imprese industriali, in genere, che avevano tratto beneficio dalla lo-
ro svalutazione, vennero assoggettate ad una imposta pari all'1,7% del valore-oro originario delle obbligazioni; mentre
per quelle già rimborsati per un ammontare inferiore al livello di rivalutazione fissato nella ordinanza medesimi 15%
del valore-oro originario, pertanto con limitazione della perdita all'85% in termini reali, l'imposta assorbiva anche la
differenza risultante: in altre parole, in quest'ultimo caso, lo Stato si sostituiva al creditore privato nel godimento della
rivalutazione accordata.
2 Quanto ai debiti ipotecari, i vantaggi creati dalla loro svalutazione furono colpiti con due imposte riguardanti, ri-
spettivamente, le ipoteche sui fondi rustici e sui fabbricati.
La tecnica della prima imposta era analoga a quella sui prestiti obbligazionari, cioè a dire: 1,7% commisurato al va-
lore oro originario per le ipoteche rivalutate ed assorbimento, per quelle già estinte, della differenza fra l'ammontare in
marchi carta corrispondente al livello di rivalutazione fissato nel 25%, in via normale, dalla legge 15 luglio 51925 e
l'ammontare rimborsato.
3 L'altra imposta, cosiddetta «sugli affitti», era congegnata in modo che il reddito residuo d'imposta, lasciato al pro-
prietario di case, non fosse inferiore al 30% del reddito per affitti, d'anteguerra. Invero, poiché le locazioni, dopo un
primo periodo di regime vincolistico, erano tornate alla libera contrattazione, via via adeguandosi pertanto al metro
monetario, i proprietari di case venivano a godere di arricchimenti di congiuntura per la svalutazione delle ipoteche i-
scritte sui fabbricati. Non risulta che quest'ultima imposta abbia avuto applicazione, come quelle, del resto, di cui la ci-
tata ordinanza si limitava a prevedere l'istituzione, relative, tra l'altro, ai guadagni realizzati, per svalutazione moneta-
ria, dai beneficiari di crediti bancari.
159
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Tutto ciò si richiama sommariamente per provare la fecondità e la attitudine del principio della ca-
pacità contributiva, come da me concepito (relativa), a spiegare fatti e leggi che altrimenti sarebbero confi-
nati nel campo dell'arbitrio.
Tali richiami dimostrano che la categoria delle spese indivisibili, dei costi indivisibili, dei servizi
indivisibili è categoria il cui contenuto storico è variabile in funzione della capacità di accertare il contrario,
cioè di individuare settori di utilizzazione differenziale dei servizi pubblici. Come autorevoli autori hanno
rilavato, è questione di impotenza tecnica, il largo sopravvivere di imposte generali, ovvero di difficoltà di
una distribuzione secondo il criterio della imposizione speciale.
Ma alla impotenza organizzativa che riguarda i fatti ovvero la storia, non occorre aggiungere quella
intellettiva, con critiche al criterio della capacità contributiva relativa.
Il Wicksell aveva affermato che il «principio della prestazione e controprestazione» è «giustificato
ogni qualvolta esso sia applicabile», dopo avere:
α) dimostrato che è solo questione di difficoltà empirica il «calcolare l'imposta in modo tale che es-
sa sia esattamente commisurata per ciascheduno all'uso che quell'individuo fa del servizio pubblico», e:
β) ritenuto che il principio delle controprestazioni ha il vantaggio, almeno, di mantenere un certo
contatto con l'altro lato della economia pubblica, quello delle spese. Egli vorrebbe che si estendesse il prin-
cipio dell'interesse o della «equivalenza economica» o del «benefizio» conseguito dai membri della collet-
tività, a tutta l'attività dello Stato, dove si tratti della «limitazione razionale delle spese».

__________
4 Infine un'imposta speciale venne istituita sui vantaggi goduti dai debitori dello Stato, per forniture di legname so-
prattutto, mediante il differimento del relativo pagamento in periodo di rapidissima inflazione e, conseguentemente, di
forte svalutazione monetaria.
160
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CAPITOLO V.

DEI PRINCIPII: a) «ECONOMICO» DI BARONE,


b) DELLA «NEUTRALITÀ»; c) «PRODUTTIVISTICO»,
PER LA RIPARTIZIONE DELLE IMPOSTE GENERALI

I.

IL "PRINCIPIO ECONOMICO” DI E. BARONE.

Il Barone171 ha creduto di enunciare il «principio economico» nel campo della distribuzione dei tri-
buti, basandosi sulla legge empirica della distribuzione dei redditi di Pareto.
Premetto che egli si è basato su una uniformità del Pareto, espressa secondo una di quelle «trascura-
tezze di linguaggio», cosi denominate da F. Vinci172 nel ricordare come esse siano state poste in rilievo dal
Bresciani-Turroni e dal D'Addario.
Invero, Barone fa propria la seguente uniformità, espressa nel Manuale (p. 373) dal Pareto nei se-
guenti termini: «Ogni qualvolta il totale delle entrate cresce più rapidamente che la popolazione, ossia
quando cresce la media delle entrate per ogni individuo, si producono, separati o congiunti, gli effetti se-
guenti: 1) un aumento nell'entrata minima; 2) una diminuzione della disuguaglianza delle entrate». Cosi P.
aveva già concluso nel Corso (vol. II n. 965).
E’, tuttavia, ben noto come L. Amoroso, nel volume Economia di mercato, abbia fatto una limpida
dimostrazione del come la seconda proposizione del Pareto risulti rovesciata: vale dire, al crescere del red-
dito medio, cresce la disuguaglianza delle condizioni. L’uniformità, in questo senso, è pacifica, ormai, fra
gli statistici e conciliabile logicamente con l'imposta progressiva diretta (173).
Il Barone, aderendo alla enunciazione Paretiana, formula il «principio economico» in questi termi-
ni: «è preferibile, nella ripartizione del carico tributario, quel sistema che, dato un certo fabbisogno, lo
consegue in quella guisa che meno ostacoli lo sviluppo del reddito medio». (E poiché, favorendo la crescita
del reddito globale, si favorisce anche l’eguaglianza della distribuzione dei redditi, l’imposta coerente col
principio economico è l’imposta proporzionale, ossia un’imposta neutra dal lato redistributivo – N.d.R.).
La rettifica della uniformità statistica assunta dal Barone non è priva di significato per i problemi
teorico-fiscali, come può notarsi avvalendosi della nota rappresentazione diagrammatica del Lorenz.
Invero, crescendo il reddito medio, si ha il rapporto crescente delle aree, in quanto ci si allontana
dalla linea di egual distribuzione AC. (Sull'ascissa è la % dei censiti e sull'ordinata quella dei redditi).
Per un reddito medio X, si avrà il rapporto ACN ad ABC minore di quello che si avrà per un reddito
medio X' > X, dovendosi rapportare l'area ACE ad ABC.
Ricorro a questa rappresentazione perché essa è adoperata, ad es., dal Samuelson per dimostrare che
l'effetto di un'imposizione progressiva (come ho rilevato per il caso inglese) può essere quello di ridurre la
diseguaglianza dei redditi disponibili, passandosi dalla diseguaglianza AEC a quella ACN, fatta l'ipotesi,
s'intende, che l'imposta non sia redistribuita. E’ problema di grado di progressione in prima approssimazio-
ne; indi di politica redistributrice della spesa pubblica.
Ma questo è un effetto indiretto dell'imposizione, cioè è problema diverso da quello posto dal Baro-
ne, per il quale l'imposizione deve ostacolare il meno possibile l'aumento del reddito medio, nella previsio-
ne (errata come si vede) di una diretta diminuzione, per lo aumento di r (reddito medio), della disegua-
glianza dei redditi.
__________
171
BARONE E, Principii di economia finanziaria, Zanichelli 1937, loc. cit. .
172
VINCI, F., Sulla legge dl distribuzione dei redditi, nei saggi in onore di F. Flora, cit. .
173
Il Vinci, considerando la distribuzione totale dei redditi compreso il primo ramo della curva di distribuzione sotto
il minimo ammette che le variazioni del reddito medio sono compatibili con qualsiasi variazione della dispersione dei
redditi saggio citato.
161
162
ERNESTO D’ALBERGO, ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA
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Ma torniamo al «principio economico», enunciato dal Barone per la distribuzione delle imposte.
Egli arriva ad esso (come in precedenza ho riferito) dopo avere criticato come «prive di qualsiasi base se-
ria» (come se esistessero ipotesi qualificabili moralmente) le «minute analisi sulla utilità delle vane parti del
reddito», ed averle considerate «inadatte» (saltando in campo empirico) nella «pratica» ad essere «tradotte
in formule legislative». «Regnerebbe assolutamente l'arbitrio», per gli aspetti subiettivi dei problemi psichi-
ci individuali.
La contraddizione di questo autore è posta in risalto nella conclusione a cui perviene alla fine del
ragionamenti su questo tema:
- «Se noi ora diamo il nome di finanza obiettiva a quella che segua i dettami del principio economi-
co (e seguendo tali dettami, si ostacola meno lo sviluppo del reddito medio e si assicura nel miglior modo
l'interesse a lunga veduta di tutte le classi);
- e se diciamo finanza democratica o aristocratica quella che guardando all'interesse prossimo e non
all'interesse lontano, tenda ad avvantaggiare una classe o l'altra (senza preoccuparsi dei danni che alla lun-
ga, allontanandosi dal principio economico, si preparano alla classe medesima che si vuol favorire;
- si conchiude che è la costituzione politica una causa di allontanamento dal conseguimento del
massimo di utilità, o del minimo sacrificio, se cosi si vuole, nella ripartizione del carico tributario. In altri
termini, negli stadi economici più arretrati può una finanza aristocratica opporsi ad una maggiore pressione
in alto, e negli stati economici più evoluti una finanza democratica sospingere il gravame in alto assai più
che non convenga al benessere collettivo».
Ho sottolineato le espressioni incidentali ma conclusive che precedono, e che hanno un significato
univoco nella scienza economica, che lo stesso Barone magistralmente tratta. Ma chi abbia letto il prece-
dente paragrafo sul «principio del sacrificio minimo collettivo», non può fare a meno di notare:
A) che Barone usa anche il linguaggio di Edgeworth, per fare l'esempio dell'autore più importante.
E quest'ultimo economista tratta di sacrificio minimo, a cui Barone coordina il massimo di utilità o lo alter-
na nella espressione, il che impone di ragionare in base alla variabile edonistica che, intanto, contraddicen-
dosi, egli vorrebbe ripudiare;
B) Inoltre Barone si preoccupa di una finanza compatibile con il benessere collettivo.
A) Del primo punto di vista che Barone considera nella fase conclusiva delle sue argomentazioni,
occorre ricordare che, ad es., Edgeworth espone la seguente sequenza: «La condizione che l'utilità totale
netta procurata dalla tassazione sia un massimo, si riduce alla condizione che la disutilità totale sia un mi-

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nimum. Dalla condizione che la disutilità totale sia un minimo segue in generale che la disutilità marginale
risentita da ciascun contribuente debba essere la stessa».
Ricordo anche che il citato economista inglese, fra l'altro, asserisce: «se la disuguaglianza delle for-
tune è considerevole rispetto all'ammontare specifico dell'imposta da riscuotersi, non vi sarà, per cosi dire,
imposta sufficiente allo scopo. La soluzione del problema è che le maggiori entrate debbono essere abbas-
sate ad un certo livello (op. cit. 342-343).
Ma, nel presentare il criterio del sacrificio minimo, Barone lo respinge per le preoccupazioni estra-
nee al ragionamento (effetti sulla produzione che «certamente decrescerebbe»), definendo la dottrina relati-
va «una delle maggiori aberrazioni cui si è giunti in tali calcoli arbitrari di piaceri e di pene». Sono calcoli
arbitrari, perché ipotetici, ma necessari se coerentemente si vuol discorrere di sacrificio minimo e di mas-
simo di utilità. Anche la filosofia odierna, reinterpretando i classici, vede la «funzione sociale del principio
utilitaristico» o il «carattere sociale dell'utilità». Addirittura si sostiene che «l'istanza collettivistica sta alla
base della dottrina utilitaristica, la quale è dottrina che riguarda l'individuo perché essa è, prima di tutto,
dottrina che riguarda la collettività» (S. Castellato, C. Stuart Mill e l'utilitarismo inglese, Cedam, Padova,
1951).
B) Il ricordato riferimento pure incidentale ma conclusivo di Barone alla categoria «benessere col-
lettivo» col quale dovrebbero conciliarsi la ripartizione del carico tributario e quella che egli chiama «pres-
sione» o «gravame» - anch'esso, per inevitabile necessità logica, porta a coordinare la predetta categoria
concettuale con la variabile edonistica, correlata con la distribuzione dei redditi.
Invece, in tema di distribuzione di redditi, Dalton174 definisce migliore «sistema» di finanza pubbli-
ca quello che assicura «il massimo vantaggio sociale». In senso «strettamente economico» detto vantaggio
viene espresso in termini di benessere (welfare, a p. 11 di Public Finance cit.). Le principali condizioni di
un aumento di benessere economico di una collettività - secondo quella che sembra teoria generalmente ac-
quisita - sono, in primo luogo, i progressi nella produzione. Questi vanno intesi come la maggior capacità
produttiva o produttività, ovvero l'ottenimento di un dato prodotto per ogni componente la popolazione, con
un minore sforzo, col minore spreco di risorse o fattori quali derivano da deviazioni dagli impieghi più fe-
condi o da disoccupazione.
La seconda condizione di un aumento di benessere economico è costituita, come lo prova il Dalton,
da un miglioramento nella distribuzione di quello che è prodotto. Il che si risolve, per lui (e per altri a cui
tosto mi riferisco come ad esponenti di un pensiero indiscusso) in una diminuzione della diseguaglianza dei
redditi di individui e famiglie. (In subordine figura anche la condizione della riduzione della variabilità dei
redditi).
Una riduzione della diseguaglianza così appare desiderabile affinché il reddito possa essere distri-
buito maggiormente in armonia con i bisogni, nel tempo, degli individui e delle famiglie e con la capacità di
far buon uso del reddito.
Le argomentazioni del Barone gravitano necessariamente nel campo dei rapporti fra benessere e di-
stribuzione dei redditi, interpretando le sue conclusioni citate.
1) Infatti, fin dagli insegnamenti di Marshall il benessere della ricchezza materiale è misurato dal
flusso di ricchezza e dalla possibilità di usarla, da cui discende «un reddito di felicità in cui naturalmente
debbono essere contati i piaceri del possesso. Ma v'è poca connessione diretta - continua il Marshall - fra
l'ammontare complessivo di quella massa e la felicità totale». Nel discorrere di benessere, correlato con
l'«utilità della ricchezza», il maestro inglese si conforma al «consiglio di Bernoulli», come modo di variare
della «soddisfazione che una persona trae dal suo reddito», al crescere di esso (paragrafo 107).
2) Per venire ad un chiaro sistematore del tempo nostro, Jannaccone, egli definisce «benessere», per
un singolo individuo, la sensazione di appagamento dei bisogni del suo organismo fisico e psichico, che si
consegue con l'applicazione del reddito. Benessere collettivo si assicura al massimo, quando l'ente colletti-
vo consegua (o faccia conseguire) il massimo reddito netto totale e lo ripartisca fra i singoli in modo che se
ne ritragga la maggior somma possibile di soddisfazioni. Avvertita la difficoltà dei confronti fra singoli
componenti la collettività, l'A. fra l'altro rileva che la diseguaglianza del redditi individuali si risolve in una
corrispondente diseguaglianza della qualità e del grado di intensità dei bisogni che con essi possono essere
soddisfatti e cioè del benessere economico individuale. Indi Jannaccone profila logicamente la possibilità di
influire sulla distribuzione personale nel senso di scemarne le diseguaglianze, anche attraverso trasferimenti

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di redditi dai più abbienti ai meno abbienti in modo coattivo, come avviene attraverso l'imposta (op. cit.,
pagg. 314-336).
3) Considerata perfetta distribuzione quella in cui ogni percentuale della popolazione riceve esatta-
mente la corrispondente percentuale del reddito totale, Samuelson (Economics, cit.) che, come si è visto,
l'ha rappresentata con il procedimento di Lorenz (diagonale AC nella figura 17), riferendosi, poi, al benesse-
re economico (welfare) suggerisce di correggere le deviazioni dall'optimum sociale che mette in correlazio-
ne con l'ottima (o altrove detta perfetta) distribuzione dei redditi, con «un'appropriata politica tributaria» (p.
602). E sottolinea, nel caso del sistema capitalistico, dal punto di vista del benessere economico, fra i modi
di allontanarsi dall'optimum sociale, la impropria o imperfetta distribuzione dei redditi.
4) Poiché la mia ormai vecchia impostazione dei problemi di massa, in cui domini la variabile edo-
nistica od utilitaria, è quella della classe governante che giudica e confronta per la collettività, piace ricor-
dare che dopo avere inquadrato il concetto di benessere della collettività nel campo dell'utilitarismo, altro
esponente e sistematore del pensiero odierno, il Demaria (cit. pagg. 155-161) segua la tessa via. Poiché per
giudicare del benessere occorre confrontare soddisfazioni e insoddisfazioni, egli ne assegna pure il compito
allo Stato, il quale «coercitivamente suppone per le diverse classi sociali, finalità e sensibilità differenti«.
«In questo caso si ha benessere collettivo massimo, se la ripartizione delle fonti delle emozioni morali e ma-
teriali, avente per base la differente sensibilità psichica attribuita dallo Stato alle varie classi sociali, avviene
appunto in modo da rendere massima la somma delle emozioni morali e materiali».
5) Questa necessità di correggere Le molto gravi disuguaglianze nella distribuzione dei redditi e dei
patrimoni, dopo aver discorso di benessere, si trova in Bresciani-Turroni (cit.) che adombra anche l'azione
dello Stato (op. cit. vol. I, pagg. 366-67).
Dopo queste citazioni riferite a guisa di critica alla enunciazione del «principio economico» del Ba-
rone, l'avere detto autore concluso introducendo fatalmente la variabile soggettiva od utilitaristica od edoni-
stica, non può far accogliere la enunciazione del principio economico del Barone, del resto basato, come si
è avvertito, su una svista. Ripeto se, crescendo il reddito medio, cresce (non diminuisce) la diseguaglianza
di condizioni; e se detta diseguaglianza fa allontanare dal massimo di utilità o di benessere o dal minimo
sacrifizio, il criterio di ripartizione dell'imposizione generale deve tendere verso la progressione (o la tassa-
zione differenziale dei più alti redditi), come strumento di redistribuzione.
Così, partendo da segni esteriori del benessere (quali il reddito medio dei componenti la collettività
o il modo di ripartizione del reddito totale e le rispettive variazioni) li si può interpretare alla luce delle teo-
rie utilitaristiche (vedi capitolo III) per una ulteriore visione del massimo benessere o di utilità o del mini-
mo sacrificio, ponendo l'accento sulla ripartizione dei redditi.
Invece Barone ha voluto negare, contraddicendosi, la funzione esplicativa della variabile edonistica,
nel problema collettivo o di massa quale è quello tributario. Essa, nel campo della pura deduzione, consente
conclusioni con valore logico universale. Per contro, il Barone rimanendo con i dati obiettivi (erroneamente
collegati) nel campo dell'empirico afferma, a conclusione, che una risposta alla «preferenza per l'imposta
proporzionale o per la progressiva, non può darsi a priori per tutti i casi, cioè per tutti i paesi e tutti i tem-
pi».
Inoltre dal campo del razionale si discostano e vertono nel dominio dell'empirismo o di preoccupa-
zioni pratiche o di politica finanziaria (che suppone risolto il problema della razionalità dello strumento tri-
butario) proposizioni come le seguenti, in Barone, (Principii, cap. V). Infatti, sempre prescindendo dalla er-
ronea base statistica del ragionamento (che non tiene conto della correlazione diretta fra variazioni del red-
dito medio e dalla diseguaglianza dei redditi), si accenna: a) ad impossibilità di colpire il minimo per l'esi-
stenza con l'imposizione perché occorrerebbe restituire il provento con l'assistenza pubblica o altrimenti; b)
a difficoltà di colpire i redditi piccoli; c) al fatto che la pressione tributaria diverrebbe intollerabile se si vo-
lesse provvedere con sole imposte dirette e progressive al fabbisogno in date ipotesi di concentrazione dei
redditi (pagg. 63-67); d) alla convenienza di risparmiare la zona dei redditi piccoli (nei paesi a reddito me-
dio piccolo); e) a pressioni impraticabili per gli alti redditi; f) a pressione tributaria mite compatibile con
graduazione di imposte progressive. In questo senso si tratta l'illustrazione del «principio economico» per la
ripartizione delle imposte (pagg. 159-166).
Per finire, dato un fabbisogno o provento da ottenere è ovvio che la coerenza contabile tenga conto
della data distribuzione dei redditi o della dinamica della distribuzione dei redditi (effetti dell'aumento del
reddito medio o della diminuzione). Ma anche questa correlazione fra fabbisogno o provento e modo di pre-
levarlo - dato l'ammontare di esso e ipotizzata la distribuzione dei redditi e la sua dinamica - presuppone ri-
solto il problema del modo razionale di far contribuire ricchi e poveri alle singole imposte e richiede, se
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mai, adattamenti nel senso di parziale applicazione della conclusione analitica alla complessità del proble-
ma concreto, come si è visto nel citato paragrafo VII del capitolo III.

II.

NEUTRALITÀ DELL'IMPOSIZIONE IN RAPPORTO ALLA DISTRIBUZIONE DEl REDDITI. LA


FORMULAZIONE DEL DALTON.

La “neutralità della tassazione, quale principio di distribuzione delle imposte di cui aveva discorso
il Dalton, consiste nel «Lasciare i contribuenti come essi si trovano», ovvero lasciare inalterata la distribu-
zione dei redditi in sede di imposizione fiscale. In questo senso, la diseguaglianza non dovrebbe essere nè
aumentata nè diminuita, per l'influenza del fatto tributario, dal lato del modo di distribuire le imposte.
La tesi suona letteralmente: «leave them as you find them» o lasciateli come li trovate, ed anche
«do not alter the distribution of income by taxation», non si modifichi con l'imposizione la distribuzione dei
redditi. Ciò ricorda la condizione della ripartizione, proposta dal Crosara (op. cit.), della «perfetta conserva-
zione delle proporzioni fra i redditi preesistenti alla tassazione».
D'Addario dimostra che la ripartizione preesistente alla imposizione non deve essere, come è facil-
mente intuibile, necessariamente di tipo Paretiano. Invero, qualunque sia la distribuzione preesistente, il
principio che ho denominato di «neutralità» dell'imposizione consiste nel distribuirla in modo da lasciare
immutata la posizione relativa del contribuenti, considerando il reddito residuo.
La condizione espressa dalla tesi del Dalton, che procede e a cui si è conferito l'aureola di principio,
è del tutto indipendente, cioè, dalla forma particolare della distribuzione dei redditi imponibili.
Ma la ricerca pura e semplice della formula di graduazione della aliquota che soddisfi a detta con-
dizione (formula di cui D'Addario ricorda l'equivalenza ad una del Cohen Stuart, che, come si è visto, si oc-
cupava di ben altri principii utilitaristici) non appartiene alla economia finanziaria. Invero, dal lato econo-
mico il cosiddetto principio di «neutralità» è negativo o vuoto di contenuto. Dal punto di vista di questa
scienza applicata al fenomeno finanziario, vi è la rinuncia al ragionamento ed alla teoria della ripartizione
delle imposte. Infatti ad essa si sostituisce l'adesione aprioristica ad una qualsiasi empirica situazione di fat-
to, o struttura o costituzione di ogni «mercato» rivelata da qualsiasi distribuzione dei redditi.
Invece di partire da una ipotetica situazione di fatto o distribuzione di redditi, ammessa implicita-
mente per fare la teoria della ripartizione delle imposte, si rinuncia alla teoria od alla spiegazione economi-
ca, considerando come punto di arrivo quello che è il punto di partenza implicitamente ipotetico. Detto pun-
to di arrivo è il mantenimento della posizione di ogni contribuente in modo che il reddito residuo rimanga
medio proporzionale dopo la tassazione.
In altri termini, detta impostazione basata sulla citata tesi del Dalton è un esercizio di matematica
estraneo alla teoria finanziaria.
E un esercizio puramente matematico di ricerca di relazioni quantitative necessarie non può erigersi a prin-
cipio e sostituire una teoria che si rinuncia ad elaborare, appunto per quella che meditatamente ho definito
neutralità dell'imposizione rispetto ad una situazione di fatto.
Il «principio di stabilità strutturale», che il D'Addario riconosce al Crosara – pur avendo ammesso
che il principio di ripartizione dipende dalla definizione di posizione economica relativa del contribuenti –
può essere sufficiente a determinare contabilmente un metodo di ripartizione dell'imposta. L'economista
prende atto di queste dimostrazioni, compiacendosene, ma non in quanto pertinenti alla propria scienza. In-
fatti nel loro campo vi è assenza di ragionamento, anzi c’è la rinuncia a spiegazione autonoma del modo di
ripartire l'imposizione. Questo deve obbedire «a priori» al rispetto di una circostanza ipotetica casuale, si
dica pure naturale, frutto qualsiasi di forze complesse e non puramente economiche, quale è una empirica
distribuzione di redditi.
Dalla petizione di principio dal punto di vista della teoria finanziaria di detta tesi, doveva tosto ac-
corgersi il Dalton, che ben affrontava circa trent'anni fa i problemi economici e statistici della distribuzione
dei redditi (è l'autore di Inequality of incomes, cit.).
Esponendo i «principi» per la ripartizione delle imposte, dopo quelli che abbiamo visti nel cap. III
(in cui logicamente si introduce la variabile subiettiva, edonistica del sacrificio di utilità), egli fa figurare
quello espresso con la predetta tesi, come «quarto principio». Ma si affretta a dire che per applicare (al fe-

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nomeno finanziario) ognuno di essi, è necessario assumere qualche relazione fra reddito monetario e benes-
sere (utilità, s'intende) derivante da esso.
Partendo dalla premessa che la «grande» diseguaglianza dei redditi si risolve in perdita potenziale
di benessere e riferendosi in particolare al cosiddetto «principio di costante diseguaglianza dei redditi», egli
sente immediatamente l'esigenza di una definizione di diseguaglianza. La definisce come rapporto fra il be-
nessere globale conseguibile nell'ipotesi di eguale distribuzione e il totale benessere economico conseguibi-
le nell'ipotesi di una data distribuzione dei redditi. La misura della diseguaglianza, cosi definita, dipenderà
da una precisa relazione funzionale fra reddito e benessere economico (alias utilità), così che ad ogni possi-
bile relazione corrisponderà una differente misura di diseguaglianza.
Se, per esempio, scrive Dalton, si ipotizza che eguali aggiunte al benessere sono consentite da in-
crementi più che proporzionali al reddito, ogni concepibile misura di diseguaglianza deve soddisfare alla
condizione che aggiunte proporzionali a tutti i redditi diminuiscono la diseguaglianza.
Ma se aggiunte proporzionali a tutti i redditi diminuiscono la diseguaglianza, come è stata definita,
sottrazioni (come i prelievi tributari) proporzionali debbono aumentarla. Il che vale a dire, assumendo una
relazione fra benessere o apprezzamenti edonistici e variazione del redditi, che l'imposizione proporzionale
deve dar luogo ad aumento nella diseguaglianza del redditi.
Se, come vuole l'assunto, la diseguaglianza dei redditi deve essere lasciata immutata dalla imposi-
zione, questa deve essere in qualche grado progressiva. Il grado di progressività richiesto varierà secondo la
precisa relazione che si sia ipotizzata fra reddito e benessere economico.
Come si vede, la graduazione dell'imposizione non è collegata direttamente con una data e qualsiasi
distribuzione statistica, ma con la correlazione fra essa e il benessere corrispondente (rapportato al benesse-
re corrispondente ad una eguale distribuzione oggettiva di redditi). Determinante o dominante è il fattore
benessere economico subiettivo che si può annettere ad una distribuzione oggettiva di redditi.
Non possiamo rivolgere a questa visione di Dalton le critiche che merita ogni costruzione che si ri-
ferisca ai redditi e non alla proprietà od attitudine dei redditi a creare benessere od utilità, e prescinda dalla
variabile edonistica che interessa l'economista. Questa riguarda l’ipotesi che l’economista voglia trovare un
punto di riferimento per i supposti calcoli degli uomini economici di cui si occupa la classe governante.
Questo è angolo visuale della classe governante che, in tutta questa mia trattazione, è la stella polare a cui
deve guardarsi per la soluzione dei problemi utilitari di massa. Esso, infatti, consente di superare il no bri-
dge che si insinuerebbe in tutti i problemi di benessere collettivo.
E questo (welfare), riferito a soggetti che dispongono di reddito, nella trattazione generale specifica
di Pigou, è definito in termini di «stati di coscienze» e in generale, nelle opere economiche, in termini utili-
tari ed edonistici come si è visto.
Se si abbandona questo punto di vista, non pare di trovare dignità teorica di «principi»: a) il conser-
vare le proporzioni fra i redditi preesistenti alla imposizione; b) l'esentare il minimo di esistenza, che (come
si è visto esaminando il criterio economico di Barone) appartiene al campo dell'empirico, statistico e politi-
co. L’alternativa valida sarebbe, invece, la soluzione del Bentham, illustrata a proposito del principio del
sacrificio minimo collettivo, che consiste nel sottrarre quote di reddito ai singoli, sino a lasciare loro, come
residuo, quanto sia necessario al minimo per l'esistenza. Ciò viene fatto, tassando i redditi aventi la minore
utilità relativa.
Invero, per se stessa, la distribuzione esistente dei redditi, anche se naturale (nel senso che è il ri-
sultato della diversa capacità di ottenere reddito, della diversa attitudine o propensione al risparmio, della
diversità delle posizioni iniziali e di altri fattori istituzionali) non illumina in un campo in cui si cerca di ri-
ferirsi alla eguaglianza delle utilità sacrificate.
Il far si che l'imposizione lasci inalterata una distribuzione dei redditi, senza altre spiegazioni nel
senso che da contenuto alla teoria economica in base alla variabile edonistica, significa ammettere un giudi-
zio morale o storico, sulla bontà, desiderabilità o sulla utilità collettiva della permanenza di una siffatta di-
stribuzione. E ciò ci porta fuori della scienza, come nell'Introduzione si è insistentemente avvertito.
Basta questa avvertenza a far comprendere come dalla legge statistica della distribuzione dei reddi-
ti, considerata per se stessa, non discendano «principi» razionali di ripartizione dei tributi.
In codesti ragionamenti, si prescinde dall'influenza della spesa pubblica. E ciò non è logicamente
legittimo, quando si faccia riferimento a distribuzioni che sono considerabili in via ipotetica come date, ma
che possono essere modificate necessariamente dal fatto finanziario (prelievo e spesa dei tributi).
La nostra scienza deve dare spiegazione di fatti complessi. Invero la distribuzione dei redditi neces-
sariamente è influenzata da prelievo e spesa degli enti pubblici. Si fornisce, infatti, una soluzione monca del
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problema della invarianza della distribuzione dei redditi (correlata con l'introduzione dell'imposizione, so-
prattutto progressiva, se si prescinde dalla influenza della distribuzione della spesa.

III.

IL "PRINCIPIO PRODUTTIVISTICO”

Una definizione di imposizione o finanza produttivista potrebbe coincidere con quella di imposi-
zione o finanza «neutra». In questo senso, di «imposta fiscale» contrapposta ad «imposta extrafiscale», è
stato trattato di recente dal Laufenburger (nella rivista «Economia Internazionale», del maggio 1949. L'im-
posta «finanziaria» è neutrale nella misura in cui non modifica la situazione materiale relativa (comparata)
del contribuenti.
Ma il Laufenburger è accorto quando ritiene che l'imposta progressiva è perfettamente compatibile
con la neutralità, dal momento che essa discende dal «principio della giustizia»: «adattare la pressione fi-
scale alla pressione dei bisogni (utilità marginale)».
Il che ci porta nel campo teorico già lungamente coltivato, in funzione della variabile subiettiva. Per
il resto, l'A. esamina problemi di politica finanziaria, quale la congruità degli effetti dello strumento fiscale,
rispetto ai fini di politica economica, e si limita ad accennare alla discriminazione dell'imposizione.
In generale, in precedenti enunciazioni del «principio produttivistico» come criterio teorico di tas-
sazione, si è scritto che un'imposta dovrebbe soddisfare alle seguenti condizioni: a) che la sua introduzione
od un incremento di essa non turbi od alteri con il minimo attrito l'equilibrio economico preesistente; b)
consenta il massimo provento allo Stato e parimenti non ostacoli l'attività produttiva, il conseguente flusso
di reddito e la formazione del risparmio.
Il «principio» è stato inteso in questo senso, grosso modo, da Marshall, Bastable, Sidgwich, in parte
da Barone, De’ Stefani, Mann, Moli, Terhalle, dagli studiosi del Colwyn Committee di Londra nel primo
dopoguerra mondiale (175). Invece, quasi tutti i nuovi studiosi di quest'ultimo dopoguerra, ne hanno fatto so-
lo menzione, sia pur con differenti espressioni formali.
Avendo assistito alle ingenti distruzioni di ricchezza, nelle grandi guerre di questo secolo, ed alle
conseguenze delle crisi mondiali, si rivolge l'indagine teorica di finanza pubblica alla ricerca delle forme fi-
scali che consentano la massima produzione di ricchezza nuova.
Ma il richiamo ai fatti contingenti che hanno determinato il rifiorire degli studi di questo problema,
non vuole negare il valore conclusivo delle recenti indagini teoriche sul principio produttivistico. Intanto
qui si riafferma che esse, in generale. mantengono carattere provvisorio, in quanto nello studio delle «con-
seguenze economiche» (produttive) dell'imposta: a) si è seguito il metodo in vigore nello studio degli «ef-
fetti», nel quale, in generale, si prescinde dall'indagare le ripercussioni della spesa pubblica, in quanto de-
stinata a costituire un ricavo per i privati destinatari di essa.
Se si riconosce che l'indagine condotta, non tenendo conto della spesa, è «monca», in generale (in-
fatti il prelievo e spesa alterano l'equilibrio economico), a maggior ragione lo è l'indagine specifica, mirante
ad accertare le conseguenze del fatto finanziario sulla produzione del reddito e della ricchezza. Pertanto, per
la conoscenza di dette conseguenze occorre seguire il ricavo del tributo allorché esso dallo Stato passa ai
privati.
Quindi, con tutte le avvertenze che importa un tentativo di indagine induttiva, sulla base delle cono-
scenze, invero limitate, storico-sociologiche, è necessario impostare altrimenti il problema. E - tenendo
conto degli effetti del prelievo e della spesa ad un tempo, nonché degli atti di finanza non puramente tribu-
tari - sostituire alla formulazione corrente del principio produttivistico, un'altra che suoni presso a poco co-
sì: l'attività finanziaria oppure l'imposizione per se stessa necessaria e strumentale alla produzione del reddi-
to, diventa suscettibile di promuovere un incremento tendenzialmente progressivo del reddito, qualora nel
prelievo e nell'impiego del fabbisogno si verifichino o si provochino condizioni favorevoli agli imprendito-
ri.
Ponendo, come condizione per la produttività finanziaria, che essa debba favorire gli imprenditori,
implicitamente li si considera come lo strumento più efficace per il conseguimento dello scopo medesimo.

__________
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Si vegga: D'ALBERGO E., Reddito e Imposte, saggio critico sul produttivismo nell'attività finanziaria, «Rivista In-
ternazionale», Milano, 1932.
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Il significato del termine (imprenditori) sorpassa quello tecnico comunemente considerato nei manuali di
economia politica, per indicare, nel senso Paretiano di «speculatori». Con ciò si intendono le persone che
più prontamente e più efficacemente sanno sfruttare le combinazioni economiche (cui corrispondono indi-
vidui o enti collettivi). Parimenti, nel giudizio dello Stato che li favorisce, si intendono tali le persone che
meglio si prestano a compiere un'attività strumentale nei riguardi dell'effetto che l'azione finanziaria. Tale
effetto è premessa della finanza produttivistica.
Nel richiamare questa trattazione, mi torna alla mente il ripudio del termine “produttivistico” da
parte dell'Einaudi che pure lo aveva adoperato nello stesso senso nel commentare la politica finanziaria ita-
liana durante la guerra mondiale (176).
La questione terminologica sarebbe di per sè irrilevante: ma non vedo, peraltro, una ragione di ri-
pudiare il termine «produttivistico» che si può abbreviare in «produttivo» per classificare un orientamento
della politica finanziaria. L'Einaudi aveva ritenuto più appropriata la parola per indicare il caso in cui le im-
poste fossero congegnate in modo da «ridurre al minimo la loro pressione sui produttori si da crescere al
massimo il flusso di reddito da distribuirsi fra capitalisti, proprietari, imprenditori e lavoratori».
E noto, però, che dal punto di vista terminologico, la responsabilità dell'Einaudi, nell'usare l'agget-
tivo «produttivistico», è condivisa con altri maestri. Non vedo, invero, una forte ragione per abbandonare
l'uso di questo termine assai significativo per sostituirlo con altri di portata più generica, quali imposta e fi-
nanza «ottima» (177) o «economica». Del resto l'Einaudi sa bene che trattasi di questioni convenzionali.
Ma passando a considerare l'essenza del produttivismo, sembra che l'E. abbia voluto eliminare la
dizione, perché a suo parere: a) lo Stato non può proporsi, come norma fondamentale della sua condotta,
uno scopo come quello di rendere minima la distruzione o massima la produzione della ricchezza. Tale
scopo è ritenuto da lui estraneo alla natura dello stato medesimo; b) lo Stato agisce per fini che non hanno a
che fare con la produzione della ricchezza.
La ragione addotta dall'Einaudi, per ripudiare il «principio produttivistico», costituita soprattutto
della temuta limitazione del fine degli uomini (vale dire, l'arricchimento come scopo materiale), è stata ri-
veduta dal Ricci, nel testè citato fascicolo del «Giornale degli Economisti». Egli ha considerato economico
anche il bene spirituale che vogliano conseguire gli uomini, quando si avvalgano dell'azione statale, in
quanto costosa, per ottenerlo. Inoltre il Ricci fa diversificazione di modi di accrescere la produzione nazio-
nale: può lo Stato produrre servizi diretti (cose immateriali) che immediatamente soddisfano desideri ed a-
spirazioni dei singoli utenti dei servizi pubblici; e può produrre servizi indiretti, strumentali per la produ-
zione economica.
La strumentalità della funzionalità della finanza pubblica in sede di distribuzione delle imposte ed
erogazione delle spese, è basata sulla seguente sequenza logica: se il fattore Stato è strumentale per l'attività
economica, deve essere manovrato coerentemente, in sede di distribuzione e di erogazione del tributi, in
modo da non contrastare con il risultato di ogni combinazione tendente al massimo di produttività in termi-
ni di quantum di beni reali.
Nel campo della logica della strumentalità del fattore Stato rispetto al fatto orientativo del massimo
reddito collettivo, condizione necessaria e sufficiente è che la modificazione dell'equilibrio economico ad-
duca al valore assoluto massimo della variabile (reddito) dipendente.
A differenza del «principio economico» (Barone) e di quello di «neutralità», enunciato da altri au-
tori (di cui si è detto nel precedente paragrafo) il produttivistico non viene enunciato in senso sostitutivo
degli altri dianzi esaminati, come «il principio» per eccellenza atto a spiegare tutta la fenomenica in sede di
modi di ripartizione dei tributi.
In altre parole, non si pretende, parlando o scrivendo in termini obiettivi di «produttivismo», di
scalzare i principii su base sublettiva, di cui si è ragionato a lungo e che, come si è dimostrato, possono ave-
re peso rilevante nella soluzione del problema come lo hanno in sede logica per la spiegazione dei fatti. Ma
questi sono complessi, così che i principii possono essere coordinati e concepibili logicamente come coesi-
stenti.

__________
176
EINAUDI L, La guerra e il sistema tributario italiano, pag. 489 e segg., Bari, 1927.
177
Termine non univoco e come tale criticato da U. RICCI A proposito del primo volume di una raccolta, nel «Giorna-
le degli Economisti», settembre-ottobre 1942 e che, con la qualificazione etica, sembra addurre a giudizi di valore che
abbiamo considerato estranei alla nostra scienza.
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Questo veniva intuito ad es. dalI'Edgeworth (178) allorché avanzava avvertenze a proposito degli ef-
fetti ultimi della applicazione del principio del sacrificio minimo collettivo. Egli si preoccupava, appunto,
delle ovvie critiche che possono rivolgersi (livellamento dei redditi) non solo al principio del sacrificio mi-
nimo, ma anche a quelli del sacrificio eguale e proporzionale, sullo sviluppo della ricchezza e l'accumula-
zione di essa.

IV.

IL COSIDDETTO CRITERIO DELL' OPPORTUNITA (EXPEDIENCY).

Non credo, infine, che possa assegnarsi dignità di principio teorico al fattore detto dell'opportunità o
della convenienza (expediency). Nell'edizione del 1948, ad es., il prof. Alfred G. Buehler(179), dell'universi-
tà americana di Vermont, dopo avere esposto le note teoriche con le quali la dottrina ha tentato di spiegare
la ripartizione del costo dei servizi pubblici indivisibili, pone accanto od al posto dei principii tradizionali,
quello dell'«expediency», termine che mi tradurre adeguatamente con le parole «convenienza», «opportuni-
tà».
Tale «principio» spiegherebbe molti istituti tributari o modi di ripartizione del carico tributario per-
ché: 1) molte imposte sarebbero senza razionale fondamento se non si facesse ricorso ad esso; 2) il legisla-
tore, pressato da interessi in contrasto, adotta dei compromessi che aderiscono alla via di minore resistenza,
segue cioè una politica di «expediency», «convenienza» o di opportunità contingente; 3) l'evoluzione dei si-
stemi tributari è stata più cronologica che logica, cioè il risultato di orientamenti politici, delle tradizioni,
del caso, delle teorie di giustizia, delle preoccupazioni fiscali ed altre circostanze contingenti; 4) il «princi-
pio» dell'opportunità ha maggiore influenza sui fatti tributari che non le teorie della capacità contributiva o
dei vantaggi (benefits) e costituisce la migliore guida nel campo dell'imposizione, quando manchino altri
criteri regolatori.
Si potrebbe non dar troppo peso a tali proposizioni, se non si notasse l'influenza evidente sul pen-
siero del Buehler di scritti da lui citati nella bibliografia. L'autore ha creduto di elevare a «principio» la sin-
tesi delle circostanze che da tempo vado enunciando e che figura al parag. VII del cap. III, e che, in concre-
to, determinano in tutto od in parte le riforme tributarie, dopo aver letto in I. A. Hobson: 1) che il sistema
fiscale si è sviluppato in un'atmosfera di «brancolante empirismo»; 2) che esso è il risultato della conve-
nienza e dell'opportunità contingente e non di principii di teoria finanziaria chiaramente intesi ed applicati
in modo adeguato (180).
Parimenti, il Buehler ha risentito dello scetticismo di T. S. Adams, il quale, come presidente del-
l'Associazione americana degli economisti, affermava in un discorso che: 1) l'essenza della tassazione è de-
terminata dalla lotta di classe. Questa verità - a suo parere - non si riferisce solo alla formazione delle leggi
positive fiscali, ma anche alla teoria degli economisti in materia d'imposizione; 2) il ramo dell'economia
che tratta dei problemi tributari non può mai costituire puramente o principalmente una scienza (181); 3) la
verità nel campo tributario ricercata da economisti disinteressati, esercita una effettiva influenza sulla poli-
tica fiscale. Non continuo nella citazione di altri «assiomi» enunciati dall'Adams. La forza suggestiva di es-
si ha subito evidentemente il Buehler nel pervenire alla pretesa enunciazione di un nuovo principio.
Questo è, peraltro, un'empty box cioè un'altra «scatola vuota» di ogni contenuto razionale e comun-
que scientifico. L'autore sembra invocare il concorso di elementi sociologici o politici-storici dei quali, nel-
la pratica, l'uomo di governo tiene conto necessariamente. Ma ciò non appartiene alla scienza: questa può
rilevare che il fenomeno finanziario concreto è dominato anche da fattori politici, e, in generale, che esso è
complesso o sintetico, senza pretendere di dar vita, con ciò, a nuovi principii teorici.

__________
178
Ex professo affermato dal Fasiani nel saggio: Schemi teorici ed exponibilia finanziari «Riforma sociale», 1932.
179
Buehler A.G., Public Finance, Macgraw Hill Book, prima ediz. 1936.
180
BUEHLER, Taxation in the New State, parte prima, capitolo I.
181
Anche l’Adams , ammette che l’opera degli economisti mette in moto delle forze che modificano l’azione studia-
ta. Questa ed i precedenti concetti si possono leggere in ideals and idealism in taxation, «American Economic Re-
view», 1928.
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CAPITOLO VI.

LA DISCRIMINAZIONE QUALITATIVA DEGLI IMPONIBILI

I.

AVVERTENZE SULLE RAGIONI CHE FANNO PRECEDERE LO STUDIO DELLA


DISCRIMINAZIONE A QUELLO DELLA EPURAZIONE DELL'OGGETTO DELL'IMPOSIZIONE.

Il modo di ripartire i tributi precede l'analisi degli effetti di essi, nelle varie ipotesi di organizzazio-
ne economica o di condizioni del mercato. Per questo viene trattato, a questo punto, il capitolo relativo alla
discriminazione qualitativa dei redditi. Poiché, discriminare o differenziare aliquote od imponibili significa
perfezionare i criteri di eguaglianza che dominano nel campo dell'imposizione, occorre rendersi conto ra-
zionalmente dei modi di attuare detta eguaglianza. Questi modi sono stati consacrati nella legislazione di
molti Stati e interpretati dalla teoria, anche se non sempre e non ancora compiutamente, dagli studiosi, men-
tre si sono occupati della discriminazione cosiddetta «qualitativa» dei redditi.
a) Invero nella lunga esposizione problematica che ha avuto per oggetto la logica dell'imposizione
progressiva, si è già trattato di discriminazione quantitativa degli imponibili, soprattutto come redditi (o
ricchezza) disponibili per il consumo o il godimento presso le persone fisiche.
Non è logicamente efficace distanziare, nella esposizione, un problema di discriminazione quantita-
tiva dal processo di discriminazione qualitativa. Non soltanto perché è quest'ultimo un altro modo di attuare
l'eguaglianza dell'imposizione; ma anche perché, come vedremo, a rigore, occorre rifarsi al criterio sogget-
tivo della disponibilità globale ed effettiva dei redditi nelle mani delle persone fisiche, anche nel campo del-
la discriminazione qualitativa. Questa viene principalmente limitata al settore delle imposte reali nelle trat-
tazioni correnti di questi problemi. Peraltro, la legislazione di tutti i paesi è andata conferendo, alle imposte
reali, aspetti che sono propri dei tributi personali. Ciò rivela indirettamente l'intuizione della pertinenza del-
la questione, come qui dimostro, al dominio dell'imposizione personale. e generale.
b) La stessa avvertenza di metodo va avanzata, considerando quanto è stato detto intorno al concet-
to o principio della capacità contributiva.
Nella letteratura che massimamente ha affrontato il problema della discriminazione qualitativa dei
redditi si è discorso di capacità contributiva o di ability to pay, nella ricerca di criteri empirici e principii lo-
gici di eguaglianza nella tassazione. A parità di reddito monetario imponibile, si è riscontrata minore capa-
cità contributiva nei redditi relativamente temporanei, discontinui, incerti rispetto alla capacità rivelata dalla
percezione e dalla disponibilità di redditi perpetui, continui e certi o relativamente meno incerti (o rischiosi)
(182).
Occorre, dunque, logicamente, a questo punto, dar conto della differenziazione o discriminazione
dei redditi, dovendosi, invero, spiegare il perché redditi quantitativamente ed istantaneamente eguali nell'e-
spressione monetaria, presentino, come da molti si dice, diseguale capacità contributiva, così da giustificare
le predette detrazioni di imponibile per alcune specie di essi (natura o fonte) o le differenti, corrispondenti
aliquote.
Quanto si dice della imposizione a mezzo di un solo ipotetico tributo (reale o personale) in tema di
trattamento differenziale degli imponibili, vale anche per l'intero sistema tributario o per un vasto settore di
esso (specialmente per l'imposizione diretta). Invero occorre anche spiegare la logica del sistema, dal punto
di vista della eguaglianza effettiva dell'onere tributario, soprattutto se si ricorre al criterio empirico della co-
esistenza di diversi tributi su diverse specie di redditi e sul patrimonio. Questa coesistenza ha lo scopo di
colpire relativamente di più i redditi che abbiano le caratteristiche della perpetuità o della maggior certezza,
come solitamente si argomenta da legislatori e studiosi.

__________
182
Dal lato tecnico amministrativo accertabili con diversa approssimazione al vero o con diverso grado di evasione.
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c) I legami logici fra il problema della discriminazione qualitativa degli imponibili, come redditi, e
quelli ricordati nelle precedenti lettere a) e b) sono, in via teorica, immediati e necessari, perchè suggeriti da
una priorità logica su quelli che corrono fra detti problemi (a) e b) ed epurazione dei redditi e dei patrimoni
per la loro traduzione in imponibili. Il motivo è che si preferisce, in queste pagine, posporre la “epurazione”
degli imponibile, definita come sistema di traduzione, al netto, dell'oggetto dell'imposizione costituito dalla
ricchezza, nella sua più generica accezione.
Secondo il De Viti De Marco, la discriminazione qualitativa è un fenomeno del tutto diverso da
quello della epurazione, in quanto la discriminazione consiste «di alcune ulteriori deduzioni che la legge
accorda a determinate categorie di redditi in più delle quote dedotte per la loro traduzione al netto». Ancora,
secondo il De Viti De Marco, le deduzioni a titolo di discriminazione suppongono redditi già epurati, così
che, dopo aver tradotto al netto (i redditi) la legge concede ulteriori detrazioni; oppure le diverse percentua-
li si applicano dopo che i redditi sono stati tradotti al netto. Tutte queste espressioni del De Viti fanno com-
prendere una certa indipendenza logica di problemi ed una successione soprattutto o solo cronologica del
fenomeni.
Pertanto, non si compie grave arbitrio accordando allo studio della discriminazione maggiore con-
nessione razionale coi problemi teorici della eguaglianza dell'imposizione, esaminati lungamente nei capito-
li che precedono. A detti problemi può figurare più affine quello della eguaglianza che si attua con la di-
scriminazione, che non allo studio della epurazione dei redditi. E’ arbitrio comunque ben minore di quanto
possa parere a coloro che antepongono la illustrazione del processo di epurazione a quello della discrimina-
zione, senza adeguata spiegazione razionale.
Del resto, dovendo ricorrere ad una definizione di imponibile, allo scopo di dare non soltanto un
concetto coerente con queste analisi finanziarie, ma necessario per la soluzione del problema della raziona-
lità della discriminazione medesima, si finirà per anticipare qualche nozione sul concetto di reddito netto,
come risultato, anche, di sistema di epurazione quale è considerato nella teoria finanziaria.

II.

SPIEGAZIONI POLITICO - SOCIOLOGICHE DELLA DISCRIMINAZIONE QUALITATIVA.

Richiamiamo alcune spiegazioni precipuamente extra-economiche della discriminazione dei redditi.


Possiamo dire che non appartengono al campo della economia della finanza pubblica, come teoria,
tentativi di spiegazione del fenomeno della discriminazione qualitativa come i seguenti.
a) Un tentativo si estrinseca nella contrapposizione fra redditi che, nella dizione inglese, vengono
distinti in earned oppure unearned. Sono earned i redditi socialmente o moralmente «guadagnati» «merita-
ti». Sono unearned i redditi non «guadagnati» o «meritati», nel significato che volta a volta si è conferito ai
termini qui indicati.
Ad esempio non sono sembrati guadagnati o meritati i redditi che siano ottenuti «senza lavorare»,
in quanto si sia beneficiato di una eredità ovvero di una fonte di essi redditi, che l'erede metta a frutto avva-
lendosi del lavoro altrui; e quando non si impieghi risparmio proprio o frutto del lavoro proprio.
Altri esprime lo stesso concetto asserendo che i redditi guadagnati implicano un sacrificio o costo,
nella produzione di essi, che manca nel caso in cui la fonte dei redditi sia frutto di eredità.
b) Per qualche autore non è meritato il reddito eccedente quanto è necessario a remunerare attività
che mantengano in esercizio capacità produttive esistenti: tale è il caso di un saggio di interesse che ecceda
il minimo per l'impiego del capitale, più una quota per il rischio.
c) Un fondamento della discriminazione ai fini tributari si è ravvisato in visioni della dottrina mar-
xista, dominante ai tempi in cui si criticava in Inghilterra la uniformità dell'income tax, nonostante la diver-
sa natura o qualità dei redditi.
In questo caso un'interpretazione «sociale» di idee di Marx affermava che il «profitto» del capitali-
sta deriva dallo sfruttamento del «lavoratore», il quale sarebbe l'unico creatore di tutto il reddito. Solo il sa-
lario sarebbe reddito meritato (earned) in quanto proviene dal merito del lavoro; mentre il profitto è immeri-
tato (unearned) o rubato ai «lavoratori».

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Mancando detto fattore di produzione (lavoro), il prodotto verrebbe meno. Così sembrava che l'in-
tero prodotto derivasse dal fattore mancante: talché sarebbero inerti, nonostante il peso dell'apologo di A-
grippa, i capitali se il lavoro non avesse il merito di rendere produttivo il capitale. E chiaro, peraltro, che si
trasforma in un rapporto di causa ad effetto quello che è un rapporto di interdipendenza. Inoltre si trascura,
a proposito di merito, che il capitale in tutte le sue forme è il risultato di lavoro anteriore, produttivo di red-
dito, una parte del quale sia stata risparmiata ovvero sottratta al consumo per assumere specie di bene stru-
mentale, da combinare con nuovo lavoro183.
d) Una spiegazione puramente politica della discriminazione dei redditi è stata avanzata dal De Viti
De Marco, il quale ha asserito che la diversificazione dei redditi di lavoro è un istituto a sé stante, che trova
la sua immediata e sufficiente spiegazione nella preponderanza politica che le classi industriali, professioni-
ste e lavoratrici hanno e sfruttano per conquistare esenzioni tributarie. Sottraendo materia imponibile e fa-
cendo diminuire il gettito delle imposte, di conseguenza debbono essere aumentate le aliquote sui redditi
che non godono di detrazioni a titolo di discriminazione. «Quindi è che il fenomeno della discriminazione
si lega necessariamente con fenomeni di traslazione. E si lega pure - quando la discriminazione si fa a favo-
re dei redditi minori - con l'imposta progressiva. Infatti la politica dei benefici speciali a pro delle classi po-
polari e lavoratrici, costituisce in gran parte casi di discriminazione»184. Anche questa visione, apprezzabile
fuori del dominio della economia finanziaria, è riferita per contrapposizione di campi di studio dello stesso
fatto che informa le leggi fiscali.

III.

DISTINZIONE SCIENTIFICA PRESA A FONDAMENTO

Nella spiegazione economica del processo di discriminazione degli imponibili, conserva invece si-
gnificato la distinzione dei redditi, in fondati e non fondati, a seconda della fonte.
Si intendono “fondati” i redditi che provengono da beni capitali immobiliari o mobiliari, puramente
considerati, ovvero combinati con altri fattori relativamente meno durevoli (lavoro nella accezione più am-
pia del termine o nelle varie specie).
Si intendono non-fondati i redditi redditi derivanti da puro lavoro della persona fisica (nelle varie
applicazioni e specializzazioni tipiche, che si notano in concreto).
Con queste espressioni si è nel campo che interessa l'economia della finanza pubblica. Invero attra-
verso codesta contrapposizione di termini, si differenziano qualitativamente i redditi, in funzione dei fattori
sopra ricordati nel dare una definizione del fenomeno. La distinzione è in funzione di durata, di probabilità
o di gradi di incertezza (rischio, continuità), riferiti alla produzione o più coerentemente alla disponibilità
dei redditi presso i soggetti della attività economica, considerati come contribuenti.
Su questi presupposti sinteticamente indicati del processo di discriminazione, ci si soffermerà per
integrarli e completarli e, in una parola, interpretarli, allo scopo di dare una spiegazione razionale del feno-
meno, consistente, normalmente, in una tassazione relativamente diversa dei redditi più o meno fondati.
Con questa limitazione del contenuto razionale dello studio al solo problema economico, si è inteso
anche rimanere aderenti alla visione di questo corso di lezioni: nel senso che si prescinde dal tipo di Stato

__________
183
A dire il vero, il pensiero del Marx, detto in imperfetta sintesi e soltanto per indicarne il senso, era ben diverso.
Egli partiva dalle idee del Ricardo, che individuava «la causa del valore» dei prodotti nel costo di produzione. Ridu-
cendo detta teorica a quella del valore-lavoro, il Marx enunciava la teoria del plusvalore. Sosteneva, cioè, che tanto il
profitto del capitalista-imprenditore quanto la rendita del proprietario di terre, derivavano dalla differenza fra il valore
totale del prodotto misurato dal lavoro e la quota parte del prodotto con cui veniva pagata la forza di lavoro. Queste
differenze, quindi, secondo detta concezione, risultavano immeritate o non guadagnate, dal punto di vista che qui inte-
ressa porre in evidenza, in questa rapida elencazione di punti di vista, che sono estranei alla teorica che ci impegna in
queste pagine, e che sono stati indicati a scopo culturale o per la storia di idee gravitanti intorno al problema economi-
co della discriminazione qualitativa dell'oggetto della imposizione.
184
DE VITI DE MARCO A, Principii …, pp. 207 e 266.
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che ponga il problema della eguaglianza nell'imposizione, e se ne studiano le basi e gli sviluppi razionali
dal punto di vista della discriminazione qualitativa.
Questo vale intanto ad escludere che la soluzione di un problema di modo di commisurazione del-
l'imposizione ai redditi (qui esaminata come diretta) sia necessariamente riferita al principio a cui si infor-
ma lo «Stato cooperativo», come vuole il Fasiani. La dimostrazione razionale ed obiettiva vale per tutti i ti-
pi di Stato astratti e per tutti i momenti storici in cui si ponga il problema della discriminazione qualitativa
dei redditi che, in sede di logica economica, non può che porsi nei termini che qui si riferiscono (per la sto-
ria delle teorie) e soprattutto nei termini in cui ritengo si debba impostare il problema, come passo a dimo-
strare.
Se si ragiona in base ad elementi e criteri non economici, qualunque sia il tipo di Stato la cui classe
governante li adotti, se, ad es. le argomentazioni sono del tipo di quelle che hanno preteso di spiegare la di-
scriminazione secondo il senso indicato alle lettere a), b), c) e d) del II paragrafo di questo capitolo, occorre
affermare che si è fuori della scienza finanziaria considerata per l'aspetto che, finora, si è ritenuto dia conte-
nuto razionale alla economia della finanza pubblica.

IV.

LE DUE IMPOSTAZIONI ECONOMICHE DELLA DISCRIMINAZIONE DEI REDDITI: A) UNA DI


TIPO OGGETTIVO O RICARDIANO; B) L'ALTRA DI TIPO SOGGETTIVO O UTILITARIO

Premetto che la mia visione, è di tipo soggettivo: nel senso che, dal punto di vista della disponibili-
tà per il consumo, non tutti i redditi sono eguali, se si considera la fonte dalla quale essi provengono.
Ma una più esplicita presa di posizione è contenuta nella seguente proposizione: «Queste argomen-
tazioni ed altre analoghe già svolte in favore della discriminazione dovrebbero razionalmente supporre la
sintesi delle condizioni economiche dei contribuenti (soggetti) quale è espressa dai redditi complessivi dif-
ferenziati a seconda della loro fonte». La discriminazione, cioè, avrebbe luogo più logicamente in sede di
imposizione personale che non in sede di imposte reali, le quali non tengono conto della condizione eco-
nomica complessiva della persona fisica o dell'unità familiare (concezione soggettiva).
Questa mia visione ha ricevuto il conforto della approvazione del Borgatta. Occupandosi della re-
censione dell'edizione del 1944 di queste lezioni, a proposito della logica della discriminazione qualitativa,
commentava: «Non si comprende come, col sorgere delle imposte personali, non si sia avvertito che la sede
logica per valutare la necessità o meno di destinare una quota del reddito attuale ai bisogni futuri, non sia
l'imposta reale ma quella globale personale: solo conoscendo l'intero reddito e tutte le fonti di cui un contri-
buente dispone, può giudicarsi il suo bisogno di risparmiare una parte del suo reddito attuale». Invero, per
comprendere la mia visione, occorre richiamare la visione che, in precedenza, ho denominato di tipo Ricar-
diano, per ricordare le parole del Fubini che non dimostrò di aver compreso il pensiero di Stuart Mill su
questo argomento.
Se mi permetto di far riferimento con insistenza al mio pensiero, anche se già in altri autori, quali il
Giuseppe Ricca Salerno e il Graziani, è perché ritengo: 1) che la trattazione debba svolgersi secondo le
premesse e l'impostazione che ho dato al problema dell'imposizione progressiva; 2) che la dimostrazione
debba darsi ancora, e secondo la più aggiornata teoria dinamica, introducendo il fattore tempo nei ragiona-
menti edonistici: è il tentativo che si compie in queste lezioni.
Frattanto per una adeguata impostazione del problema, accenno alla evoluzione dei punti di vista
dai quali esso è stato studiato.
A) Il fatto empirico, incidentale, alla cui spiegazione, che fu anzitutto di tipo Ricardiano o di carat-
tere oggettivo, si rivolse l'attenzione dei classici inglesi e di studiosi anche nostri, fu costituito dalla intro-
duzione dell'income tax, durevolmente a partire dal 1842. Invece, per lo innanzi, l’imposta aveva avuto ca-
rattere di tributo straordinario, per fronteggiare le spese delle guerre Napoleoniche.
Detto tributo costituiva una specie concreta del tipo di imposta che, secondo taluni, viene detta ge-
nerale ed è teoricamente caratterizzata dalla uniformità della tassazione. Infatti essa doveva, come tale, dar

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luogo ad unicità di trattamento, con assenza di discriminazioni, qualunque sia la fonte delle varie quote o
parti di redditi o la natura di essi, a seconda che fossero «fondati» o «non fondati».
Codesta caratteristica della uniformità della tassazione generale, con aliquota proporzionale, appar-
ve degna di critica in quanto la stessa imposizione si faceva gravare su redditi non omogenei, come parti del
reddito complessivo costituito da varie categorie di redditi, ad es., provenienti da investimenti immobiliari e
da impieghi mobiliari, da industrie, professioni, vitalizi e redditi di puro lavoro dipendente (salari).
Considerando in sè eterogenei i varii redditi, si pose l'accento sul carattere differenziale della diver-
sa durata: redditi perpetui e temporanei non dovevano essere tassati in eguale misura, parendo codesta una
palese «ingiustizia». Detta considerazione oggettiva dei singoli redditi, portava alla contrapposizione degli
stessi in termini di rispettivo valore capitale, cioè in funzione della diversa durata. Pareva «giustizia», ad
es., a Giacomo Mill185, quella espressa in questi termini: «se una rendita rappresenta un capitale corrispon-
dente alla metà d'anni di rendita di più d'un'altra, essa dovrebbe essere tassata una metà di più. Se essa rap-
presenta un capitale corrispondente ad un terzo d'anni di rendita di più di un'altra, essa dovrebbe essere tas-
sata un terzo di più e così via».
Sul tema interloquirono, in sede di «inchiesta», parlamentari e tecnici e, fra questi gli attuari, sem-
pre considerando oggettivamente a sè stanti i varii tipi di redditi, differenziati da diversa durata. E’ ovvio,
che, da questo punto di vista, un reddito temporaneo vale meno, in termini di valore capitale, di un reddito
perpetuo. Dato un tasso di interesse, ad es. del 5%, un reddito perpetuo di 5 lire, vale 100 lire ovvero equi-
vale attualmente al capitale di 100 lire. Se dura dieci anni, vale in termini di capitale, in quanto sia capita-
lizzabile, circa 38 lire.
Da questa constatazione, per sè ineccepibile, con un salto logico gli attuari arrivavano a sostenere
che: quindi, i due redditi di 5 lire in perpetuo e di cinque lire per dieci anni, se si vuole attuare la «giustizia»
espressa in termini di eguale tassazione, debbono essere tassati in misura non uniforme. Tendenzialmente
deve corrispondere maggiore imposta il reddito perpetuo.
Il ragionamento in questi termini subì la critica di J. S. Mill(186), il quale fece presente che, se si ca-
pitalizza il reddito in funzione della durata, deve pure capitalizzarsi la corrispondente imposta con lo stesso
criterio. E poiché il 10% di tasso uniforme commisurato a 5 lire in perpetuo, capitalizzando 0,50 si arriva a
10 lire; e, allo stesso lasso, capitalizzando 0,50 per 10 anni si arriva a 3,80 circa, non si può sostenere che
non vi sia, in termini di riduzione del valore capitale a causa dell'imposta, eguale trattamento, data la eguale
incidenza della tassazione uniforme. Invero occorre capitalizzare, come elemento negativo, l'imposta che,
pur a tasso uniforme, colpisce per durata diversa i due redditi ipotizzati.
Questa critica in termini obiettivi è rimasta insuperata nel ragionamenti di tipo Ricardiano, in cui
non entrano fattori soggettivi187. Ma la critica Milliana ai criteri oggettivi degli attuari e di quanti la pensa-
__________
185
MILL G., Manuale di economia politica, p. 235 dell'edizione italiana del 1831, Milano.
186
. Testualmente si legge a p. 980 e segg. dei Principii di J. Stuart Mill nella Biblioteca dell'Economista: «La tassa
attuale tratta tutte le specie di rendita del pari, prendendo sette penci per ogni lira tanto dall'uomo, la cui entrata muore
con lui, come dal proprietario di terre che può trasmettere intere le sue ricchezze ai discendenti. Questa una ingiustizia
manifesta: nullameno essa non viola aritmeticamente la regola che le tasse dovrebbero essere in proporzione dei mez-
zi. Quando si dice che un'entrata temporanea dovrebbe essere tassata meno di un'entrata durevole, la risposta è irresi-
stibile, cioè che infatti è tassata meno; perocchè l'entrata che dura soltanto dieci anni paga la tassa solo per dieci anni,
mentre quella che dura sempre la paga sempre. Su di ciò i riformatori delle finanze errano grandemente. Essi negano
che le entrate dovessero assoggettarsi alle tasse non in proporzione del loro annuo ammontare, ma del loro valore capi-
talizzato: che, per esempio, se il valore di un censo perpetuo di cento lire di tremila lire, e un reddito della stessa som-
ma per la lunghezza solo della vita non potesse vendersi che per mille e cinquecento lire, il reddito perpetuo dovesse
pagare due volte tanto; e se uno di essi paga dieci lire all'anno, l'altro non ne dovesse pagare che cinque. Ma in questo
argomento vi è una gran fallacia, perocchè valuta le entrate in un modo e i pagamenti in un altro; capitalizza le entrate,
ma non i pagamenti. Un reddito del valore di :tremila lire dovrebb'essere tassato il doppio, si dice, di uno di 1.500, e su
di ciò non vi può essere questione; ma si dimentica che il reddito del valore di 3.000 lire paga in perpetuo dieci lire al-
l'anno, mentre il reddito che finisce paga le stesse dieci lire solo durante la vita del suo proprietario. Perciò l'entrata
della metà paga la metà della tassa; e se questa quota annua si riducesse da 10 a 5, pagherebbe non la metà, ma un
quarto soltanto di quello che .si esige dal reddito perpetuo».
187
Naturalmente, poiché si tratta di valori capitali che trovano la loro genesi sul mercato, se questa impostazione fos-
se appropriata, si dovrebbe pur dire che essa non riuscirebbe a dare la spiegazione dell'eguale tassazione di redditi di-
versi, se le 10 lire si suppongono, ad es., reddito di lavoro dipendente (salario) che sfugge ad una capitalizzazione non
essendo oggetto di scambio nelle società civili la persona umana.

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vano come loro, non poteva esaurire la questione, perchè non era razionalmente impostata. Per fare questo
occorreva abbandonare la visione oggettiva come inappropriata a spiegare il fenomeno. Esso, infatti, non è,
solitamente o soltanto, costituito da una eguale tassazione o da imposte ad aliquote uniformi, ma empirica-
mente ha presentato nella casistica storica: I) tassazione differenziata di eguali importi monetari di redditi
provenienti da diverse fonti; II) tassazione con aliquota uniforme, ma a carico di imponibili ottenuti sottra-
endo, da eguali ammontari monetari di redditi di diverse fonti, quote di detrazione dall'importo nominale, in
funzione della diversa fonte o natura di redditi più o meno fondati, nel senso su esposto.
Lo stesso J. S. Mill che aveva negato la reale diseguaglianza di tassazione di redditi di diversa dura-
ta, soggetti ad eguale od uniforme tassazione formale, non sarebbe stato in grado di spiegare il fenomeno
della tassazione solo apparentemente diseguale in termini formali (ossia con aliquote differenziate o detra-
zioni da pari ammontari monetari di redditi diversi), se non abbandonando la posizione logica di tipo Ricar-
diano, e introducendo criteri di tipo subbiettivo.
Non si tratta, a differenza di quanto osserva, nei suoi confronti, il Fubini188 di «una delle vie tortuo-
se a cui il Mill talora ricorreva, onde inserire nel proprio sistema, di natura prettamente Ricardiana, ele-
menti soggettivi extra-Ricardiani», ma dell'abbandono logicamente necessario di una via per un'altra, es-
sendo la prima inadeguata alla spiegazione del fenomeno della discriminazione qualitativa dei redditi, in
sede di tassazione.
B) Già questo passo verso la visione soggettiva del problema si aveva in Mac Culloch. Egli aveva
abbandonato il concetto di reddito oggettivo, riferito o legato ad una forma determinata di capitale da cui
promana (terra, casa, capitale mobiliare, ecc.), ed era passato al concetto di reddito soggettivo. Questo era
riferito al soggetto che compie le operazioni economiche attraverso le quali esso si forma e che di esso go-
de. Si ha così il reddito di un proprietario, di un industriale, di un professionista, di un salariato, ecc., perce-
pito e godibile o goduto.
Invero Mac Culloch189 aveva già affermato che «per procedere secondo giustizia dovremmo toglie-
re dal reddito del possessori di annualità temporanee, professionisti, ecc., le porzioni di annualità tempora-
nee corrispondenti ad una assicurazione sulla loro vita, per somme equivalenti all'attuale valore dei loro
redditi, e mettere la tassa sul rimanente».
Interessa nei ragionamenti di questo classico il principio subiettivo, con il riferimento del reddito
alla persona od al soggetto che lo percepisca. Il trapasso dalla visione di tipo Ricardiano a quella di tipo
marginalistico, pur nella fase di intuizione più che di sviluppo di questa odierna analisi economica, si ha più
nettamente in J. S. Mill (Principii …) le seguenti proposizioni, che coordino, attingendo le più rappresenta-
tive, per semplificare, dal testo del ragionamento:
a) «Ad onta dell'eguaglianza nominale dei redditi, A (intendesi come soggetto) fruente di mille lire
all'anno, non può così facilmente pagarne cento, come (il soggetto) B che trae la stessa somma annua da una
eredità; avendo per lo più A una domanda sulla sua entrata che B non ha, cioè di dover provvedere con i ri-
sparmi ai suoi figli, a cui (nel caso dei salari e dei guadagni di professione) si dovrebbe generalmente ag-
giungere il bisogno di provvedere ai suoi ultimi anni; mentre B può spendere tutta la sua entrata senza che
ne scapiti la vecchiaia e trasmetterla tutta ad altri dopo la sua morte».
b) «Perciò il principio dell'eguaglianza nelle tasse, interpretato nel suo senso unicamente giusto, l'e-
guaglianza dei sacrifici, esige che chi non ha modo di provvedere alla sua vecchiaia, fuorché risparmiando,
si vegga esentato dalla tassa in proposito».
In questo modo trovano spiegazione i concetti che facevano esulare dal campo della scienza i fattori
in base a cui Mill ragionava, per contrapporre, come si vede, alla visione oggettiva (o aritmetica), quella
edonistica o soggettiva di tipo marginalistico, come oggi lo si denomina (190).

__________
188
FUBINI, Contributo alla determinazione del concetto di imposta generale, nel «Giornale degli Economisti , mag-
gio 1932.
189
MAC CULLOCH, Trattato sui principii e sui pratici effetti delle imposte, ecc., ediz. ital., Bibl. Ec., p. 88.
190
Appare significativo che J. S. Mill, in occasione della people's edition 1865 dei Principii, ha modificato l'espres-
sione da lui in precedenza usata, accentuando l'aspetto edonistico, soggettivo della sua visone. Invero, mentre nell'edi-
zione II del 1849, che è servita per la traduzione nella Bibl. dell'Ec., I serie, vol. II, pag. 981 1851, si legge: «The
claim does not rest on grounds of arithmetic, but of human feelings and necessities», nella successiva edizione popo-
lare sopraindicata si trova invece: «…..but of human wants and. feelings».
Nella traduzione italiana, il pensiero del Mill, nel senso indicato, non è reso con la dovuta evidenza dalle parole: «La
pretesa non si darà sul terreno dell’aritmetica, ma su quello dei sentimenti e delle umane necessità».
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Il Mill avanza, quindi, «espedienti» per attuare la discriminazione come suggerimenti «perché ven-
gano pesati da quelli che possono essere giudici competenti di siffatte difficoltà». «Se non può applicarsi
nessun disegno per cui l'esenzione possa restringersi a quella parte di reddito che è ora risparmiata, rimane
sempre il rozzo espediente delle due differenti ragioni di tasse».
Con ciò J. S. Mill introduce l'elemento subiettivo rendendolo atto a spiegare (con la diversità dei
sacrifici sopportati da coloro che debbano fronteggiare bisogni presenti e futuri, con mezzi non egualmente
disponibili) la diversità di aliquote con cui e nei sistemi tributari e nelle singole imposte, si compie la tassa-
zione empirica di redditi di diversa natura o diversamente fondati.
Per completezza di visione, egli fa anche il caso di profitti netti percepiti dagli uomini d'affari, sug-
gerendo una ragione intermedia (aliquota) fra quelle che dovrebbero adeguarsi agli interessi del capitale ed
al salario del lavoro, come casi estremi della esemplificazione. Seguono altre complicazioni di situazioni
subiettive difficilmente regolabili per legge: ma sempre in base al principio di eguaglianza nelle tasse, se-
condo il quale «ognuno dovrebbe essere tassato, non in proporzione di quelle che ha ma di quello che può
spendere» (alias: del reddito disponibile dopo avere pensato ai bisogni futuri).
Si può trovare, in questa ultima visione, un'eco del problema o teorema della cosiddetta doppia tas-
sazione del risparmio, su cui non intrattengo qui il lettore, riservandomi di destinare il capitolo VII a questo
insussistente caso di diseguaglianza nella tassazione, che ha impegnato molti sostenitori della tesi.
Non vi è necessità logica di richiamo a detto teorema. Invece L. Einaudi191 pervicacemente ha insi-
stito nel voler vedere la doppia tassazione del reddito risparmiato (nel sistema della tassazione del reddito
prodotto, come spiegherò più oltre), sulla scia del Mill e del Fisher. Ma trattando, poi, della diversificazione
dell'imposta rispetto ai redditi di capitale, di lavoro e misti, in base alle origini e alla natura dei redditi, non
si avvale affatto, per detta spiegazione logica, del noto teorema. Egli tratta di possibilità per il contribuente
di consumare in tutto o in parte il reddito; di diversa disponibilità del reddito rispetto al pagamento dell'im-
posta ed al diverso grado di «preoccupazione» delle persone che percepiscano redditi di diversa natura; di
diverso grado di necessità di risparmio, come atto che va presunto dai legislatori in funzione, appunto, della
diversa disponibilità di redditi, in quanto fondati più o meno su capitali o combinazioni di capitale e lavoro.
Inoltre, Einaudi si riferisce all'empirismo legislativo italiano, sia riguardante singola legge (imposta
di ricchezza mobile) sia il sistema tributario, completato da imposta ordinaria sul patrimonio, coesistente
con l'imposizione personale, progressiva, che discrimini e in quanto discrimini soltanto in senso quantitati-
vo i redditi netti complessivi. Ma in detta spiegazione della discriminazione concreta non v'è ombra di ri-
corso alla dimostrazione di Stuart Mill sulla pretesa doppia tassazione del risparmio. Dunque, anche detta
pretesa dimostrazione di tipo oggettivo cede il passo, perché non necessaria e insufficiente, alla spiegazione,
basata su elementi soggettivi, della discriminazione qualitativa dei redditi.
Detti elementi sono necessari e sufficienti a fornire la base edonistica della trattazione scientifica
del problema della eguaglianza dell'imposizione, attraverso anche un processo di differenziazione di aliquo-
te o di detrazioni di presunto risparmio dai redditi giudicati variamente disponibili. Essi sono variamente di-
sponibili perché variamente «fondati». Si postula la considerazione simultanea di bisogni presenti e futuri,
proprii e della specie familiare, che la classe governante (con visione di una media condotta umana) pensa
sia compiuta (in termini di utilità) dai contribuenti soggetti alle imposte soprattutto dirette.
Una fugace intuizione di questo ordine di ragionamenti si ebbe da parte del G. Ricca Salerno e del
Graziani, intuizione che viene qui superata alla luce di appropriate dimostrazioni, su base edonistica. Vo-
glio citare questo passo sintetico del Graziani, che aveva presente il pensiero del Ricca Salerno, in proposito
(Istituzioni, U.T.E.T., 1929, pagg. 290-91):
«Colui che possiede un reddito perpetuo ha un'entrata capace di ripetizione continua; può, quindi,
con essa provvedere a bisogni, che periodicamente si rinnovano».
«Invece colui che percepisce un reddito temporaneo si trova di fronte a bisogni che si ripetono, ma
possiede un'entrata che ad un certo momento cessa di rinnovarsi; è d'uopo quindi che egli la risparmi in par-
te, la trasformi in capitale per procacciarsi un reddito continuo, quanto i bisogni. A pari quantità di reddito,
l'utilità finale del reddito perpetuo è meno grande della utilità finale del reddito temporaneo, potendo il pos-
sessore di quello applicare all'appagamento di bisogni di lusso la quota, che il possessore del reddito tempo-
raneo riserva per più urgenti bisogni futuri. Quindi una differente partecipazione ai carichi pubblici è neces-
saria ad attuare l'eguaglianza di valore subiettivo della ricchezza ceduta. Non è per evitare duplicazioni tri-
butarie nè per un generale principio di esonero del risparmio da imposizione, che si sancisce il principio
__________
191
EINAUDI L., Principii di Scienza delle finanze, edizione del 1940 dei pp. 177-188.
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della diversificazione dei redditi, ma perché redditi quantitativamente uguali e differenti per durata, a parità
di tutt'altre circostanze, manifestano diverso grado finale di utilità, sicché un vario saggio d'imposizione as-
sicura l'eguaglianza di valore subiettivo della ricchezza ceduta allo Stato. Certo queste considerazioni val-
gono per il sistema tributario in generale, od al più per una imposta generale sul reddito, non per questo o
quel tributo che si riferisca ad una od altra specie, sia di prodotto, sia di reddito, giacché è evidente che il
possessore d'uno speciale reddito temporaneo, può avere altri redditi di natura differente, e le nostre osser-
vazioni concernono la condizione economica complessiva dell'individuo .
Ebbene, al pensiero del Graziani, il Fasiani contrapponeva questa pretesa svalutazione dello stesso,
confondendo la misurabilità della entità “utilità” con il ragionamento su detta entità in base alla idea che se
ne fa la classe governante, che risolve per tal via i problemi che il teorico spiega. Di ciò si è detto a propo-
sito dell'imposta progressiva. Ma intanto è un fuori di luogo la critica rivolta al Graziani in codesti termini:
«Solo chi applica ai problemi finanziari il principio della decrescenza dell'utilità del reddito, senza troppo
preoccuparsi della possibilità di paragonare le sensazioni di soggetti diversi, afferma» … ciò che ho sopra
riportato del Graziani.
Non occorre rifarsi al capitolo sub l'imposizione progressiva, per confutare questa errata posizione
interpretativa dei fenomeni di massa, che sono quelli finanziari. Ma stando anche nell'ambito della mono-
grafia del Fasiani, destinata alla discriminazione qualitativa dei redditi (192), si trova che egli formula la fi-
gura della «rendita del celibe», che non può non essere basata sul giudizio in merito a valutazioni edonisti-
che che può formarsi la classe governante che risolva il problema della discriminazione relativa. Detto giu-
dizio, cioè, non può che basarsi sull'idea che detta classe si forma degli atteggiamenti di tipici e da essa ipo-
tizzati soggetti nei confronti delle loro valutazioni di beni presenti e beni futuri; esso è, quindi, in relazione
con la psicologia dei soggetti che il terzo» (ossia lo Stato) considera «normali o anormali», rispetto al «pe-
riodo economico» al quale si estenda il consumo del reddito, nel tempo (fenomeno esaminato dal Fasiani).
Il Fagiani sarebbe stato più coerente, anche in questo problema, se avesse assunto la posizione logi-
ca che inesorabilmente egli stesso assume altrove, a proposito di apprezzamenti utilitari nei confronti di be-
ni presenti e futuri (Principii, vol. I, p. 162) e delle illusioni, in proposito, dei soggetti, e avesse
ammesso il giudizio della classe governante in tema di presunzione, da parte di essa, degli apprezzamenti
utilitari dei tipici componenti la collettività. Infatti, egli aveva scritto: «solo l'esperienza e la sensibilità poli-
tica (dello Stato o classe governante, naturalmente) possono consentire di determinare il tributo in una mi-
sura che non ecceda i limiti dell'illusione della grande maggioranza».
Così, inevitabilmente, lo stesso Fasiani, a cui mi riferisco come ad una posizione di pensiero diffu-
sa, deve ammettere l'intervento del giudizio di terzo (Stato) in tema di apprezzamenti utilitari che esso ipo-
tizza o immagina, per risolvere problemi di massa, senza misurare sensazioni od emozioni in termini stati-
stici od obiettivi. E lo conferma dopo avere ripetuto per amor di tesi le critiche a quanti impostano i pro-
blemi dell'imposizione progressiva in base alla uniformità della utilità decrescente della moneta. Inevita-
bilmente, infatti, egli ammette (vol. II) non essere «impossibile», per la classe governante, esprimere un
qualche giudizio sensato intorno alle ofelimità dei soggetti, ovvero non essere assolutamente «impossibile»
arrivare a qualche induzione circa la struttura della curva di utilità (p. 68 dell'edizione del 1941) collettiva o
media.
Fatte queste puntualizzazioni critiche, continuo in questo capitolo ad impostare teoricamente in
termini edonistico-subiettivi, come la classe governante risolve in concreto anche i problemi della discrimi-
nazione qualitativa del redditi. Ciò faccio con una visione scientifica che rimane coerente con quella che ho
introdotto a proposito della discriminazione quantitativa dei redditi: problemi entrambi di interpretazione
della eguaglianza nell'imposizione.
Ricordo, infine, A. Amato193, che in proposito scrive che «la capacità contributiva non può commi-
surarsi ai redditi di un solo anno, ma deve riferirsi al complesso dei redditi di ciascun contribuente». Si rife-
risce, quindi, alla persona fisica, come contribuente (pur se detta imposta discrimina oggettivamente le ali-
quote che colpiscono anche redditi di persone giuridiche). Conferma detto riferimento alla persona fisica,
dove accenna al risparmio necessario, come quota di reddito esente dall'imposta.
Ma ciò riconosciuto: a) impernia il ragionamento sulla durata dei redditi, oggettivamente considera-
ta, al fine di rendere omogenei redditi perpetui e temporanei, in base ad un procedimento di capitalizzazio-
__________
192
Già citato, a cui rimando e apparsa negli «Annali di Statistica e di Economia», Genova 1936.
193
AMATO A., Una interpretazione matematica della discriminazione delle aliquote nell'imposta di ricchezza mobile
(«Rivista Bancaria», 1951).
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ne; b) tiene presenti singoli redditi, senza avvertire che quelli delle categorie dell'imposta di ricchezza mo-
bile, dovrebbero supporsi i soli o complessivi a disposizione di distinti soggetti, e non come addendi di una
somma di redditi; c) traduce in termini matematici, inducendo dalla differenza di aliquote, la presunta dura-
ta dei redditi di lavoro contrapposti a quelli perpetui, di capitale; d) ma non da ragione del perché di tale du-
rata presunta e del connesso risparmio necessario, alla luce del criterio subiettivo o in base alla utilità mar-
ginale, riferita al complesso dei redditi supposti di durata, probabilità e rischio diversi. E questo è il pernio
non riconosciuto, da cui prende le mosse la traduzione della premessa edonistica, non dimostrata come de-
terminante la differenziazione di aliquote, corrispondente all'idea che, come ho più volte detto, la classe go-
vernante si fa del risparmio necessario, rispetto a redditi complessivi di diversa natura.
In altre parole, con questa critica non si afferma che sia priva di portata gnoseologica o inetta a
spiegare alcuna parte del fenomeno, la visione obiettivi. Si pensi, appunto, ai casi in cui il soggetto che pro-
duca e percepisca non sia una persona fisica ma un ente collettivo o un'impresa giuridicamente separata dal-
le persone fisiche che ad essa diano vita. In tal caso è chiaro che i fattori durata, probabilità, gradi di incer-
tezza, rischio, obiettivamente considerati, contribuiscono a dare una parziale spiegazione della discrimina-
zione dei redditi soggetti alla imposizione diretta, che continua in pratica a prevedere la discriminazione
nelle imposte reali, con espedienti che tradiscono una spostata soluzione del problema.
Ma il caso in cui produttore, percettore, consumatore potenziale sia la persona fisica (come soggetto
a cui si riferisca, parimenti) il fatto economico (e quello della successiva tassazione) non solo non è trascu-
rabile, ma si può dire dominante specialmente quando si introduce il criterio della eguaglianza come espres-
sione della. giustizia. Il Mill, che pure aveva seguìto e criticato gli attuari sul loro terreno oggettivo, non po-
té fare a meno di pensare agli apprezzamenti utilitari dei soggetti, come persone fisiche.
Per essere razionale, la presunzione della necessità del risparmio va collegata all'apprezzamento
edonistico che, a giudizio della classe governante, si ritiene siano formulati da tipici soggetti, in merito alla
utilità dei redditi diversamente disponibili (durata, rischio dinamico o incertezza, ecc.) rispetto ai bisogni
presenti e futuri, propri e della specie umana. Derivano da questa tesi le intuizioni dei citati autori e il pen-
siero espresso da me e dal Borgata: vale dire la vera sede per risolvere il problema della discriminazione
(non solo quantitativa) anche qualitativa dei redditi, sarebbe, in via di ipotesi razionale, come in parte lo si
trova applicato(194) all’interno dell'imposizione personale e generale.
Così facendo, si assorbirebbe il caso dei redditi prodotti da persone giuridiche, in quanto, per la di-
scriminazione, si terrebbe presente il «momento» logico della loro utilizzazione dopo la percezione, ovvero
del loro godimento, o meglio della loro godibilità, momento al quale pensava, secondo me, sostanzialmente
il Mill.

V.

DIMOSTRAZIONE DELLA DISCRIMINAZLONE QUALITATIVA SU BASE


EDONISTICA (PRIMA APPROSS1MAZIONE). DEFINIZIONE DEL REDDITO.

Per la spiegazione delle premesse edonistiche della discriminazione qualitativa dei redditi, occorre
riferirsi ad una nozione di reddito eminentemente dinamica ovvero riferita al tempo nel quale il soggetto
preveda di dover soddisfare bisogni. Detta visione non era necessaria nel caso della discriminazione quanti-
tativa, nella quale (teoria dell'imposizione progressiva, proporzionale, ecc.) interessava conoscere, dati i bi-
sogni, l'ipotetico modo con cui la classe governante apprezza l’utilità dei redditi dei soggetti che compon-
gono la collettività, istantaneamente considerata.
Ma l'avere introdotto il fattore “diversa durata” e soprattutto, la incertezza, che influenza la durata e
l'esistenza dei redditi (definiti come più o meno «fondati» su capitali o combinazioni di capitali con lavoro
o derivanti da puro lavoro) coerentemente obbliga a fare ipotesi non di carattere statico; cioè induce a tener
conto degli apprezzamenti edonistici subiettivi, quali sono immaginati esistere a giudizio della classe go-

__________
194
Si vegga, per l’Italia, la vecchia imposta di famiglia, dell’ordinamento comunale.
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vernante, presso contribuenti tipici che debbano contrapporre, ai bisogni futuri, redditi più o meno durevoli
o probabili, secondo le aspettative vagliate subiettivamente dai soggetti.
Sembra ormai pacifico (si aderisca o meno alla visione di Fisher) che il reddito è considerato come
la serie di beni di cui un soggetto economico dispone nella successione del tempo o durante un suo interval-
lo finito.
Si parta anche dal reddito monetario: esso deve essere convertito in reddito fisico ovvero reale,
poiché la moneta viene ceduta in cambio di altri beni, destinati agli usi ai quali le preferenze del soggetto il
applicano, ottenendo un reddito psichico.
E questo ultimo costituito dal flusso di utilità o soddisfazioni derivanti dall'uso del reddito reale.
Quest'ultima visione implica la esistenza del complesso piano od orizzonte economico del soggetto,
quindi la concezione di reddito soggettivo, inteso come complesso di redditi.
Definisco anche come reddito netto del soggetto la somma di tutti i redditi oggettivi o monetari, che
affluiscono alla stessa persona entro un dato intervallo di tempo, e detraendo la somma dei valori monetari
di beni e servizi ai quali, per ottenere quei singoli redditi, la persona o soggetto ha rinunziato.
Questa visione soggettiva del reddito ha il pregio di conciliarsi, ripeto, con quella del Fisher (che lo
concepì, in un primo tempo, esclusivamente come un flusso di servizi, di usi) perché gli usi dei beni eco-
nomici (vedi sopra) non possono concepirsi disgiuntamente da un soggetto195, essendo determinati dai desi-
deri, dalle preferenze e dagli scopi del soggetto o della persona che se ne serve.
Ponendo in correlazione i fini che il soggetto si propone di conseguire in futuro e i bisogni che egli
prevede di dover soddisfare con le aspettative circa le disponibilità dei mezzi, sorge la visione del reddito
come quantità considerata prospettivamente. Deriva da qui la visione (che si è già considerata staticamente
nella spiegazione della discriminazione quantitativa dei redditi) del reddito netto spendibile, disponibile o
consumabile, durante il tempo.
Così introduciamo elementi tipicamente dinamici: a) previsione del futuro; b) conoscenza imperfet-
ta di esso in quanto il soggetto entra nel mondo della incertezza e del rischio. Intendo la incertezza non as-
sicurabile (concetto discusso) o meglio collegata con la aspettativa soggettiva della persona che imposta il
piano edonistico proiettato nel futuro, in base alla propria esperienza; c) saggio o modo di variazione della
utilità nel tempo.
Ai fini della ricerca delle basi logiche e ipotetiche della discriminazione qualitativa, supponiamo
invarianza di bisogni nel futuro per sola comodità di ragionamento e riferiamo l'incertezza alla disponibilità
dei mezzi (ovvero alla serie di redditi per soddisfare i bisogni) nel corso del tempo.
Tenendo conto della previsione del futuro e dell'incertezza circa la disponibilità dei mezzi nel tem-
po (a parità di bisogni da soddisfare), e aderendo alla concezione logica della categoria del reddito come
quantità prospettiva, occorre riferire l'utilità marginale del reddito all'impiego di esso nel tempo.
Le ricerche degli economisti in questo campo hanno fatto concludere che l'atteggiamento medio dei
soggetti, informato a previdenza, in sede dinamica, porta ad una disposizione delle dosi di reddito o beni
corrispondenti e ad apprezzamenti utilitari marginalistici, diversi da quelli supposti nell'ipotesi statica della
decrescenza dell'utilità per le successive dosi di mezzi disponibili per il soddisfacimento dei bisogni riferiti
all'istante del tempo.
Facendo l'utilità marginale funzione non solo delle quantità di reddito disponibile, ma del probabile
impiego di esse per l'incertezza subiettivamente vista della disponibilità nel tempo, il soggetto si suppone
indotto a rivedere il proprio piano di distribuzione dei mezzi medesimi nel tempo. Precisamente egli è in-
dotto ad accantonare una riserva ed a procedere, nel proprio piano, a quella che è stata detta «assicurazione
latente» dalla teoria recente, annettendo alle unità di reddito, attesi nel futuro, utilità diversa e tendenzial-
mente maggiore di quella che esse avrebbero avuto istantaneamente prescindendo dalla soluzione del pro-
blema del soddisfacimento dei bisogni nel tempo.
Indicando con U' l'utilità marginale, la condizione di equilibrio sarà compatibile con la massima
soddisfazione del soggetto quando si abbia nel piano prospettivo, una distribuzione del reddito probabile o
incerto o più o meno certo talché si verifichi l'eguaglianza:

U1' = p2U2' = p3U3' =…..= pnUn' [I]

nella quale:
__________
195
Cfr.: JANNACCONE P., Lezioni di economia politica, 1934.
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- U' rappresenta l'utilità marginale della parte di reddito certamente disponibile e destinabile a sod-
disfacimento di bisogni;
- p rappresenta la probabilità soggettiva correlata con l'incertezza dei redditi più o meno fondati su
capitali e lavoro e loro combinazioni, destinabili a bisogni futuri.
Se p1 = 1 rappresenta la certezza della disponibilità di una dose di reddito la cui utilità marginale si
è espressa con U'1, e p2, p3…..pn, frazioni < 1 di valore, decrescente col decrescere della probabilità sogget-
tiva di disporre dei mezzi per soddisfare bisogni futuri, affinchè sussista la [I], occorre che progressivamen-
te aumenti l'utilità marginale delle dosi probabili espressa da U'2, U'3,… U'n.
Questo significa che, affinché si abbia eguaglianza assoluta fra i gradi di utilità marginale, occorre
neutralizzare o compensare edonisticamente i gradi di incertezza o di probabilità soggettiva decrescente con
il divenire meno «fondati» via via i redditi componenti il complesso a disposizione del soggetto che intenda
soddisfare bisogni nel tempo.
Poiché si è accennato alla «assicurazione latente», occorre una redistribuzione delle disponibilità, in
modo da accantonare dosi per il futuro: donde la spiegazione della cosiddetta necessità di risparmiare che
si suppone sentita da coloro che dispongono di mezzi via via meno certi secondo i giudizi dei soggetti, im-
maginati dallo Stato. Altri ha accennato a fattori di compensazione delle perdite probabili di mezzi per i bi-
sogni futuri.
Possiamo esprimere con i termini r2, r3,…..rn le quote di risparmio o di riserva di valore normal-
mente crescente col crescere dell'intervallo di tempo che intercorre fra il presente ed il futuro, a cui si riferi-
scono i momenti di probabile disponibilità di redditi. Risultano quote da accantonare per la cosiddetta «as-
sicurazione latente», e considerabili tali che, aggiunte alle dosi di redditi futuri attesi, torni a sussistere la
eguaglianza assoluta delle utilità marginali nella distribuzione delle dosi di reddito fra bisogni di periodi
successivi nel corso del tempo.
Talché si abbia:

(1 - r1) U'1 = (1 – r2) U'2 = (1 – r3) U'3 = ….. = (1 – rn) U'n [II]

come modo esplicito di ottenere la eguaglianza delle utilità marginali delle dosi di reddito assegnate, nel
calcolo supposto condotto dal soggetto che provvede ad un piano di disposizione di redditi inegualmente
fondati o certi, nel tempo.
[Ovviamente, nei confronti di redditi certi è r = 0, come nel caso appunto qui assunto di r1].
La grandezza della serie r (risparmi) in funzione della incertezza subiettiva, grandezza quale è im-
maginata dalla classe governante per lo Stato, dovrebbe fornire teoricamente la guida per le detrazioni di
imponibili in funzione del diverso grado di «fondatezza» dei redditi, ovvero la guida per la discriminazione
delle aliquote a parità di espressione monetaria attuale di redditi diversamente disponibili nel futuro perché
diversamente fondati.

VI.

DEDUZIONI ULTERIORI ED AVVERTENZE SULLA DISCRIMINAZIONE.

α) Si è, fin qui, ragionato in astratto di certezza o incertezza della disponibilità del reddito, facendo
anche l'esempio della differenziazione dei redditi come fondati più o meno, a seconda che siano derivanti
da impiego di capitale e di lavoro.
Occorre ora ulteriormente precisare che detta teorica vale in generale, con differenze di grado nella
ipotizzazione di coefficienti che esprimano probabilità soggettiva oppure fattori di compensazione, per i se-
guenti contrapposti fatti tipici oggetto di imposizione fiscale:
a) redditi di ammontare e di durata incerti, contrapposti a quelli di ammontare e durata certi;
b) redditi di ammontare incerto e di durata certa (teoricamente perpetui) contrapposti a quelli di
ammontare certo, perpetui o durevoli indefinitamente dal punto di vista del soggetto che imposti calcoli e-
donistici nel tempo.

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Da questi casi in cui il fattore differenziatore è costituito dalla incertezza dell'ammontare o della du-
rata, a quello in cui esso sia costituito dalla sola diversità della durata, si passa per gradi senza modificare
fondamentalmente il tipo di ragionamenti che la classe governante suppone compiuti da tipici soggetti.
Si può assimilare, cioè, a questo ordine di ragionamenti e di spiegazioni, la intuizione su citata del
Graziani che contrapponeva soltanto redditi perpetui a temporanei.
Occorre, peraltro, notare nel citato saggio del Fasiani una contraddizione: e cioè egli utilizzava si-
stematicamente concetti e ragionamenti di Rosenstein-Rodan, e di Morgenstern, in tema di «periodo eco-
nomico» e di «fattore tempo», nei confronti anche del piano economico del consumatore come edonista.
Tuttavia il Fasiani credeva di potere scartare la variabile utilità marginale. su cui si imperniano necessaria-
mente questi ragionamenti. Invero, il Morgenstern196, specialmente, cerca di spiegare la legge del Gossen
del livellamento delle utilità marginali riferendo i calcoli dei soggetti al tempo a cui si estendano previsione
od attesa e, in generale, ai processi di valutazione nel tempo da parte dell'edonista.
In particolare, in questo ordine logico, che avvalora anche la intuizione del Graziani, con le dovute
avvertenze, e più ancora questa impostazione del problema della discriminazione, Morgenstern affermava:
«La particella di reddito, predisposta oggi t0, per il bisogno x, che si presenta nel punto di tempo ti, in questa
applicazione ha un valore maggiore di quello che essa avrebbe se fosse impiegata oggi come aggiunta».
Non riferisco altri rilievi dai quali risulti come necessariamente collegato con le uniformità che riguardano
l'utilità marginale, le plausibili interpretazioni del fenomeno della discriminazione degli imponibili nei si-
stemi di imposizione diretta, nella media dei sistemi positivi.
β) Inoltre cosi argomentando, si può dar conto della coordinazione fra discriminazione quantitativa
e qualitativa degli imponibili, in un unico ordine logico anche quando i due procedimenti siano realizzati a
mezzo di distinti fatti (tassazione diretta personale e reale, separatamente) e non in unico più razionale isti-
tuto, secondo l'esempio che, per il caso italiano, si trova nell'imposta di famiglia e che è rintracciabile nelle
fondamentali imposte dirette di tipo anglosassone.
Per il De Viti De Marco, valoroso pensatore che non ritenne di far posto, nei suoi ragionamenti, alla
variabile costituita dalla utilità marginale e dalle sue leggi, «appare contraddittorio che i piccoli redditi di
capitale siano benignamente trattati in regime di imposta progressiva (che «mira a spostare l'onere tributario
dai redditi minori ai maggiori senza distinzione di qualità») per essere poi maltrattati dalla discriminazione
(che mira a spostare l'onere tributario dai redditi di lavoro ai redditi di capitale, senza limitazione di quanti-
tà)».
Ma l'intuizione della mancata contraddizione sostanziale, portava il De Viti a trovare la coordina-
zione fra i due istituti, sul «terreno della lotta politica» «sia qualificando la discriminazione per quantità, sia
attenuando i rigori della progressione verso i maggiori redditi di lavoro, in confronto dei maggiori redditi di
capitale».
Per contro si può rimanere nel campo scientifico ipotizzando che la classe politica attui un processo
di coordinazione fra le due discriminazioni, in base a presunzioni che essa formula intorno a quelli che sono
atteggiamenti psicologici dei soggetti tipici, di fronte a piani edonistici in cui entrino, a parità di bisogni,
diversi mezzi a disposizione dei soggetti, per ammontare e qualità (durata, certezza, probabilità soggettiva
in genere).
Per una coordinazione, su base razionale delle uniformità edonistiche tendenziali suffragate (par.
V), in media, dai fatti, si completa il sistema logico per l'attuazione dell'eguaglianza della imposizione.
Questo aspetto razionale del problema giustifica e spiega ancora una volta il perché io abbia fatto precedere
il capitolo della discriminazione, come all'inizio è avvertito.
γ) Non entra in questo schema razionale la spiegazione empirica della differenziazione delle aliquo-
te di imposte reali e personali per redditi di diversa natura, quando il motivo addizionale o preminente di
diversificazione qualitativa non sia razionalmente intrinseco ovvero legato ai punti di vista che figurano in
questo capitolo, ma vertano nel campo empirico ed estrinseco delle modalità tecniche della applicazione
dell'imposta (gradi di approssimazione al vero, negli accertamenti).
Si suole fare l'esempio di redditi e patrimoni diversamente colpiti da imposte, a seconda del grado
di evasione in sede di accertamento degli imponibili. Si tratta di criterio empirico, che ha la sua influenza
pratica, ma che non richiede particolari spiegazioni in un corso di scienza delle finanze, in cui ci si preoc-
cupa di dar conto di aspetti del fenomeni da spiegare che gravitino nel mondo del razionale riferito. In que-
__________
196
Si vegga: MORGENSTERN, Il fattore tempo nella dottrina del valore, «Annali di economia e di statistica», Univ. di
Genova, 1936.
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sto caso, il campo del razionale è riferito alla condotta od agli apprezzamenti edonistici dei contribuenti,
che si tengono presenti tipicamente nel risolvere il problema della distribuzione delle imposte (o dei rappor-
ti quantitativi fra entità o redditi, ecc., rapporti modificati tipicamente, in sede di studio degli effetti delle
imposte, dall'interferenza del fatto tributario).

VII.

ANALISI DI SECONDA APPROSSIMAZIONE PER LA SPIEGAZIONE


DELLA DISCRIMINAZIONE QUALITATIVA.

Torniamo allo schema, che intende «razionalizzare» la condotta dei soggetti tipici di fronte alla at-
tesa di redditi più o meno certi, nell'introdurre la variabile «incertezza» nella teoria economica.
Nell'avere dimostrato, in prima approssimazione, la necessità logica di detrarre quote come non di-
sponibili (considerando bisogni nel tempo) o di ridurre le aliquote per lo stesso motivo, si è ragionato te-
nendo presente un atteggiamento psichico uniforme, orientato nel senso di una preferenza normale per i
redditi certi o fondati o durevoli rispetto a quelli incerti o meno fondati o temporanei.
Questa ipotesi si poteva considerare più o meno implicita od esplicita e comunque dominante tra gli
studiosi, da Smith a Marshall. Lasciamo da parte la visione di Smith del rapporto fra saggio di profitto e
grado di rischio, seconda la quale il primo non cresce in misura da compensare il secondo fattore del calco-
lo economico. Ma riferiamoci a Marshall, secondo cui la gente che ama guardare avanti a sè, di tempera-
mento sobrio, nello scegliere fra un reddito certo di 400 sterline annue ed uno che potrebbe avere la proba-
bilità di arrivare a 600 sterline, ma anche di scendere a 200, preferisce quello certo di 400 sterline. L'incer-
tezza, avrebbe, quindi (fatta eccezione per le grandi ambizioni) speciale attrattiva per pochi e agirebbe come
remora, per molti, nella scelta della carriera. Come regola - secondo Marshall - «la certezza di un discreto
successo (aurea mediocritas, direbbe Orazio) attrae più che la aspettativa di un successo incerto, che abbia
lo stesso valore attuariale». Ma aggiunge lo stesso Marshall197: «D'altra parte, se una occupazione offre po-
chi, estremamente elevati premi o compensi, l'attrazione che esercita aumenta fuori di ogni proporzione con
il suo valore complessivo».
Il temperamento della eccezione di Marshall non fa venir meno, credo, il caso normale del soggetto
medio, cauto e non amante dell'incertezza.
Il Cannan198, che si riferisce agli investimenti, traccia la figura di un investitore medio, che preferi-
sce non gli impieghi più sicuri nè quelli più rischiosi, ma appartiene ad una classe di persone che non subi-
sce «nè l'istinto della timidezza nè quello del giuoco d'azzardo».
Ma l'osservazione empirica più recente, che si è portata sui gusti delle masse di operatori (preferen-
za per le azioni e le imprese rischiose), specialmente poi per il diffondersi dello spirito dell'azzardo (lotterie
di vario genere), ha fatto rivedere le ipotesi che spiegano la razionalità della condotta umana, per soggetti
tipici. Così che, a parità di valore attuariale di redditi, appare maggiore, spesso, la utilità attesa (expected u-
tility) di redditi più incerti. In altri termini, è assai frequente, se non normale, l'atteggiamento psicologico
propenso al «giuoco», al rischio, all'incerto.
Occorre avvertire che ci si riferisce soltanto alla funzione della utilità totale del reddito monetario e
che si prescinde, in questo problema, dagli altri vantaggi psichici e comunque non monetari che si accom-
pagnano, come motivi, a quelli monetari nel determinare all'azione i soggetti (come produttori e, quindi,
come soggetti che godano del reddito e di altre soddisfazioni connesse con l'attività produttiva).
Inoltre occorre avvertire che questa complicazione ipotetica è conciliabile con l'equilibrio dell'edo-
nista nel tempo, il quale tende alla massimizzazione della utilità attesa.
Questa tendenza è stata ammessa nella nota opera di Morgenstern e Neuman199, opera che ha vasta
eco di consensi e di critiche, nell'ipotesi della scelta fra varie alternative che implichino rischio od incertez-
za.
__________
197
MARSHALL A., Principii, cit., p. 550)
198
CANNAN, Dizionario di economia politica, ed. Palgrave ed Higgs.
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Naturalmente, la variabile risolutiva, anche in questo caso, è la utilità, cioè l'andamento della curva
della utilità totale, che è in relazione con modi di variare della utilità marginale.
Sintetizzo la contrapposizione di ipotesi avanzate da Friedman e Savage200, per risolvere, come si
vede dal titolo, un problema economico generale (201). Mi avvalgo di un'unica rappresentazione per risolve-
re il problema finanziario, in oggetto, in ulteriore approssimazione al fenomeno concreto; problema finan-
ziario che probabilmente non immaginavano neanche, i due autori, esistesse, e meno ancora nei termini che
la visione di Neuman e Morgenstern e le successive analisi, mi consentono di introdurre nel campo della fi-
nanza pubblica.
Sia x il reddito di una unità di consumo, nel caso di una persona fisica, ed u(x) l'utilità totale annes-
sa a quel reddito, se è considerato come certo. Detta quantità di reddito monetario viene qui misurata in a-
scissa e la corrispondente utilità totale figura in ordinata. Rimanendo nell'ipotesi di soli redditi certi, l'edo-
nista sceglierà, ceteris paribus, quel reddito che è tendente al massimo, ossia che gli darà la massima utilità.
(Ciò discende dalla ipotesi della utilità totale crescente con il crescere del reddito).
Consideriamo questi ragionamenti basati su redditi certi, indicandoli come alternativa (B), contrap-
posta a quella (A), relativa a redditi che implicano rischio e incertezza, che interessa in questa seconda ap-
prossimazione, nel delimitare ulteriormente la spiegazione della razionalità della discriminazione qualitati-
va.
L'utilità della alternativa (B), relativa a redditi certi, ovvero u(x) sia espressa con u(B).
L'utilità della alternativa (A) implichi due possibilità: I) quella misurata dalla probabilità α < 1 di un
reddito r1, e quella misurata dalla probabilità (1 - α) di un reddito r2, maggiore di r1. L’utilità attesa della al-
ternativa (A) sia espressa, dati i coefficienti di probabilità delle due possibilità suindicate, da:

φ(A) = u(ar1) + u[(1 - α) r2 ]

Conformemente alle ipotesi fatte, l'edonista preferirà l'alternativa (A) se φ (A) > u(B). Si può imma-
ginare il caso opposto e quello di indifferenza con i segni che occorre sostituire nella predetta diseguaglian-
za.
Si indichi con v(A) il valore attuariale della alternativa medesima. se x = v, e ciò nonostante l'edoni-
sta preferisce l'alternativa (A), egli dimostra preferenza per questo rischio. Se sceglie l'alternativa (B) dimo-
stra preferenza per la certezza cioè φ(A) < u(x), essendo u(x) = u(B).
Nel primo caso [preferenza per l'alternativa (A)], si usa dire che l'edonista sarebbe di sposto a paga-
re una determinata somma per «il privilegio di giocare», per usare la dizione della recente teorica estera.
Nel secondo sarebbe disposto a pagare per assicurarsi il reddito.
Passando alla rappresentazione grafica, se per ogni punto dell'ascissa si indicano, in ordinata, le uti-
lità totali del corrispondenti redditi (certi o di valore attuariale di pari ammontare) nelle due ipotesi di prefe-
renza o non per il gioco, si ottengono due curve, ad es. nel grafico, mm' ed nn'. E’ ovvio che, nel caso del-
l'individuo amante del gioco, la curva dell'utilità dei redditi soggetti a rischio sovrasta quella relativa all'uti-
lità dei redditi certi. Dal grafico si può anche ricavare, con costruzione assai evidente, quale reddito certo dà
all'edonista ipotizzato una soddisfazione eguale a quella che gli procura il reddito, di valore attuariale mino-
re, legato ad un'alea. Nel grafico, figurano equivalenti, nel termini indicati, i due redditi v(A) (valore attua-
riale) e x (certo).

__________
199
MORGENSTERN e NEUMAN ,Theory of Games and Economic Behaviour, Princeton Univ. Press. ed. 1947.
200
Si vegga: FRIEDMAN E SAVAGE, The Utility analysis of Choices involving risk, nel «Journal of Political Eco-
nomic», N. 4, 1948
201
Come tale continua ad essere discusso ad es., con richiami a significativa teoria anteriore, da A. Alckian, sulla
stessa rivista, giugno 1950.
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La rappresentazione dell'ipotesi opposta è analoga alla precedente. E anche chiaro che, nel caso di
un individuo a cui sia indifferente la presenza o meno del rischio, le curve di utilità totale dei redditi certi ed
incerti (valore attuariale) coincidono in una sola.
La considerazione di ipotesi logiche, diverse ed opposte (che la casistica dei vari paesi e Stati può
avvalorare più o meno, storicamente), serve a spiegare come si possa discriminare «a favore» dei redditi
non fondati o più incerti, meno di quanto si potrebbe immaginare imperniando i ragionamenti solo su sog-
getti tipici (per i redditi certi) in luogo di ragionamenti su soggetti diversificati, che preferiscano i redditi
incerti ai certi, nelle proporzioni in cui l'utilità attesa superi o meno quella attuale.
In altri termini, il bisogno di risparmiare da parte di contribuenti con redditi non «fondati», che si è
spiegato nel paragrafo V di questo capitolo, può apparire alla classe governante (che debba risolvere il pro-
blema della discriminazione qualitativa dei redditi complessivi delle persone fisiche), un bisogno meno in-
tenso di quanto sopra si è ipotizzato. E ciò avviene se è dimostrabile che, addirittura, in luogo del «bisogno
di risparmiare» vi siano contribuenti che sentono il bisogno di spendere per procurarsi il privilegio di
«giuocare» o di correre l'alea di redditi probabili.
Quanto è precisato in questi paragrafi di ricerca di seconda e ulteriore approssimazione può servire
a dare la spiegazione del perché uno stesso problema, che qui si pone astratto, possa avere soluzioni diverse
storicamente, non soltanto in relazione alle diverse ipotesi qui avanzate, o più complicate di esse, ma anche
in funzione della diversa casistica concreta (in rapporto alla evoluzione dei gusti e delle preferenze di singo-
li e soprattutto di masse) che le classi governanti si trovino ad affrontare, in tempi diversi e in paesi diversi.
nei limiti in cui le visioni teoriche qui indicate possono contribuire a razionalizzare le soluzioni medesime,
di cui per fini di pura conoscenza si tratta in queste pagine.

VIII.

SI INTRODUCE NEL RAGIONAMENTO LA «FUNZIONE DEL CONSUMO».

Le precedenti considerazioni non sono, infine, in contrasto con le visioni odierne del Keynes, e del-
la scuola che a lui si richiama, che spiegano la condotta razionale del soggetto come consumatore e rispar-
miatore.

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E’ noto che questo autore ha introdotto, come contributo che molti gli riconoscono, gli atteggia-
menti psicologici dei soggetti, collegandoli con il saggio di variazioni di quantità del sistema economico.
La «propensione al consumo» è considerata al centro della sua costruzione teorica. Del pari egli fa riferi-
mento alle aspettative ed all'incertezza.
E stato dimostrato, in questo ordine logico, dalla teoria successiva, che la condotta del consumatore
è influenzata dai beni accumulati e disponibili (assets), dal reddito attuale e da quello futuro ovvero atteso,
nonché dai prezzi attuali e futuri e dal saggio di interesse visto anche prospettivamente. Inoltre si è cercato
di spiegare cosi il comportamento medio di gruppi di consumatori. Anche in questo schema, come in quelli
tradizionali, il livello del risparmio costituisce il risultato del conflitto fra il desiderio del soggetto tipico di
migliorare il proprio attuale o corrente tenor di vita, consumando di più, e il desiderio di ottenere benessere
futuro, risparmiando.
Come negli schemi tradizionali, si immagina che il soggetto o individuo (i) tenda a rendere massi-
ma la funzione di utilità:

Ui = Ui(Ci, Bi…..t,k, Bi)

che per esso dipende dal consumo C e dalle disponibilità di beni B nel presente e nel periodo futuro t che
considera (tempo t di periodo k).
Ma la funzione del consumo, appunto, è espressa in termini quali, ad es.,

Ci = Ci(Ri, Si, Pi…..Bi)

che rendono il consumo medesimo funzione del reddito atteso R1, delle variazioni future del tasso di inte-
resse si, dei prezzi futuri Pi, del valore futuro Bi dei beni o valori di cui già disponga il soggetto (i), che im-
posti il piano, come sconto dei relativi redditi futuri (diversi dall'interesse già considerato separatamene).
Ne discende (come conseguenza della variazione del fatto complementare che è il consumo) una
variazione del saggio di risparmio. Detta variazione è in relazione, naturalmente, come anche attestano le
statistiche, con il livello dei redditi dei singoli soggetti (e con la posizione che essi assumono nella distribu-
zione dei redditi medesimi, come vogliono alcuni).
In uno scritto del post-Keynesiano Duesenberry202, sia in teoria sia in base a statistiche relative ai
bilanci di famiglia, si sottolinea l'influenza, sul saggio del risparmio, della prospettiva o previsione del red-
dito futuro derivante da servizi personali (salari e stipendi), e della prospettiva del futuro valore dei beni pa-
trimoniali. La uniformità, secondo cui il saggio del risparmio aumenti quanto più il reddito futuro sia costi-
tuito da proventi di lavoro del tipo su indicato, non viene esplicitamente formulata da questo autore, in sede
di interpretazione delle statistiche, data la casistica psicologica che influenza la stima dei redditi futuri. In
questa sede, può essere formulata ipoteticamente, nel senso convergente con quanto è stato spiegato a pro-
posito della razionalità della discriminazione qualitativa dei redditi. Invero, anche lo schema di tipo Keyne-
siano fa dipendere il saggio di risparmio, nella interpretazione del comportamento del consumatore, dalla
natura dei redditi, che si cela dietro la aspettativa di essi, naturalmente più o meno probabili o certi (e du-
revoli).
Ma anche per i capitali si distingue, a seconda del loro valore nel tempo, che è dato dallo sconto del
futuro reddito, in base alla esperienza. Quando il reddito aumenta, il saggio di risparmio tende ad aumentare
se il valore dei beni patrimoniali aumenta meno che proporzionalmente e viceversa. E’ una uniformità em-
pirica che conferisce una certa base storica alla ipotesi che concerne l'apprezzamento di una delle variabili
concernenti il futuro, che influenza la condotta del redditiere come consumatore e risparmiatore.
Questo punto di vista di tipo Keynesiano della interpretazione della condotta del soggetto tipico che
attenda redditi e sconti valori nel tempo, fornisce un'altra riprova logica della necessità di tener conto del
bisogno di risparmiare dei soggetti, come contribuenti. Nel nostro caso si guarda al momento in cui si col-
piscano, con imposte generali e personali, i redditi correnti, che sono necessariamente in rapporto con l'a-
spettativa di redditi futuri di lavoro, di capitali e della loro combinazione.
Sembra che questa visione, confermi:

__________
202
Si vegga la monografia riassuntiva di DUESENBERRY J.S., Income, saving and the theory of consumer behavior,
Harvard University press, Cambridge, Mass. 1949.
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1) che, per la discriminazione qualitativa, non soltanto occorre considerare, come si sostiene in que-
ste lezioni l'equilibrio generale del contribuente (redditiere, consumatore e, qui, risparmiatore) nel tempo (e
quindi la posizione di soggetto allorché disponga, oggi, e preveda per il futuro, l'insieme dei redditi e dei
valori patrimoniali disponibili, al netto della imposizione personale);
2) che un unico ordine logico informa tutte le ipotesi, sia (a) che si basi il ragionamento sulla teoria
tradizionale, aggiornata specialmente con l'introduzione di fattori temporali che implicano sviluppi nel sen-
so della dinamica economica; (b) sia che si voglia dar peso anche alle visioni di tipo Keynesiano, che conti-
nuano ad influenzare, pur nel quadro della critica, l'evoluzione della teoria economica.

APPENDICE AL CAPITOLO VI

ALCUNE OSSERVAZIONI SULLE IMPOSTE DIRETTE IN ITALIA:


IMPOSTA DI FAMIGLIA, IMPOSTA DI RICCHEZZA MOBILE, IMPOSTA SUL PATRIMONIO

I) Facendo riferimento, a titolo esemplificativo, alla legislazione italiana, ho rilevato la razionalità dell'imposta di
famiglia che prevede in modo diretto, nell'ambito dello stesso istituto tributario, tanto la discriminazione quantitativa
quanto quella qualitativa, in armonia con i principi, come si è dimostrato e non in contraddizione.
Ho pure accennato alla mancata coesistenza dei due istituti nell'imposta complementare italiana, ed ai tentativi,
impropri, del legislatore di applicare la logica della discriminazione qualitativa nell'imposizione preminentemente rea-
le, quale è quella che si attua con l'imposta italiana di ricchezza mobile.
Dallo stesso punto di vista sono inappropriate, come sede logica, le argomentazioni teoriche che figurano nella Ri-
forma tributaria di C. Cosciani (La Nuova Italia, Firenze, 1950) e nel volume II dei Principi di Fasiani (ediz. 1952).
(L’impostazione di C. Cosciani sarà recepita dalla riforma del sistema tributario dell’Italia, avvenuta nel 1971 -
N.d.R:));
α) Ricordo che nella costruzione di cosciali c’è la differenziazione delle aliquote ed il tentativo empirico di tener
conto della diversità dei redditi, oggettivamente, a seconda del loro presunto rischio relativo in funzione della fonte
più o meno costituita da capitale perpetuo o non durevole, o da lavoro ( fattore di cui si può tener conto nella sede e-
satta, offerta dalla imposizione reale). Infatti, essa tendenzialmente fa contrapporre, da questo aspetto, i redditi dei ter-
reni teoricamente da fonte perpetua e in media alquanto certi, a quelli dei fabbricati ed ai mobiliari più rischiosi; anco-
ra è l'imposizione reale che, nell'ambito dell'imposta di ricchezza mobile, gradua l'aliquota, in funzione del rischio che
si presume connesso con il minor apporto del fattore capitale rispetto a quello costituito da lavoro, man mano che si
passa dai redditi di puro capitale (cat. A) a quelli misti di capitale e lavoro (cat. B), o di lavoro puro (cat. C1 e C2) (fra
le quali si distingue per le ragioni di carattere amministrativo accennate nel paragrafo VI-γ di questo capitolo). Da det-
to punto di vista infatti si può spiegare la discriminazione «a favore» anche delle persone giuridiche produttrici di red-
dito, misto di capitale e lavoro, di società immobiliari, ecc.
β) Ciò ricordato, osservo che ciò che appare improprio è l'introdurre quella che ad es. nella legge italiana 11 gen-
naio 1951 n. 25, è detta franchigia, che si è intesa limitare alle persone fisiche ed alle «ditte o associazioni di fatto co-
stituite da due o più persone fisiche, come soggetto unitario». Invero probabilmente il ragionamento implicito che ha
fatto introdurre detta franchigia, sull'esempio di sistemi esteri (che lo attuano, però, in sede di imposizione generale)
riguarda la persona fisica in quanto non può che rispondere al «bisogno di risparmiare», nel senso che si è lungamente
spiegato nel capitolo a cui si riferisce questa nota. Orbene, per potere ammettere detta franchigia in sede d'imposta
preminentemente reale quale è quella di ricchezza mobile, si deve dimenticare che essa è imposta reale ed atteggiarla,
almeno per questo aspetto, ad imposizione personale. Questo ibrido avviene, appunto in Italia, dove si sarebbe potuto
riferire all'imposta complementare sul reddito la discriminazione qualitativa direttamente e più razionalmente.
Infatti si finisce per mettere, bensì, una franchigia di L. 240 mila per le categorie B, C1 e C2 ma accordandola una
sola volta al soggetto che benefici di tutti e tre i redditi. Si perviene, cioè, fuori della sede adatta (che è l'imposta com-
plementare) al coacervo, peraltro parziale, di alcuni redditi nel senso della loro considerazione complessiva e simulta-
nea, concedendo la franchigia una sola volta all'insieme, imputandola prima ai redditi di cat. C2, poi quelli di cat. C1,
indi a quelli di cat. B.
Naturalmente il legislatore si è accorto che il tributo adatto sarebbe stato l'imposta complementare sul reddito, per
questa discriminazione, in base al «bisogno di risparmiare», spiegazione che è quella sopra data alla differenziazione
qualitativa. Infatti, assorbendo il minimo imponibile (che permane, ben inferiore, in L. 36.000 per le persone giuridi-
che) ed elevandolo alquanto come riprova empirica, si ammette come esigenza logica che il contribuente, persona fisi-
ca, abbia di fronte a sè tutto l’orizzonte edonistico, il quale vuole che si proceda all'insieme globale dei redditi dispo-
nibili presso la persona fisica. Ma per l'imposta di ricchezza mobile l'insieme ammesso dalla legge citata, del 1951, è
insieme zoppo o parziale, perché trascura la disponibilità anche del redditi di terreni e di fabbricati e di quelli di puro
capitale.

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E allora si rifà il ragionamento in sede di imposta complementare, peraltro, con l'escludere la franchigia dalla par-
te («insieme» parziale) di redditi soggetti all'imposta di ricchezza mobile cat. B, C1, e C2, che già ne abbia beneficiato
in sede di tassazione reale. E si concede la franchigia di L. 240 mila a tutti i coacervi o insiemi globali qualunque ne
sia la composizione, forse presumendo che almeno una parte, corrispondente, di reddito complessivo, sia reddito di la-
voro o misto (il che può non essere); ovvero ammettendo che anche i redditi fondati e certi, o attesi con certezza, per-
petui ecc., debbano garantire un minimo (franchigia) per provvedere al futuro proprio o della propria specie (detrazio-
ni per persone a carico di L. 50 mila per ognuna). Il che annulla la discriminazione qualitativa, confondendola con
quella quantitativa e peggiorando anche la discriminazione quantitativa, come istituzione perequativa in quanto la
franchigia viene concessa anche agli alti redditi soggetti alle più elevate aliquote in cui si traduce, in sede di progres-
sione, la discriminazione quantitativa. Contraddizione in termini, quindi, dovuta al fatto che si sia voluto introdurre
nello spiegare l'imposta di ricchezza mobile, un parziale ragionamento che probabilmente risponde ai motivi esposti
nel capitolo che precede, anziché attuarlo in sede lôgica, quale sarebbe costituita dall’imposizione complementare sul
reddito, come lo è dall'imposta di famiglia.
Se, infine, si considera la franchigia, come aggiornamento del minimo esente, si ritorna nel campo della sola di-
scriminazione quantitativa e il nuovo problema logico non sorge (discriminazione qualitativa).
II) Un modo indiretto di perfezionare, sia dal lato del rischio obiettivo (imposta di ricchezza mobile anche a cari-
co delle persone non fisiche) sia dal lato della necessità di risparmiare, come è stata illustrata mediante i ragionamenti
di questo capitolo, (presunzione che dovrebbe far introdurre la discriminazione qualitativa nell'imposta complementa-
re) è costituito dalla coesistenza di imposte sul reddito e sul patrimonio. Precisamente: a) per il rischio obiettivamente
considerato, affiancando all'imposta reale sui redditi prodotti una imposta proporzionale sui patrimoni corrispondenti;
b) per la presunta necessità di risparmiare facendo coesistere con un'imposta complementare progressiva sul reddito
disponibile presso le persone fisiche, un'imposta progressiva sul patrimonio complessivo.
Questa contrapposizione (a, b) come dimostrai nello scritto su le basi della riforma fiscale, a cui rimando («Gior-
nale degli Economisti», febbraio 1940) non venne capita dal legislatore dell'epoca, che introduceva l'imposta ordinaria
sul patrimonio in Italia, e da alcuni suoi consiglieri, che sono anche gli attuali collaboratori di progetti e leggi a cui qui
si fa riferimento (1951). L'imposta ordinaria sul patrimonio, del 1939 (poi abolita per riscatto in questo dopoguerra),
essendo non generale e proporzionale, avrebbe potuto avere la funzione di perfezionare la discriminazione dei redditi
oggettivamente considerata, perché diversamente rischiosi, prodotti da persone fisiche e giuridiche, appunto colpen-
done la fonte se essa fosse stata di capitale o parzialmente capitale.
Invero, nell'ambito della stessa categoria dei redditi misti, le proporzioni del capitale e del lavoro non sono uni-
formi, se si confrontano imprese altamente capitalizzate, sotto la forma specialmente della società anonima, con picco-
le imprese industriali e commerciali, il cui reddito provenga eminentemente dal lavoro umano.
Ma questa esclusiva funzione dell'imposta proporzionale sul patrimonio non fu compresa dagli autori della legge,
che pure, con i consiglieri suddetti, volevano informare alla pura logica economica le basi di quel tributo.
Allorché di questo furono resi noti, per cenni sommari, i caratteri attraverso il comunicato relativo del Consiglio
del ministri del 30 settembre 1939, vari commentatori sulla stampa quotidiana polarizzarono l'illustrazione della fun-
zione dell’imposta sul patrimonio in un senso che mi parve unilaterale e non corretto: si individuò, cioè, nel nuovo tri-
buto, soltanto o soprattutto un correttivo dell'imposta complementare sul reddito.
Dal canto mio, nell'immediato commento su ricordato rilevavo come non razionalmente individuabili nel nuovo
tributo i caratteri e le funzioni dell'imposta complementare sul patrimonio, quale è stata considerata negli schemi teo-
rici od attuata in concreto ai fini di integrazione dell'imposta complementare sul reddito. Vedevo nella riforma fiscale
in oggetto l'accentuazione della discriminazione già esistente in sede di imposte reali, dirette sui redditi. Le ragioni del
mio giudizio su cui ritorno in questa sede, più adatta ad una ampia trattazione, sono state sottolineate ed accettate da
alcuni studiosi, soprattutto, come me, preoccupati di questioni di principio.
Quale doveva invece essere la struttura formale della nuova imposta ordinaria sul patrimonio per assolvere razio-
nalmente al fine di completare ed integrare la funzione fiscale dell'imposta personale e progressiva sul reddito, so-
vrapponendosi ad essa senza sostituirla?
Chi sia appena iniziato in questo campo sa che la teoria finanziaria suffragata dalla esperienza fiscale, in parecchi
stati ha concepito l'imposta sul patrimonio (sovrapposta alla imposta complementare sul reddito) quale tributo perso-
nale e progressivo. Già l'imposta personale erariale sul reddito vigente in Italia presume che, col crescere del reddito
complessivo a disposizione della persona fisica, aumenti la capacità di sopportare un ulteriore onere, oltre quelli costi-
tuiti dalle imposte reali. Il coacervo dei redditi consente di contrapporre i pin abbienti ai meno abbienti, i «ricchi» ai
«poveri» protagonisti della «lotta» per la ripartizione del costo dei servizi pubblici.
L'imposta personale, mira, secondo si è già visto com’è ordinata in concreto, a discriminare i redditi a seconda
della loro altezza, con l'applicazione di aliquote progressive con l'aumentare del reddito complessivo. E poiché, pur es-
sendo l'imponibile costituito dalla somma di redditi netti (prodotti e percepiti), si vuol conoscere quale sia il coacervo
disponibile per la persona fisica o per l'unità familiare, nel valutare il grado di disponibilità del reddito si introduce un
criterio di discriminazione soggettiva, a mezzo di detrazioni (per persone «a carico», per interessi su debiti di qualsiasi
natura, per premi corrisposti ad istituti assicurativi che mirano a tener conto di elementi soggettivi.

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Ciò premesso, potevasi sovrapporre al tributo che colpisce progressivamente i redditi complessivi disponibili a
seconda dell'altezza e tenendo conto di elementi soggettivi che ne menomano la disponibilità, un'imposta sul coacervo
dei patrimoni facenti capo alla persona fisica.
I redditi globali, più o meno elevati, saranno più o meno disponibili (necessità di risparmiare) a seconda della
composizione globale delle fonti corrispondenti. E se ragioni esistono che fanno introdurre l'imposizione personale e
progressiva sui redditi, le stesse ragioni debbono ritenersi operanti allorché si perfeziona codesta forma di tassazione
personale coordinando con essa la tassazione permanente dei patrimoni.
Sulla medesima linea logica pareva muoversi il compianto ministro Meda allorché, allo scopo di colpire più gra-
vemente i redditi di capitale che quelli di lavoro (fini eguali a quelli che si propone, secondo gli autori della legge,
l'imposta che ci occupa), proponeva la istituzione di un'imposta personale a carico della persona fisica come titolare
dei patrimoni, avente per oggetto il cumulo dei patrimoni individuali.
Quanto all'andamento dell'aliquota, in linea di principio (avvalendosi delle considerazioni svolte da egregi studio-
si componenti la commissione di riforma), il Meda era per la progressività: «Non esiste, per noi che concepiamo l'im-
posta patrimoniale come una branca dell'imposta sul reddito, alcuna ragione di principio per decidere tra proporziona-
lità e progressività, diversa da quelle che ci possono far scegliere tra i due metodi di trattamento dell'imposta sul reddi-
to: onde se si è ritenuto conveniente applicare il principio della progressività al reddito, non vi sarebbe nessun motivo
(di principio) per non applicarlo egualmente al patrimonio» (La riforma generale delle imposte dirette sui redditi,
Treves, 5920).
Le ragioni che parevano propendere a favore della proporzionalità erano soprattutto di ordine pratico. Dal punto
di vista dell'illusione finanziaria, si riteneva più agevole introdurre ed «acclimatare» una imposta nuova «presentando-
la sotto la forma della proporzionale» con aliquota non «preoccupante». Si voleva, poi, evitare la spinta all'evasione, o
propriamente si contava di accertare con maggiore approssimazione al vero i patrimoni, per tenerne conto nel determi-
nare, a suo tempo, i valori delle quote ereditarie soggette alla imposta di successione. Maggior rilievo teorico aveva la
circostanza che l'istituenda imposta sul patrimonio avrebbe agito contemporaneamente all'imposta di successione, che
è un importante ramo dell'imposizione patrimoniale personale al quale può limitarsi il carattere progressivo. L' Einaudi
poneva innanzi anche la ragione «contingente», costituita dalla mancata tassazione dei titoli di Stato, dichiarati esenti
da qualunque imposta presente e futura. Venuta meno una così larga parte della materia imponibile, non vi sarebbe
stata la certezza di colpire con le aliquote più elevate i possessori dei maggiori patrimoni, quando essi li avessero inve-
stiti in titoli di Stato esenti (203). Lo stesso autore accennava alla «legge statistica» del Benini secondo cui un'imposta
proporzionale sul patrimonio funziona come se fosse un'imposta progressiva sul reddito. Nel giustificare la propor-
zionalità dell'imposta ordinaria sul patrimonio, si va oltre, a mio parere, la conclusione teorica dell'emerito statistico
che sarà stato, forse, il primo a dolersi dell'eccessivo ricorso che si è fatto ai risultati di una assai cospicua ricerca
scientifica, atteggiandola a «norma agendi» in circostanze tributarie diverse da quelle che considerava il prof. Benini.
Prima di ricordare come di essa avesse già tenuto conto il Meda nel riassumere le discussioni degli studiosi e nel-
l'affermare come non vi fosse una ragione di principio per escludere, nonostante la correlazione statistica suddetta, la
progressività dell'aliquota come uno degli attributi della personalità della tassazione del patrimonio complessivo, ri-
chiamo le riserve e le cautele con cui il Benini ha circoscritto la portata teorica e concreta dell'uniformità legata soprat-
tutto al suo nome. Avevo già ricordato (204) come il Benini, rispondendo al direttore della «Rivista di diritto finanziario
e scienza delle finanze» sulla portata della formula trovata da G. Lasorsa (a redditi doppi, patrimoni doppi), abbia af-
fermato che non gli sembra «ammissibile una proporzionalità semplice e diretta fra reddito e patrimonio, perché ciò
equivarrebbe a ritenere che i ricchi convertano in patrimonio lo stesso percento di reddito come il medioceto, o la
moltitudine che campa alla giornata». E ciò non gli sembra confermato dalle statistiche note. Il Benini pensa che chi
dispone rispetto ad altri di un reddito doppio risparmi «assai più» del doppio: ed avanza tuttavia riserve nel conferma-
re la verosimiglianza della sua formula del 1906. Già qualche mese prima (205) si poteva leggere qualche altra riserva
del Benini nel senso che le verifiche tentate in base a tavole a doppia entrata di redditi totali e di patrimoni in diversi
paesi non forniscono prove sempre univoche della predetta legge di correlazione. Fra l'altro, la quota d'entrata, che in
certi paesi le famiglie non spendono ma collocano a risparmio, non è molto disuguale da classe a classe sociale. Co-
munque, lo scrupolo dello scienziato si spinge sino ad avvertire che è bene non conferire troppo peso alla sua illazione
tributaria: «un'imposta proporzionale sui patrimoni funziona come se fosse un'imposta progressiva sui redditi totali
corrispondenti».
Codesta formula, con la quale (si stia bene attenti) si è stabilita una relazione fra redditi totali e patrimoni conco-
mitanti:, è stata tenuta presente come guida nella riforma in oggetto. Il ministro delle finanze nel 1939 durante i lavori
parlamentari, rispondendo ai membri delle commissioni legislative favorevoli alla progressività della aliquota dell'im-
posta ordinaria sul patrimonio aveva, fra l'altro, ritenuto preferibile l'aliquota proporzionale, sia perché si tratta di u-
n'imposta reale, sia perché l'imposta patrimoniale «costituisce praticamente una imposta progressiva sui redditi fonda-
ti». Ma non mi pare che l'interpretazione della formula del Benini, rispetto al caso concreto, sia del tutto adeguata. In-
__________
203
EINAUDI L., La guerra e il sistema tributario italiano, Bari, Laterza, 1927.
204
Nel citato articolo sui caratteri del nuovo tribuno.
205
Nel fascicolo maggio-giugno della stessa rivista.
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vero, come ho già ricordato. un'imposta proporzionale sul patrimonio è progressiva sull'intero reddito del contribuente
(non sui singoli redditi fondati).
Per chiarire il rapporto fra patrimoni e redditi globali da un canto, e redditi dei patrimoni medesimi dall'altro, fac-
cio riferimento alla illustrazione del Barone il quale, senza fare esplicito richiamo alla uniformità statistica del Benini,
dimostra che «un'imposta proporzionale sul patrimonio è un'imposta progressiva sul reddito».
Completando la rappresentazione del Barone (figura 87 inserita nei «Principi di Economia finanziaria»), indi-
chiamo sull'asse delle ascisse i patrimoni e su quello delle ordinate i redditi. I redditi totali o globali risultano dalla
somma dei redditi derivanti dal patrimonio, più l'ammontare dei redditi derivanti da lavoro.
Supposti due patrimoni Op ed Op', di cui il secondo doppio del primo, si può dire (in linea generale o «grosso
modo» come rileva il Barone e pensano gli statistici ed economisti sopra richiamati) che i redditi corrispondenti siano
proporzionali ai patrimoni medesimi.

Ciò si può notare misurando sulla Or i redditi, supponiamo di puro patrimonio, dp e d' p'. In questo caso un'impo-
sta sui patrimoni, proporzionale, è anche tale nei confronti dei redditi corrispondenti.
Ma consideriamo, invece, i redditi totali, costituiti, come sopra è detto, dalla somma di redditi di patrimonio e di
lavoro. In questa ipotesi, il reddito totale corrispondente al patrimonio Op' e che nella rappresentazione geometrica fi-
gura eguale a bp', non sta nello stesso rapporto in cui ap sta rispetto al patrimonio Op.
Invero l'inclinazione della Oa è diversa da quella della Ob e, in generale, va diminuendo con il crescere del pa-
trimonio. (I rapporti sarebbero eguali, se i redditi venissero misurati dalla stessa retta Oa, della quale si espone il pro-
lungamento punteggiato che va ad individuare l'altezza b'p' che cui si traccia soltanto in via ipotetica, ed in contrasto
con le uniformità statistiche che fanno appurare la relazione di «non proporzionalità fra redditi totali e patrimoni»).
Nel limiti in cui l'uniformità statistica si verifica nel senso qui indicato, fra reddito totale e patrimoni concomitan-
ti, è ovvio che un'imposta proporzionale sui patrimoni agisce come un'imposta progressiva sul reddito totale. Ciò è
conseguenza del diminuire del rapporto fra reddito globale e patrimonio al crescere di quest'ultimo.
Allorché il Meda tenne conto delle suggestive indagini del Benini, sulla base degli elementi forniti dalla Commis-
sione di studio, completò la tabella dell'egregio statistico in modo da far risultare che un'imposta proporzionale sul pa-
trimonio è altresì proporzionale alla parte di reddito totale che deriva dal patrimonio (cioè ai redditi fondati). L'aliquo-
ta costante diventa progressiva rispetto al reddito totale, composto di redditi patrimoniali e di redditi di lavoro. Nel ca-
so che ci interessa di un'imposta sul patrimonio perequatrice delle imposte esistenti sui redditi, come si è visto più so-
pra, il fine degli autori della legge è di colpire in misura differenziale soltanto i redditi «fondati» su elementi patrimo-
niali. Per questa ragione non si può far riferimento, senza alcuna limitazione, alla correlazione del Benini, per indivi-
duare un caso di razionale progressività nella imposizione ordinaria del patrimonio quale è prevista dalla nuova legi-
slazione.
Anche il Meda (e con lui la Commissione di studio) nel prevedere l'introduzione della imposta sul patrimonio co-
me tributo complementare di un'imposta personale sul reddito globale, dichiarava che le conclusioni del Benini pur
con le riserve dello stesso autore potevano ritenersi applicabili al caso dell'imposta patrimoniale come tributo «auto-
nomo» e non di «sovrapposizione». Quando scriveva il Benini, non esisteva in molti sistemi tributari l'imposta pro-
gressiva sul reddito globale e in teoria si discuteva pro e contro la progressività dell'imposizione. L'imposta proporzio-
nale sul patrimonio, funzionando come imposta progressiva sul reddito globale (scriveva il Benini), avrebbe attuato il
principio della progressione «senza incorrere nell'accusa di arbitrarietà, che si suol muovere all'applicazione di questo
principio».
Mi sembra che quanto precede basti a far comprendere come si sia invocata non del tutto a proposito la correla-
zione statistica in oggetto. Comunque anche nel caso in cui fosse possibile far agire la nuova imposta progressiva sui
singoli redditi fondati, vi sarebbe il fatto non accettabile razionalmente, come ho spiegato in precedenza, di una tassa-
zione progressiva di singoli redditi in sede di rapporti tributari reali.
Un punto degno di attenta considerazione è, poi, il seguente, riscontrabile presso gli autori della legge e presso al-
cuni studiosi che l'hanno illustrata nel suo testo iniziale. Per fini di politica finanziaria che lo studioso spiega, si vole-
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vano esentare i patrimoni costituiti da titoli di Stato (od equiparati dal punto di vista della esenzione da ogni imposta
presente e futura) e si sono consentite altre esenzioni che, come codesta a favore dei titoli, non sarebbero state ammis-
sibili in sede di imposizione personale. Orbene, anziché ordinare la imposta come tributo personale (con gli attributi
propri di questo tipico istituto) se orientato al fine di integrare la complementare, se ne fa dipendere la struttura da
quella che (estensione delle esenzioni) dovrebbe, se mai, essere conseguenza dei criteri logici di ripartizione delle im-
poste.
A sua volta conseguenza della esenzione di vari ed importanti cespiti patrimoniali è stata, come nel progetto Me-
da, la proporzionalità della aliquota nominale.
Non mi è capitato, invero, per l'imposta complementare sul patrimonio, di leggere ragioni d'indole sistematica e-
scludenti la personalità dell'istituto e la progressività della aliquota (a parità, s'intende, di gettito previsto). I pochi
cenni in contrario, di qualche distinto teorico, hanno fatto presenti difficoltà di ordine amministrativo o il pericolo di
evasioni ovvero effetti psicologici sfavorevoli: circostanze come ognun vede estranee alla logica del sistema.
Quanto qui scrivo è in relazione con il fine conclamato di voler integrare razionalmente e direttamente con l'impo-
sta ordinaria sul patrimonio l'imposta complementare, la quale non discrimina gli addendi del coacervo che ne è ogget-
to, dal punto di vista della distinzione fra redditi di capitali, misti e di lavoro.
In conclusione, l'imposta ordinaria proporzionale, sul patrimonio, se ben congegnata, può costituire un tributo ra-
zionale, quando lo si consideri come mezzo per il raggiungimento di fini più limitati epperò convergenti rispetto a
quello che si è tenuto presente sin qui. Come istituto cioè che accentui e perfezioni la discriminazione dei redditi quale
è già in atto in regime di imposizione diretta, reale. E' questo un secondo fine che è stato avanzato dagli autori della
legge, allorché hanno inteso concentrare la pressione di nuovi oneri sui redditi più fondati.

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CAPITOLO VII.

SUL TEOREMA DELLA «DOPPIA TASSAZIONE DEL RISPARMIO»

I.

LA EGUALE TASSAZIONE DEL CONSUMO E DEL RISPARMIO È IMPLICITA NELLA


DEFINIZIONE IPOTETICA DELL'OGGETTO IMPONIBILE.

1) Nei ragionamenti che precedono, ho compiuto una interpretazione «generosa» ed ampia di intui-
zioni di J. Stuart Mill, specialmente nella introduzione della visione edonistica, soggettiva, che, ai fini della
eguaglianza dell'imposizione, esige razionalmente che si consideri tutto l'orizzonte economico del soggetto,
quale tipicamente si ipotizza visto dalla classe governante.
2) Ma la benemerenza scientifica del classico inglese è offuscata dalla sua critica dell'«imposta sul
reddito», come atta a dar luogo ad una doppia tassazione della medesima quantità di ricchezza. E stato co-
me se egli, emulo della dea Discordia, avesse gettato sul tavolo degli economisti l'aureo pomo, guiderdone,
nella lotta delle idee, a chi si rendesse meritevole della scoperta del vero, e che ha originato circa un secolo
di discussioni intorno a questa che Einaudi ha qualificato «singolarissima e stravagantissima controversia
della tassazione del risparmio».
La visione dello Stuart Mill si dice sia stata diffusa dal Fisher206, con la sua adesione alla tesi Mil-
liana, nella nota opera del 1906. E’ certo che Fisher influenzò direttamente Einaudi. Ma qui di seguito fac-
cio risultare, per primo fra quanti hanno esaminato il tema, che soltanto una definizione che assuma nel
concetto di reddito simultaneamente incremento di valore di un capitale e reddito relativo, potrebbe giusti-
ficare l'adesione del Fisher alla tesi dell'economista inglese. Accanto a questa illustre triade, convinta delle
considerazioni del Mill, si formò un gruppo di assertori, in tutto o in parte, della cosiddetta doppia tassazio-
ne, nel senso che si preciserà. Di esso fanno parte, ad es. Borgatta, Del Vecchio, Fasiani (in un primo tempo
e da dati punti di vista, come ricorderò), e Pigou. La stessa pretesa ineguaglianza dell'imposizione o doppia
tassazione del risparmio è stata negata da Ricci, De Viti, Lolini, per certi aspetti da Loria, da Cabiati, Gri-
ziotti, Fubini, di massima (207); dallo Stamp, da Black, Guillebaud, MacGregor, Masci, Capodaglio, L. Ros-
si, Villani, per seguire un certo ordine cronologico, con diverse argomentazioni o con adesioni alle princi-
pali fra esse. In alcuni degli scritti, che avrò occasione di citare, si trova la più importante bibliografia.
In premessa, voglio esporre il testo della visione del Mill, attorno al quale «si sono accaniti gli scrit-
tori di tutto il mondo» per una ragione che non sta, come crede il Fasiani, «nella solita antiscientifica preoc-
cupazione delle conseguenze pratiche della teoria», di cui si approprii eventualmente il legislatore per ridur-
re la «pressione tributaria sul risparmio» e aumentare «la pressione sul consumo». Ma i più o meno adegua-
ti ragionamenti, svolti da quanti hanno avversato la tesi di Mill, vertono nel campo della logica o dei tenta-
tivi, per lo meno, di condurre la questione nel dominio della pura teoria, per correggere ed eliminare errori,
sviste, abbagli o sofismi.
Leggesi in J. Stuart Mill208: «Se si potesse contare sulla coscienza dei contribuenti, o si potesse ga-
rantire, con controlli ed espedienti, sufficientemente la esattezza delle dichiarazioni, la maniera più corretta
di ripartire l'imposta sul reddito sarebbe di tassare soltanto quella parte di reddito che è destinata alla spesa,
esentando la parte risparmiata. Poiché quando è risparmiata ed investita (e tutti i risparmi sono, in generale,
investiti), detta parte corrisponde l'imposta sull'interesse o profitto che frutta, nonostante sia già stata tassata
sul capitale. Se i risparmi non si esentano dall'imposta sul reddito, i contribuenti sono tassati due volte sulla
parte risparmiata e una volta sulla parte consumata. Il soggetto che spenda il proprio reddito integralmente
paga il 3% d'imposta e null'altro; per contro, se ne risparmia una parte e la impiega in fondi pubblici, oltre
__________
206
FISHER I., The nature of Capital and Income, 1906, tradotta nella Biblioteca dell'Economista, serie V, vol. IV)
207
FUBINI R., Nelle Lezioni di scienza delle finanze, pagg. 157-8, Cedam 1934.
208
STUART MILL J., Principles of Political Economy (V, II, § 4).
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al 3% che ha corrisposto sul capitale paga anche il 3% sull'interesse annuo, il che equivale ad un secondo
3% sul capitale. Così che, mentre la spesa improduttiva paga soltanto il 3%, i risparmi pagano il 6% o, più
esattamente, il 3% sul tutto e un altro 3% sul residuo di 97 lire. La sperequazione che si viene così a deter-
minare a danno della previdenza e del risparmio, risulta non solo inopportuna ma anche ingiusta. Colpire
d'imposta la somma investita e, poi, anche i frutti dell'investimento, significa colpire due volte la medesima
quota di ricchezza del contribuente. Il capitale e l'interesse non possono far parte contemporaneamente del
reddito dello stesso: costituiscono la stessa somma contata due volte; se egli ottiene l'interesse, ciò è perché
rinuncia a consumare il capitale; se consuma il capitale, non riceve l'interesse. Tuttavia, poiché non è libero
della scelta, è colpito come se potesse ottenere le due cose, il vantaggio del risparmio e quello del consu-
mo».
Questa esposizione del pensiero Milliano viene solitamente semplificata ed interpretata, dicendo,
all'incirca, con esempi numerici diversi e che riporto nella semplificazione corrente, quanto segue.
Siano due redditi di due contribuenti di L. 100, soggetti all’imposta del 20%. Le residue 80 lire sia-
no da Tizio consumate. Caio risparmi le 80 lire e le investa al 5%, ottenendone un reddito annuo di 4 lire.
II reddito annuo di 4 lire è, a sua volta, tassato in base alla aliquota del 20%: rimane un reddito net-
to da imposta di L. 3,20.
Se si calcola il valore attuale dell'imposta di 0,80 in perpetuo al 5%, si ottiene la somma di L. 16 e
si riducono le L. 80 a 64.
In definitiva è come se Caio subisse un onere tributario di 36 (sul reddito di 100), laddove Tizio su-
bisce un onere tributario di 20.
E si conclude che, con questo sistema, si viene a violare il postulato della eguaglianza di tipo Mil-
liano, il quale vuole che «due redditi uguali siano ugualmente tassati», secondo una delle sintesi dell'idea
medesima.
Secondo il mio pensiero, ciò che va esplicitamente affermato affinché il postulato sia soddisfatto è
che: «due redditi definiti ugualmente siano egualmente tassati».
L'integrazione del postulato può apparire formale. Per contro, nel caso del cosiddetto teorema della
doppia tassazione del risparmio, nella definizione ipotetica dell'oggetto dell'imposizione si annida già la so-
luzione, razionale e coerente della eguaglianza della imposizione.
Studente e, perciò, allievo anch'io dell'allora mio maestro Einaudi209, nel libro di testo in cui al po-
stulato della eguaglianza si ispirava l'intera visione del modo di ripartire l'imposta, leggevo che, secondo
Stuart Mill e Fisher, la tassazione del «reddito guadagnato» conduce alla doppia tassazione della medesima
quantità di ricchezza. Ma prima di riprodurre la pagina del Mill, che ho sopra esposto, Einaudi avvertiva
che «lo stesso Mill non s'impacciò di definire espressamente quel che egli intendesse per reddito (income);
ma dal contesto del discorso si comprende come egli per reddito intendesse quello che sopra fu detto gua-
dagnato» (210).
La definizione è essenziale anche e soprattutto nella dimostrazione del teorema che intende porre in
evidenza la violazione del postulato della eguaglianza, quando si assuma come oggetto il reddito «guada-
gnato». Tanto più ciò doveva essere avvertito da Stuart Mill, che viene chiamato in causa, ad es. dal Poinca-
ré211, ricordato come l'autore che «ha preteso che ogni definizione contiene un assioma, perché definendo si
afferma implicitamente l'esistenza dell'oggetto definito». E si affretta, Poincaré, a dire che per i matematici
una entità esiste purché la sua definizione non implichi contraddizione con se stessa e con le proposizioni
anteriormente ammesse. Allo Stuart Mill, il pensatore francese aveva già fatto riferimento (in Science et
Méthode, cit., p. 162) per dire che il pensiero del Mill diviene esatto se lo si rettifica dicendo che esistenza
dell'oggetto significa esclusione di contraddizione. E ciò dopo aver premesso che definire vuol dire mostra-
re non soltanto l'oggetto definito, ma gli oggetti vicini da cui conviene distinguerlo (p. 141). Nel pensiero
filosofico odierno e nella metodologia scientifica contemporanea, definire è spiegare i caratteri comuni de-
gli oggetti. L'arbitrarietà della definizione è nella designazione ed enumerazione dei caratteri comuni.
__________
209
EINAUDI L., Corso di scienza della finanza, «La Riforma sociale», Torino, 1916.
210
«Reddito guadagnato, per l'individuo, sarà il reddito consumato ossia la ricchezza consumata più l'aumento veri-
ficatosi durante il periodo considerato nel patrimonio o capitale posseduto al momento iniziale aumento che può essere
risparmio nel senso comune della parola, compiuto con parte dei frutti della ricchezza, ovvero aumento di valore del
patrimonio, e meno la diminuzione di valore del patrimonio rispetto al momento iniziale diminuzione dovuta a logorio
oggettivo od a consumo fattone dal proprietario». Pag. 178 del Corso.
211
POINCARE, Introduzione (La science et I'Hypothèse, cit. p. 59).
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Nelle proposizioni dell'economista inglese, a mio avviso, diviene decisiva l'adozione di una defini-
zione dell'oggetto dell'imposizione diretta sul reddito, che eviti la contraddizione espressa dal Mill: «capita-
le e interesse non possono far parte ad un tempo o contemporaneamente del reddito del contribuente».
Poiché lo stesso Einaudi ritiene interessante unicamente (per il teorema) il calcolo del reddito ri-
spetto alla persona od al soggetto, ricordo che già ho scritto che il «reddito netto soggettivo si ottiene som-
mando tutti i redditi oggettivi o monetari che affluiscono alla stessa persona entro un dato intervallo di tem-
po e detraendo la somma di valori monetari di beni e di servizi ai quali, per ottenere quei singoli redditi, la
persona o soggetto ha rinunziato».
Sebbene questa visione si presti eminentemente alla spiegazione, dell'oggetto dell'imposizione per-
sonale e globale, intanto preme rilevare che in essa non figura la contraddizione di colpire, in quanto ogget-
to di imposizione, i beni strumentali o capitali e il reddito relativo contemporaneamente.
Ai fini della dimostrazione della coerenza del ragionamento senza contraddizione, si può ora defini-
re il reddito prodotto al netto e percepito nello scambio dal soggetto come “somma di moneta, considerata
prima che il soggetto medesimo ne disponga per risparmio o consumo e dopo che egli abbia integrato, per
renderlo costante, il valore economico della fonte”. E’ una delle tante definizioni e serve in quanto essa fac-
cia contraporre il concetto a quello di reddito di cui il soggetto abbia già disposto per risparmio e consumo.
E’ interessante il porre l'accento molto sul momento della produzione (e dell'afflusso del reddito prodotto
nelle mani del soggetto o meglio dei soggetti nei cui confronti si intende attuare il postulato della egua-
glianza), anche perché di questo processo (produzione) si tiene conto in autorevoli negazioni del teorema
della doppia tassazione del risparmio (De Viti De Marco, Ricci ed altri).
L'adozione della definizione è talmente decisiva che la pretesa violazione del postulato dell'egua-
glianza dell'imposizione, di cui il Fisher figurava, soprattutto sino al 1937-39, il più forte assertore del pen-
siero del Mill, si risolve nel nulla facendo crollare le basi del teorema della doppia tassazione del risparmio,
proprio se si assumono i dati oggetti, omogenei con caratteri comuni, per tutti i soggetti o contribuenti, nel
tassare direttamente il reddito e non simultaneamente il capitale.
Chi da questo angolo visuale, razionale, considera alcune asserzioni nella dimostrazione Fisheriana,
nell'opera citata, non può che aderire a quanto vado scrivendo, per ampliare l'esposizione del mio pensiero,
a suo tempo sinteticamente espresso sulla controversia.
Invero la trattazione del Fisher è vincolata alla definizione di reddito: a) «preso nel vero significa-
to»; b) nella «interpretazione spuria». Nel primo caso non vi è violazione del postulato della eguaglianza,
nel secondo (che considera reddito l'aumento di capitale) si ha confusione fra reddito e capitale, e quindi
tassazione del capitale e del reddito che il soggetto trae da quella accumulazione (doppia tassazione).
In generale, «secondo le diverse interpretazioni che diamo al vocabolo reddito, le conseguenze sa-
ranno diverse», afferma il Fisher riferendosi al suo famoso esempio dei tre fratelli. In esso si suppone che
ognuno di essi erediti lo stesso patrimonio per l'ammontare di 10.000 dollari. Il I investe i suoi 10.000 dol-
lari in una annualità perpetua di 500 dollari l'anno; il II lo mette in deposito perché si accumuli al 5%, per
14 anni, alla quale epoca esso, raddoppiato di valore, deve essere impiegato in una annualità perpetua di
1.000 dollari; il III, essendo di indole spendereccia, compra un'annualità di 2.000 dollari all'anno, per 6 an-
ni, e dopo più nulla.
Supponiamo un'imposta sul reddito, scrive Fisher, intendendo riferirsi, più oltre, al «reddito che de-
riva effettivamente dal capitale». Se questo è «preso nel suo vero significato, cioè quale «utile» (moneta-
rio), il cui valore capitalizzato corrisponde ai 10.000 dollari da cui partirono i tre fratelli, allora un'imposta
sul reddito del 10% preleverà dal I fratello 50 dollari all'anno; dal II fratello nulla per 14 anni, dopo di che
l'imposta renderà 100 dollari all'anno; e dal III fratello 200 dollari circa all'anno per sei anni. Il peso delle
tre imposizioni sopra i tre fratelli sarà, in tali circostanze, esattamente eguale, quando i tre importi vengano
confrontati in base ai loro valori presenti. Ciascun fratello potrebbe scontare, all'interesse composto, la sua
imposizione ad un costo eguale, cioè per 1.000 dollari, poiché 1.000 dollari è la somma presente che equi-
vale, rispettivamente, a 50 dollari pagabili perpetuamente, a 100 dollari all'anno a cominciare entro 14 anni
da oggi, ed a 200 dollari all'anno per sei anni». Nessuna violazione, quindi, del postulato Milliano, perché
«un'imposta sul reddito, applicata secondo il concetto esatto del reddito, non perturberebbe i meriti compa-
rativi di queste diverse correnti di reddito»: così Fisher, negando, appunto, che in questo caso vi sia doppia

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tassazione o diseguaglianza, pur avendosi l'ipotesi dell'imposta diretta sul reddito prodotto e percepito dal
soggetto, attraverso lo scambio, come «utile» monetario212.
__________
212
FISHER I, Per comprendere come nella definizione a di reddito, che Fisher tiene presente nel concludere per l'e-
guale tassazione, non vi sia confusione fra capitale e reddito, e possa rendersi esatto conto delle espressioni usate dal
Fisher, che si riferiscono evidentemente alla imposizione diretta del reddito «derivante» dal captale o patrimonio per
spiegare l'ottenimento di esso reddito o la genesi relativa, occorre tener presente la teoria odierna del capitale e del
reddito. Richiamo alcune proposizioni sintetiche diuna delle più limpide sintesi della nostra letteratura economica;
quella di Jannaccone cit., che ha tenuto presenti proprio Fisher, Smart, Ricci, Alessio, Einaudi, Cannan, Fraser, Cohn
Clark, fra gli economisti a cui rimanda:
a tanto il capitale fisico quanto il capitale monetario quello che considero nell'esempio di Fisher, quanto il capitale
nelle molteplici forme di diritti ad un reddito, non sono soltanto ricchezza considerata in un istante di tempo, ma anche
ricchezza ritenuta produttiva di altra ricchezza sottolineo il termine ai fini della illustrazione dell'esempio Fisheriano;
b Reddito è la ricchezza che affluisce ad un soggetto economico nella successione continua del tempo od entro un
suo intervallo finito;
c Il reddito, nelle sue varie forme, è strettamente legato alle operazioni economiche fondamentali: produzione,
scambio, consumo della ricchezza. [Questa citazione mi serve a ricordare che gli atti economici che Fisher ipotizza
nel caso dei tre fratelli vertono nel campo della produzione e dello scambio investimento, deposito di capitale e com-
pera di annualità scambiando capitale; siamo, cioè, fuori del consumo della ricchezza, nonostante qualche erronea
apparenza in contrario per il III fratello, come passo a chiarire sulla scorta della teoria pacifica].
d Quando si tratta di capitali fisici o monetari, costituiti da beni che non possono servire all'immediato consumo, ap-
pare meno evidente che ogni capitale si risolve in sostanza nella scelta fra più redditi di diversa grandezza o di diversa
durata quali sono appunto, come si vede nell'esempio Fisheriano, quelli dei tre fratelli. In quegli altri casi, la conver-
sione del capitale in reddito richiede ordinariamente dapprima la trasformazione del capitale in moneta e poi una se-
conda trasformazione della moneta in beni di immediato consumo. Chi, ad esempio, venda per 100 mila lire la sua ter-
ra, la sua casa od i suoi titoli, da cui ritraeva un frutto annuo di 5 mila lire e spenda le 100 mila lire, entro un solo an-
no, in abiti, alimenti, viaggi, spettacoli ed altri beni di breve durata, oppure ripartisca la spesa su due anni in ragione di
50 mila lire o su quattro in ragione di 25 mila lire all'anno, ha in realtà sostituito ad un reddito perpetuo, o quasi, di 5
mila lire annue, un reddito di 100 mila per un solo anno, o di 50 per due o di 25 per quattro, e via dicendo. Nel lin-
guaggio corrente una operazione di tal sorta verrebbe generalmente designata con le espressioni «mangiare il capitale,
vivere sul capitale, dar fondo al patrimonio» e simili, le quali significano piuttosto una materiale distruzione del capi-
tale che la sua trasformazione in reddito. Ma è ovvio che il capitale non è in tal caso materialmente distrutto ma sol-
tanto trasferito da un soggetto all'altro e convertito da una forma all'altra…. Anche qui, dunque, l'uso di qualsiasi capi-
tale si risolve in sostanza nella scelta fra un reddito soggettivo di durata più lunga ma di grandezza minore ed un altro
reddito soggettivo di durata più breve ma di grandezza maggiore.
e Se invece la distinzione fra capitale e reddito viene radicata nel concetto di produttività, l'operazione di chi venda
per 100 mila lire i suoi beni capitali e ne spenda il prezzo entro quattro anni in beni di consumo, in ragione di 25 mila
lire all'anno, non appare più una trasformazione di capitale in reddito, perché le 25 mila lire non sono un frutto delle
100 mila lire ma una loro parte; onde col convertire la somma capitale in beni di consumo sembra che si distrugga in
essi la possibilità di dare un frutto e quindi si distrugga il capitale stesso. Senonché il concetto di produttività economi-
ca, non può identificarsi con quello di produttività fisica e d'altronde una somma di denaro non produce mai nulla fisi-
camente. Il ritrarre, dalla somma di 100 mila lire, 5 mila lire annue per una serie indefinita di anni o soltanto per venti
anni; il ritrarne 10 mila per dieci anni o 25 mila per quattro, rappresentano usi diversi cui quella somma può essere ap-
plicata, e se il primo di essi vien chiamato reddito non v'è ragione che non siano reddito anche gli altri, a meno che
questo concetto e questo nome si vogliano riserbare soltanto ad un reddito che sia di durata perpetua. Vi sono buone
ragioni per dare uno spiccato rilievo al reddito costante e perpetuo in confronto a redditi di grandezza e durata variabili
e arbitrarie; ma ciò non deve indurre nella comune illusione che nel primo caso vi siano due distinte masse di ricchez-
za, l'una rappresentata dal capitale e l'altra costituita dai suoi frutti, mentre nel secondo soltanto il capitale esista e che
lo si distrugga col ripartirne l'uso sopra un più breve periodo di tempo.
Queste chiare affermazioni sintetiche, frutto di lunga disamina e rielaborazione di concetti, tratte come fior da fiore
dalle pagg. 180-258 dell'op. cit. servono a comprendere come i redditi che derivano ai tre fratelli di Fisher, siano tutti,
compreso quello del III fratello, prodotti con impiego o scambio di capitale patrimonio senza che si verifichi confusio-
ne, nell'oggetto della ipotizzata imposta, fra capitale e reddito, da questo, nei tre casi, risalendosi per un processo di
capitalizzazione alla rispettiva omogenea fonte, con separazione, quindi, di entità e momenti economici, adottandosi le
definizioni che precedono.
Che un soggetto economico come il III fratello dell'esempio Fisheriano preferisca redditi di grandezza maggiore e di
durata minore, meritandosi la qualifica morale non necessaria od estranea alla scienza di soggetto di «natura spende-
reccia» espressione di Fisher non significa che nell'ottenere il reddito si sia nel campo del consumo del reddito, mo-
mento successivo come lo esclude la critica interpretativa di Jannaccone nei confronti delle espressioni comuni o vol-
gari su riferite «mangiarsi il capitale» ecc.. Lo stesso dicasi di altre che qualificano moralmente soggetti ad «orizzonte
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Quando è che l'economista americano viene considerato, soprattutto dall'Einaudi e da altri studiosi,
come colui che ha dimostrato la verità contenuta nel citato passo del Mill? Quando adotta una definizione
(la «spuria») del reddito, che in verità non saprei sottoscrivere: quando ad oggetto dell'imposta pone non so-
lo il reddito, ma l'incremento di valore capitale ovvero della fonte del reddito, simultaneamente(213).
Ma la definizione che già si trovava nella trattazione che svolgo in queste lezioni, a proposito della
discriminazione, o quella che ho qui adottata, non comprende affatto gli incrementi di valore capitale, come
non li comprende la definizione «vera» di Fisher in base alla quale, come si è visto, non includendosi in es-
sa nel concetto di reddito elementi di valore capitale (variazioni), non esiste alcuna violazione del postulato
della eguaglianza, nessuna contraddizione sul tipo di quella denunciata dal Mill, allorché lamenta che si
possa colpire il capitale e il reddito nello stesso tempo.
Ebbene, per chiarire le idee, ricordo che Fisher rivolge la propria critica alla general property tax
degli Stati Uniti e non alla income tax dello stesso o di altri paesi. Insorge, cioè, contro quella specie ameri-
cana d'imposta sul patrimonio, commisurata al valore dei beni capitali. Questa imposta è soggetta a molte
critiche (per cui rimando, ad es., lo studente alla minuta rassegna che ne fa A. G. Buehler, cit. in Public fi-
nance). Il tributo per cui Fisher manifesta la disapprovazione, si può comprendere come violi il postulato di
eguaglianza, quando si ponga mente all'esempio tradizionale che figura in tutti i trattati: quello, ricordato,
delle foreste. Di esse si è considerato reddito l'incremento di valore che si accumula durante il periodo di
tempo per cui non si procede al taglio del bosco, e, poi, il reddito ottenuto dal taglio. Durante il periodo an-
teriore al taglio, peraltro, si pensa che non si sia conseguito reddito e, ciò nonostante, si applica al valore
della foresta l'imposta annua. Ad evitare la violazione del postulato che non vuole la simultanea tassazione
del capitale accumulato e del reddito, si sono avanzate proposte, fra cui il differimento dell'imposta (pro-
perty tax) sino al momento in cui il reddito sia realizzato col taglio del bosco; oppure la riduzione dell'im-
posta annua sul valore della foresta ad un tasso che sia equivalente alla imposta (property tax) commisurata
al reddito netto.
Comunque è interessante rilevare che la definizione, la quale contiene la contraddizione che do-
vrebbe esulare dalla stessa, in particolare nel significato in cui è criticata dal Mill, non solo, con riferimento
al concreto, riguarda, con la commisurazione del prelievo al valore della proprietà, sostanzialmente l'impo-
sizione del patrimonio e non del reddito; ma di questo - con l'inclusione di elementi di capitale (incrementi)
- considera una concezione che è ben diversa da quella dallo stesso Fisher detta non «spuria» e che non de-
termina doppia tassazione o da quelle che in precedenza ho esposte nel testo.
E’ da avvertire che lo stesso Einaudi ammette che le varie imposte di cui si concepiscano od ipotiz-
zino tipi, e di cui si intendano studiare effetti specifici, si deve supporre che si «differenzino l'una dall'altra
solo in quanto l'una percuota il reddito definito in un dato modo (corsivo mio) e le altre il reddito definito in
altre diverse maniere».
Ma ciò ammette inevitabilmente pur dopo che ritiene inammissibile, in teoria pura, assumere come
premessa che al reddito si debba dare «quella definizione o quella periodicità che a tale o a tale altro inda-
gatore piaccia di affermare». E, contro tutto quanto si legge nelle opere metodologiche, alcune delle quali
sono state qui citate e che figurano nella Introduzione a questo corso, l'Einaudi afferma che i ragionamenti
fondati su siffatte premesse gratuite non hanno valore. Inoltre con una visione che non trova supporto in
nessuna di tali opere, la premessa (che nel discorso suo equivale a definizione) deve essere dimostrata. In-
vero, si è precisato sopra in qual senso la definizione, come l'ipotesi, ha in sè dell'arbitrario ammesso, e del
convenzionale, caratteri propri - perché legati all'inventiva dell'indagatore - di ogni classificazione scientifi-
ca. Questa è legittimata, anche se arbitraria, dalla fecondità della analisi esplicativa e non richiede altra di-
mostrazione a priori, oltre quella della non contraddittorietà di cui si è detto, a posteriori.

__________
economico più o meno vasto», «prudenti e imprevidenti», in Demaria cit. con mentalità da «celibe» nel lavoro del Fa-
siani, cit., che individua il soggetto con preferenze per i redditi di breve durata o «amante del giuoco» come se ne è di-
scorso in sede di discriminazione di redditi più o meno probabili e di diversa grandezza, nel precedente capitolo, ecc.
ecc.
213
Ognuno può adottare, in teoria, la definizione che crede, purché ne tragga le conseguenze logiche, nel teoremi o
problemi in cui la usa. Ma, ad es., negli Stati Uniti il Seligman, in una apposita disamina «Nuova Collana di Economi-
sti», vol. IX, nega che sia reddito il guadagno sotto forma di incremento di valore del capitale, se non è «separato o re-
alizzato», proprio avvalendosi anche dell'esempio di Fisher tipico delle foreste. Per esse, l'incremento di valore capita-
le non gli sembra reddito sino a che gli alberi non siano tagliati.
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Invero Einaudi respinge la premessa in un ragionamento del Ricci, basato sulla imposizione del
reddito prodotto in tempi diversi, contro la dimostrazione del Mill sulla doppia tassazione del risparmio e
dei frutti del risparmio (p. 46 del Contributo all'«ottima» imposta, cit.).
Ma questa posizione negativa che urta con le regole metodologiche del pensiero scientifico, ovvia-
mente non resiste neanche nel pensiero dell'Einaudi214, se circa un decennio dopo, affermando che «dinanzi
al tribunale della ragione» non esiste il giudice infallibile della scelta delle premesse (io dico definizioni), si
limita a riconoscere che esiste la premessa (che denomina α). Per essa è definito reddito tassabile con u-
n'imposta x (ad es. del 20% come quella che figura nell'esempio numerico su cui si ritornerà) in ogni inter-
vallo di tempo (anno finanziario), quella ricchezza che in quell'intervallo di tempo entra nella economia del
contribuente, netta da spese di produzione, in aggiunta al capitale posseduto dal contribuente medesimo al-
l'inizio di quel medesimo intervallo di tempo.
Lo stesso Einaudi considera premessa (denominata con β) la condizione che nel predetto intervallo
di tempo il contribuente non subisca un danno superiore a quel qualunque x scelto dal legislatore o, in gene-
rale, ipotizzato come prelievo di imposta sul reddito.
4) Dopo una breve indicazione di punti di vista che era nel riferimento sommario del senso in cui,
ad esempio, Mill ed Einaudi, da un canto, De Viti De Marco e Stamp, dall'altro, affermavano e negavano la
doppia tassazione del risparmio.
In un mio215 articolo del 1941 sintetizzavo detta visione della controversia, formulando le seguenti
proposizioni conclusive:
a) Qualificavo come antitesi obiettiva di punti di vista, quella che derivava, senza che gli autori se
ne rendessero conto, dalle ragioni molteplici addotte, nella non sopita disputa, da quanti sostengono la veri-
tà di Mill e da quanti la negano.
b) Affermavo che i sostenitori della necessità di esentare la parte di reddito risparmiato (sarebbe
meglio dire, dopo quanto precede e seguirà, risparmiabile) al fine di evitare la maggior tassazione di tale
quota, compresa nel reddito soggetto ad imposta, avevano forse il torto di contrapporre tale punto di vista
legittimo per sè (che non è quello della doppia tassazione ma della maggior tassazione) ad altre premesse
su cui si basa l'imposizione del reddito prodotto.
c) Consideravo punti di vista paralleli e non necessariamente antitetici quelli dai quali si può co-
struire un sistema tributario, logicamente basandosi, rispettivamente, sulla premessa A) del reddito consu-
mato, come oggetto dell'imposizione. Mi riferivo all’oggetto, quale era visto dalla triade Mill-Fisher-
Einaudi o partendo dalla premessa B) che ogni fatto di produzione di reddito, in quanto sia definito con rife-
rimento al «momento» della produzione (a prescindere dalla successiva destinazione di esso) debba essere
assoggettato all'imposta diretta.
d) Infine, ponevo fra i tanti modi di suffragare la premessa B), la originale costruzione del De Viti
De Marco, nel senso che in ogni periodo di tempo, nel quale si svolgano fatti di produzione, rispetto ai quali
la funzione dello Stato sia strumentale come quella di altri fattori produttivi, matura il credito dello Stato
per l'imposta sul reddito prodotto.
Naturalmente concludevo ritenendo meritevole di un'approfondita dimostrazione, in altra sede, la
enunciazione della coesistenza di criteri o di presupposti, paralleli e tuttavia logici dai rispettivi punti di vi-
sta.
Questa posizione teorica non è passata inosservata. L'attento studioso, sensibile al nuovo ed alle di-
vergenze e differenze di opinioni, che è il Gangemi216 scriveva: «Come esattamente rileva il d'Albergo, nel
considerare le ragioni addotte dai sostenitori delle due teorie, ci troviamo di fronte ad una coesistenza di cri-
teri o di presupposti»; e sottolineava le mie parole seguenti nel senso ché essi sono «paralleli e tuttavia logi-
ci dai rispettivi punti di vista».
Ma già in precedenza questa visione, espressa prima a voce al Fasiani (Congresso per i problemi
dell'autarchia, del 1940, in Milano), indi inserita schematicamente nella rivista citata, nel 1941, ebbe l'effet-
to di indurre quel fine ingegno a rimeditare sul tema prima affrontato, con la conclusione unilaterale della
riaffermazione della tesi del Mill e, in particolare, dell'Einaudi suo maestro nel campo scientifico. Deve es-
sere sfuggita questa precisazione aneddotica, che ho fatto in occasione di un breve necrologio in memoria
__________
214
EINAUDI L., Miti e Paradossi della giustizia tributaria, II ediz. di G. Einaudi, 1940.
215
D'ALBERGO E., Politica finanziaria, reddito e risparmio nell'economia del dopoguerra, rivista della Cassa di ri-
sparmio delle provincie lombarde, n. 3 del 1941.
216
GANGEMI L., Elementi di scienza delle finanze, p. 488.
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del Fasiani («Rivista Bancaria» ottobre-novembre 1950), al Villani, nella ripresentazione vivida della evo-
luzione del pensiero del rimpianto studioso, per avere scritto che «stranamente il Fagiani, mentre in tutti i
suoi scritti sullo stesso argomento segue sostanzialmente le tracce del Mill e dell'Einaudi, riconosce logica
la conclusione a cui perviene il De Viti De Marco». Invero, il tema ridiscusso col Fasiani (cito dalla «Rivi-
sta Bancaria») «diede occasione, a chi scrive, di formulare un quesito, con quella che il rimpianto Amico
denominava la sconcertante prontezza meridionale. Se Egli, cioè, non si fosse mai chiesto se la soluzione
del suddetto problema non stesse già nell'ipotesi, nel senso che ciò che si ritenga logico nell'assunto iniziale
(tassazione eguale di due redditi, di pari somma, prodotti) non lo sia (eguaglianza) tutte le volte che il pre-
supposto (produzione) si verifichi o si ipotizzi, nel tempo. Così che il coerente effetto di un siffatto tipo di
imposta non sia cosa ben diversa dal preteso difetto individuato, dal Mill in poi, da alcuni (Einaudi in testa,
in Italia) nel sistema di imposizione diretta dei redditi prodotti. L'attenzione del Fasiani, fulminea, si rivolse
a questo modo di vedere il problema che, in termini diversi da quelli secondo i quali io ragiono, era stato
soprattutto del De Viti De Marco: ne venne l'appendice VII ai Principii di scienza delle finanze, lezioni in
cui, il Fasiani, in modo edificante per l'onestà scientifica di cui dava saggio agli allievi e ai lettori, candida-
mente confessava di aver letto senza sufficiente attenzione (non aveva «dato ad essa, in altre occasioni, tut-
to il peso che merita») la critica esposta in modo magistrale dal De Viti De Marco. Date le premesse, la teo-
ria del De Viti gli pareva ineccepibile.
E per chiamare in causa la testimonianza di un maestro nostro, lo Jannaccone, che nelle Nozioni
preliminari di economia politica cit., ha finemente posto in evidenza le trasformazioni di reddito in rispar-
mio e capitale, ricordo il suo pensiero per la valutazione della evoluzione concettuale o conversione di Fi-
sher (217). Questi che «aveva» tenacemente sostenuta la esclusione del risparmio dal reddito, ha finito per
ammettere che anche i beni destinati ad essere convertiti in capitale fanno parte del reddito, prima che la
trasformazione sia compiuta. Ond'è che egli propone di distinguere il reddito prima del risparmio dal reddi-
to dopo il risparmio: il che è lo stesso che distinguere, conclude Jannaccone, il reddito totale prodotto od
acquisito dal reddito consumato, che ne è una parte e l'ultima delle sue trasformazioni» (p. 249). Successi-
vamente il Fisher (1939) ha riconfermato queste opinioni.
Esse negli Stati Uniti sono oggidì diffuse: ricordo, per tutti i cultori di finanza, il Taylor (cit. pagg.
397-401) con le seguenti proposizioni che sintetizzo:
- Il punto (o momento) in cui il reddito monetario dovrebbe essere misurato è quello in cui esso
perviene nelle mani del beneficiario, quando, cioè, diviene disponibile per destinarlo a consumo od a ri-
sparmio. Invero si deve presumere che la disposizione del reddito segua il principio della «massimizzazio-
ne» delle soddisfazioni, sia che il reddito venga destinato a consumo od a risparmio.
- Se il reddito è definito in senso stretto, come il godimento derivato dal solo consumo, il risparmio
non è reddito, e il reddito monetario deve essere misurato dopo la divisione fra flusso di consumo e flusso
di risparmio.
- Se il reddito è definito in senso ampio, in modo da includervi tutte le soddisfazioni dalla disposi-
zione dei proventi monetari (dopo la detrazione del costo di produzione di essi), è misurato prima della di-
sposizione di esso, e il risparmio è reddito.
- Dal punto di vista tributario, si discrimina contro il risparmio, se la parte di reddito che viene de-
stinata a risparmio viene tassata prima che il risparmio abbia luogo e dopo, ancora, quando la spesa di esso
si compia.
- Dal punto di vista teorico vi sono elementari aspetti di giustizia (nel senso nostro, di eguaglianza)
quando si consideri la posizione di due persone: con lo stesso reddito netto, prima che se ne disponga e nel-
la stessa posizione personale, hanno la stessa capacità contributiva.
- Definendo il reddito ai fini tributari, come quello percepito prima di disporne per consumo e ri-
sparmio, commisuriamo l'imposta a mezzi destinati a divenire una parte del capitale del soggetto. Ma dire
che questo è imposizione del capitale è negare che il capitale si crea attingendo al reddito, cioè a risparmio
derivato dal reddito.
- L'imposta sul reddito non si intende pagata col capitale: occorre evitare che quote di capitale si
considerino reddito, e ciò si fa escludendo le riserve per il deprezzamento del capitale o il logorio e la di-
struzione di esso. In questo senso, parafrasando Hicks, Taylor trova la definizione che emerge da quanto si

__________
217
FISHER I., Income in Theory and income taxation in practice, in «Econometrica», gennaio 1937.
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è detto in questo capitolo, a proposito di reddito prodotto e percepito prima che se ne disponga (218): reddito
monetario in un dato periodo è quella parte di reddito lordo che può essere usata senza impedire la prospet-
tiva di equivalente reddito lordo, in ogni successivo, analogo periodo.

II.

ETEROGENEITÀ DEI DUE SISTEMI DI TASSAZIONE: A) DEL REDDITO CONSUMATO, B) DEL


REDDITO PRODOTTO.

1) Ho sostenuto nel paragrafo precedente che la soluzione del problema della eguaglianza della tas-
sazione è nella definizione ipotetica dell'oggetto della stessa. E poiché la definizione deve conciliarsi con il
rispetto del postulato del Mill, il quale esige che contemporaneamente non si colpisca il reddito e il capita-
le, occorre dimostrare (riprendo l’esempio, di cui sopra, e che riporto, qui di seguito), ad es., che la cifra di
64 che risulterebbe come riduzione del capitale di 80, a causa di doppia incidenza dell'imposta sul reddito
(100 - 20%), dopo un primo periodo di tempo, e dell'imposta sui frutti di 80 (4 - 20%), non si verifica sul
mercato, capitalizzando il reddito netto da imposta.
A) Poiché le 100 di reddito dei due contribuenti ipotizzati non sono sorte per miracolo, supponiamo
che siano il risultato di un precedente processo produttivo. Supponiamo che Tizio e Caio, contribuenti, da
un capitale di 1.600 lire, abbiano ottenuto, in un primo periodo di tempo, un reddito lordo, rispettivamente,
di 116 di cui 16 vengano destinate a mantenere immutato il valore economico del capitale, e 100 remuneri-
no il capitale, al lordo dell'imposta del 20%. Il reddito netto di L. 80, residuo dopo la tassazione, al tasso di
capitalizzazione di mercato del 5%, fa risultare immutato il capitale investito, al valore di L. 1.600.
Cioè, oltre a far trovare capienza, secondo la definizione di reddito prodotto adottata, nel reddito
lordo, per la quota d'ammortamento, occorre far sì che si attuino gli adattamenti e i «riequilibramenti», fi-
nemente analizzati dallo stesso Einaudi (219), dovuti alla previsione della applicazione dell'imposta del 20%
sul reddito. Si verifica cioè, per ipotesi, un aumento del prezzo d'uso del risparmio, dovuto alla rarefazione
di esso a causa della prevista imposta, ed un aumento di costo dei beni strumentali pro tempore.
Lo stesso insieme di adattamenti, in previsione dell'imposta nella misura del 20%, da versarsi alla
fine del II periodo di tempo, che «periodo di produzione» ipotetico, si deve estendere al processo che ri-
guarda la trasformazione del residuo reddito (100 - 20) in risparmio, con funzione di capitale impiegato nel
periodo considerato (II). Rifacendo il computo, le 80 lire frutteranno, al lordo di quota di ammortamento o
deperimento, L. 5,80 (di cui 0,80 ovvero l'1% per reintegrazione del deperimento economico ed I a titolo di
prevista imposta del 20% sul reddito residuo). Il che equivale a dire che il rendimento di 4 lire, riferite alle
80 che figurano nell'esempio di cui è detto nel primo paragrafo di questo capitolo, sono nette d'imposta
(20% su 5 lire). Il che consente di calcolare che esse lire 4, capitalizzate al tasso di interesse che si suppone
immutato sul mercato, fanno ottenere il valore capitale di 80. Non vi è, cioè, doppia incidenza, contempo-
raneamente sul reddito e sul capitale e questo rimane immutato in L. 80, senza che si verifichi la contraddi-
zione dell'esempio addotto dai sostenitori della doppia tassazione del risparmio. Invero 80 non è mai 64; e 4
di reddito non sono lorde d'imposta, talché esse si riducano a 3,20 dopo il preteso prelievo di 20% su 4.
Il mercato, cioè, non consente che esistano i valori 80 e 64, solo perché si adotti il sistema di tassa-
zione del reddito prodotto e percepito, prima che se ne faccia la distribuzione fra risparmio e consumo.
L'eguaglianza, concepita da me nel senso che redditi egualmente definiti debbano sopportare eguale
imposta, si realizza senza che la definizione comporti la contraddizione che è pretesa dal Mill, allorché ri-
tiene che il sistema in parola dia luogo alla imposizione simultanea del capitale e dell'interesse.
Talché può dirsi che l'eguaglianza si realizzi quando si abbia, nel tempo, la seguente proporzione,
per tutti i contribuenti:

__________
218
Per il risparmio o per il consumo, e tratto anche da singole fonti di reddito, senza procedere alla sintesi del dispo-
nibile = godibile proprio dell'oggetto dell'imposizione personale.
219
«Ottima imposta», cit., pur senza aderire a quell'ordine di conclusioni generali.
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Pn − t p n − t
=
C c
in cui:
Pn è il reddito prodotto, diminuito della quota di ammortamento o deperimento economico del capitale
(nell'esempio, L. 100);
C è il capitale (di 1.600) da cui si ottiene il reddito (di 100) al lordo dell'imposta nel primo periodo di
tempo;
pn è il reddito definito come sopra, riferito al capitale 80 (ossia 5, nell'esempio);
c il capitale 80, da cui si ottiene il reddito, al lordo dell'imposta, di 5, nel secondo periodo di tempo;
t è l'imposta (del 20%, cioè 1/5, riferita rispettivamente a 100 ed a 5).
Nel ragionamento si è supposto immutato il tasso di interesse del 5% sul mercato, come tasso di
capitalizzazione dei redditi netti.
In questa ovvia conclusione, che si può chiamare, come vuole I'Einaudi, «ragionamento in circolo»
(ma solo per negare la sua ineluttabile verità, o petizione di principio, per tentane di scalzare la logica) è in-
sita nella adozione del criterio della tassazione del reddito netto prodotto o percepito e disponibile prima
della destinazione a risparmio (e investimento successivo) od a consumo, non si ha duplicazione di oggetto
o contraddizione nel senso Milliano. Infatti nessuna quota di capitale (dp) entra nell'oggetto, in quanto, se-
condo la definizione che ricorre in queste pagine, del reddito imponibile non figura la parte (dp) che è de-
stinata alla reintegrazione dei capitali che qui si suppongono materiali ed espressi in valore monetario. Nè si
ha, cioè, la contraddizione, che giustamente il Mill voleva si evitasse, della doppia incidenza del tributo, sul
capitale e sul reddito. Cioè la medesima quantità di ricchezza, il capitale e il reddito (interesse) non fanno
parte, contemporaneamente, del reddito imponibile dei contribuenti confrontati come è definito.
B) Il ragionamento si potrebbe ripetere supponendo che, nei due periodi (I e II), il capitale, rispetti-
vamente, di 1.600 e di 80 frutti, al netto di quote di ammortamento o deperimento economico, il 5%. Il red-
dito netto d'imposta sarebbe, nei due casi, per i due contribuenti considerati, di 64 e di 3,20, detratto (con
l'imposta) il 20%. Sembrerebbe operante col riapparire dei dati aritmetici dell'esempio che precede nel pa-
ragrafo I (n. 2) il teorema della doppia tassazione. Ma lo stesso Einaudi (in forma, però, dubitativa), Ricci,
Loria, Masci ed anche altri, ammettono che il tasso d'interesse per la capitalizzazione del mercato, potrebbe
scendere e per taluni cadrebbe dal 5 al 4%, riportando i valori capitali, in base al reddito netto rispettivo di
64 e 3,20 a 1.600 e ad 80.
Questo secondo criterio ha dato luogo a discussioni per cui rimando alle fonti citate e specialmente
all'«Ottima» imposta (220), che non mi sembrano assai rilevanti come dimostrazione, se si prescinde dalle
argomentazioni ben note ed apprezzabili dell'Einaudi (Osservazioni critiche intorno alla teoria
del1'ammortamento dell'imposta, Accademia delle scienze, Torino, 1918-19) che egli applica per dimostra-
re l'ammissibilità di eventuale diminuzione del tasso di interesse, in seguito all'imposta.
2) Nello schema A) logicamente figurano due fatti di produzione di ricchezza nuova o di reddito,
nei due periodi in cui si suppone che abbiano avuto luogo le trasformazioni di reddito (risparmiato) in capi-
tale, e gli aumenti di ricchezza o reddito negli ipotetici periodi di produzione. In altre parole, ragionando di
redditi al lordo di t, 100 rispetto a 1.600 e 5 rispetto ad 80 alla fine dei rispettivi periodi, costituiscono quan-
tità aggiuntive; così che si può immaginare la somma di C + Pn - t e di c + pn - t alla fine rispettivamente dei
periodi (T0 - TI) e (TI – TII).
Cosi, tassando 100 con il 20%, non si è inteso colpire anche o simultaneamente (a prescindere dai
noti fenomeni di ammortamento dell'imposizione nuova) 1.600. Lo stesso dicasi dello mancata doppia tas-
sazione di 5 e di 80 che non risulta dall'esempio, in base alla eguaglianza di trattamento dei fatti di produ-
zione e percezione di redditi netti, che si è intesa affermare.
Per contro, Einaudi ritiene che si sia di fronte al «miracolo della moltiplicazione dei pani e del pe-
sci». Tassare 100 e poi 5, e 5 e 5 all'infinito non gli sembra tassare redditi diversi, «perché una serie di red-
diti di 5 lire annue, all'infinito, equivale, al saggio di sconto del 5%, e su ciò non cade ombra di dubbio, a
100 lire attuali» (Miti e Paradossi, cit. p. 105). Secondo l'Einaudi è un errore «pensare che l'interesse sia un
guadagno, sia un'aggiunta al capitale, laddove è unicamente un mezzo di uguagliamento di beni presenti e
beni futuri, di beni presenti e beni passati» («Ottima imposta», cit., p. 151). «La quantità 100 - egli scrive-
__________
220
Oltre che al Gangemi, per la bibliografia, rimando a Fasiani ediz. 1952 ed a Villani Rivista di Politica Economica,
III, 1952.
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va, inoltre - al principio dell'anno, al saggio d'interesse del 5%, è uguale (sottolineo io) alla quantità 105 al-
la fine dell'anno. Se le due quantità sono uguali, l'una non può essere, sebbene in apparenza aritmeticamente
superiore, maggiore dell'altra».
Al che, già nel 1930, il Gobbi aveva obiettato (negli scritti in memoria di G. Prato, ad iniziativa del-
l'Istituto superiore di scienze economiche di Torino): a) che non è esatto dire che 100 e 105 (o 103 nel suo
esempio) rispettivamente oggi ed alla fine di un anno, siano eguali. Invece esse «sono economicamente e-
quivalenti». Le 100 lire sono il valore di 105 disponibili un anno dopo, se c'è qualcuno che aggiungerà le 5
lire sul conto di chi ne deposita (alla cassa di risparmio) 100. Dire che, in un dato momento, il valore di 105
esigibile fra un anno, è 100, significa dire che noi ci aspettiamo che, in un anno, a 100 si aggiungerà 5. Sce-
gliere le somme future se il saggio di interesse è positivo, vuol dire approfittare di circostanze che permet-
tono di aumentare la propria ricchezza. Molti sono contenti di rinunciare a godere subito 100 per godere
105 (o 106) fra un anno, perché 105 è più di 100, non perché sia eguale». (Pare che di questi rilievi l'Einau-
di abbia tenuto conto nel Miti e Paradossi, p. 103, ediz. 1940).
E U. Ricci - oltre al Gobbi - all'Einaudi che («Ottima imposta», cit., p. 119) ammetteva «che si
stenti a persuadersi che l'uso di un saggio di interesse non crea un reddito nuovo, ma è un semplice metodo
di ragguagliare valori esistenti in tempi differenti», rispondeva:
a) 1) anzitutto, puntualizzando che l'interesse è «una fetta del prodotto netto» (e non il saggio di in-
teresse), la fissazione del periodo di tempo è essenziale. E, poiché il prodotto riferito a un istante non ha
senso, generalmente conviene fissare anche per il prodotto netto (come per il reddito, per individui), la du-
rata di un anno. «Immaginando che il processo di produzione si ripeta all'infinito, dico che il capitale 100
mi darà in una successione d'anni, tante quote di 5 unità. Il valore attuale di queste varie quote è rispettiva-
mente 4,76; 4,53; 4,31….. e la somma delle serie è, come si sa, proprio eguale a 100. Ma il capitale 100 non
contiene ora i 5 che esisteranno solo a fine d'anno, quando tutti gli addendi si saranno un poco ingranditi e
la somma degli ingrandimenti di tutti gli addendi, per tutto l'anno, sarà proprio uguale a 5. A principio d'an-
no il capitale di 100, uguagliato a una successione di redditi annuali di 5 ciascuno (a una successione di an-
nualità posticipate da L. 5), può essere sostituito dalla somma:

4,76 + 4,53 + 4,31 + .... = 100 [I]

Alla fine dell'anno, ognuna di queste quote si è ingrandita. E si è ingrandita esattamente secondo la
legge che segue: la prima quota (4,76) è divenuta eguale a 5 e ciascuna delle altre ha preso il posto della
precedente, come segue:

5 + (4,76 + 4,53 + 4,31, + ….. ) = 5 + 100 [II]

b) Il prodotto nuovo è nato. Alla fine dell'anno il possessore del capitale antico 100 possiede il valo-
re 105, cioè egli può ben dire che ha guadagnato un'eccedenza, un prodotto netto uguale a 5 e nello stesso
tempo dispone ancora del capitale originale 100.
Sebbene quanto qui si espone fosse di facile intuizione, tuttavia il riferimento di punti significativi
del pensiero di due critici dell'Einaudi serve a correggere il pensiero di questo studioso. Egli, dopo avere
ammesso che Tizio, che nell'anno I ha guadagnato 100 lire, alla fine le risparmia, e nell'anno II guadagna il
frutto di 5 lire, e possiede 105 lire, ammette che la somma 100 + 5 è logica, se riferita all'anno II, trattandosi
di due quantità 100 e 5. Ma nega che, tassando prima 100 e poi 5, si tassi tutto e solo il reddito.
La esposizione che precede conferma che 100, prima di trasformarsi in capitale fruttifero di 5, era
reddito di 1.600, (al lordo del 20%), come 5 era reddito di 100, alla fine di due periodi, e 80 di 1.600 e 4 di
80, dopo l'imposta. Essa conferma anche che, colpendo di imposta prima 100 (reddito alla fine del I perio-
do) e poi 5 di reddito o ricchezza nuova alla fine del II periodo (come quantità prodotte e disponibili prima
della loro trasformazione in risparmio), si colpisce soltanto il reddito, se si ha cura di definirlo in modo da
escludere da esso ogni quantità di capitale, come sopra si è fatto.
In ogni caso, risulta che tutti i contribuenti, che percepiscano redditi netti prodotti e subiscano que-
sto tipo di imposizione diretta, sono soggetti ad eguale trattamento, in aderenza al postulato della egua-
glianza. Ovviamente essi non potranno avere, con questo sistema, 100 alla fine del I periodo e 5 alla fine
del II. Ma la decurtazione del reddito prodotto e percepito, disponibile per il risparmio, (o del consumo)
prima che esso sia stato trasformato nell'impiego di 80 residue (dell'esempio), limita appunto a questo am-

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montare la funzione di capitale che le 80 lire hanno nel periodo secondo. Donde la riduzione a 4 del reddito
nuovo prodotto e disponibile alla fine del II periodo.
3) Finora si è ragionato in base al contenuto delle lettere a-c del punto 4) del parag. I che precede,
che racchiudono sinteticamente il mio pensiero, a suo tempo manifestato sul tema. Ma a suffragare la legit-
timità logica della periodica, ipotetica imposizione diretta del reddito in quanto prodotto, è valsa la costru-
zione del De Viti De Marco, alla quale rimando (cap. XV dei Principii, cit.) per non guastare, riassumendo,
l'efficacia della coerenza armonica del suo ragionare. Mi limito a dire, che esso è imperniato sulla dimostra-
zione della esistenza di due distinti cicli produttivi:
1) quello in cui fu prodotto il reddito poi supposto risparmiato;
2) e il secondo in cui si producono gli interessi (nell'esempio di Mill) che sono un nuovo reddito.
Ma il De Viti affianca a detta dimostrazione (che pur essendo personale si basa su una intuizione che può
essere più diffusa nell'opinione degli studiosi) l’altra che è particolarmente mirabile: quella della matura-
zione del credito dello Stato, nei confronti di tutta la nuova produzione che si attua in dati periodi di tempo,
utilizzando i servizi pubblici, come le materie prime e il lavoro umano. «La posizione dello Stato non diffe-
risce, nella specie, da quella del lavoratore o di qualunque altro agente della produzione» (221). Donde l'im-
posizione che si rinnova, senza dar luogo a quello che (nei presentare i Principii di De Viti ai lettori del
«Giornale degli Economisti», 1928) A. Cabiati considerava l'equivoco della doppia tassazione del rispar-
mio. Anche Ricci ammetteva che dal reddito prodotto in tempi successivi lo Stato preleva la sua quota di
contributo alla produzione comune.
4) L'Einaudi sembra preoccupato del fatto die, cadendo il teorema appassionante della doppia tassa-
zione del risparmio, si perda la fecondità della visione, che aiuterebbe a dare la spiegazione razionale dei
numerosi casi di esenzione del risparmio che si rintracciano nelle legislazioni positive, di cui (nei Miti e Pa-
radossi, cit., soprattutto) dà una elencazione. In fondo, dette esenzioni sarebbero dettate, per l'E., da man-
canza di oggetto imponibile, alla luce del teorema che patrocina da tempo. Per contro (a prescindere da
quanto figura nel precedente capitolo di queste lezioni, nelle quali si discorre di discriminazione degli im-
ponibili) valgono, volta a volta, visioni del tipo di quella che si è detta «politica finanziaria» nell'apposito
capitolo della Introduzione a questo corso.
Comunque, per tutti coloro che non sono convinti del senso della fecondità esplicativa (dei casi
concreti, legislativi e tendenziali di esenzione del risparmio) della teoria, come l'intende l'Einaudi, cito il
Borgatta. La letterale fedeltà alla visione teorica del suo maestro, espressa con la riproduzione in sintesi dei
ragionamenti con cui l'E. sosteneva la doppia tassazione del risparmio come derivante dalla tassazione del
reddito «guadagnato», è rotta là dove il Borgatta222 interpreta la tendenza storica dei sistemi tributari ad e-
sentare il risparmio. Varie misure del genere, da questo autore, che pur aderisce alla visione Milliana, sono
qualificate come «adottate dai legislatori per ragioni diverse dalla preoccupazione di evitare la doppia tas-
sazione del risparmio».
Cade anche nelle parole dell'indicativo o significativo autore, il Borgatta, quello che potrebbe esse-
re il principale, forse, dei motivi - per fini probabili di pratica conoscenza che, così, svaniscono - per i quali
1'Einaudi ha insistito nella insostenibile dimostrazione, pur con grande ricchezza di espressione, del cosid-
detto teorema dello Stuart Mill.
5) Nella esposizione delle idee che da tempo nutro in proposito, i motivi del contendere, dal punto
di vista a cui si intitola questo capitolo, di fronte al problema centrale del «modo» di ripartire i tributi, ap-
paiono sostanzialmente inesistenti, in campo logico. Se potesse apparire ammissibile un ricorso a figurazio-
ni geometriche, si potrebbe dire che i due sistemi A) e B), il primo riguardante la tassazione del reddito con-
sumato e l'altro la tassazione del reddito prodotto, figurano come due parallele, fra cui nessun punto di con-
tatto deve esistere se non all'infinito.

__________
221
Il Fasiani ha fatto l'ipotesi che cada la premessa di De Viti. Ma è da avvertire che, anche se ciò si ammettesse, la
doppia tassazione sarebbe non accettabile alla luce di quanto precede in queste pagine e non è in connessione necessa-
ria con la spiegazione Devitiana. La quale, peraltro, non perde di valore, anche nella casistica concreta, quando si ten-
ga presente che lo Stato partecipa con i servizi pubblici di cui anche l'Einaudi vede la strumentalità sui generis alla
produzione della ricchezza ed al benessere o elevazione della collettività, quando si pensi che l'attività statale è produt-
tiva di utilità, sia che i privati producano, sia che consumino il proprio reddito. Questo non è stato visto dal Fasiani
«Giorn. degli Econ. », 1942 mettendo a confronto con i fatti l'astratta visione del De Viti che è assai generale e com-
prensiva dell'apporto anche indiretto dello Stato alla produzione.
222
Borgata G., Appunti , pp. 197-99, 1933, cit. .
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Perciò l'eguaglianza - come postulato che domini la soluzione del problema dei modi di ripartire i
tributi, in ogni tipo di Stato e di condizioni di mercato – non va vista nel senso di rapportare gli effetti dei
due procedimenti, confrontati su una linea di comune intersezione. Invece occorre procedere lungo le paral-
lele, autonomamente, ponendo a confronto le posizioni del contribuenti soggetti a tassazione secondo cia-
scun sistema, con esclusione della doppia tassazione.
Ebbene, se questa analogia di visioni è ammessa, si rifletta che i due sistemi, a lungo andare, nella
indefinita successione dei periodi di tempo, (come tendenza ovvero per precalcolati periodi di tempo) per le
due vie parallele finiscono per avere lo stesso oggetto, se si considerano le decisioni dei contribuenti come
produttori, risparmiatori e consumatori, o le decisioni di arte politica finanziaria statale.
Nel teorema controverso, non si ragiona, contrapponendo i due modi, per me paralleli, di distribuire
le imposte, a parità di prelievo per lo Stato. Invero, sub b), nel testè citato punto 4). Ammetto che l'assun-
zione del reddito prodotto percepito e disponibile (per risparmio o consumo), come oggetto di imposizione,
fornisce una maggiore materia imponibile. Ond'è che a parità di aliquote, il provento istantaneamente è
maggiore di massima se si tassa il reddito cosi definito, anziché il reddito consumato dai singoli contribuen-
ti.
Dal punto di vista dello Stato è indifferente, cosi, colpire col 10% il reddito prodotto di 100.000, o
col 20% il solo reddito consumato di 50.000, ottenendo ovviamente, nel momento in cui l'alternativa si pro-
pone, lo stesso incasso fiscale.
Ma i due sistemi, di cui abbiamo posto in evidenza l'autonomia e la parallela aderenza al postulato
della eguaglianza dell'imposizione, offrono la possibilità di provento eguale, a parità d'aliquota e a parità di
oggetto, come quantità di reddito definitivamente tassato nel tempo; però l'incasso è differito nel tassare il
reddito consumato. Quindi si ha provento uguale ma non equivalente, perché uguali quantità sono disponi-
bili in diverse condizioni di tempo.
Dopo aver manifestato la propria critica avverso alla pretesa doppia imposizione del risparmio, J.
Stamp scrive: «Supponiamo che un individuo risparmi 100 sterline e alla fine di dieci anni abbia conseguito
5 sterline l'anno, e avendo ancora le 100 sterline, allora le spenda. Egli paga imposta in tutto su 150 sterline,
sia secondo il sistema vigente, quando la sua imposta è su 100 sterline in un primo tempo e poi sulle 50
sterline per quote annue, sia in regime di sistema alternativo di imposte sulla spesa, quando egli paga su 5
sterline per dieci anni e su 100 sterline nel decimo. In entrambi i casi egli paga su 50 sterline di più che nel
caso in cui avesse speso le 100 sterline nel primo anno». (Sembra che non sia corretto chiamare questo pro-
cesso «doppia tassazione», conclude Stamp, il quale, intanto, ha dimostrato che assunto un dato periodo di
tempo, con una condotta media di soggetti tipici, si perviene a parità di imponibile, come quantità di ogget-
to).
Generalizzando, dopo aver fatto altri esempi numerici, da cui risulta la diversa ipotetica distribu-
zione, nel tempo, del reddito «guadagnato» e consumato, di pari ammontare, U. Ricci conclude che la di-
versità dei due sistemi di tassazione consiste, per lo Stato, nel ricevere anticipatamente un'imposta (reddito
«guadagnato» come imponibile), che invece con l'altro sistema (reddito consumato) riceverebbe alla fine
del periodo considerato (nell'esempio 4 anni). La generalizzazione consiste nel dire che «l'imposta applicata
sul reddito guadagnato, si paga man mano che il risparmio nasce e si incorpora nel capitale che poi divente-
rà bene di consumo; nonché man mano che gli interessi maturano e parimenti si incorporano nello stesso
capitale.
L'imposta applicata sul reddito consumato si paga sul bene di consumo, che è una trasformazione
del bene strumentale. Quindi l'ammontare totale dell'imposta non muta, ma il pagamento ne è differito.
«Con ciò non si vuole, naturalmente, negare che differenza di tempo implichi differenza di valore, solo si
vuol precisare l'effetto economico della tassazione del risparmio»223.

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RICCI U. , «Studi economici finanziari e corporativi» , cit., nov.-dic. 1942.
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CAPITOLO VIII.

LA «EPURAZIONE» DI QUANTITÀ ECONOMICHE


PER LA RIDUZIONE AD IMPONIBILI

I.

L' EPURAZIONE DEGLI IMPONIBILI NELLA TASSAZIONE DEL REDDITO: 1) PRODOTTO;


2) GLOBALE DISPONIBILE, 3) CONSUMATO OVVERO DEL PATRIMONIO.

Nelle trattazioni tradizionali, del processo di epurazione si scrive come di modalità tecniche attra-
verso le quali si tende a determinare la «base» oppure l'oggetto dell'imposizione, avendo presente, di solito,
il caso della tassazione del reddito.
Occorre, peraltro, avvertire che dietro il procedimento tecnico si celano problemi di logica econo-
mica che vertono nel campo della teorica della finanza pubblica e riguardano, secondo la definizione della
disciplina, i «modi» di ripartizione del costo dei servizi pubblici indivisibilli in senso stretto.
Infatti, nel precisare l'oggetto dell'imposizione, occorre darne una definizione. Ammessa la defini-
zione, coerentemente se ne deve tener conto e nei ragionamenti astratti e tendenzialmente nel far corrispon-
dere il concetto definito ai fatti che si intenda spiegare.
Oggetto dell'imposizione normalmente è la ricchezza sotto la specie: α) del reddito o di flusso mo-
netario, o serie di servizi derivanti da una singola fonte; β) di somma di redditi, in un dato momento, nel
senso temporale e logico della espressione; γ) o di valore capitale (o di patrimonio come lo si denomina
principalmente nella legislazione di vari Stati), corrispondente al reddito considerato come in α) e β).
Ma indicando la specie del reddito, occorre che si precisi se si intenda scegliere nelle ipotesi o in
fatto come oggetto dell'imposizione: 1) il reddito prodotto e percepibile netto da singole fonti; 2) il reddito
globale disponibile netto; 3) il reddito consumato.
Del pari lo si può concepire (a) come singolo cespite patrimoniale o (b) come patrimonio comples-
sivo, posseduto o trasferito, accennando al capitale come oggetto di imposizione. Si intende riferirsi, in
ambo i casi, al valore netto della ricchezza sotto la specie di fondo di valori (contrapposto a flusso o reddi-
to).
Trattando della discriminazione qualitativa degli imponibili, eminentemente come redditi, si è data
la definizione di reddito netto, nel senso che detta quantità risulta dalla sottrazione (dal reddito lordo) di
spese od oneri che occorre incontrare per produrre il reddito. Le spese, infatti, appaiono come quantità da
detrarre come antecedente causale, economico della produzione del reddito. E poiché per la produzione si fa
luogo ad impiego di beni strumentali (capitali), perché si abbia reddito netto, occorre procedere alla detra-
zione (dal reddito lordo) delle spese necessarie anche alla conservazione ed alla rinnovazione dei beni stru-
mentali (capitali); sono le quote di ammortamento dei capitali impiegati.
Si definisce, invero, il reddito (secondo taluni «guadagnato») come l'ammontare di ricchezza che si
forma durante un dato periodo di tempo e che è a disposizione dell'avente diritto a fini di consumo, così
che, consumandolo, il capitale rimanga immutato. Questo significa che occorre accantonare delle quote di
reddito lordo per comprendere il deprezzamento del capitale impiegato, al fine di lasciare integro il valore
di esso.
1) L'epurazione nel caso I) su indicato è processo che va considerato nella medesima linea logica,
sia che si ipotizzi la produzione dei redditi in sè, prescindendo dal soggetto che del reddito delle singole
fonti abbia la percezione, sia che si abbia presente il momento subiettivo della percezione del reddito, da
singole fonti, da parte dei soggetti a cui favore esso si produca. In entrambe le ipotesi si prescinde dalla de-
stinazione successiva del reddito netto, vada esso, in parte, a risparmio e rispettivamente a consumo.
Il processo di epurazione si complica se si ipotizza come oggetto dell'imposizione, il reddito com-
plessivo disponibile, proveniente da tutte le fonti, nelle mani delle persone fisiche. In tal caso la categoria
del reddito disponibile richiede detrazioni di quote che, a parità di ammontari globali di redditi monetari,
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supposti già netti da spese ed oneri per la loro produzione, si presume rendano diversamente disponibili i
complessi di redditi in funzione di date condizioni soggettive delle persone fisiche e della loro «specie»,
che modificano la godibilità o disponibilità del reddito globale.
Per definizione, si tratta della ammissione di quote minime per l'esistenza delle persone fisiche e
delle persone a cui esse debbano, pure, mettere a disposizione quote minime per l'esistenza (per persone a
carico); o quote di risparmio riconosciute ex lege o di interessi su debiti. Sono detrazioni, come si vede, che
logicamente vertono nel campo della discriminazione quantitativa (dato che non si fa riferimento alla natura
dei redditi). Esse, coerentemente, discendono dalla ipotesi di un oggetto imponibile definito come sintesi o
complesso di redditi netti a disposizione delle persone fisiche od affini unità di consumo (famiglie), dpo a-
vere fatta la epurazione di dette quote per esigenza di eguaglianza. Infatti si deve confrontare la disponibili-
tà, variamente influenzata nel momento dell'accertamento dalle diverse particolari, predette condizioni dei
soggetti tassati.
Tuttavia qualche elemento, apparentemente comune alle ipotesi 1) di reddito prodotto e 2) di reddi-
to globale disponibile, figura ma a ben considerare ciò avviene a titolo e per quantità diverse, nei due casi, a
cui corrisponde l'istituto rispettivo dell'imposizione reale e personale. La detrazione di una quota di reddito
netto ci porta fuori dal campo dell'epurazione e, a titolo di esenzione, potrebbe considerarsi soltanto dettata,
anche nelle imposte reali, dalla presunzione di un minimo per l'esistenza. Questo ci porta, però, nella con-
cezione del reddito disponibile per il godimento vitale. [Come si è visto, nella nota che segue al capitolo
sulla discriminazione, il legislatore, specialmente italiano, con l'istituzione della franchigia in sede di impo-
ste sui redditi, prodotti e percepiti da singole fonti, ha introdotto fuori di sede razionale, il criterio verosimi-
le del minimo per vivere. Questa concezione, peraltro, presuppone la sintesi delle condizioni economiche
della persona (o della famiglia) ed è fallace e contraddittoria nel caso dell'oggetto dell'imposizione singola,
reale. Tanta impropria soluzione è stata avvertita, dato che si ricostruisce, parzialmente, un insieme di red-
diti per introdurre l'istituto della franchigia o esenzione].
Normalmente il minimo di esenzione nelle imposte reali risponde a ragioni tecnico-amministrative,
estranee al punto di vista del minimo vitale, che ricorre razionalmente nell'imposizione personale. Questa,
in sede logica, tiene conto, appunto, del reddito globalmente disponibile come somma di redditi già netti od
epurati. Invero lo Stato rinuncia a sostenere il costo di accertamento ed esazione di redditi di piccolo am-
montare.
Taluno ha voluto ad ogni costo vedere una detrazione epurativa nella esenzione di un reddito mini-
mo per talune categorie di redditi, in cui entri il fattore lavoro. Si è voluto, cioè, spiegarlo alla luce della e-
purazione, in via analogica con quanto si dice qui in merito alla detrazione (ammortamento) di una quota di
reddito lordo allo scopo di mantenere inalterato il valore dei beni capitali o strumentali impiegati per la
produzione del reddito prodotto. L'analogia consisterebbe nel fare apparire la esenzione di quote minime
come detrazione di una parte di reddito prodotto, per reintegrare le energie fisiche del soggetto-produttore
del reddito o, come con eccesso analogo si è anche scritto, per provvedere all'ammortamento della «mac-
china-uomo».
Ma la contrapposizione in sede di epurazione fra imposte reali e personali alla luce della differen-
ziazione dell'oggetto imponibile tra reddito netto da singole fonti e reddito globale disponibile, si staglia più
precisa a proposito della detrazione delle somme a titoli di interessi sui debiti. Questi, ad es. nella legisla-
zione italiana, vengono ammessi in detrazione dal reddito lordo, per arrivare alla categoria del reddito netto,
in quanto i capitali presi a prestito costituiscano antecedente economico per la produzione del reddito, e li-
mitatamente ai capitali mutuati che abbiano tale funzione determinante nel processo produttivo, nell'impo-
sizione reale. Per contro, nell'imposizione personale, gli interessi sui debiti vengono detratti dalla somma
dei redditi netti, qualunque sia stato il motivo determinante l'assunzione dei debiti per capitali (purché, an-
che in questo caso, sia accertata la persona del creditore, come si esige nel caso precedente).
Nell'imposta personale non vi è limite alla ammissione in detrazione di interessi sui prestiti contratti
nello Stato, in quanto non si richiede inerenza o connessione economica con singoli fatti di produzione; ma
si intende vagliare il grado di menomazione della disponibilità del reddito globale nelle mani della persona
fisica, anche a causa di oneri per interessi su debiti.
2) Oggetto dell'imposizione può essere - anche e simultaneamente con l'ipotesi I) - la spesa del red-
dito, in singole e separate voci di consumo in coordinato sistema di imposte singole, oppure come oggetto
di tassazione generale di tutte le spese. In questo caso è automatica la condizione della detrazione del reddi-
to risparmiato, che non entra nella logica del sistema, una volta che sia prescelto il fatto del consumo di

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quote o dell'intero reddito. Questo si intende l’oggetto d'imposte reali o di imposte personali, che la storia
anche recente ha fatto considerare, sul reddito consumato224.
3) Infine, come si è visto nella nota in appendice al capitolo precedente, ed alla lettera γ) in questo
paragrafo, il capitale o patrimonio netto, per singole manifestazioni fisiche ed economiche o nel complesso,
può prescegliersi come oggetto normale di imposizione o come oggetto in via straordinaria di tassazione.
(Vedi il capitolo sulla finanza straordinaria).
Ma anche per il capitale o patrimonio, sia esso considerato nelle singole forme o nel complesso, oc-
corre procedere alla detrazione di oneri e passività, che costituiscano diritti di terzi a prelevare od esigere
(crediti) quote di essi, dal valore economico per arrivare a quello netto, imponibile.
Orbene non si tratta di solo procedimento tecnico ma di scelta, in ipotesi e nel fatto, di modi di tas-
sazione, ai quali occorre rimanere aderenti coerentemente nel ragionare sulle conseguenze logiche, econo-
miche dell'ipotesi di studio o della scelta concreta in sede storico-legislativa, in tema di oggetto dell'imposi-
zione.

II.

FONDAMENTO LOGICO DEL PROCESSO DI EPURAZIONE DEGLI IMPONIBILI.

Si può fare qualsiasi ipotesi di oggetto imponibile e si può accogliere qualsiasi definizione: ma
condizione di coerenza scientifica è che la stessa definizione o concezione valga per tutti i fatti omogenei o
per tutti i soggetti a cui si collegano le entità definite (reddito prodotto, percepito, disponibile, consumato,
ecc.). In altri termini, se la eguaglianza dell'imposizione ad es. è la visione che informi un sistema tributa-
rio, occorre che tutti i fatti e soggetti omogeneamente definitivi siano egualmente considerati. A questo fine
di giustizia nella eguaglianza mira anche il processo di epurazione di redditi e patrimoni, come spiego oltre.
Riferendo le definizioni degli oggetti delle imposte, alternativamente o indipendentemente ipotizza-
ti o storicamente prescelti, a tutti i fatti e soggetti, che logicamente lo consentono, non può immaginarsi che
si abbia trattamento diverso dello stesso oggetto imponibile, ovvero che si abbiano discriminazioni pro e
contro determinate quantità tassate.
Con queste parole intendo negare la “pretesa” critica del sistema delle imposte, ad es. sul reddito
prodotto, netto, prima che si abbia la destinazione di esso a risparmio o consumo, e al tempo stesso imputa-
re a detto sistema una discriminazione contro la parte di reddito risparmiato, sol perché essa produca ancora
reddito in altro momento storico (ipotesi dinamica). Come si è dimostrato, non sussiste la cosiddetta doppia
tassazione del reddito risparmiato, nell'ipotesi del reddito netto, prodotto, come imponibile.
Come già precisato, altra cosa è che, attraverso il processo di epurazione si separino, dal reddito
lordo, le quote che sono spese per ottenerlo, per evitare una doppia tassazione dello stesso reddito prodotto.
Infatti le spese, affrontate da un soggetto per la produzione, sono redditi di altri fattori o soggetti che abbia-
no contribuito, in combinazione, alla produzione del reddito. Vi sarebbe doppia tassazione se non si proce-
desse alle detrazioni di spese e oneri, perché la stessa quantità, in quanto prodotta (reddito lordo), cadrebbe
sotto l'imposizione sia presso il soggetto che abbia ottenuto tutto il reddito lordo prodotto sia presso i sog-
getti nelle cui mani le spese del primo sono redditi, separatamente tassabili, come netti.
Per mettere in evidenza quanto di logico e di teorematico si celi dietro la epurazione, che solitamen-
te si considera processo tecnico contabile, si può, in poche parole, parafrasare l'espressione della eguaglian-
za del Mill, secondo il quale «due redditi eguali debbono eguale imposta» e che ho modificato (cap. VII)
nel senso di redditi egualmente definiti.
Già una delle tante interpretazioni di detta formula, appena citata, si è avuta in sede di discrimina-
zione qualitativa, riportando l'eguaglianza nel campo soggettivo in base ad entità edonistiche considerate.
Ma in sede di epurazione, si può dire che essa miri alla eguaglianza nel senso che due o più redditi
(in generale due o più imponibili) definiti o concepiti egualmente come prodotti netti, percepiti, disponibili,

__________
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D'ALBERGO E.: La crisi dell'imposta personale sul reddito, Cedam, Padova, 1931.
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ecc. debbono essere economicamente ridotti a quantità omogenee attraverso detrazioni tali da far luogo ad
eguaglianza di imposizione, secondo la definizione data.

III.

RAGIONI D'ORDINE ECONOMICO RAZIONALE CHE FANNO LUOGO


ALLA TASSAZIONE DI REDDITI «NETTI» ANZICHÈ «LORDI».

Lo stesso processo storico di sostituzione di oggetti di imposizione può essere spiegato, dal lato e-
conomico, come serie di tentativi di conseguire l'eguaglianza nell'imposizione, perfezionando l'epurazione
e, quindi, l'oggetto.
Se si ragiona per la produzione agricola, secondo quello che il Barone considera «metodo grezzo
Ricardiano», si può scorgere il dominio della esigenza logica della eguaglianza, nell'abbandono di imponi-
bili che, facendosi posto alla epurazione, si rivelavano diversamente colpiti. Si facciano le ipotesi attinte al-
la storia, dell'imposizione del prodotto lordo e del reddito lordo, come tentativi, poi, abbandonati per sosti-
tuirvi l'eguaglianza di tassazione che si realizza assumendo il reddito netto, come oggetto, nel campo della
produzione della ricchezza.
Storicamente l'imponibile, oggetto delle imposte dirette, è passato attraverso le fasi rudimentali in
cui: 1) per colpire il reddito della terra si commisurava l'imposta fondiaria all'estensione dei terreni coltivati
e al numero dei mezzi di produzione (capi di bestiame, aratri, ecc.). Un progresso rispetto a tale procedi-
mento, fu costituito dalla commisurazione dell'imposta al prodotto lordo. Ne fu esempio la decima (prelie-
vo di una unità di prodotto lordo, ogni dieci unità di prodotto lordo accertato) che, appunto, prelevava tale
quota in natura, dal prodotto dei fondi;
2) per colpire il reddito dei fabbricati si commisurava l'imposta ad indici quali la lunghezza del
frontale o il numero delle porte e delle finestre;
3) per distribuire l'imposta fra coloro che percepissero redditi di natura mobiliare (industriali e
commerciali, professionali) o di lavoro, si ricorreva a capitazioni (una somma fissa per persona) e in un se-
condo tempo, si colpiva il prodotto lordo di tali forme di attività, prima di pervenire alle moderne imposte
sui redditi netti.
Le ragioni per le quali si è passati dalla tassazione dei prodotti e redditi lordi ai redditi ridotti al net-
to, mediante appropriati processi di epurazione, sono di natura economica preminentemente.
Se ad esempio, si fosse prelevata soltanto presso il proprietario del terreno un'imposta sul prodotto
lordo (decima) in sede di ripartizione giuridica, il proprietario avrebbe potuto a sua volta ripartire di fatto
l'imposta su tutti i fattori della produzione, ovvero su coloro che avessero cooperato all'ottenimento del
prodotto mediante l'apporto di capitale circolante (di mezzi di lavoro strumentali, di puro lavoro, ecc.). In
tal modo, pur colpendo il prodotto lordo, si sarebbero tassati per traslazione economica o rivalsa giuridica,
oltre al reddito del proprietario, l'interesse sul capitale circolante da questi impiegato nella produzione, il sa-
lario dei lavoratori, che vi avessero cooperato, ecc. (225).
Nelle società meno progredite i soggetti economici che avevano diritto alla rendita, all'interesse e al
salario coincidevano spesso in una sola persona o azienda familiare.
Ma con l'accentuarsi della divisione del lavoro in tutti i processi di produzione, la figura sempre più
netta dei soggetti che concorrono all'ottenimento del prodotto, ha reso logica l'istituzione di rapporti di di-
ritto tributario distinti, con i quali si è colpita la quota parte del prodotto lordo, spettante ai singoli coopera-
tori della produzione.
Sono sorte cioè contemporaneamente, accanto all'imposta sulla rendita netta della terra, imposte
sull'interesse dei capitali e sul salario. Se si fosse mantenuta in vigore la decima (sul prodotto lordo) mentre

__________
225
Una parziale applicazione del sistema si ha per la legge 29-6-1939 n. 976 per l'imposta sul reddito agrario che è
dovuta dal proprietario o possessore del fondo, con diritto di rivalsa verso coloro che partecipano nella ripartizione del
reddito stesso.
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si colpivano quote parti del prodotto distribuito fra i soggetti partecipanti alla produzione, si sarebbe avuta
una doppia imposizione.
Questo assurdo fiscale si può definire - fra i tanti modi di esprimere il concetto sopra ricordato -
come la tassazione ripetuta, allo stesso titolo o per lo stesso presupposto tributario, di uno stesso reddito o
patrimonio.
Per evitare la doppia tassazione e nello stesso tempo distribuire in sede giuridica l'imposta fra i sog-
getti distinti e individuati, che percepiscono una quota del prodotto o del reddito lordo, si procede, appunto,
alla epurazione dei redditi lordi detraendo da essi le quote o gli addendi componenti, imputabili a diversi
soggetti, e colpiti da distinti tributi.
Accanto alla divisione del lavoro ed alla conseguente specificazione dei rapporti tributari, vi è u-
n'altra importante ragione economica che rende razionale la scomposizione dei redditi lordi in redditi netti
per la commisurazione dell'imposta in base al principio dell'eguaglianza oggettiva dell'imposizione. Trattasi
della diversità dei rapporti esistenti, fra spese di produzione e prodotto, ovvero fra costi e rendimenti, nelle
imprese di varia natura, dalle agricole, alle industriali e commerciali.
a) Riferendoci al caso testé avanzato della produzione agraria, seguendo lo sviluppo storico della
tassazione di questo oggetto,

facciamo anzitutto l'ipotesi che il tributo fondiario sia commisurato alla superficie dei terreni coltivati, pre-
scindendo dalla loro produttività.
Nell'ipotesi dell'imposta commisurata alla unità di superficie (ad es. ad ettaro), vediamo quale effet-
to essa produca sulla posizione relativa (rendita Ricardiana) di coloro che coltivino terreni aventi diversa
fertilità. Siano due agricoltori, A e B, che mettano a coltivazione una unità rispettivamente di superficie ter-
riera, dalla quale il primo ottenga due unità di prodotto ed il secondo una unità, a parità di costo totale in
termini di capitale e lavoro impiegati.
Nella figura, sull'asse della ascisse si rappresentano le unità prodotte, su quella delle ordinate, i co-
sti. Op è, appunto, doppio di pq.
Supponiamo che, anteriormente alla introduzione dell'imposta per ettaro, il prezzo venga determi-
nato sul mercato dal produttore a più alto costo e che esso coincida, per ipotesi, con tale costo. sia, cioè, c'O
= qP, ovvero costituisca il secondo produttore quello marginale. In tal caso si ha per il primo produttore che
sostenga il costo Opsc una rendita data dall'area cc's's.
Se si introduce l'imposta, ed essa, come si è supposto frequentemente ha l'effetto di elevare il costo
di produzione, avviene che l'onere gravi sulla unità prodotta in ragione di una metà nel primo caso (terra
che produce il doppio a parità di costo totale), e per l'intero ammontare unitario del tributo sulla unità pro-
dotta nel caso del secondo agricoltore. Nel grafico è Cc' il doppio di tc, mentre com'è ovvio ctt's = s'SP'P.
Se l'area tratteggiata indica la ripartizione, per unità di prodotto, dell'imposta commisurata alla unità di su-
perficie, si rileva immediatamente dalla rappresentazione geometrica che effetto del tributo è stato quello di
elevare la rendita. Ciò avviene nell'ipotesi che il prezzo sul mercato sia aumentato dell'ammontare dell'im-

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posta (aggiunta al costo del produttore marginale), prescindendo dall'andamento delta domanda, ovvero
supponendola «inelastica o rigida». Invero la rendita diviene l'area tCSt' > cc's's (226).
L'accentuazione della rendita non si verificherebbe, invece, nel caso in cui la diversa fertilità si ma-
nifestasse nella differenza di costo a parità di prodotto per unità di superficie, a cui è commisurata l'imposta
(ad esempio, stessa quantità prodotta a metà costo, come ipotesi in certo senso equivalente a quella sopra
esposta di quantità doppia a parità di costo totale per unità di superficie).

Parimenti, non si avrebbe accentuazione della rendita nel caso dell'imposta specifica sulle unità
prodotte. Infatti, guardando al grafico (figura 20), simile imposta graverebbe su A, ad es., per cc"s"s doppia
di s'PP'S, essendo cc" eguale a c'C. E in tal caso risulterebbe c"CSs" eguale a cc's's, ossia l'agricoltore A

__________
226
La posizione relativa delle due imprese agricole o dei due coltivatori verrebbe modificata in senso sfavorevole a
quello che metta a coltura la terra più fertile, se l'imposta venisse commisurata alla rendita.

In tal caso come si vede dalia figura nella quale si pone in evidenza il caso elementare di due imprese, in luogo di
una curva continua di costi per una produzione dovuta a numerose imprese la prima impresa. A sopporta l'imposta, da-
to che ad essa non conviene abbandonare il mercato, né ha interesse a far sparire l'impresa marginale. Questa a sua
volta, non presentando oggetto imponibile rendita rimane indifferente di fronte al fatto tributario che assorbe soltanto
una quota di rendita o soprappiù rispetto al reddito normale che si suppone consegua l'impresa marginale, peggiorando
relativamente la posizione della prima impresa, a differenza di quanto, invece, avveniva nel caso dell'imposta commi-
surata alla unità di superficie. Invero la rendita dopo il prelievo dell'imposta c s t' t, viene ridotta da e c s s' c' a t t' s' c'.
Nella teoria degli effetti economici delle imposte, si dirà, appunto, che quella sulla rendita non è trasferibile.
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continuerebbe a godere della medesima rendita di prima dell'introduzione dell'imposta specifica sulle unità
prodotte.
b) Questi ragionamenti valgono, come si è ben precisato, nell'ipotesi che prescinde dalla domanda,
ovvero che suppone la medesima rigida.
Ma se, per avvicinarci al caso concreto, supponiamo che vi sia un certo grado di elasticità della
domanda, le conclusioni in precedenza indicate sono suscettibili di modificazione, anche profonda.
Si faccia, ad esempio, il caso dell'imposta commisurata al prodotto lordo (figura 22).
Siano tre coltivatori dei terreni I, II, III, con diversi costi di produzione. Il prezzo sul mercato sia
determinato dal produttore marginale (III) ed i due produttori precedenti conseguano oltre al reddito norma-
le, che è consentito dal mercato all'impresa marginale, una rendita differenziale rappresentata rispettiva-
mente dai rettangoli pcrr' e r'c'sn.
Si ipotizzi come imposta la decima. Essa prelevi uniformemente 1/10 (decimo) del prodotto lordo.
Essa si può fare equivalente (ipotesi, ad es., del Barone) ad una riduzione uniforme del prezzo. La rappre-
sentazione dell'ipotesi nella figura è data dal rettangolo Ppt't che appare in tratteggiato. Data la curva di
domanda (DD') postulata, l'impresa marginale (III) non può sopportare una riduzione di prezzo al di sotto
del costo e sparisce dal mercato: la terra rimane, in corrispondenza, incolta.
Le rimanenti imprese possono beneficiare di un prezzo più elevato (P'Q') che deve, a sua volta, es-
sere ridotto di un decimo. Detratto questo decimo (P'zkl), tuttavia le imprese I e II, rispettivamente, otten-
gono una rendita maggiore di quella che figurava anteriormente all'imposta. Il fenomeno dipende dall'an-
damento della curva di domanda, il quale potrebbe determinare tale prezzo netto da decima (maggiore ela-
sticità, come appare dalla curva a tratteggio), da lasciare immutate le rendite precedenti, se addirittura non
tale da determinare una diminuzione di rendite.
Sarebbe confermata la critica che si rivolge (ad es. dal Barone, che lo dimostra) alla tassazione del
reddito lordo (prescindendo dalla diversità dei costi di produzione nell'agricoltura). Infatti essa può rendere
più sensibili i fenomeni di rendita, in senso Ricardiano. E’ ovvia, poi, la sperequazione che deriva dal rife-
rimento diretto dell'imposta ipotizzata (10% del lordo) al prodotto netto, espresso in termini di quantità fisi-
che o in natura. Ma in via più generale ne dico qui di seguito, rispetto alla tassazione del reddito monetario.
c) Passiamo ora all'ipotesi che l'imposizione sia ad valorem. Supponiamo che, in un dato ramo di
produzione industriale, vi sia l'impresa A che ottenga il reddito, in moneta, lordo di L. 2.000, sostenendo un
costo complessivo di L. 900. Se lo Stato commisura, ad esempio, l'aliquota del 10% al reddito lordo, l'im-
posta prelevata è di L. 200; se si ragguaglia al reddito netto di L. 1.100 (2.000 - 900), l’imposta prelevata
equivale ad una aliquota del 18,18 del reddito netto. Se nello stesso ramo di produzione vi è un'impresa (B)
che consegua un reddito lordo di L. 6.000, mediante un costo complessivo di L. 4.000, l'imposta del 10%
sul reddito lordo sarà eguale a L. 600. Se commisuriamo tale prelievo (600) al reddito netto di L. 2.000
(6.000 - 4.000) risulta che l'aliquota effettivamente prelevata è del 30% del reddito netto.
E’ evidente quindi la sperequazione o violazione dell'eguaglianza a cui dà luogo l'imposizione in
base at reddito lordo: nel nostro esempio, a parità di aliquota (10%) commisurata a tale entità economica, si
ha una diversa tassazione del reddito netto e precisamente l'aliquota è divenuta del 18,18% per l'impresa A e
del 30% per l'impresa B.
Alla luce delle argomentazioni che precedono, riferendosi a questa esemplificazione, si comprende
il fondamento razionale della epurazione dei redditi lordi, di tutte le spese di produzione, per ridurli al net-
to. Con la detrazione delle spese di produzione, non ha luogo esenzione tributaria di materia imponibile nel-
l'imposizione reale. Ma poiché le quote del reddito lordo che costituiscono spese per un produttore, sono
redditi di altri soggetti partecipanti alla produzione, si assoggettano, separatamente, tali redditi all'imposta
corrispondente, evitando doppie tassazioni.
Apparenza di esenzione, che sembra cioè contraddittoria con l'epurazione, si ha nel caso delle de-
trazioni per persone a carico del contribuente, come soggetto colpito dall'imposta personale. Ma si tratta di
detrazioni che, come il minimo esente per il soggetto passivo o contribuente, sono conseguenza logica della
definizione che di solito si dà del reddito globale disponibile istantaneamente o in un dato periodo. Esso è
godibile, oltre il minimo per vivere (che uniformemente è previsto ed escluso per i contribuenti colpiti e in
funzione della diversa composizione familiare; oltre gli oneri che diversamente gravano sul coacervo dei
redditi (interessi passivi); e oltre le quantità diverse che non sono immediatamente disponibili (quote di ri-
sparmio oggettivamente accertabili presso tutti i soggetti, come contributi a casse pensioni, premi assicura-
tivi, ecc.) per il godimento, nel momento o pel periodo per cui la sintesi dei flussi di reddito si accerta nelle
mani della persona fisica.
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In altri termini, non è esenzione il detrarre ciò che non è tassabile perché non disponibile per il go-
dimento coerentemente con la definizione dell'oggetto; ma è coerente passaggio logico da una quantità eco-
nomica data dal reddito globale netto, attraverso l'epurazione, alla quantità prevista (imponibile) in sede di
finanza pubblica e di perfezionamento dei modi di ripartire il costo dei servizi pubblici effettivamente indi-
visibili, nei tributi personali.
Per contro nel campo dell'imposizione reale dopo il procedimento analitico dell'epurazione, la
somma dei redditi netti imponibili, affinché non vi siano esenzioni od evasioni, deve essere eguale al reddi-
to lordo totale.
A prescindere, però, dalle esenzioni - che pur sussistono per ragioni varie anche nelle imposte reali
- e dalle evasioni, e pur supponendo che l'imposizione sia proporzionale, lo Stato non otterrà lo stesso pro-
vento, passando dalla tassazione del reddito lordo a quella del reddito netto. E ciò perché attraverso anche
l'epurazione, si vengono ad accertare analiticamente redditi di diversa specie dal punto di vista della fonte
(fondati e non fondati).
Quindi la discriminazione delle aliquote già illustrata nel capitolo VI, dà luogo ad un provento mi-
nore, in seguito all'epurazione di quello che, a parità di reddito lordo e di aliquota, lo Stato otterrebbe tas-
sando appunto il reddito lordo. Ma il sistema più razionale, come si è visto, è quello della tassazione dei
redditi netti, nell'imposizione reale e del disponibile nelle imposte personali sul reddito.

APPENDICE AL CAPITOLO VIII

SULLE “EPURAZIONI” PRESUNTE

Quando dalla enunciazione delle premesse si passi alla realizzazione di esse nei sistemi tributari, si rileva che
non sempre lo Stato procede ad una analitica epurazione che tenga conto della casistica concreta.
Ma assai spesso procede a presunzioni intorno alle spese di produzione da detrarsi dai redditi lordi per ridurli
al netto.
1) Per esempio, per ciò che riguarda il reddito dei terreni, non si colpisce il reddito netto effettivo, ma quello
ordinario (o normale). Tale termine introduce il concetto di media, riferita ad un lungo periodo di tempo e ad un sog-
getto (proprietario-contribuente) che non è il più capace e diligente, nè il meno capace e diligente.
Allorché la legge italiana definiva come «rendita» imponibile dei terreni quella parte del prodotto lordo del
fondo netta dalle spese e perdite eventuali, non ammetteva l'accertamento delle spese effettivamente sostenute di anno
in anno; ma ammetteva la deduzione delle spese di produzione secondo gli usi e le condizioni di ciascun luogo. Tratta-
si di presunzione di legge, tanto per il reddito lordo quanto per le spese, la quale fa sorgere quelle che il De Viti De
Marco ha denominato «rendite tributarie», «positive» e «negative», a seconda che il proprietario fondiario dal punto di
vista della capacità o delle spese di produzione sia in condizioni più che normali o meno che normali, rispetto alla me-
dia presunta dal legislatore. Lo stesso criterio presuntivo ha mantenuto il R. D. L. 4 aprile 1939 N. 589, che aggiorna
le tariffe ed i valori base dei vigenti catasti, circa le detrazioni da effettuarsi dal valore della produzione per ottenere la
«rendita» imponibile.
2) Parimenti, per l'imposta sul reddito agrario (costituito prima delle norme del 1939 dalla differenza fra il
prodotto lordo del fondo e il valore locativo corrente aumentato delle spese di produzione), non si procedeva alla epu-
razione, mediante una casistica analitica, per singole imprese agrarie. (Per l'art. 4 della legge 29-6-1939 N. 976, il red-
dito agrario soggetto all'imposta è costituito dal reddito del capitale di esercizio e del lavoro direttivo, quali risultano
dalle tariffe d'estimo, escluso sempre il reddito del lavoro manuale da chiunque prestato).
Ma nonostante ciò fosse previsto dalla legge del 1923, si erano adottate delle tabelle di valutazione del reddi-
to agrario netto imponibile, per ciascun tipo (medio) di coltura di terreni; è un altro caso di presunzione delle quote da
detrarre dal reddito lordo per arrivare al netto.
A partire da 1940 il reddito agrario da assoggettare all'imposta sui redditi agrari (istituita con il R. D. 4-1-
1923) viene determinato con le stesse operazioni stabilite dal R. D. L. 4-IV-1939 N. 589, per la formazione dei nuovi
estimi censuari. Valgono, quindi, le osservazioni già fatte per l'epurazione del reddito dominicale (detrazioni).
3) La stessa presunzione juris et de jure si aveva, sino al 1939, nel caso dell'accertamento del reddito netto
imponibile dei fabbricati ad uso abitazione. Dal reddito effettivo (risultante dai contratti d'affitto controllati) o presunto
(se il fabbricato è goduto dal proprietario), si detraeva dal 1927 una quota uniforme di 1/3 del reddito lordo a titolo di
spese di manutenzione e di amministrazione, nonché a titolo di perdite eventuali (sfitto parziale). Tale presunzione di
legge ha dato luogo a «rendite» positive e negative, per gli scostamenti in meno ed in più, delle spese e perdite effetti-
ve, da quelle medie presunte, allorché si distingua, in pratica, fra case vecchie e nuove, centrali e periferiche, di lusso,
civili e popolari. ecc. A tale inconveniente in gran parte ha ovviato la legge del 1939, istitutiva del catasto edilizio. Es-
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sa, mentre mantiene le detrazioni uniformi, distingue fra le varie categorie di case (di lusso, civili, popolari), ai fini
delle detrazioni delle spese, per l'accertamento del reddito ordinario, la cui quota (detrazione) è stata riportata ad 1/4
del reddito lordo con provvedimento del 1951, che riporta, così, al 1865 per questa materia. Nel 1927 con la detrazio-
ne del terzo si adottava una misura di politica economica per alleviare la crisi economica.
4) Più analitica è l'epurazione e più aderente alla casistica concreta, nel caso dell'accertamento dell'imponibile
dell'imposta di ricchezza mobile in cat. B), con la detrazione di tutte le spese di produzione, come tali considerate dalla
legge. Ma anche per tale tributo non mancano dei casi in cui agisca la presunzione di legge, nella detrazione di talune
spese di produzione, dal reddito lordo. Siffatto è il caso, ad esempio, della presunzione, in modo uniforme, delle quote
d'ammortamento degli impianti per taluni tipi di imprese produttive.
Talora lo Stato rinuncia a dar luogo alla epurazione: ad esempio nel caso delle annualità (interessi) passive,
allorché non sia noto il domicilio del creditore nello Stato. Si tassa presso il produttore, anche l'interesse che per il
produttore è una spesa; dell'imposta egli può rivalersi, per traslazione, sul creditore. Parimenti non si ha apparente-
mente l'epurazione della spesa di produzione che, per gli istituti di credito, è costituita da interessi sui depositi bancari.
Su tali interessi non vi è cioè accertamento a carico dei depositanti, ma il loro reddito non detratto come spesa dal red-
dito lordo bancario, in modo formale viene colpito presso gli istituti di credito, che se ne rivalgono sui depositanti nel-
la fissazione del livello del tasso di interesse, che è netto da imposta.
5) Parimenti, nel caso dell'imposta complementare sul reddito, si dovrebbe epurare il reddito complessivo del-
le spese che effettivamente il soggetto passivo (capo-famiglia) sostiene per le persone a suo carico (con diritto agli a-
limenti). Per contro, ai fini della determinazione del reddito disponibile per la persona fisica del contribuente, si de-
traggono, come s'è visto, delle quote dal reddito netto complessivo, uniformi per tutti i contribuenti, in funzione del
numero di tali persone a carico.
Queste applicazioni limitate del principio della epurazione alla casistica complessa, in pratica, tengono pre-
senti molti elementi del fenomeno concreto (necessità) di ridurre le spese per l'accertamento, di evitare evasioni, di ri-
spettare il segreto bancario, ecc. Ma nonostante codesti compromessi concreti, il principio, in teoria, conserva tutta la
sua importanza, come criterio razionale per l'eguaglianza oggettiva e soggettiva dell'imposizione reale e personale, e
come procedimento per ovviare alla doppia tassazione, che della eguale imposizione costituisce appunto una violazio-
ne.

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CAPITOLO IX.

GLI EFFETTI ECONOMICI DELLE IMPOSTE

I.

IMPORTANZA, E COLLOCAZIONE, DI QUESTO CAPITOLO


NELLA FINANZA PUBBLICA.

I) In premessa allo studio degli effetti economici delle imposte, ricordo la definizione di “economia
della finanza pubblica (nell’Introduzione), come «ricerca di uniformità teoriche relative:
- a) all’analisi delle variazioni degli equilibri economici particolari e dell' equilibrio economico
generale, provocate dal modo e dal quantum di prelievo;
- b) ed all’ottenimento, in genere, delle entrate e della erogazione delle spese statali, nelle varie i-
potesi di organizzazione dei mercati e di intervento o meno del fattore tempo».
Non si pretende di avere esaurito nei capitoli precedenti, i numerosi problemi che sorgono nello
studio dei modi secondo i quali lo Stato e gli enti pubblici minori possono procurarsi, con o senza coazione,
le entrate e distribuire le spese necessarie al soddisfacimento dei bisogni pubblici. Questa visione teorica,
programmatica, era nella formulazione della prima parte della ricordata definizione. Quando non si tratti di
questioni che si considerano comunemente «tecniche» ma siano di logica economica, teoremi e discussioni
riguardanti la scelta di diversi tipi di tributi si incontreranno in questa seconda parte del corso,.
Intanto possiamo ritenere sufficientemente enunciata e dimostrata la generale visione dei problemi
fondamentali della attività finanziaria, di cui nella locuzione “economia” della definizione di questa scien-
za.
2) Nell’Introduzione avevo avvertito che lo studio degli effetti delle imposte (ovvero ciò che, in
passato, veniva prevalentemente detto l'esame delle «ripercussioni» dei tributi o della «traslazione» od «in-
cidenza» di essi) corrisponde al secondo volume del corso. Ora si può procedere ad ulteriori precisazioni
preliminari.
Già si è citata (ma per criticarla) l'opinione, ad es. del Myrdal (pagg. 17-18), secondo la quale l'in-
cidenza o gli effetti dei sistemi fiscali sono l'unico contenuto di tutta la scienza delle finanze. Questo autore,
che potremmo dire critico pessimista ed aprioristico di questa sistemazione scientifica, fa eco a numerosi
autori anche italiani. Si può ricordare ad es. ciò che il Fubini227. Dopo avere aderito alla opinione comune,
di cui il Seligman (228) si è fatto portavoce nella sistematica trattazione e storica rassegna di teorie specifi-
che, Fubini, infatti, dice che «non vi è soggetto più importante» nella finanza pubblica (Fubini lo considera
«fondamentale»). Il nostro egregio studioso lo ritiene, inoltre, «forse l'unico vero problema scientifico di
questa disciplina». Nella sostanza egli non è il solo a pensarla in questo senso. Basti, infatti, volgere indie-
tro lo sguardo e risalire alla fase del pensiero economico in cui la scienza delle finanze era considerata un
capitolo dell'economia politica tout court. Allora soprattutto il trattare di traslazione ed incidenza veniva
considerato come occuparsi della «dottrina del valore» o di «questione di prezzi». (Così ad es. Seligman
confermando il pensiero del Marshall, per il quale «la teoria dell'incidenza è parte integrante della teoria
generale del ‘valore»).
Nel seguito, si dimostrerà ancor più quanto sia stata parziale l'asserzione di Myrdal o Fubini ed altri
sostanzialmente così orientati, sia stata parziale nel restringere il contenuto della scienza delle finanze. Que-
sto vale anche per l’ipotesi che la scienza delle finanze abbia solo contenuto economico, come in queste pa-
gine la si professa e coltiva. Altra cosa è ammettere, come altri vuole, che quello degli effetti economici dei
tributi è uno dei «più vasti e complessi» problemi della economia finanziaria. Ciò emerge anche da questo
«corso» universitario.
__________
227
FUBINI R., Lezioni di scienza delle finanze, Cedam, 1934, pag. 76.
(228) La traslazione e incidenza delle imposte, prima trad. ital. nella Bibl. dell’Econ. V Serie, vol. VI.
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3) Molti autori antepongono lo studio degli effetti delle imposte o delle ripercussioni che esse de-
terminano sull'equilibrio economico, allo studio dei modi attraverso i quali si compie la distribuzione degli
oneri tributari e, in genere, il conseguimento delle entrate.
Escludendo i casi in cui non sussiste, nei «corsi» e trattati, ragionato motivo di una data collocazio-
ne dei capitoli fondamentali di questa scienza, si afferma qui che esistono differenti punti di vista logici dai
quali discende l'ordine in cui si profilano, teoricamente, i due grandi aspetti della attività finanziaria.
A) Rifacendosi anche allo sviluppo storico della teoria – che è prospettata dal Seligman proprio co-
me premessa allo studio della traslazione dei tributi – si può accennare a quella che venne detta teoria «ot-
timistica», che fa capo ai nomi di Thiers e di Canard e che venne indicata con i termini della «diffusione» o
della eguale diffusione delle imposte. Affermava il primo che i tributi sono trasferiti indefinitamente e ten-
dono a diventare una parte del prezzo delle merci, in modo che ciascuno ne sopporta una quota, non in pro-
porzione di ciò che paga allo Stato, ma di ciò che consuma. Secondo Canard, che l'imposta sia diretta o in-
diretta, sia che essa colpisca l'una o l'altra classe sociale, che abbia l'uno o l'altro oggetto, finisce per distri-
buirsi su tutta la nazione, in modo uniforme fra produttori (venditori) e consumatori.
In questa visione che considera una sistematica e, in certo senso, automatica e indefinita redistribu-
zione dell'imposta, compatibile con la eguale o uniforme imposizione, i due distinti problemi [a) della ripar-
tizione; e b) degli effetti] fondamentali della attività finanziaria perdono la propria autonomia logica e si
confondono nell'unica soluzione. Infatti la ripartizione economica, informata a presunta eguaglianza, realiz-
za l'eguaglianza qualunque sia la ripartizione giuridica. Le divergenze, di fatto, dalla uniforme tassazione
dovuta all'operare della indefinita traslazione, vengono considerate perturbazioni transitorie, rispetto alla
condizione finale in cui ogni contribuente si troverà tassato in base alla propria ricchezza, alle proprie ven-
dite od ai propri acquisti o consumi Per quanto riguarda questi ultimi, la diminuzione dei consumi si esten-
derebbe a tutte le merci.
Basti qui rilevare che, nel quadro di questa concezione non ha importanza che preceda l'analisi dei
modi di ripartire i tributi o di ottenere le entrate a carattere tributario, dato che in definitiva l'onere reale del
processo distributivo si affida alla ripartizione economica di essi, o alle variazioni dell'equilibrio economico
più o meno estesamente inteso.
B) Da un altro punto di vista, sarebbe indifferente il far precedere il problema degli effetti economi-
ci dell'imposizione a quello dei modi giuridici e tecnici della ripartizione dei tributi. Questo è l'angolo vi-
suale pessimistico di Proudhon o di Bolles, secondo i quali per la mancanza di «una legge» o di una «regola
uniforme» per la traslazione delle imposte (infatti, alcuni contribuenti possono trasferire e altri non trasferi-
re, in tutto o in parte; su terzi, l'imposta), tutto il sistema tributario finisce nelle più grandi diseguaglianze .
In tal caso non esisterebbe legame logico, necessario fra i due problemi fondamentali [a) e b)] che
sono oggetto degli studi teorici,. Infatti, l'assenza di uniformità di oneri in tema di effetti economici o tra-
slazione o incidenza delle imposte potrebbe far divenire «ingiusto» un tributo che «al principio» sia stato
imposto equamente.
Questa ultima proposizione dei pessimisti potrebbe giustificare la illustrazione, prima («al princi-
pio»), della equità o giustizia dei modi di imposizione tributaria, e la dimostrazione, poscia, della disegua-
glianza effettiva dovuta alla incertezza del processo di traslazione dei tributi medesimi.
C) Una posizione intermedia addurrebbe, a prima vista, parimenti alla indipendenza dei due pro-
blemi fondamentali indicati nella definizione che ho dato di questa scienza: è quella di coloro che, a partire
dal Fauveau, continuatore di Cournot, scetticamente concludono che un'imposta, eguale in origine, può di-
ventare ineguale con l'andare del tempo. Il motivo è che non esistere l'eguale diffusione dei tributi; cosi co-
me è probabile che un'imposta diseguale alla fase della ripartizione giuridica può divenire eguale in sede di
ripartizione di fatto.
Intendasi indipendenza nel senso che la logica delle condizioni di fatto che presiedono alla riparti-
zione effettiva dei tributi può determinare modi di distribuzione di essi, varii, qualunque sia il criterio con-
sacrato nella legislazione.
Ma, appunto, la definitiva portata della distribuzione formale viene dimostrata anche in questa po-
sizione logica, dallo studio degli effetti dei tributi nel senso, anzitutto, della loro traslazione. Il che induce a
ritenere razionale il far seguire alla trattazione del problema dei criteri o modi ipotizzati di distribuzione
formale o giuridica, quella che analizza la effettiva ripartizione economica, pure in date condizioni immagi-
nate.
D) Secondo alcuni non dovrebbe esistere legame fra i due problemi, nel senso dello studio della di-
vergenza della ripartizione ipotetica di fatto da quella di diritto, perché tanto le intenzioni del legislatore
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quanto i fatti di incidenza possono essere variabili. Così che sarebbe miglior cosa ignorare le intenzioni de-
gli statisti (tanto più che, secondo Dalton, il legislatore, spesso, non ha presente o non avverte il problema
della traslazione).
Questa visione non è ammissibile, perché in contraddizione. Questa non consente che si prescinda
dall'intenzione del legislatore, perché: α) essa è obiettivamente consacrata, come mens legis, nel comando
giuridico che vuole che gli obbligati di diritto siano anche gli obbligati di fatto, ed occorre dimostrare la
coincidenza delle due ripartizioni; β) ovvero la supposta legge contiene l'indicazione di contribuenti di dirit-
to, a cui fa obbligo della corresponsione dei tributi (ad es. i produttori, i venditori, ecc. delle merci e dei
servizi) con la diversa e finale intenzione di colpire i consumatori delle merci e dei servizi. Occorre, allora,
dimostrare che il modo e la tecnica della ripartizione formale o giuridica sono diversi da quelle che lette-
ralmente figurano nella ipotetica legge, quando questa non preveda esplicitamente la facoltà della rivalsa
giuridica. Questa può divenire traslazione economica, o può avere luogo indipendentemente dalla concessa
facoltà legislativa, per il solo verificarsi sistematico di condizioni o circostanze propizie alla variazione dei
prezzi delle merci e dei servizi medesimi .
Scorrendo la letteratura, si tratta sistematicamente (in modo esplicito in monografie e trattati) di «o-
pinions» di legislatori e di intenzione di essi, per la ovvia necessità della interpretazione della astratta mens
legis, anche da parte dei cultori di economia finanziaria, che assumono l'intenzione del legislatore come i-
potesi di studio, attinta più o meno al concreto.
Del resto detta ammissione o ricerca, anche se non sia esplicita, emerge indirettamente, quando si
imposti il problema di chi effettivamente paga l’imposta. Questa affermazione implica inevitabilmente con-
trapposizione fra chi anticipa monetariamente il quantum dovuto per legge e chi sopporta realmente l’onere
tributario.
Altri suggerisce di accertare, attraverso lo studio dell’azione delle forze economiche, la diversità
della distribuzione effettiva, rispetto a quella che il supposto legislatore si è «proposto» di attuare; ma anche
di accertare la divergenza da quella che in apparenza risulta dalla somma pagata da ogni individuo o impre-
sa a titolo di imposta, considerando effetti ulteriori (incidenza di profitti).
Comunque la dimostrazione dell’opinione indicata all’inizio di questo paragrafo (D), contribuisce a
giustificare logicamente la precedenza che, in questo corso, si è data al problema della ripartizione dei tri-
buti, rispetto al problema degli effetti economici delle imposte, che, appunto, segue nella nostra esposizio-
ne. Qui si intende dare esplicita spiegazione della sequenza, spiegazione che quasi sempre manca anche in
scritti che seguano questo ordine logico ed espositivo.
E) Nuovi elementi si possono addurre intorno ai rapporti fra i due problemi [a) e b)] della defini-
zione qui adottata di economia della finanza pubblica.
Entrambi si possono considerare indipendentemente, individuando in essi la sola comunanza del ca-
rattere teorico. Infatti essi sono parti della scienza pura, tanto l’analisi dell’incidenza o traslazione o degli
effetti delle imposte, quanto la spiegazione logica dei modi di distribuire l’onere fiscale fra i contribuenti.
Da questo punto di vista, ad es. Edgeworth, iniziando la nota trattazione (La teoria pura dell’imposta, cit.),
ammette che la scienza della tassazione comprende due oggetti ai quali si può attribuire il carattere di teoria
pura: le leggi dell'incidenza e il principio della eguaglianza del sacrificio. Il comune carattere nasce dal pro-
cedimento logico che si è illustrato nella Introduzione a questo «corso». Ciò Edgeworth ammette iniziando
il secondo studio che concerne il «principio della giustizia tributaria».
In altri termini, in teoria pura o ragionando in astratto si può prescindere dai legami logici fra i due
momenti, della distribuzione formale o giuridica e di quella economica, procedendo indipendentemente ad
esaminare la logica (per la parte economica soprattutto):
1) che presiede alla scelta giuridica e tecnica (scienza di modi) dei tributi o delle entrate, principal-
mente tributarie;
2) che domina la ripartizione di fatto dei tributi, in base alla analisi economica, che nella scienza al-
la finanza pubblica procede per approssimazioni ulteriori (vedi Introduzione) e considera condizioni e cir-
costanze numerose e complesse, da cui può discendere la traslazione di tributi.
In breve: α) si può ragionare di effetti economici dei tributi, data una ripartizione giuridica di cui
non si voglia indagare la logica propria (modi); β) si può ragionare di ripartizione giuridica dei tributi in ba-
se a premesse, principii, postulati, ipotesi varie, supponendo data o nota la ripartizione di fatto (come caso
limite, essa coincida con quella legislativa ipotizzata); γ) si può ragionare della logica di una ripartizione di
fatto (imposta, ad es., speciale o generale sul reddito consumato) quando sia supposta come un dato l'avve-

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nuta traslazione (è il caso della traslazione di un tributo sui consumatori, che giuridicamente e tecnicamente
sia stato posto a carico di produttori commercianti, ecc. come soggetti di diritto.
Peraltro, anche ammessi questi punti di vista metodologici e convenzionali che, a rigore, consento-
no la indifferenza dell'ordine delle ipotesi e dei problemi indicati, si può dire che lo stesso fine di conoscen-
za dei fatti osservabili suggerisca di dare la precedenza, storica e logica ad un tempo, alla ripartizione for-
male. Successivamente si studierà, quindi, la sorte finale di essa alla luce dell'interferenza dei fatti econo-
mici o delle forze di questo genere, che spezzino o modifichino la prima ripartizione ipotizzata.
Questo concetto è probabilmente espresso dal Taylor (op cit), quando asserisce incidentalmente che
«la teoria finanziaria comincia con ideali di giustizia che si riflettono nella legislazione specifica».
F) Ma non direi che si tratti di problemi del tutto indipendenti, nel senso che l'equità, la giustizia,
ecc. sono concetti che, definiti, fanno da dati o da ipotesi nei ragionamenti teorici per la sola ripartizione
(modo) formale. Neppure direi che, nel caso dello studio degli effetti economici dell'imposizione, si sia fuo-
ri di questo problema di equa ripartizione soltanto perché convenzionalmente, come ho testè detto (par. D),
si possono separare i due tempi fondamentali.
Invero, si esamini ad es. una affermazione dell'Einaudi: «Un sistema d'imposta può essere conge-
gnato in maniera che la distribuzione sia considerata equa dal contribuente. Affinché l'equità sia non soltan-
to nel testo della legge, ma anche nella realtà, occorre che le imposte siano effettivamente pagate da quelle
persone alle quali il legislatore ha dato l'ordine di pagare» E continua: «Qui si presenta un altro grave pro-
blema, che non è più dell'equità, ma delle effettive conseguenze dell'imposizione. Non può darsi che un'im-
posta stabilita su una persona sia pagata da un'altra persona? Se le persone, le quali pagano effettivamente
l'imposta, sono persone diverse da quelle indicate dal legislatore, il sistema, che era equo in un primo mo-
mento, non potrà trasformarsi in un sistema completamente differente intorno a cui il giudizio potrà essere
tutto diverso?» n. 296 edizione 1940.
Orbene, questa proposizione conferma le visioni che figurano in queste pagine: e cioè che è ben ve-
ro, come Einaudi annota, che si tratta in sè di problemi diversi. Essi consistono nel potere analizzare gli ef-
fetti di un'imposta prescindendo dalle considerazioni e conclusioni intorno alla divergenza fra intenzioni del
legislatore e risultati posti in evidenza da una indagine obiettiva, economica sugli effetti economici dell'im-
posizione. Purchè sia ben chiaro che si studia, così, un aspetto del problema finanziario, come dalle parole
dello stesso Einaudi si desume.
Non diversamente il Borgata scrive: «Il giudizio che si può dare di un sistema tributario non dipen-
de solo dai principii a cui esso si ispira, ma soprattutto dai risultati che effettivamente raggiunge. Il giuoco
delle forze economiche, l'efficacia o meno dell'azione amministrativa nell'accertamento e riscossione, pos-
sono rendere i risultati concreti delle imposte assai diversi da quelli che il legislatore si è proposto; rendere
ingiusto e sperequato un sistema tributario costruito rigorosamente secondo le norme della generalità ed u-
niformità dell'imposizione. Lo studio degli effetti delle imposte è perciò assai importante, sia per l'interesse
pratico di poterne prevedere le conseguenze, sia per porre in rilievo le differenze fra la realtà tributaria e le
norme stabilite dalla legge».
Questo conferma che l'unico problema, della distribuzione delle imposte viene scientificamente af-
frontato in senso integrale: vale dire, non soltanto quando si ipotizzi l'operare di entità edonistiche (come
l'utilità) o di entità oggettive che spiegano l'eguaglianza nell'imposizione: ma anche quando si rafforzi l'ipo-
tesi di dati modi di ripartizione tenendo conto della rispondenza di essa all'ipotetico concreto, la quale vie-
ne, a sua volta, messa nella vera luce dallo studio degli effetti dell'imposizione .
Ad es.: 1) si può analizzare l'eguaglianza nell'imposizione quando la ripartizione formale ex lege
coincida con quella di fatto, quest'ultima essendo tendenzialmente illuminata dallo studio degli effetti o del-
la definitiva o reale incidenza dell'onere tributario; 2) si può pure fare l'ipotesi della eguaglianza dell'impo-
sizione sul reddito consumato attraverso l'acquisto di servizi e merci, tassati quando (prescelti formalmente
diversi modi di ripartire i tributi a carico di persone diverse dai consumatori) l'analisi teorica della traslazio-
ne dimostri che effettivamente l'ipotesi di un tributo speciale o generale sul reddito consumato risponda alla
ipotesi fatta.
Il Seligman contrappone, nel «consigliare» il legislatore, in base alla «corretta teoria dell'inciden-
za», le imposte i cui risultati si possono prevedere alquanto esattamente, indicando, da una parte, «alcune
imposte le cui probabilità di traslazione siano molto piccole» e, dall'altra, «alcune imposte che possono es-
sere completamente trasferite». «Nella prima categoria sono comprese - secondo il Seligman - alcune impo-
ste sui profitti netti di monopolio, le successioni e alcune forme di proprietà e di reddito. Nella seconda ca-
tegoria sono comprese le imposte sulle merci sotto forma di dazi di importazione, alcuni dazi di consumo e
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tasse di licenza e le imposte sui redditi lordi delle società commerciali». «Se il legislatore desidera colpire
direttamente alcune classi della società scelga il primo genere di imposte; se egli desidera che le imposte si
paghino senza che il contribuente se ne accorga, scelga il secondo. Se nè l'uno nè l'altro genere di imposte
basta alla entrata pubblica, il legislatore sarà obbligato, come avviene sovente, a rivolgersi ad imposte la cui
incidenza è più incerta e nelle quali le intenzioni del legislatore possono essere completamente frustrate dal
corso degli eventi» (op cit. pagg. 252-253).
Non interessa porre in evidenza quelli che, ad es. il Sensini229 denomina «errori manifesti» del Se-
ligman, nel riportarne il pensiero, dato che la relatività delle affermazioni del testo su citato potrà essere ap-
prezzata man mano che si studierà la casistica ipotetica, ammessa la quale alcune uniformità dello stesso
autore americano potranno essere consentite come logicamente plausibili.
Ma ciò che, secondo la visione su cui insisto in questa premessa allo studio degli effetti delle impo-
ste, mi preme rilevare, anche in queste proposizioni del Seligman è il seguente punto: e, cioè, che le ipotesi
sui modi di ripartire le imposte, in base a premesse varie, precedono, rispetto alla visione degli effetti o del-
la incidenza dei tributi, quasi a conferma o verifica della idoneità dei mezzi prescelti rispetto ai fini distribu-
tivi in sede tributaria.
Seligman sembra accorgersi di questa correlazione che intercede fra i due problemi fondamentali
[a) e b)] della mia definizione nell'ordine logico ed espositivo che qui adotto. Invero, continua, concludendo
la sua fatica come rassegna di teorie e come analisi propria del tema dell'incidenza:
«La teoria dell'incidenza ha, quindi, consigli importanti ma non decisivi, da dare nella elaborazione
d'un sistema tributario. Essa non dispensa in alcun modo dallo studio dei principii della giustizia e della e-
guaglianza tributaria. Se non si possono più sostenere nè la teoria ottimista, pessimista o agnostica dell'inci-
denza, lo studioso della finanza pubblica deve cercare di elaborare le regole di un'equa tassazione senza fi-
darsi dell'azione automatica di presunte leggi assolute. Egli deve cercare di fare una scelta di entrate pubbli-
che che soddisfino in se stesse alle esigenze dei principii della giustizia economica; nel far ciò può lasciarsi
guidare dai principii dell'incidenza ma solo da quelli che sono definiti e ben accertati. La teoria della trasla-
zione dei tributi è quindi un aiuto, ma non un sostituto alla studio della giustizia economica. Come è già sta-
to ben detto, la dottrina dell'incidenza non è nè l'arcangelo nè l'arcidiavolo della scienza della finanza» .

G) Questi cenni introduttivi intendono non solo spiegare la successione non arbitraria ma anche
quella logica dei due grandi problemi di questa scienza, quali sono stati annunciati nella definizione della
stessa.
Una prova della necessità di porre adeguatamente ed apertamente in relazione i momenti del feno-
meno, per le ipotesi che consente di elaborare, si ha leggendo quale giustificazione si da nell'opera che mas-
simamente ha destato la mia ammirazione, come costruzione scientifica. Mi riferisco ai Principii di A De
Viti De Marco. Questo Maestro fa seguire la «ripartizione giuridica dell'imposta» alla «teoria della trasla-
zione». Orbene, si consideri quale filo logico unisce le due parti: «Dalla teoria della traslazione risulta che,
a parità di altre condizioni, un'imposta eguale e generale su tutti i redditi turba l'equilibrio economico meno
di un'imposta parziale adeguatamente più alta. Questa è la base economica del principio giuridico e politico
che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge tributaria. Questo principio che risponde al sentimento
generale della società, informa anche le costituzioni politiche degli Stati moderni; ma non ha, come di rego-
la non hanno le dichiarazioni di diritti astratti ed assoluti, un contenuto concreto e positivo. Ha piuttosto il
valore di una tendenza critica e negativa, contro determinate forme storiche di esenzioni tributarie».
Non discuto queste ultime proposizioni. Se mai, la storia ha dimostrato il contrario. E, cioè, man
mano che si sono affermati, in base a ragionamenti e, più ancora, a sentimenti e impulsi dei componenti le
classi governanti, i principii di eguaglianza, e dal regime dello Stato assoluto si è passati a quello di Stato
democratico moderno, si è adattata la ripartizione tributaria alle premesse giuridiche costituzionali.
Lasciando da parte questo aspetto della visione Devitiana, interessa rilevare l'affermazione che u-
n'imposta eguale e generale su tutti i redditi turba l'equilibrio economico meno di un'imposta parziale ade-
guatamente più alta. Orbene, come ipotesi provvisoria, si può ammettere che l'imposta generale non influi-
sca direttamente sull'offerta preesistente, in quanto al variare delle domande a causa del tipo di imposta, si
avrà indirettamente un processo di adeguamento dell'offerta alla domanda. Ma questa contrapposizione è

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SENSINI, Le equazioni dell'equilibrio economico nell'ipotesi di sottrazioni di ricchezza operate dal governo, ecc.,
«Giorn. degli Econ.», agosto 1930.
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compiuta nell'ipotesi di esclusione del ragionamento sugli effetti della erogazione del provento dell'imposta
generale. E questa simultanea disamina di effetti, che è merito proprio del De Viti De Marco di avere finora
notevolmente sistematizzato, non legittima l'asserzione che detta imposta turbi l'equilibrio economico meno
di un'imposta parziale adeguatamente più alta. Il che ci dice che, per giunta, una asserzione discutibile pro-
prio nel quadro razionale, non può ritenersi che giustifichi la necessità logica di far precedere lo studio degli
effetti dell'imposta a quello della ripartizione giuridica,.
Invero, quando per un complesso di ragionamenti e di impulsi, le costituzioni prima e le legislazio-
ni speciali poi, hanno sancito la giustizia in termini di eguaglianza dei soggetti di fronte al dovere tributario,
si è pervenuti, come ho detto, ad incarnare o consacrare i principii nei modi di ripartizione dei tributi. Lo
studio successivo degli effetti degli stessi sull'equilibrio economico può consentire di far ritenere, anche di
fatto ovvero considerando le influenze o ripercussioni dei tipi di tributi, non o relativamente contraddittori
con i modi della ripartizione gli effetti relativi.
A mio parere il De Viti confonde, in un solo criterio, la eguaglianza nella ripartizione dei tributi con
l'attitudine di essa a turbare al minimo l'equilibrio economico esistente. Ma ciò che conta in questa spiega-
zione dell'ordine logico della trattazione è il riconoscimento da parte di questo Maestro che è contenuta nei
seguenti termini: «Solo dopo aver esaurito tutti i mezzi (alias modi) per evitare sperequazioni (ovvero per
ottenere l'eguaglianza), si può affidare al giuoco naturale delle forze economiche il compito di livellare
quelle residuali sperequazioni, a cui la legge non ha potuto arrivare». Il che, intanto (e contro l'ordine segui-
to nella sua esposizione, in cui precede lo studio degli effetti delle imposte e segue la ripartizione giuridica)
conferma che il prius logico e storico è la ripartizione eguale o senza sperequazioni in sede legislativa. Inol-
tre il De Viti tratta di reazione delle forze economiche «messe in moto dalla ripartizione giuridica» (pag.
135), per mettere in evidenza la divergenza o la convergenza delle situazioni di fatto che ne derivano, nei
confronti della ripartizione giuridica in base a criteri pregiudiziali di eguaglianza. Questa è, dunque, l'azione
preliminare che provoca le reazioni economiche, che sono successive o funzionalmente dipendenti.
La stessa inevitabile sequenza il De Viti De Marco aveva prospettato, dopo avere sintetizzato la te-
oria secondo i momenti tradizionali (e che io profilo sotto il principio finalistico) degli effetti delle imposte.
Invero egli perveniva, in conclusione, al seguenti «principio generale» (pag. 119): «L'azione combinata del-
le forze economiche della traslazione, della diffusione, della evasione, del consolidamento, spinge verso il
ritorno a un equilibrio dominato dalla azione di forze economiche se esso fu rotto o modificato da una con-
trastante ripartizione giuridica». Il passato remoto (adottato per la distribuzione formale o per i modi adotta-
ti dal legislatore, per procurare le entrate allo Stato o ad altro ente) e il presente (usato per il caso della rea-
zione delle forze economiche, cioè per gli effetti dell'imposizione soprattutto) spiegano non solo la priorità
logica ma anche quella temporale. Questo giustifica un ordine espositivo opposto a quello che lo stesso Au-
tore adotta nella sua avvincente ed eminente costruzione teorica.
Ciò che, soprattutto, è da affermare nel ridurre od annullare l'importanza logica del legame fra tipi
di effetti dell'imposta (generale) e siffatto modo di ripartire il tributo, è la non necessarietà del legame.
Come si è detto, l'imposizione generale ed uniforme può discendere direttamente dalla traduzione, in termi-
ni economici, della eguaglianza di doveri verso lo Stato dei membri della moderna collettività, giuridica-
mente organizzata.
Probabilmente, per il fine di evitare le contraddizioni a priori fra ripartizione di diritto e ripartizione
di fatto (ovvero fra modi di prelievo e variazioni di equilibrio e ripercussioni dei tributi), il Barone ha fatto
seguire lo studio della traslazione dei tributi alla trattazione dei principii concernenti i modi o criteri per ]a
ripartizione dei tributi. Infatti, secondo il Barone, «non si può con qualche serietà discutere di un sistema
tributario, senza sapere chi e come il tributo imposto su Tizio vada effettivamente a colpire».
Quanto precede in questi paragrafi, introduttivi su quest’ultimo tema, fa comprendere come non si
tratti di criteri alternativi ma, se mai, correlativi, allorché gli effetti delle imposte vengono posti in rapporto
con i modi o criteri della ripartizione giuridica o formale dei tributi. Adattando le parole del Rau, si potreb-
be dire: «la traslazione non può scusare un sistema ingiusto di tassazione».

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II.

I PRINCIPI DI CAUSALITÀ E DI FINALITÀ E L'IMPOSTAZIONE ATOMISTICA DEL


PROBLEMA DEGLI EFFETTI ECONOMICI DELLE IMPOSTE.

Nell'Introduzione accennando ai problemi teorici della economia della finanza pubblica e, in parti-
colare, a quello degli effetti della interferenza dello Stato, con prelievo di entrate ed erogazione di spese, si
premetteva che si sarebbe fatta applicazione dei principii atti ad inquadrare logicamente le ricerche, in linea
generale.
Si trattava: a) dei principii di causalità (in senso filosofico e non fisico), b) del determinismo e c)
del finalismo.
A) Quando si annetta, al concetto di «causa», il significato di causa efficiente, il principio di causa-
lità può servire a spiegare il perché si adotti per questo capitolo il termine generico di effetti economici
dell’imposizione o dei tributi. Ma trattandosi di applicazione alla condotta umana, la causalità si coordina o
si trasforma nel finalismo, poichè i moventi sono più idonei a spiegarla.
B) Il principio di finalità serve a fare uscire dal generico ed a far precisare più razionalmente di
quanto si sia fatto finora due modi di affrontare il problema in oggetto. Preciso che, nell'ordine di applica-
zione ai problemi di finanza, considero ragionatamente in seconda linea principio di finalità. Inoltre esso, in
rapporto alle scienze fisiche, può rappresentare la più recente visione per la spiegazione dei fenomeni.
Invero, il principio di finalità, più propriamente che quello di causalità, spiega una posizione teorica
che senza tener presente questa concezione scientifica (finalistica), è stata assunta dai cultori di economia
finanziaria, nell'impostare il problema degli effetti delle imposte, qualificato come problema di traslazione
o di incidenza.
È la posizione atomistica o individualistica, che si riferisce ai singoli soggetti passivi dell'onere tri-
butario a loro carico, posto da ipotetiche leggi o volontà di classi governanti. I singoli individui, legati a fini
edonistici, misurati da massimi edonistici od oggettivi, posti di fronte all'onere fiscale (anche al semplice
annuncio nel senso di Pigou), tendono a non allontanarsi durevolmente od a ritornare o a superare la condi-
zione di massimo.
Se il fine è la soddisfazione o felicità massima, secondo il principio di finalità, la personalità umana
è mossa da «fini» e non da «cause». Il fenomeno sintropico (così detto dai fisico-matematici) o di conver-
genza, non sperimentabile ma immaginabile, deve il suo essere al proprio fine. In altri termini, il fenomeno
è mosso dal suo «fine» (FANTAPPIÈ, cit., pag. 98), così come un fenomeno entropico, causabile o riproduci-
bile, presupponeva, secondo la scienza più antica e sperimentale, la propria «causa».
Orbene, in senso finalistico ed atomistico, quello che è stato detto effetto generico dei tributi (in ba-
se al principio di causalità efficiente) si concretizza (sotto forma di traslazione, di incidenza o di diffusione)
in fenomeno di tendenza, di cui l'economia finanziaria ha spiegato e continua a spiegare le leggi, osservan-
do ed ipotizzando la condotta o il comportamento umano o dei soggetti a cui carico si pongano i tributi di
varia specie.
Questa posizione finalistica, ovvero di tendenza a ritornare od a superare punti massimi edonistici
ed oggettivi (in termini monetari) connessi con una attività economica privata, è tendenza che il teorico
suppone operante nel dar ragione del comportamento consapevole del soggetto passivo di imposizione. Es-
sa emerge, dicevo, inconsciamente dalle trattazioni antiche e recenti in cui pur si volevano analizzare gli ef-
fetti dell'imposizione. Le due, visioni potrebbero dirsi convergenti se l'imposta ha l'effetto di indurre i sog-
getti a rivedere i calcoli edonistici. Ma questi sono dominati da tendenze a fini, come emerge da trattazioni
in cui si trovano le seguenti locuzioni:
a) i produttori «cercheranno di compensarsi» dell'imposta (che secondo alcuni aumenterebbe il co-
sto di produzione elevando il prezzo); b) una persona che paghi un'imposta cerca di sfuggire (escape from
it) ad essa, trasferendola ad altra persona; c) una persona che disponga di un dato reddito e che sia obbligata
a destinarne una parte ad imposta, deve modificare la propria condotta (tenendo presente che il prelievo im-
plica sacrificio di utilità); d) la persona che paga l'imposta, può talvolta rimborsarsene mediante un nuovo
processo di scambio che le consenta di rigettarla a carico di altre economie; e) il contribuente soffre una
percussione anche quando ricorre ad aumento di produzione, e i sacrifici possono essere inerenti al paga-

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mento definitivo dell'imposta; f) il contribuente su cui si sia trasferito l'onere dell'imposta oltre a quello per-
cosso dall'imposta, tende «a liberarsi» dell'onere fiscale trasferendo su altri il tributo; g) si ha traslazione
quando «un individuo riesce a trasferire» su di un altro, in tutto o in parte, l'onere dell'imposta pagata; h) se
il tributo importa un aumento considerevole ognuno tenterà di respingerlo intorno a sè; gli individui cerca-
no nuove relazioni e la condotta economica che assicurino loro, tenuto conto dell'intervento dell'imposta,
ancora il massimo utile, ecc. ecc.
Questo florilegio di concetti giustifica il punto di vista logico finalistico, nell'impostazione del pro-
blema della ripartizione, di fatto, dei tributi. E dimostra l'esistenza di motivi o moventi, che prendono il po-
sto delle cause, nell'indurre il soggetto ad agire nel senso di ristabilire o superare una condizione di massi-
mo utile, benessere o soddisfazione espressa in termini edonistici.
La tendenza a questo fine di ritorno al conseguimento o di superamento di un massimo in termini
soggettivi od oggettivi, spiega perché una visione del fenomeno finanziario abbia fatto da tempo distinguere
i seguenti momenti dell'azione finalistica suddetta. Questi, seguendo l’impostazione di tipo Seligman-
Pantaleoni, i momenti della reazione atomistica dei singoli individui al fatto tributario sono:
a) Percussione dell'imposta, come stato penoso al solo annuncio o quando si abbia l'individuazione
dei soggetti passivi in via formale o legislativa. Da qui scaturisce la condotta del soggetto, che tende ad evi-
tare il sacrificio che deriva dalla sottrazione di una quantità da un reddito disponibile, percepibile od otteni-
bile in misura diversa senza l'onere tributario. Esso può tradursi in aumento di costi o in riduzione di reddi-
to, come modi che lo stesso soggetto può ritenere equivalenti.
b) Traslazione è il processo con cui il soggetto percosso gira il tributo: 1) a carico immediatamente
di altro contribuente; 2) oppure attraverso una serie di scambi, attraverso variazioni delle ragioni relative o
di prezzi, a carico indiretto di terza persona. In definitiva questa terza sopporta la sottrazione di ricchezza
corrispondente al prelievo operato dallo Stato od altro ente pubblico autorizzato al prelievo tributario.
Si dice, invece, ripercussione il momento in cui, a traslazione avvenuta (aumento di prezzo), c’è va-
riazione delle quantità di un bene, che entrerà nel calcolo economico del soggetto giuridicamente debitore.
c) Incidenza è il momento che caratterizza lo stato penoso o il sacrificio, soprattutto in termini mo-
netari, sopportato dalla persona che non riesca nell'intento di trasferire ulteriormente il tributo.
Una ulteriore specificazione della circolazione (per traslazione) dell'onere tributario, prima della in-
cidenza di esso, ha fatto distinguere i seguenti tipi di tentativi o il senso o l'orientamento della condotta dei
soggetti per trasferire su terzi l'onere tributario:
α) traslazione progressiva verticale (di cui si ha esempio nel tentativo del produttore della merce
tassata di far ricadere l'onere sul consumatore);
β) traslazione progressiva obliqua (quando la traslazione, ad es., opera dal produttore della merce
tassata al consumatore di merce non colpita dal tributo ipotizzato);
γ) traslazione regressiva (ad es. da parte di un produttore di merce tassata, a carico dei fornitori dei
fattori necessari alla produzione della stessa merce).
Seguendo la tradizione, ricordo altri momenti, successivi a quello (c) dell'incidenza.
d) Diffusione è la conseguenza, sul mercato, del comportamento del contribuente inciso che restrin-
ge ad es. i consumi attuali tendendo ad assicurarsi quelli più utili, futuri (con riduzione di prezzi, redditi e
consumi dei suoi fornitori); ovvero, se la reazione di chi non voglia rinunciare alla soddisfazione massima
compatibile con il reddito attuale, menomato dall'imposta, consiste nel mantenere costante il consumo at-
tuale riducendo pro-rata, il risparmio. La minore offerta di esso si tradurrà in aumento del tasso di interesse
e dei costi di produzione di quanti facciano domanda di detto bene strumentale.
e) Rimozione (come fatto tipicamente finalistico) è il caso del soggetto inciso dall'imposta, il quale
tenda a ricuperare almeno in parte la condizione di massimo goduta prima dell'incidenza. Un aumento di
sforzi produttivi, ad es., può costituire un modo di rimuovere almeno parzialmente l'onere fiscale che abbia
fatto allontanare il soggetto dalla somma di reddito percepito o di soddisfazioni godute prima dell'inciden-
za.
f) Ammortamento o consolidamento dell'imposta sul reddito è la valore attuale dell’imposta mede-
sima, di cui diminuisce il valore del capitale, in seguito alla tassazione. Considerato anche un modo di esse-
re della traslazione regressiva, è il caso del compratore che ponga a carico del venditore un'imposta nuova,
capitalizzandone l'importo annuo al tasso corrente dell'interesse. Tendenza, quindi, ad ottenere un dato e
corrente reddito netto dal bene acquistato. Il termine “ammortamento” vuole dire, precisamente, che
l’imposta “muore”, ossia si paga da se stessa attraverso incorporazione nel capitale.

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Altri vuole che sia questo un modo di essere della diffusione come conseguenza di incidenza già
avvenuta o prevista per il futuro.
g) Evasione è il momento in cui il soggetto contravviene al comando legislativo di pagare
l’imposta.
E’ invece elisione il momento in cui il soggetto, modificando, senza compiere infrazione fiscale, la
propria condotta, rinuncia al compimento di atti di produzione, di consumo, ecc., tendendo, così, a sottrarsi
all'onere tributario.

Nell'esporre questa catalogazione di momenti in cui si specifica il fatto della modificazione della
condotta dei contribuenti, atomisticamente considerati, in sede finalistica e volontaristica, occorre ammette-
re che: a) o non si è tenuto conto, nel bilancio di oneri e vantaggi della destinazione data dallo Stato, attra-
verso la spesa pubblica, alle somme prelevate a titolo tributario; b) ovvero detto bilancio, tenuto conto dei
vantaggi diretti o indiretti della spesa pubblica, si sia chiuso negativamente per il soggetto (230); così che
questi per la duplice azione del prelievo subito e del vantaggio acquistato per il consumo dei servizi pubbli-
ci o per l'utilizzazione della spesa pubblica, trovi peggiorata la propria condizione di beneficiario di un
massimo di utile oggettivo o di soddisfazioni soggettive, preesistente alla interferenza del fatto finanziario
complesso; c) il soggetto ne profitti per superare il massimo anteriormente raggiunto.
Questa non è la visione degli autori che introdussero la sequenza dei momenti in cui si è articolata
la visione degli effetti delle imposte; ma di ciò si dirà in seguito.

III.

IL PRINCIPIO DETERMINISTICO E LA SUA IMPOSTAZIONE


SECONDO L'EQUILIBRIO ECONOMICO GENERALE.

C) Consideriamo la visione degli effetti delle imposte nel quadro logico deterministico. Questo
consiste nel fatto che un soggetto è condizionato dal sistema economico generale, di cui è solo un “atomo”,
ossia una piccola parte. Di conseguenza egli è da esso convogliato, in parte (tanto o poco: dipende dalla
forza degli eventi) verso soluzioni in qualche modo obbligate.
Questo punto di vista viene a contrapporsi, di massima, a quello atomistico, in cui l'azione ragiona-
ta, o cosciente e finalistica del soggetto (contribuente) è al centro della disamina dei fatti provocati dallo
Stato nel prelevare ed erogare le entrate tributarie, «vincolo» tipico e preminente nella attività finanziaria.
Il fenomeno concreto, che si presuppone nella logica deterministica, è «di massa», e riguarda l'inte-
ro equilibrio economico. «Consideriamo un mercato, una collettività, un sistema, ecc.» è l'espressione con
cui ha inizio il citato saggio del Sensini. L'influenza dell'introduzione dell'imposta allontana il sistema dal
punto di equilibrio, di cui si studiano le relazioni valide, ipotizzata l'attività finanziaria statale come forza
perturbatrice.
Una perturbazione del sistema, prodotta da un elemento, deve apparire gradualmente, attraverso a-
zioni e reazioni, in tutto il sistema, per usare l'espressione di Cournot a cui si è riconosciuto il merito di ave-
re per primo rigorosamente concepito la interdipendenza generale, sistemata, poi, notoriamente dal Walras.
Ma il concetto matematico, meccanico di equilibrio, in Walras non fa venir meno il metodo di trat-
tazione causale teoretico, coesistente e compatibile con la visione dell'interdipendenza funzionale. È vero
che la legge vitale del sistema dei bisogni del singolo sussiste ancora: ma opera attraverso un processo di
adattamento delle disposizioni economiche degli individui a condizioni (e prezzi) che si determinano sul
mercato anche all'infuori della loro deliberazione volontaristica.
Questa visione diviene più rigida nella concezione del Pareto, nel cui schema esiste una interdipen-
denza reciproca, in contrapposizione rispetto a quello di teorie che si propongono di ricercare «la causa»
__________
(230) Vedi la mia posizione esposta nel 1931, che evita la critica (peraltro da me non condivisa) che molti rivolgono
al De Viti De Marco allorché egli ammette che, «in teoria pura bisogna dire che è diminuito» il costo di produzione in
seguito ad un aumento dell'imposta (E D' ALBERGO, «Giornale degli Economisti», dicembre 1931).
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dei fenomeni. La teoria dell'economia pura, nell'ordine logico della mutua dipendenza delle quantità consi-
derate, da una nozione sintetica dell'equilibrio economico.
Nella visione atomistica e causale, come in quella finalistica, lo scambio è la circostanza che, nelle
nuove condizioni di mercato determinate dall'imposta, consente al soggetto percosso come contribuente di
trasferire e far incidere su terzi soggetti l'onere della imposta, liberandosene almeno in parte.
Nella visione deterministica dell'equilibrio economico generale, statico, in regime di concorrenza
libera (perfetta) i prezzi vengono considerati come dati e come costanti per tutti gli atti di scambio, ma i
prezzi sono quantità incognite: così che gli individui accettano i prezzi esistenti sul mercato, «senza fare
nessun tentativo di influire su di essi». E ciascun soggetto proseguirà negli scambi parziali, successivi, della
propria merce con quella domandata. Ciò va avanti fin tanto che il soggetto raggiunga il punto di equilibrio
caratterizzato notoriamente dal livellamento per le parti scambiate delle utilità marginali. Naturalmente nel-
lo scambio di più merci l'offerta e la domanda di ciascuna singola merce dipendono dai prezzi di tutte le al-
tre.
Come si svolge la distribuzione dell'imposta sul mercato da questo punto di vista? Possiamo riferir-
ci agli effetti dell'imposizione in generale o all’analisi della modificazione dell'equilibrio economico, causa-
ta dal fatto tributario (prelievo di reddito dai bilanci individuali e destinazione del provento ad uso diverso,
da parte dello Stato).
Di essa ho considerato antesignano Ricardo, per un passo dei Principii (che conferma in modo più
efficace il pensiero contenuto nella Risposta alle osservazioni del sig Bosanquet), in cui ho trovato questo
pensiero indicativo di un ordine logico:
«Se un'imposta quantunque grave, ricade sul reddito e non sul capitale, non diminuisce la domanda,
ma ne altera la natura. Permette al governo di consumare tanta parte di prodotto della terra e del lavoro,
quanto prima ne consumavano gli individui che contribuiscono alle imposte. Se il mio reddito è di 1000 an-
nue ed io sono tenuto a pagare 100 di imposta (allo Stato) non potrò domandare che nove decimi della
quantità delle merci che consumavo quando non esisteva l'imposta. Ma con quel decimo che io pago, trasfe-
risco in lui la potenza di domandare l'altro decimo delle merci. Se l'oggetto tassato è il grano, non sarà ne-
cessario che la mia domanda di grano scemi perché posso contentarmi di erogare 100 l'anno di più per il
grano diminuendo di altrettanto la mia spesa per il vino ed altri oggetti di lusso. Meno capitale sarà adope-
rato nella produzione dei vini e in quella dei mobili, ma più ne sarà adoperato nella manifattura di quegli
oggetti in cui le imposte dal governo levate si spenderanno».
Idee affini assai U. Ricci ha rilevato nei Principii di Canard («Revue d'Econ. Pol.», Parigi, 1932).
Il Fasiani ha trovato in Messedaglia idee simili. Altri ha rintracciato visioni analoghe estere (231).
Col Borgatta concordo nel ritenere che Wicksell, a pag. 13 della traduzione italiana, nella «Nuova Collana
di Economisti» abbia avuto questa visione, anche se meno precisamente enunciata: «Può ben darsi che lo
Stato, come consumatore di merci o di servizi personali, o come produttore, eserciti un certo influsso sul-
l'offerta e sulla domanda rimanenti, e così anche sulla incidenza delle imposte».
Ma è ormai sistematico il riferimento a De Viti De Marco, per la presentazione degli effetti delle
imposte (egli dice della traslazione) in uno schema che è di tipo deterministico, quale è proprio della visio-
ne dell'equilibrio economico generale.
«Si deve supporre (scrive a pag. 120) che si sia raggiunto, prima dell'imposta, un punto di equili-
brio, cioè un sistema di prezzi intorno a cui si siano eguagliate le domande e le offerte di tutti i beni».
«Il problema della traslazione consiste nell'indagare se l'imposta, per se stessa (cioè astraendo dal-
l'azione di altre forze) modifica detto equilibrio, in modo da produrre aumento di alcuni prezzi e ribasso di
altri. Poiché in questo caso, si avranno sempre fenomeni di traslazione» .
Dopo una esposizione di tipo Ricardiano, De Viti enuncia alcune proposizioni che servono a far ve-
dere in quale schema logico deterministico egli si muovesse e che spossiamo dire di tipo Paretiano.
«L'effetto immediato e necessario dell'imposta è che essa varia le precedenti curve di domanda dei
beni privati, per parte dei contribuenti e per parte dello Stato. E perciò la nuova direzione della domanda dei
contribuenti e dello Stato è il solo fatto necessario, che rompe il precedente equilibrio. Ciò implica varia-
zioni nel precedente sistema di prezzi in più e in meno; e, quindi, in tutti i casi si avranno fenomeni di tra-

__________
(231) V Signorelli riproduce brani significativi di G A R HELFERICH, nella monografia «Problemi teorici sugli effetti
dell'imposta in rapporto alla spesa pubblica», Firenze, Da Vita 1951.
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slazione, sia che l'imposta colpisca egualmente tutti o solo parte dei cittadini, sia che i produttori si trovino
in condizione di monopolio o di libera concorrenza».
«I produttori dei beni di cui è cresciuta la domanda ed è cresciuto il prezzo ripercuotono l'imposta;
gli altri la subiscono».
«A questo primo periodo succede immediatamente quello della nuova distribuzione dei servizi pro-
duttori, per riadattare (corsivo mio) le offerte alle nuove curve di domanda».
«È in questo secondo momento, che entrano in azione i produttori, i quali, aumentando l'offerta dei
beni di cui è cresciuta là domanda e contraendo l'offerta dei beni di cui è scemata la domanda, raggiungono
il nuovo equilibrio caratterizzato dal livellamento dei loro profitti».
Questo processo verso il nuovo equilibrio, o verso il ritorno al vecchio equilibrio, viene poi esami-
nato dal De Viti, con riferimento a quelli che denomina «i due casi fondamentali del valore»: quello della
libera concorrenza e quello del monopolio.
In questa visione si afferma lo schema deterministico. Io contrappongo questa visione a quella fina-
listica e causale di tendenza, cioè, dei soggetti economici ad agire «a causa» dell'imposta e «in vista» (mo-
venti) della o per la aspirazione a raggiungere una condizione di massimo benessere (ofelimità o utile mo-
netario).Infatti, nello schema deterministico, come si è visto, vi è adattamento degli individui alle condizio-
ni che si determinano sul mercato, per la mutualità dei rapporti di dipendenza influenzati dal fatto finanzia-
rio complesso (prelievo e spesa).
E’ De Viti De Marco, che adotta il termine «riadattare» per riferirsi ai produttori che tengono conto
delle curve di domanda e subiscono, con esse, i prezzi, e non agiscono di propria iniziativa per elevare i
prezzi, come potrebbe ammettersi in una visione finalistica o causale.
Va posta in questi termini la contrapposizione fra gli schemi che riguardano la traslazione e gli ef-
fetti economici dell'imposizione e della spesa pubblica. Tanto più che, come si è visto, proprio Ricardo, il
principe dei classici nella visione degli effetti economici delle imposte, aveva ben chiara la visione delle
modificazioni dell'equilibrio generale in funzione del complesso fenomeno finanziario e in senso determini-
stico.
Non a caso adotto l'espressione «effetti economici dell'imposizione», in questo secondo schema e
non ricordo i momenti (percussione, traslazione o ripercussione, incidenza, diffusione, rimozione, ecc.) del-
l'imposizione.
Ho rilevato, a suo tempo, che, adottando lo schema dell'equilibrio economico, deterministico, a fini
di coerenza euristica, non è logico riferirsi ai momenti che sono conciliabili, come ora mi esprimo anche,
con lo schema basato sul principio di causalità o finalistico. In particolare, trattandosi di problema di grado,
nelle modificazioni o vibrazioni dell'equilibrio economico; è già appropriato attenersi al concetto di effetti,
appunto graduati, (di 1°, 2°, 3°, ecc. grado) delle imposte.
Questa esigenza logica, che enuncio in questo «corso»; non si riferisce solo alla visione del De Viti
De Marco, ma è applicabile alle impostazioni di massima anche di Wicksell, Messedaglia, Barone, Sensini,
Borgatta, Dalton, di tipo Ricardiano.
Ho sostenuto232 che il «momento» della diffusione (come tutti quelli del contrapposto schema ato-
mistico: percussione, ecc.) non è logicamente compatibile con l'adozione dello schema deterministico che
sinteticamente abbraccia l'intero fenomeno degli effetti prodotti dall'imposizione.
Da questo punto di vista ultimo si ha variazione teoricamente di tutte le curve di domanda ed offer-
ta, in aderenza al rapporto di interdipendenza delle quantità economiche.
Volendo appena indicare le variazioni di domanda determinate dall'interferenza dello Stato, che
prelevi e spenda una parte della ricchezza di un mercato, si può dire che le modificazioni interessino: 1) le
curve rappresentative della domanda (nuova) dello Stato; 2) quelle dei privati, che vedono crescere i propri
redditi per effetto della maggior domanda di beni e servizi da parte dello Stato, se si ipotizza un incremento
marginale di imposizione (e spesa); 3) quelle dei fornitori di questi ultimi; 4) quelle dei contribuenti che ab-
biano sostanzialmente pagato, senza rivalersene su terzi, l'imposta allo Stato, in quanto sia diminuita la do-
manda (pubblica e privata) dei loro rispettivi beni e servizi e in conseguenza siano scemati i redditi corri-
spondenti; 5) quelle dei privati i quali, come fornitori dei precedenti, vedano diminuire i propri redditi in
dipendenza della restrizione dei consumi privati, e così via.

__________
232
D'ALBERGO E, La funzione della banca e gli effetti economici dell'imposizione, «Rivista Bancaria», 1936; A pro-
posito di «diffusione dell'imposta», «Riv. di dir. Fin. e scienza delle finanze», 1937.
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Le variazioni delle curve di offerta, per adattamenti a quelle di domanda, terranno conto, mutua-
mente collegate, di queste indicative variazioni delle curve di domanda. Orbene: se si fa l'ipotesi (la quale
risponde, attriti esclusi, peraltro, al fenomeno reale) di una quasi simultanea realizzazione di siffatte varia-
zioni di curve di domanda e di offerta, in conseguenza del compresso fatto finanziario, si trova che esse so-
no relative a fenomeni di percussione o annuncio di percussione (effetto rilevato dal Pigou), traslazione, in-
cidenza, diffusione e, in generale, alle influenze dirette e indirette del prelievo e della spesa da parte dello
Stato.
Si comprende come sia logica, quindi, l'adozione dei termini «effetti di 1°, 2°, 3°…grado», come
atti a rispecchiare la visione deterministica che, per un aspetto (sintesi) è più prossima al fenomeno concre-
to. Non si concilia, cioè, la specificazione dei momenti degli effetti dell'imposizione, del paragrafo prece-
dente, con lo schema di massa, deterministico, che si è contrapposto a quello atomistico del precedente pa-
ragrafo (233).

IV.

NECESSITÀ LOGICA DELLO STUDIO COLLEGATO


DEGLI I EFFETTI DI PRELIEVO E SPESA DELLE IMPOSTE.

I) Si è fatto riferimento alla simultaneità od al concorso necessario dei due fatti (prelievo e spesa
pubblica) che modificano inevitabilmente l'equilibrio economico, in modo intuitivo.
__________
(233) Del resto quella che sembra una limpida esposizione che pur figurerà in queste lezioni di «momenti» ben distin-
ti si presta a confusione, come ho rilevato nei citati scritti. E’ capitato di rilevare, infatti, che:
1) si identifica uno dei «procedimenti della diffusione (ed anche dell'incidenza) ipotesi dell'imposta, da altri autori
considerata a parte;
2) si possono comprendere fra gli effetti della diffusione (ed anche dell'incidenza) ipotesi attinenti alla traslazione,
così come è vista dal Pantaleoni e seguaci o dal gruppo Ricardo (Mill) -Messedaglia - Wicksell -De Viti De Marco.
Ciò traspare oltre che dagli esempi addotti dal Griziotti per indicare casi di diffusione, dall'ammissione dell'autore,
frutto per altro, di acute osservazioni: potersi notare dei fenomeni di ripercussioni degli effetti della diffusione anche
nei movimenti determinati dalla diffusione dell'imposta, fenomeni che il Griziotti vorrebbe tener distinti dai processi
di traslazione in senso stretto. Tale confusione non hanno potuto evitare altri autori che hanno ritenuto potersi trasferi-
re l'imposta generale sul reddito attraverso i fenomeni di traslazione che sono«effetto della diffusione» dell'imposta
medesima;
3) si può ritenere che la traslazione sia un fenomeno eventuale che può avvenire solo in determinate condizioni, lad-
dove la diffusione «è un fenomeno necessariamente conseguenziale ad ogni imposta», come afferma il De Viti, senza
una ragione, secondo me, plausibile. Basta considerare l'impostazione deterministica, sintetica, più approssimata per
questo al fenomeno concreto, che il De Viti De Marco e gli autori precedenti, che si possono considerare sullo stesso
ordine di idee, hanno dato al processo di «traslazione» dell'imposta, per rilevare come esso sia un fatto necessario o
inevitabile conseguenza della rottura dell’equilibrio economico dovuta al prelievo ed alla erogazione dell'imposta;
4) La confusione di effetti della ripercussione e della incidenza è prevista dal Fubinì (op. cit., parte II, cap. I e II;
parte V, cap. V), che pure ammette il termine di diffusione nel significato di effetto dell'incidenza. Infatti l' A., in sotti-
li indagini, ritiene che la differenza fra traslazione e diffusione si attenui sino a scomparire: a) se si tien conto che la
traslazione non s'opera tutta ad un tratto, ma solo dopo che sia trascorso un certo periodo per cui, nel frattempo, l'eco-
nomia percossa è anche incisa; e che (siccome gli uomini agiscono sempre in base e previsioni sul futuro) la diffusione
è conseguenza, non necessariamente di una incidenza già avvenuta, ma spesso di una incidenza prevista (o temuta) per
il futuro; b) se si considera la diffusione effetto di una reazione della domanda, ed a lungo andare, si pensa alla com-
penetrazione finale, tendenziale dell'imposta in tutte le categorie di prezzi del mercato. Concezione questa che a me
sembra vicina all'impostazione del problema che rispettivamente Wicksell e De Viti De Marco denominano, sinteti-
camente, incidenza e traslazione dell'imposta.
Anche per un rigore di coerenza nello schema deterministico, quindi non sembrano corretti, in teoria pura, i termini
correnti, compreso quello della diffusione; ritengo conveniente, non tanto per una preoccupazione terminologica, ma
per ragioni di logica economica o dal punto di vista scientifico, di limitare la indicazione delle ripercussioni dell'au-
mento o dell'introduzione dell'imposta al termine letterariamente Einaudiano di effetti dell'imposta con l'aggiunta della
specificazione di grado che figura nel testo.
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È l'idea fatta risalire a Canard, il quale vedeva la modificazione dell'equilibrio economico, attraver-
so la redistribuzione degli impieghi in tutto il mercato per il fatto finanziario o per la ricerca di un livello di
profitti da parte dei produttori, non intaccato dall'imposta.
È l'idea, come si è visto, poi enunciata chiaramente da Ricardo e sviluppata da altri autori e in parti-
colare dal De Viti De Marco a cui si è fatto riferimento, precipuamente.
Il De Viti De Marco afferma che «in nessuno caso l'effetto immediato dell'imposta è di modificare
l'offerta preesistente di beni», aggiungendo che lo Stato si presenterà sul mercato per domandare non gli
stessi beni che i contribuenti domandavano prima dell'imposta. «Se costoro impiegavano il 10% del proprio
reddito in acquisto di stoffe, di alimenti, di lavoro manuale, lo Stato li impiegherà ad es. in acquisto di ferro,
armi, di munizioni e di lavoro intellettuale». E il concetto viene ulteriormente affermato con le parole: «È
indifferente che lo Stato spenda bene o male l'imposta, ma è necessario e sufficiente che la spenda diversa-
mente di come facevano i contribuenti».
In Ricardo si trova l'ammissione della possibilità che lo Stato consumi gli stessi beni che consuma-
vano i contribuenti prima dell'imposta. Ma diverso sarebbe l'uso delle merci, in quanto destinate a consumo
da parte dello Stato e non più dei privati. Se l'esempio non tradisce il pensiero, una parte dell’offerta di gra-
no può essere sottratta alla domanda privata e trasferita allo Stato che la userà per alimentare truppe per la
difesa militare. Si ha in tal caso domanda della stessa merce che prima consumavano i privati, ma essa vie-
ne destinata ad uso pubblico in quanto consumata da soggetti che soddisfano, attraverso l'organizzazione
statale, un bisogno pubblico. Nel caso storico si è verificato che, nell'es. del grano, se ne trasferisse il con-
sumo a persone (soldati) che, quando erano consumatori privati non ne consumavano o non se ne alimenta-
vano nelle stesse proporzioni, dato l'uso di succedanei, nel periodo anteriore. Ciò dicasi di altri beni diretti
simili od eguali a quelli che i privati consumavano prima dell'imposta e che lo Stato, attraverso i suoi orga-
ni, consuma successivamente al prelievo dell'imposta.
Solo una interpretazione forse arbitraria delle ultime espressioni su citate del De Viti De Marco (es-
sere «necessario e sufficiente che lo Stato spenda diversamente di come facevano i contribuenti») potrebbe
far individuare nella diversità della spesa, divergenza di uso degli stessi beni (oltre che differenziazione
qualitativa dei beni oggetto di nuove curve di domanda). E, invero, la ragione per la quale verosimilmente
il De Viti De Marco ha sottolineato la diversità dell'oggetto della domanda, consiste nel far presente che,
nella divisione del lavoro fra privato e pubblico, si avrà specializzazione nella azione dei privati e in quella
dello Stato, la quale non sorgerebbe se dovesse essere identica all'opera anteriore dei privati e prima dell'in-
tervento statale.
Da questo aspetto convenzionale deve avere ragionato Ricardo, in via di analisi, avendo già dimo-
strato di avere la piena visione delle variazioni dell'equilibrio economico dovute al fatto fiscale, come sinte-
si, allorché attuava la separazione dello studio degli effetti del prelievo da quello degli effetti della spesa
statale.
L'ipotesi (secondo cui detto comportamento del soggetto tassato sia in relazione soltanto con il pre-
lievo tributario) potrebbe spiegare gli impulsi e non la condotta razionale, che qui interessa, di un soggetto;
potrebbe riferirsi se mai (introducendo il fattore tempo) ad effetti di un primo tempo, contrapposti agli effet-
ti di un secondo tempo, (quando, cioè si siano avuti gli effetti, per il singolo, della spesa pubblica in servizi
offerti alla collettività e goduti anche dal singolo).
A rigore, l'edonista che compia coerentemente azioni logiche tenderà (spiegazione causale e finali-
stica) a trasferire il tributo, se il bilancio di costi e vantaggi, di sacrifici e di utilità, dia, per ipotesi, un saldo
negativo, riducendo redditi e godimenti.
Soltanto ragionando in prima approssimazione al concreto o di fenomeni di primo tempo e per co-
modità di analisi si può restringere lo studio a quella che sarebbe, dal punto di vista causale e finalistico, la
condotta o il comportamento del soggetto percosso dall'imposizione.
Nel 1932 (Intorno al concetto di costo della attività finanziaria, cit.), scrivevo: «Allorché si proce-
de ad un aumento di imposta, il soggetto che giudica di tale aumento di imposta è lo Stato; e così anche nel
caso di introduzione di una nuova imposta. Quando tale valutazione coincide con quella dei contribuenti
colpiti, può dirsi teoricamente che l'imposta faccia diminuire (può lasciarlo immutato) il costo di produzio-
ne, mentre lo faccia aumentare allorché lo Stato preleva l'imposta e questa non costituisca per i singoli il
prezzo che essi avrebbero liberamente pagato per compensare servizi che, a loro giudizio, ne agevolino l'at-
tività produttrice».
Dal punto di vista atomistico, orientandosi secondo principii di causalità e di finalismo, una indagi-
ne che pretenda di approssimarsi al fenomeno concreto non può, senza contraddizione con i fatti, prescinde-
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re dal considerare anche gli effetti della spesa pubblica. È significativa da questo punto di vista la posizione
di Cournot, che spiegava la condotta razionale del monopolista, tendente a difendere la propria posizione di
soggetto che abbia raggiunto, prima dell'imposta, la condizione di massimo utile monetario. Nel delineare i
limiti della sua indagine, quell'egregio autore asseriva: «Non esaminiamo adesso gli effetti di un tal prelievo
sulla distribuzione dei prodotti della natura e del lavoro, quantunque questo sia l'oggetto finale dei problemi
che hanno relazione con la teorica delle ricchezze».
Se ciò è vero nel caso dello schema atomistico illustrato dianzi, a maggior ragione è oziosa ed erro-
nea la discussione allorché si pretenda di prescindere dagli effetti della spesa pubblica, pur abbracciando
con la ricerca il fenomeno di massa, nell'insieme.
Invero, non appena si enunci la proposizione che «lo Stato modifica l'equilibrio economico con la
propria attività», non è consentito - come argomentare coerente e logico - l'ipotizzare che si esaminino sol-
tanto gli effetti, sull'equilibrio medesimo, del prelievo tributario.
Il riferimento all'equilibrio economico non si rintraccia soltanto nelle opere in cui gli autori abbiano
inteso far capo alle poche quantità che figurano nello schema degli equilibri particolari di tipo Marshallia-
no, bensì in molti scritti in cui si accenna esplicitamente o in modo implicito all'equilibrio generale.
Enunciato questo concetto, nella adesione al modello teorico di tipo Walras-Pareto, lo si adotta in
quanto esso «abbracciando simultaneamente tutti i fatti essenziali del mondo economico, ne mostra l'inter-
dipendenza». Ho voluto riferirmi ad una interpretazione autentica del Pareto, in cui si pensa ai fatti essen-
ziali.
Il Barone, interprete dello schema Paretiano, conferma che «in sostanza, nella sua più ampia gene-
ralità, il problema della traslazione è il problema della variazione di tutte le quantità economiche dell'equi-
librio per effetto di un'imposta». Apparentemente sembra che Barone si riferisca al solo prelievo, stando al-
la dizione citata (Principii, cit. pag. 271). Ma subito dopo (nota di pag. 276 e pag. 280) precisa, nel solco
logico di Ricardo, De Viti, ecc.: «…il fatto dell'imposta se diminuisce la domanda di prodotti dei singoli,
determina però una domanda di prodotti dell'ente che percepisca l'imposta, ecc. ecc.». Il che è quanto dire
che la spesa pubblica è fattore essenziale dell'equilibrio, per spiegare come nel complesso, ad es., la produ-
zione non sia diminuita ma possa anche venire stimolata dall'imposta.
Anche se ha voluto distinguere fra problemi relativi alla «prima fase» delle variazioni dell'equili-
brio e problemi dell'equilibrio permanente definitivo (seconda fase), il Borgatta (negli Appunti, Giuffrè,
1933) precisa: «Mentre nei primi può tenersi conto solo delle più dirette ripercussioni economiche, nello
studio dei secondi non può spesso prescindersi dagli effetti prodotti dall'impiego dell’imposta da parte del-
l'ente pubblico».
Ammonisce Pareto (Manuale, pag. 143) che i fatti oggettivi sono moltissimi e fra loro in parte di-
pendenti. Per semplificare il problema, suggerisce di ridurlo, come si è visto, agli elementi principali ed es-
senziali.
A mio avviso, la semplificazione può consistere: 1) nel prescindere dagli effetti della spesa; 2) nel
trattare separatamente i due aspetti dell'unico problema delle variazioni che l'attività finanziaria determina
sull'equilibrio economico.
Qualunque estensione si dia alla visione delle variazioni che si determinano sul mercato, è da af-
fermare che, in ogni caso, lo schema deterministico permane un modo comprensivo di interpretare il feno-
meno. Per tornare all'esempio del grano, anche ammesso che lo Stato domandi la stessa quantità che, prima
del proprio interferire, domandavano i privati, il fatto che l'uso sia diverso non è indifferente per le ripercus-
sioni sull'equilibrio economico (ossia che il grano vada ad alimentare in una data quantità il lavoro applica-
to alla produzione privata o che una stessa quantità vada destinata ad alimentare lavoro impiegato nella
produzione dei servizi pubblici).
Sono spesso oziose, quando non erronee, le discussioni sulla cosiddetta l'ipotesi dell'«imposta gran-
dine», enunciata dall'Einaudi nel senso «che l'imposta come la grandine senza costo e senza compenso per
gli uomini porta via i frutti della terra».
L'ipotesi che il prelievo di imposte costituisca perdita secca per la società, è errore se si pretende di
considerare vera l'erronea asserzione di origine fisiocratica, che le funzioni statali si risolvono in attività
improduttiva di utilità. Concezione, questa, ormai superata dall'evoluzione teorica.
Del pari può essere erronea la visione che l'imposta comunque si risolva in aumento del costo di
produzione, se non si ritiene di avere spiegato, con ciò, i fenomeni soltanto nei quali detto risultato può ipo-
tizzarsi. Il che può ammettersi per altra via: ovvero come risultato definitivo o come somma algebrica di ef-

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fetti negativi (prelievo) e positivi (vantaggi della spesa) nei confronti di singoli contribuenti, sia che si ra-
gioni in termini obiettivi e monetari; sia che si ragioni in termini soggettivi di utilità.

II) Incidenza. Preciso ulteriormente il concetto di incidenza delle imposte, a seguito di un processo
di traslazione.
Incidenza è l'onere che realmente, definitivamente, («real» o «final burden» degli anglosassoni) va
a ridurre il reddito, il profitto, il valore capitale, ecc. di un componente la collettività.
Orbene, non è logicamente conoscibile detta posizione di soggetti incisi, se il processo di traslazio-
ne non lo si considera nella sua integrità, come si è in precedenza chiarito. Prelievo e spesa statale, oneri e
vantaggi transitori corrispondenti debbono essere presi in considerazione per arrivare al calcolo dell'inci-
denza finale, a carico di singoli o gruppi di soggetti. Così, prevenendo quasi mezzo secolo di discussioni in
proposito, Jannaccone234 aveva sostenuto: “è logicamente necessario procedere ad un bilancio globale, at-
traverso un confronto fra due momenti: a) quello anteriore alla tassazione; b) quello successivo”.
Questo chiarimento è necessario perché occorre distinguere fra traslazione dell'ammontare dell'im-
posta, come giuridicamente è concepita e ripercussione - anche a traslazione avvenuta di detto ammontare
fissato dalla ipotetica legge tributaria. Questa è la variazione delle quantità che entravano nel calcolo eco-
nomico del soggetto prescelto come debitore del tributo. È in definitiva la posizione di redditiere, di sogget-
to che poteva ottenere, consumare, ecc. un dato reddito nel momento anteriore all'imposizione e nel mo-
mento successivo, che sostanzialmente decide della effettiva o reale incidenza dell'imposta.
Vedremo più oltre come non sia indifferente per un produttore ( ad es. di merce soggetta ad imposta
commisurata alle quantità prodotte) il fatto che la traslazione di essa possa avvenire integralmente, attraver-
so l'aumento del prezzo di vendita nella misura dell'ammontare dell'imposta. Ma se tale traslazione ha luogo
per una quantità minore di quella che, in vista di una data redditività industriale era stata fissata dall'im-
prenditore prima della tassazione del prodotto (proporzionale alla quantità venduta), il produttore può risen-
tire di una perdita di profitto o di utile normale. Invero, oltre ad esaminare se e in qual misura l'imposta va-
da a carico del consumatore, è necessario conoscere le ripercussioni sui costi e su altri aspetti della combi-
nazione produttiva preesistente. Ciò va fatto per appurare oneri per l'impresa determinati dal genere di im-
posizione supposto. Si tratta di oneri in termini di minor reddito o utile o profitto. Pertanto, per avere un bi-
lancio globale, occorre conoscere anche l'eventuale utilizzazione della spesa pubblica da parte della stessa
impresa. Nel caso specifico, ciò avviene attraverso erogazione di spesa pubblica in premi di produzione a
favore dell'industria di cui si tassi il prodotto, in vista della imposizione del reddito dei consumatori, appun-
to a mezzo di un procedimento traslativo.

V.

CONTRAPPOSIZIONE TRA LO SCHEMA “ATOMISTICO” E


QUELLO DETERMINISTICO, IN TERMINI QUANTITATIVI.

Per chiarire sia l'idea della contrapposizione degli schemi (rispettivamente, atomistico e di mas-
sa),ne do una illustrazione geometrica e quantitativa.
I) Dal punto di vista atomistico, A), ammesso che l'imposta, per il solo fatto del prelievo, si risolva
in aumento di costi di produzione o in diminuzione di utili degli imprenditori, la conseguenza è che questi
ultimi tendono a trasferirla su terzi soggetti, a loro legati da rapporti di scambio.

__________
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JANNACCONE P., La Riforma Sociale, 1902.
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Se si fa l'ipotesi di un'imposta proporzionale alle quantità prodotte, si immagina che essa si risolva
in aumento del costo di produzione, supposto crescente, CC', in modo che esso si innalzi dell'ammontate
dell'imposta tP'. Questa variazione si può supporre, per gli effetti sulla quantità offerta, equivalente ad un
abbassamento della domanda DD' al livello dd', col prezzo tQ' al netto dell'imposta tP'. Si avrà, allora, una
contrazione della quantità prodotta da OQ ad OQ'; il prezzo salirà da PQ a P'Q'; il produttore limita la per-
dita di profitto o di rendita alla differenza fra i due triangoli PCM e P'cN. Questo (P'cN), nell'ipotesi d'equi-
valenza su avanzata (di aumento di costo o di riduzione della domanda e del prezzo al netto d'imposta), do-
vrebbe risultare eguale al triangolo tCe.
Una perdita pari a Pps - Csk si avrebbe nel caso di offerta immutata,con tutta l'imposta a carico del
contribuente che non reagisca ad essa. Il consumatore subisce, in parte, l'onere dell'imposta, perché la curva
di domanda DD' consente bensì al contribuente di tendere a riversare l'aumento del costo, sul consumatore,
ma non tutto. Infatti l'andamento supposto della curva di domanda, concede, appunto, al prezzo i aumenta-
re, ma di t'P', cioè meno dell'ammontare tP' dell'imposta.
Il consumatore acquista una minore quantità (OQ' minore di,OQ) e vede ridursi la propria rendita
(di consumatore) da DPM a DP'N. Lo Stato incassa l'importo tP'Ne, di cui, in questo schema atomistico, si
rinuncia da molti studiosi a considerare la destinazione, proprio quando sarebbe necessario tenerne conto
per poter appurare teoricamente se si debba considerare come onere reale o definitivo quello costituito dalla
diminuzione dell'utile (PCM - p'cN) che abbia ad es. natura di rendita in ipotesi di concorrenza imperfetta.
Del pari non si può dire se la riduzione della soddisfazione del consumatore (perdita della rendita, come ta-
le) sia definitiva, se non si sa quale impiego si faccia della parte di potere di acquisto che si è tolta anche al
consumatore, che ha visto l'incidenza parziale a suo carico, in termini di maggior prezzo, minor quantità
acquistata e di correlativa minore rendita espressa edonisticamente nel senso di minor soddisfazione risenti-
ta nell'acquistare la merce.
Bastano questi cenni per far comprendere come soltanto quale ipotesi provvisoria ovvero per co-
modità di studio o in via di prima approssimazione si possa ammettere che il fatto tributario possa agire o-
rientando, secondo l'esempio geometrico, la condotta, in questo caso, di produttore e consumatore e, in ge-
nere, dei soggetti legati da rapporti di scambio, i quali vengano influenzati dal solo prelievo del tributo. An-
che rimanendo nel limitato campo atomistico di singoli contribuenti che obbediscano all'imperativo della
coscienza di edonisti, mossa da cause e moventi, occorre completare lo schema tenendo conto dell'uso che
fa lo Stato del provento qui pari a tP'Ne.
L'emigrazione dei produttori dal campo tassato verso altri esenti o meno colpiti da tributo, non tra-
sferimento dei capitali investiti, secondo Seligman (il quale si basava sulle ipotesi per cui l'imposta si tradu-
ce in aumento del costo di produzione) avverrebbe a causa di imposta parziale della quale i produttori cer-
cherebbero di compensarsi elevando il prezzo: non riuscendovi tutti, qualcuno essendo al margine, qualora,
appunto, si escluda la supposizione della domanda rigida o priva di alcun grado di elasticità, od essendo i
profitti ridotti, la produzione della merce diminuirebbe.
Ciò che avverrebbe in questo schema monco della realtà, piuttosto che conseguenza di una visione
scarsamente approssimata di essa, è frutto di definizione del valore (qui prezzo) presso i classici, che lo i-
dentificavano con il costo di produzione. Invero, poiché l'attenzione dei classici si concentrava sull'offerta
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(data la definizione di valore determinato dal costo di produzione), in tale visione era inconcepibile che il
prezzo non compensi il maggior costo dovuto all'imposta. Se ne deduceva la redistribuzione o il trasferi-
mento dei produttori da un campo all'altro della produzione, per l'intervento di imposta che non sia estesa a
tutti i settori produttivi.
Per contro, la redistribuzione dei capitali e delle iniziative fra le varie industrie e in generale fra le
varie forme di attività, nello schema che consideri anche le modificazioni delle curve di domanda, ha luogo
per gli adattamenti dell'offerta determinati dalla interferenza della attività finanziaria che riguardi prelievi e
spese pubbliche. Come si vede nel grafico, imprenditori possono abbandonare campi di produzione a cui
non si rivolga la domanda nuova od aggiuntiva statale o da cui si allontani quella privata in seguito ad in-
tervento finanziario dello Stato; e viceversa altri possono affluire a campi di attività su cui si concentri il
potere d'acquisto redistribuito dalla medesima attività statale direttamente o attraverso le modificazioni del-
le curve di utilità e di domanda dei privati.

Ma i due modi di creare trasformazioni di impieghi di capitali e di lavoro, che qui si contrappongo-
no, rispondono a due punti di vista teorici. Di essi il primo si impernia sulla definizione di valore influenza-
to dall'offerta e, ciò premesso, sulla tendenza dei soggetti a liberarsi del fatto negativo di ordine causale
(aumento del costo di produzione) che riduca l'utile normale, la rendita o il profitto, che si suppone siano
massimi prima dell'introduzione dell'imposta .
Il secondo, più aderente alla realtà, considerando variazioni dell'equilibrio economico generale, in-
troduce logicamente gli adattamenti dell'offerta alle condizioni della domanda creata dalla complessa attivi-
tà statale. Ne derivano l’afflusso di nuove iniziative e di impieghi aggiunti, e il deflusso di esistenti iniziati-
ve e di impieghi da campi negletti per il giuoco delle forze economiche suddette, messe in moto dalla inter-
ferenza statale.
Dunque non può criticarsi la redistribuzione degli impieghi di capitali, vista dai classici, in sé. Ma
questo avviene per la ristretta ragione che l'avrebbe determinata, secondo quei teorici del valore: cioè l’aver
considerato solo il prelievo tributario. Per contro, più ampie ammissioni ipotetiche odierne spiegano e legit-
timano la redistribuzione di impieghi in funzione di profitti ridotti ed accresciuti dal fatto finanziario.

II) Passo, quindi, a profilare graficamente l'impostazione che è ben più atta a spiegare il fenomeno
secondo lo schema deterministico. Esso, infatti, abbraccia teoricamente tutte le variazioni che crea sul mer-
cato l'attività finanziaria, nella sua complessa visione di prelievo e spesa di proventi tributari.
Per dare un'idea approssimativa del senso in cui dovrebbe considerarsi l'intero fenomeno degli ef-
fetti dell'imposizione, sull'equilibrio economico, mi limito a considerare due merci e a due corrispondenti
rapporti di scambio e supponendo, poi, estensibile il ragionamento all'intero mercato, per contrapporre i
due schemi. Ipotizzo che il contribuente si adatti alle variazioni di circostanze economiche, che si determi-
nano necessariamente per la modificazione dei rapporti quantitativi già in equilibrio prima del complesso
fatto tributario.
Si ripeta, all'incirca, il ragionamento esposto nel caso che precede, supponendo che esso valga nei
confronti della merce A. Ciò che dobbiamo aggiungere è la considerazione della destinazione della quantità
di potere d'acquisto pari a tP'Nc nell'ipotesi che lo Stato non acquisti la stessa merce A.
[Se lo Stato acquista la stessa merce (nell'esempio A), non solo si dimostra, come ho già dianzi as-
serito, che in ogni caso l'equilibrio economico non è quello esistente anteriormente all'imposta; ma che l'uti-
le del produttore di A può essere prossimo a quello che si aveva prima dell'imposizione o anche superiore e
comunque maggiore di quello che si era ritenuto discendere dall'ipotesi che precede: di rinuncia a conside-
rare l'erogazione del provento da parte dello Stato. Per questa dimostrazione, che pure è intuitiva ed ovvia,
rimando al Borgatta (Finanza della guerra, cit.)].
In via deterministica, come si è detto, non è legittimo neanche come ipotesi di studio, a rigore (dato
che essa contrasta con la definizione di equilibrio economico, supposto turbato dal tributo) immaginare che
il problema si risolva nella disamina della distribuzione del solo onere dovuto a prelievo dei tributi, anche
se, come ho ricordato, il Sensini, ad es., ha tracciato le equazioni del sistema influenzato dal solo fatto pre-
detto.
Per dare una prima idea del senso in cui si esamina e si risolve il problema degli effetti economici
dell'imposizione sull'equilibrio economico deterministicamente, in sede statica o con annullamento della
successione temporale dei fenomeni, ritorniamo alla prima visione e la complichiamo supponendo che la
somma etP'N, introitata dallo Stato, venga erogata nell'acquisto di altro bene: ad es. B.
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Ciò equivale a supporre che si innalzi la curva di domanda di B, perché nuovo potere di acquisto
consente di far ritenere, sul mercato, accettabili più elevati prezzi per il prodotto B, ipotizzato come oggetto
di domanda aggiuntiva (statale) rispetto a quella privata anteriore. Ipotizziamo, anche, che non diminuisca
la domanda, dei privati, del bene B, potendosi ritenere che si modifichi, in conseguenza dell'imposta prele-
vata sul bene A, quella dei beni C,D,E,F ecc., offerti simultaneamente sul mercato, per la modificazione ne-
cessaria dei rapporti di sostituzione che intercorre fra di essi.
La quantità che, in via aggiuntiva, lo Stato può acquistare di B è dipendente dal potere di acquisto
pari all'area etP'N, che può trasferirsi da A in quella rsvzwh della figura che indica quanto concerne il bene
B: cioè deve ritenersi la spesa statale espressa geometricamente dall'area rsvzwh, equivalente a quella etP'N
che esprime il provento della tassazione del bene A.
Si rileva che, a differenza di quanto si potrebbe ammettere limitandosi a considerare il solo prelievo
tributario l'imposta (che per i privati può tradursi in riduzione di quantità offerta e di prezzi netti da imposta
- nell'esempio tt', e di profitti o rendite di alcuni soggetti) si trasforma, necessariamente (al di sopra della
volontà dei soggetti, che possono adattare le proprie offerte alle condizioni che si determinano, loro mal-
grado, sul mercato per l'interferenza della attività finanziaria) nei seguenti effetti:
a) aumento di prezzo da wh a Zv per i privati, al netto da imposta (che si suppone non agente nei
confronti del bene B, per semplificare);
b) aumento della quantità offerta di B da Ow a Oz;
c) aumento dell'utile (normale profitto o rendita, a seconda delle condizioni di concorrenza perfetta,
monopolio o concorrenza imperfetta, ecc.) del produttore da ghr a gvs.

In altri termini, dalla redistribuzione di domande ed offerte di privati e dello Stato, si cominciano ad
individuare, considerando simultaneamente prelievo e spesa dell'imposta, effetti molteplici. Questi sono an-
cora più complessi ove si considerino gradi ulteriori di traslazione come variazioni dell'equilibrio economi-
co, che abbraccia n merci e non i due soli beni (A e B).
Come figura nella Introduzione, nel caso dell'offerta l'equazione sintetica, che è riferibile implici-
tamente ad n merci:
pa + ∆ pa = T + Ca(pc + ∆ pc) + La(pl + ∆ pl)

si presta a far intuire tutte le variazioni che nel campo dell'offerta o della produzione, nell'intero
mercato, si produrranno, quando si supponga l'interferenza del fattore tributario T, come avente per oggetto
sia la fase logica del prelievo sia quella della erogazione del tributo.

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VI.

SPIEGAZIONE DELLE CORRENTI SEMPLIFICAZIONI


DELLO STUDIO DEGLI EFFETTI DELLE IMPOSTE

Per una approssimazione al concreto ci avvaliamo di uno schema comprensivo, generale, atto ad
abbracciare in extenso la realtà che ci interessa, l'intero mercato, un sistema economico tipico. Da questo
punto di vista il criterio più coerente di abbordare il problema è quello (di Walras e poi del Pareto) dell'e-
quilibrio economico generale e della interdipendenza fra le quantità in esso legate da vincoli che altri (ad es.
J. Fisher) ha ritenuto paragonabile alla concezione della gravitazione universale di Newton.
L’utilizzazione dello spirito di detto schema per lo studio del fenomeno finanziario, da parte del De
Viti De Marco e di altri autori, merita grande apprezzamento. Talché le critiche e i rilievi che sono apparsi
nei confronti della trattazione Devitiana (di Fubini, Fasiani, Clark, ecc.), quando siano appropriati e interes-
santi, possono considerarsi o come chiarimenti o come opera di bulino nei confronti della costruzione delle
colonne dell'edificio logico, che ha avuto inizio, come ho ricordato, con le intuizioni di Canard, Ricardo ed
altri precursori del nostro Maestro.
Ciò premesso, si dovrebbe anche dire, con J. R. Hicks (che pure apprezza e adotta lo schema dell'e-
quilibrio generale) che esso dàl'idea di una certa sterilità, in quanto offre «un quadro dell'intero sistema, ma
un quadro troppo distante».
Ciò si può dire dello schema Walrasio-Paretiano, eminentemente statico, a cui non si può negare il
gran merito di consentire una razionale ed estensiva visione di insieme. Ma gli stessi seguaci, ad es. italiani,
dello schema dell'equilibrio economico, dal Barone al Borgatta, hanno considerato lo studio degli effetti
dell'imposizione, come problema di dinamica economica.
«L'imposta rappresenta una variazione, ossia intervento di nuove condizioni in un dato sistema eco-
nomico». «…Un trattamento rigoroso del problema degli effetti delle imposte potrebbe farsi solo basandosi
sulle leggi generali della dinamica economica»; «…Essi dovrebbero consistere nelle differenze che presen-
tano le equazioni dell'equilibrio finale (che si raggiunge quando si siano svolte tutte le ripercussioni dirette
e indirette di cui un tributo è suscettibile) in confronto di quello iniziale (quale esisteva prima della applica-
zione dell'imposta)».
Questo spiegava ai suoi allievi, negli il Borgatta235 nel 1933 e confermava236 nel 1939, precisando
che nella definizione del nuovo equilibrio economico «è necessario tener conto delle trasformazioni che la
ricchezza prelevata con l'imposta subisce attraverso la destinazione a beni e servizi pubblici e degli effetti
che in questo modo produce sulla ricchezza privata e sul reddito nazionale».
Del pari, Barone (Principii, cit.), che ha dato mirabili trattazioni anche sullo schema dell'equilibrio
economico generale, ha ammesso che «nella sua più ampia generalità, il problema della traslazione è il pro-
blema delle variazioni di tutte le quantità dell'equilibrio economico», dopo avere classificato il problema
medesimo «di dinamica economica»: «si tratta di indagare il nuovo equilibrio quando quello esistente ven-
ga alterato da un'imposta».
Ma entrambi i due seguaci dello schema Walrasio-Paretiano, lo abbandonano nel passare alla anali-
si (Borgatta) «degli adattamenti e modificazioni» a cui l'imposta «obbliga gli individui», «per cercare le
nuove relazioni e la nuova condotta che assicurino loro, tenuto conto dell'intervento dell'imposta, ancora un
massimo utile».
Poiché la dinamica non consente «il trattamento di problemi relativamente particolari di questo ge-
nere», Borgatta ammette che «dobbiamo accontentarci di approssimazioni alquanto generiche, ottenute
semplificando, in modo spesso arbitrario, il problema, pur considerandolo come un problema di dinamica».
«Per potere essere studiato nelle sue ripercussioni, il fatto finanziario viene isolato dalle altre con-
dizioni dell'equilibrio concreto, riportandolo alla situazione iniziale in cui il tributo non esisteva, e facendo
emergere le variazioni che ne sono derivate», (Appunti, cit.).

__________
235
BORGATTA G., Appunti cit. …
236
BORGATTA G., «Studi in onore di G Pacchioni», Giuffrè, riferito alla sua Economia dinamica, del 1915)
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Il Borgatta annuncia che «altra restrizione si adotta generalmente in queste indagini: in esse si stu-
diano le conseguenze dell'imposta, considerandola solo nel suo aspetto di prelievo dall'economia privata;
non si tien conto delle modificazioni che contemporaneamente in questa produce l'impiego dell'imposta
prelevata». Mentre cerca giustificazioni per questa seconda restrizione, riconosce che «in certi casi tale ipo-
tesi non può ammettersi senza inficiare tutta l'indagine» (pp. 327-29).
A sua volta, Barone confessa che «se enunciare il problema in tutta la sua generalità è facile, non è
altrettanto facile condurlo a compimento». «Nè l'utilità pratica – egli continua - sarebbe ragguagliata all'e-
norme fatica». «Infatti le variazioni generali dell'equilibrio, che sono conseguenza di un'imposta, s'intrec-
ciano - quando si considerino periodi lunghi ed effetti remoti - con altre più importanti variazioni, che sono
quelle dovute ai dati dell'equilibrio (gusti, capitali disponibili, stato della tecnica, ecc.). Essi sono quei dati,
la cui variabilità nel tempo costituisce la dinamica del mercato».
Così che il Barone ritiene che abbia «scarso valore pratico» lo spingere l'indagine sugli effetti eco-
nomici di un'imposta a periodi molto lunghi, convenendo «che l'indagine si limiti alla constatazione degli
effetti più o meno immediati, cioè sia contenuta in quei limiti di tempo nei quali quei dati dell'equilibrio,
appunto, si possono ragionevolmente supporre come invariati».
Dopo questa limitazione nel tempo, il Barone enuncia una «restrizione nell'estensione dell'indagi-
ne». «L'imposta ha per effetto, in verità, di far variare non soltanto quel prezzo sul quale essa direttamente
influisce, ma - in linea teorica almeno - anche tutti gli altri. Ma come queste variazioni di tutti gli altri prez-
zi, a cagione della viscosità e degli attriti del mercato, non avvengono che dopo lunghi periodi di tempo du-
rante i quali variano frattanto i dati dell'equilibrio, si comprende come sia opportuna, per gli effetti pratici,
limitare l'indagine allo studio della variazione di quel prezzo soltanto, sul quale l'imposta influisce diretta-
mente». Pur così limitato nel tempo e nell'estensione, il problema gli sembra tutt'altro che semplice e facile
(Principii, cit., 271-73).
Anche De Viti De Marco spiega il perché (dopo avere enunciato l'ampio schema della «traslazio-
ne») nello studiare le forze di attrito che si incontrano, nel tempo (nel processo di riaggiustamento od adat-
tamento della offerta alla domanda), si scenda in una casistica che obbliga razionalmente alla analisi, avva-
lendosi del ceteris paribus. Così che egli ammette lo studio analitico anche della condotta «del monopoli-
sta» come produttore, e del consumatore, abbandonando, per necessità o comodità di studio, lo schema del-
l'equilibrio generale nel cui spirito vive la sua concezione, che qui si considera come tipica. Peraltro il De
Viti ricorre meno all'arbitrio denunciato dal Borgatta, che consiste nel non tener conto degli effetti della
spesa statale, arbitrio che ricorre in molte indagini, come discutibile ipotesi di studio, quando questo pre-
tenda di approssimarsi molto ai fatti.
Anche in più moderne indagini di dinamica economica che intendono abbracciare le leggi di oscil-
lazione dell'intero sistema economico (macrodinamica), il fatto finanziario viene confuso con altre varia-
zioni delle quantità considerate: ho altrove indicato le ragioni della preferenza per la microdinamica, come
studio schematico di equilibri particolari ed uso della clausola del ceteris paribus, che non è compatibile
con la visione rigida dell'equilibrio economico generale.
È un altro modo di avvicinarsi alla realtà. Lo schema generale dell'equilibrio economico l'abbraccia
in estensione; quello degli equilibri particolari o parziali vi si approssima in profondità.
Del pari, i principii di causalità, di finalità, deterministico e probabilistico, concorreranno come vie
logiche, dove e quando apparirà logicamente congruo, a fornire le vie maestre per la spiegazione dei fatti
che passiamo ad esaminare in questa parte del corso.
Faccio notare, infine, come tutte queste avvertenze e considerazioni che introducono allo studio de-
gli effetti delle imposte non abbiano reso affatto necessario un riferimento a contrapposti tipi di Stato. Vin-
coli e attriti riguarderanno, come vedremo, tipi di relazioni, dominanti e ipotizzabili sul mercato, diversa-
mente regolato o diretto. Invero:
a) presso tutti i tipi di Stato si avranno, in sede atomistica, come ipotesi, soggetti tendenti a condi-
zione di massimo edonistico individuale, ovvero a tornare a detta condizione quanto da essa li allontani l'at-
tività finanziaria statale complessivamente considerata.
Può l'interferenza statale, a seconda degli ideali propugnati e diffusi o propagandati dalla classe go-
vernante, modificare, nell'ambito della visione del benessere collettivo, anche la posizione psichica dei sin-
goli, nella formulazione di correlati massimi edonistici individuali. Ma tutto ciò appartiene alla formazione
della coscienza dei singoli ed influenza le preferenze dei soggetti o le loro scelte. Poi avvenute che esse sia-
no, l'economia finanziaria (qualunque configurazione si dia e qualunque contenuto assoluto si conferisca
dai singoli alle condizioni di massimo a cui essi tendano in sede edonistica) parte da esse, per esaminare at-
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traverso quale condotta razionale i soggetti (privati di una quota di reddito o di potere d'acquisto, o avvan-
taggiati come produttori o consumatori di ricchezza) reagiscano agli effetti di prelievi e spese pubbliche sul-
le condizioni della economia individuale.
In altri termini, il principio causale o quello finalistico illuminano lo studio delle reazioni dei singo-
li di fronte a perturbazione (che non è escluso sia propizia alla ascensione dei singoli nel campo delle sod-
disfazioni, verso un massimo dal valore assoluto superiore a quello anteriore) quale essa è creata nell'equi-
librio individuale dall'attività finanziaria.
In questo studio si può ovviamente prescindere dai tipi di Stato, non potendosi dimostrare legame
necessario con questa condizione estranea al problema. Interessa, per contro, l'orizzonte economico nel cui
ambito opera il singolo, come insieme di condizioni che siano conseguenza dell'esistenza ipotetica di un da-
to Stato.
b) La stessa esclusione, a maggior ragione, inoltre, deve logicamente affermarsi nei confronti della
visione dello studio degli effetti delle imposte (e della spesa pubblica) come analisi delle variazioni dell'e-
quilibrio economico turbato, nell'intero mercato, dalla attività finanziaria. Qualunque sia il tipo di Stato, per
necessità razionale ogni prelievo di ricchezza ed ogni erogazione di spesa deve modificare le relazioni
quantitative preesistenti. E questa perturbazione di precedenti rapporti va considerata in funzione dei vinco-
li che caratterizzano l'ambiente economico, con differenze di grado e di specie, prescindendo dai caratteri
costituzionali sia pure ideali o astrattamente tipici dello Stato e dalle scelte connesse delle rispettive classi
governanti ipotizzate.

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CAPITOLO X.

ANALISI DEGLI EFFETTI DELLA ATTIVITÀ FINANZIARIA.

I.

PRECEDENZA ALLA CONFIGURAZIONE


DI CONCORRENZA «PURA» O «PERFETTA».

Nella analisi seguente si terrà conto in modo sistematico delle ipotesi riguardanti:
I) condizioni dell'offerta di beni e servizi:
a) concorrenza pura o perfetta,
b) monopolio puro o totale,
c) monopolio parziale,
d) concorrenza monopolistica,
e) monopolio bilaterale,
f) altre condizioni dell'offerta (elasticità della curva, andamento ipotetico dei costi crescenti o de-
crescenti, in brevi e lunghi periodi, ecc.);
II) condizioni della domanda:
a) gradi di elasticità delle curve (di punti, archi, ecc.),
b) domanda di beni complementari,
c) di beni succedanei,
d) di beni «inferiori» e «superiori»;
III) tipo di imposte:
a) fisse (come spese generali),
b) fisse unitariamente per quantità prodotte,
c) proporzionali al prezzo (ad valorem),
d) proporzionali sul reddito o sui «profitti»,
e) particolari o generali;
IV) rapporti di scambio:
a) vertenti su beni finiti (output), specialmente nella traslazione progressiva;
b) vertenti su servizi produttori (input) specialmente nella traslazione regressiva.
Questa presentazione prospettica delle ipotesi di studio, tratte in gran parte da fenomenica tipica del
concreto, non intende risultare esauriente neanche rispetto a quanto sarà esaminato in questa edizione del
corso di lezioni, in cui sarà fatta considerazione, pure, simultaneamente, del prelievo e dell’erogazione del
provento.
La prima condizione che qui si prende in considerazione è l'organizzazione di un particolare merca-
to, che si suppone caratterizzata da condizioni di concorrenza perfetta (altri dice «pura» e «libera», nel si-
gnificato che si chiarisce oltre).
Le ragioni per le quali si inizia l'analisi con la condizione di concorrenza perfetta, sono di diverso
ordine:
a) storico, nel senso, Cartesiano della assunzione delle ipotesi dai fatti;
b) razionale, essendo la concorrenza una delle componenti dell'eclettico fenomeno concreto.

a) Si è affermato nella Introduzione che le ipotesi che si assumono possono o meno essere tratte dal
concreto passato, attuale o probabilmente futuro.
Orbene, coloro che ritengono come «duty» o compito dello studioso la spiegazione del sistema eco-
nomico e suggeriscono di assumere la «pura» concorrenza ( «pura» perchè esula ogni elemento di monopo-
lio), appaiono preoccupati di tener conto della cronaca in cui si rispecchiano i caratteri più frequenti del si-
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stema economico. Ad es., il Chamberlin237, proponendosi di illustrare la concorrenza (che, di fatti, raramen-
te è esente da elementi di monopolio), assumeva come «punto di partenza» la «pura» concorrenza, studian-
do la genesi del prezzo in tale ipotesi e in quella di monopolio totale, per passare alla disamina, appunto,
della concorrenza monopolistica, come più frequente in pratica.
Circa vent'anni dopo, in una serie di conferenze sullo stesso tema tenute in università europee238, ha
voluto, fra l'altro, dire come reimposterebbe la trattazione, e ha concluso che sostituirebbe l'ipotesi di «pu-
ra» concorrenza con quella della concorrenza monopolistica, come base per analizzare l'intero sistema eco-
nomico.
Sempre dal lato del legame fra teoria e fatti, esso non può che seguire lo sviluppo storico. E sebbe-
ne sia divenuto un caso particolare quello della concorrenza «pura» o perfetta, occorre dare la priorità a
questa ipotesi che rispecchiò una situazione una volta dominante in concreto.
Invero, abbiamo letto in Amoroso239, eminente teorico, che «la concorrenza, che un secolo fa ( al
tempo di Ricardo) poteva apparire come la configurazione verso cui tendeva l'universo economico, anche
essa va diventando, oggi, sempre più, un'eccezione». Del pari Samuelson incalza asserendo che «la più gran
parte della vita moderna si svolge sotto il prevalere della concorrenza monopolistica» (in Economics, cit.); e
Jane Aubert240 conclude affermando che l'elemento del monopolio (non il monopolio totale) «costituisce la
regola e la concorrenza l'eccezione». Mi limito a poche citazioni significative.
Però, lo stesso Amoroso trova il caso di concorrenza «perfetta», o della produzione polverizzata,
non atto ad influenzare il prezzo del mercato, corrispondente grosso modo a «quello che domina ancor oggi
in agricoltura e nell'artigianato». Ciò egli scrive, dopo aver ricordato che dette condizioni furono una realtà
nel periodo in cui sorse e si affermò la grande industria. E lo stesso Samuelson (a pag. 491 di Economics,
cit.) trova una corrispondenza fra ipotesi di «perfetta» concorrenza, e condizioni della agricoltura ristretta a
«pochi settori» di questa attività.
Inoltre, in un accreditato volume, il Boulding241 ritiene la concorrenza «perfetta» operante presso il
mercato dei titoli (borsa-valori) e di alcune merci (fa l'esempio dei cotoni, a pag. 51).
Questi pochi riferimenti, che vengono in mente fra i tanti, servono ad attestare una corrispondenza
fra visioni di teorici in tema di ipotesi idonee ad interpretare il concreto idealizzato o semplificato e feno-
meni storici che, in passato ed anche oggi, si ritengono spiegabili con l'ipotesi della concorrenza «pura» e
«perfetta».
Naturalmente una ricca serie di citazioni potrebbe proporsi anche per suffragare l'idea che il mono-
polio puro o totale è ipotesi a cui rispondono «rari» casi concreti. Ciò vale specialmente nella odierna eco-
nomia di mercato. Chamberlin (Economica, cit.), dato che non si può escludere il sopravvenire di beni suc-
cedanei o surrogati di quello oggetto di eventuale monopolio «puro» o totale e in tal caso non può aversi la
sicurezza di controllare integralmente il mercato. Per contro il puro monopolio richiede la possibilità di
controllare tutti i beni economici. Il che gli pare «concepibile nel solo caso di socialismo di Stato».
Quindi, poiché i fatti nell'ordine anzitutto considerati dagli economisti (agricoltura, artigianato,
prima fase della grande industria, commercio di titoli mobiliari, di materie prime, ecc.) corrisposero o corri-
spondono, grosso modo al concreto di ieri o di oggi, dal lato storicistico si può iniziare la trattazione con
l'introduzione ipotetica della condizione di concorrenza «pura» o perfetta.
b) Interessa anche considerare il lato razionale del problema. Mi riferisco, ancora, a Chamberlin che
nello scritto appena apparso si proporrebbe di rivoluzionare la sua esposizione, dando la precedenza alla
concorrenza monopolistica e non più alla concorrenza perfetta, seguita dal monopolio puro e da casi inter-
medi ipotetici.
Invero, sia che si spieghi la concorrenza monopolistica (come «fusione», «amalgama», combina-
zione di forze e corrispondenti teorie della concorrenza «pura» e del monopolio «puro»), sia che si contrap-
ponga ad essa la concorrenza imperfetta (come «dicotomia» di teorie, ancora separate e non fuse, della con-
correnza e del monopolio), ciò che dal lato razionale occorre ammettere è la priorità logica della esistenza
delle forze elementari o degli elementi ipotetici. Invero, prima che si possa profilare l'ipotesi della concor-
renza monopolistica (come caso composto o combinazione o come miscuglio di condizioni od ipotesi), è
__________
237
CHAMBERLIN, The Theory of monopolistic competition, Cambridge, Mass. 1933.
238
Si vegga il testo in Economica, nov. 1951.
239
AMOROSO L., Principii di economia corporativa, Zanichelli, 1938.
240
AUBERT JANE, «La courbe de l'offre» (Press. Univ.res. de France, 1949, pag. 30.
241
BOULDING, Economic Analysis, Harper e Brothers, New York, 1948.
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necessario conoscere gli elementi primi da cui derivano le situazioni economiche complesse, che sono state
qualificate analogicamente richiamandosi alla chimica.
Altri autori, come Chamberlin si riferiscono direttamente alla ipotesi di concorrenza monopolistica
e imperfetta, ma inevitabilmente lo fanno ponendo in evidenza concorrenza e monopolio. La Robinson242,
dopo avere riferito il pensiero di Sraffa (il quale suggeriva di iniziare la teoria del valore partendo dal con-
cetto dell'impresa come monopolista), ammetteva la necessità di prendere a prestito «la tecnica marginale
dai capitoli sulla concorrenza dei vecchi manuali, adattati ai nuovi fini» (pag. 6).
Questa esigenza è stata espressa da altro punto di vista dal Demaria243 , dopo avere considerato il
regime di concorrenza perfetta un caso-limite, a cui gli economisti hanno fatto riferimento, tra l’altro, «per-
ché tale modello teorico si presta egregiamente a formulare leggi dei fenomeni reali, in quanto, conosciuta
la configurazione di equilibrio ideale, i fatti della realtà economica possono essere interpretati come devia-
zioni più o meno vicine dallo schema perfetto». (Di «deviazioni» dall'equilibrio di «pura» concorrenza, trat-
tava proprio Chamberlin, nel 1933, prima dell'atteggiamento «rivoluzionario», metodologicamente, assunto
nel 1951).
Per concludere queste avvertenze, l'esigenza storica e logica dell'inizio dello studio degli effetti del-
l'imposizione tributaria (partendo dalla condizione della concorrenza «pura» o «perfetta»), sembra suffi-
cientemente giustificata con quanto ho premesso, per render ragione al lettore dei motivi soprattutto razio-
nali della distribuzione della materia in queste lezioni.
Ho fatto uso, per aderire alle dizioni correnti, delle espressioni concorrenza «pura», «perfetta», lo-
cuzioni a cui si soleva, specialmente in passato, affiancare quella di «libera» concorrenza.

Caratteri specifici della concorrenza perfetta:


α) Infine mi riferisco al significato di «libera» concorrenza, che si allaccia alla tipica indicazione di
modi e gradi di intervento vincolante dello Stato nel campo economico, quale figura nel citato cap XI della
Introduzione di questo corso.
Secondo alcuni, la libera concorrenza esprime la soppressione di privilegi e monopoli concessi e di-
fesi dallo Stato. Libertà sarebbe intesa come uguaglianza di principio delle posizioni nella lotta economica.
Altri svolge il concetto, nel senso che libera concorrenza significhi assenza di interventi vincolanti
dello Stato, di altri enti o di forze coercitive esterne: quindi una condizione di laissez-faire, laissez-passer,
di cui individuano la corrispondente fase storica nel passato recente (anteriore alla guerra mondiale).
β) Ma qui interessano i criteri distintivi in campo teorico con i quali si è iniziato questo capitolo.
In questo campo si distingue fra concorrenza pura come la condizione dell'economia di mercato,
con offerta di prodotti omogenei, che non contiene alcun elemento di monopolio: per ogni impresa la curva
di mercato è perfettamente elastica e parallela all'asse delle ascisse. Vi sono più venditori e compratori dello
stesso identico prodotto.
Ma tali caratteristiche sono sostanzialmente implicite nel concetto che, perciò, non sapremmo con-
trapporre a quello di «pura». La qualificazione della concorrenza come perfetta, è di avere tre caratteristi-
che: produzione polverizzata, nessun offerente potendo influenzare il prezzo di mercato con la propria
merc, omogeneità dei beni offerti; perfetta mobilità dei fattori produttivi.
Quindi faremo riferimento al concetto di concorrenza perfetta, qualificandolo nel senso che le carat-
teristiche indicate (ed altre per cui rimando, ad es., al citato Demaria) operino in modo da far «raggiungere
lo stato di soddisfazione massima» della collettività degli scambisti, come livello di prezzi e quantità scam-
biate.
Ma, anche se manca qualche caratteristica di quelle su indicate o di altre che figurano nei libri di
economia, propedeutici per questi problemi di finanza, occorre che le rimanenti operino in modo da far
conseguire detto massimo vantaggio o soddisfazione alla collettività degli scambisti (244).
__________
242
ROBINSON, The economics of imperfect competition, MacMillan, 1934.
243
Demaria G., Principii generali di logica economica.pag. 255.
(244) L'insistere nelle precisazioni in tema di caratteristiche della concorrenza perfetta non è senza motivo. Lo ve-
dremo presto a proposito della ipotesi di costi decrescenti, che si suol dire incompatibile con quella di concorrenza
perfetta. Intanto ricordo che questa, secondo si legge in Demaria che è aggiornato sugli sviluppi scientifici, può sussi-
stere quando si ipotizzi (nonostante la caratteristica su indicata di «polverizzazione» della produzione) un solo vendi-
tore-produttore che venda al prezzo di costo. Formalmente si avrebbe contraddizione in termini (monopolista volendo
dire un solo offerente); ma il caso limite, che implica sempre concorrenza potenziale, può essere immaginabile giudi-
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γ) La concorrenza «perfetta» viene ulteriormente qualificata «piena» (full) dagli anglosassoni e co-
me ideale, col significato che l'Amoroso annette al termine, per indicare l'effetto della indefinita riproduci-
bilità delle condizioni più favorevoli dell'offerta, così che le numerose imprese concorrenti producono allo
stesso costo (minimo) con eguaglianza di prezzo, costo marginale e costo medio unitario.
Discorreremo più oltre di questa condizione detta di equilibrio finale e di lungo periodo.
Intanto comincio a considerare l'intervento di alcune ipotesi simultanee, concernenti:
a) l'offerta in regime di concorrenza perfetta, a costi crescenti e decrescenti ad opera:
I) di tutte le imprese, con equilibrio del mercato;
Il) di un'impresa coesistente con altre in numero rilevante o largo;
b) la curva di domanda più o meno elastica, influenzata o meno, per il suo livello, dalla spesa pub-
blica;
c) il tipo di imposta (per unità di merce prodotta, commisurata al prezzo della merce, ecc.);
d) brevi periodi di tempo.

II.

TRASLAZIONE IN CONDIZIONI DI CONCORRENZA PERFETTA,


DOMANDA ELASTICA E COSTI CRESCENTI.

Occorre bene avvertire la differenza che corre fra la curva di domanda per l'intero mercato o per
l'industria , che lo serve con la propria offerta globale, e la curva di domanda per la singola impresa. Per
questa soltanto, secondo una delle condizioni o caratteristiche della concorrenza perfetta, la domanda divie-
ne una parallela all'asse delle ascisse, nella rappresentazione grafica tradizionale.
Invero, dal lato della domanda, ogni acquirente, singolo, accetta il prezzo come un dato, e adatta il
proprio piano di bilancio ad esso. Ma l'insieme dei consumatori (appartenenti, come si è visto a proposito
del prezzo pubblico, a diverse classi di redditieri con diverso potere di acquisto) contribuisce a conferire in-
clinazione alla curva di domanda.
Del pari, la singola impresa, che offra merce sul mercato, non influenza il prezzo direttamente. Ma
l'insieme delle imprese offerenti la stessa merce fa si che il prezzo divenga una variabile, come si è visto,
per il mercato, in funzione della quantità globalmente offerta.
Ciò posto, possiamo tracciare una curva d'offerta globale ed una di domanda riferita all'intero mer-
cato in condizioni di concorrenza perfetta, tralasciando il caso-limite della concorrenza perfetta ideale che
porterebbe ad una linea d'offerta parallela all'asse delle ascisse (costi costanti), tangente alla curva dei costi
medi nel punto di minimo, con eliminazione di ogni guadagno diverso da quello normale, necessario per
non far distogliere gli investimenti e l'opera di direzione da quel mercato. La differenza fra prezzo e costo
medio unitario nella condizione di concorrenza perfetta non ideale o piena ha natura di rendita.

__________
cando del modo di operare, finalisticamente o volontaristicamente visto, dell'unico offerente in tema di politica di
prezzi e di quantità offerte.
Questa ipotesi viene suffragata da visioni ulteriori, che non vengono tenute presenti dal Demaria a giudicare dalla
bibliografia che indica, per questo capitolo della sua trattazione.
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Ciò si vede nella discontinua visione grafica per singole imprese, che portino sul mercato determi-
nate quantità di merce. Ma nell'unica curva d'offerta collettiva, la quantità apportata da ognuna delle nume-
rose imprese coesistenti, deve considerarsi infinitesima (corrispondente ad un punto sull'asse delle ascisse
nella figura), per cui l'offerta stessa può, appunto, rappresentarsi con una curva continua.
In tal caso, mentre si può adottare la stessa scala, per quanto riguarda l'asse delle y, al quale vengo-
no riferiti i costi ed i prezzi, si dovrà ricorrere ad una scala convenzionalmente a volte più piccola per l'asse
delle quantità (x), su cui, come si è detto, si sommano le offerte delle singole imprese coesistenti in regime
di concorrenza perfetta.
In rapporto al fatto tributario ipotizzato, si osserva il formarsi dell'equilibrio individuale o dell'im-
presa singola (v. la figura 25, in cui la curva di domanda è parallela all'asse delle ascisse, per quanto si è
detto sopra).
Seguendo il procedimento che è particolarmente familiare nei libri di economia, si determinano le
posizioni di equilibrio delle imprese A, B, C,…N, in breve periodo e di concorrenza perfetta non «piena» nè
«ideale», nei punti in cui i costi marginali eguagliano il prezzo di mercato.

Il prezzo per l'industria alla cui offerta contribuiscono le imprese in concorrenza perfetta, è deter-
minato dall'incontro delle curve collettive di domanda DD' e di offerta SS' (fig. 26).
Se si ipotizza l'introduzione di un imposta tt', ad es. fissa per quantità unitaria prodotta, che abbia
l'effetto di innalzare uniformemente

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tutte le curve dei costi (medi e marginali), l'equilibrio si determinerà nel punto di incontro fra curva
di domanda e curva d'offerta ss', conseguentemente trasposta, cioè in P'. La quantità offerta diminuirà da
OQ ad OQ', essendo venuta meno l'offerta da parte delle imprese divenute, per effetto dell'imposta, extra-
marginali (come la N). L'impresa C diviene marginale. Data l'elasticità della curva di domanda sul mercato,
il prezzo aumenta da PQ a P'Q', cioè meno dell'ammontare dell'imposta, essendo pp' < tt'.
Questa condizione si riverbera sugli utili della singola impresa non marginale.
Essendo per essa la curva di domanda, per definizione, una parallela all'asse delle x, il livello di
questa si innalza in rapporto alla elevazione del prezzo sulla curva di domanda dell'industria, nel mercato.
Se si tracciano le due parallele d'ordinata eguale, rispettivamente a quelle del punto P e del punto
P', individuati per l'industria come punti di equilibrio prima e dopo l'imposta, si ha un nuovo punto di inter-
sezione fra linea della domanda o del prezzo e costo marginale.
La differenza fra prezzo e costo medio misura il guadagno unitario (gg'), che moltiplicato per la
quantità (OQ') da il guadagno totale dalla singola impresa che sussista nel mercato.
Dopo l'imposta, che ha fatto elevare le linee dei costi della quantità misurata sull'asse delle y, di tt',
maggiore di pp', guadagno unitario e guadagno globale diminuiscono. Il che ci dice che l'onere dell'imposta
verrà ripartito, incidendo in parte sui compratori, in parte sui produttori-venditori infatti OQ x GG' è mag-
giore di OQ' x gg'.
Variando l'elasticità della domanda la misura dell'incidenza dell'imposta è diversa. Ciò vale anche
per il fenomeno che riguarda l'intera industria.
Il ragionamento va modificato se si fa l'ipotesi di una imposta ad valorem, commisurata percen-
tualmente al prezzo delle merci, del tipo delle imposte di consumo o sulle vendite, che si suppongono tra-
sferibili sistematicamente sui consumatori.
La teoria prospetta questo caso come equivalente ad una elevazione dei costi.
Nel grafico (n. 28), in cui si ha la contrapposizione della curva di domanda del mercato DD' con
quella dei costi (medi) CC' per l'industria (coerentemente con l'ipotesi di libera concorrenza), appare evi-
dente come l'imposta ad valorem pP sul prezzo PQ, determini variazioni di prezzo e di quantità maggiori di
quelle verificate per l'introduzione dell'imposta specifica di pari ammontare pP.
Infatti, la curva dei costi, innalzatasi (ovviamente non parallelamente a se stessa, data la decrescen-
za dei prezzi a cui l’imposta è commisurata) ad esempio, secondo la cc', determina il nuovo punto di equili-
brio in P', talché P'Q' > p'q' e QQ' > Qq', essendo p' il punto di equilibrio compatibile con l'imposta speci-
fica, ossia fissa per unità

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di prodotto, a cui corrisponde la curva dei costi ss', parallela alla CC. È, poi, anche l'imposta P'V >
pP.
Per dar conto delle variazioni particolarmente esposte nella rappresentazione grafica (n. 28), in cui
si istituisce il confronto delle due ipotesi di prelievo di tributo, si suppone che nell'introdurre i due tipi di
imposta lo Stato commisuri al prezzo unitario preesistente di mercato (PQ) le due specie di tributi con pari
peso addizionale sul prezzo medesimo.
In generale, però, la fenomenica concreta non offre fondamento a questa ipotesi, comoda ai fini di
studio e di comparazione di effetti di specie diverse di tributi. In altri termini, l'adozione alternativa di essi
può essere indipendente dalla parificazione degli effetti sul prezzo di equilibrio (PQ), senza che detta indi-
pendenza della scelta dei tributi alternativi contrasti con la uniformità teorica che si è illustrata graficamen-
te. Inoltre è esclusa, nella predetta rappresentazione grafica, la clausola che risulta, da altre visioni teorema-
tiche, espressa nei termini: a parità di provento per lo Stato. L'applicazione della clausola nel ragionamento
e nell'espressione grafica è lasciata alla facile intuizione del lettore.
Ovviamente gli effetti studiati dipendono anche dalla elasticità delle curve di offerta.
Gli stessi effetti sono condizionati, come si è visto, dalla elasticità della domanda per l'industria
(essendo l'elasticità infinita nel caso della domanda per l'impresa che coesista con altre numerose in regime
di concorrenza perfetta). È noto, poi, che l'altezza della domanda, che nella fattispecie rappresenta il livello
sia del prezzo che del provento o ricavo marginale (245), dipende, appunto, nel caso dell'impresa singola,
dall'andamento della curva di domanda per l'industria a cui affluisca l'offerta di tutte le imprese.

__________
(245) Una volta tanto, si ricorda il concetto di provento o ricavo marginale a cui si farà ricorso anche oltre, per diffe-
renziarlo dal prezzo o ricavo medio, nonostante queste nozioni debbano presumersi note, presupponendosi lettori ini-
ziati nello studio della economia politica.
Il provento marginale, come variazione nel ricavo totale conseguente alla vendita di un'unità di prodotto, è la risul-
tante di due variazioni di quantità: 1) il provento derivante da una ulteriore unità venduta, per il nuovo prezzo; 2) la
perdita di provento dovuta al fatto che tutte le unità vendibili ad un prezzo più elevato, debbono essere vendute al nuo-
vo prezzo (più basso). Il provento totale aumenta se la prima quantità supera la seconda, così che il provento marginale
è positivo se cresce quello totale.
In simboli, detto mr il provento marginale, P2x2 il prodotto del nuovo prezzo p2 = p1 + dp1 (dp1 essendone la varia-
zione), per l'incrementata quantità vendibile (x2 = x1 + dx1) a detto prezzo; p1x1 il prodotto della quantità vendibile an-
teriormente per l'iniziale prezzo, si può scrivere

mr = p2x2 – p1x1 [I]

Nel caso in oggetto, della concorrenza perfetta (ideale), la linea di domanda per l'impresa è eguale alla parallela al-
l'asse delle ascisse, cioè non ammette variazione di prezzo, che rimane costante per ogni unità di x e per la quantità to-
tale offerta; così che dp = o, e la [I] si riduce, in generale per dx = I, ad
mr = p [II]
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Tanto l'altezza dell'imposta, rispetto al prezzo, quanto la diminuzione relativa della quantità per
causa fiscale, possono far risultare il tributo, nei due rapporti, relativamente piccolo o grande.
Nel primo caso, riferendoci alla elasticità della domanda (o dell'offerta), la si deve considerare co-
me elasticità puntuale ovvero nell'intorno del punto di equilibrio. Nel secondo caso, la si deve invece consi-
derare come elasticità dell’arco della curva di domanda, lungo il quale si muova il prezzo, in funzione delle
modificazioni della curva di offerta, influenzata dal quantum e dalla specie di tributo sulle merci, ipotizzato.
Riferendosi al diagramma in generale, agevolmente si possono dedurre le modificazioni di prezzi,
costi, quantità, proporzioni di incidenza sui guadagni del produttore (non marginale), sui consumatori,
quando si fa l'ipotesi della domanda rigida e con elasticità nulla, che si può descrivere come parallela all'as-
se delle ordinate (prezzi).
Non si fa il caso della curva di domanda perfettamente elastica che come si è visto, non può sussi-
stere per l'industria, ma per l'impresa.
Considerazioni analoghe valgono per l'elasticità della curva di offerta.

III.

TRASLAZIONE E COSTI DECRESCENTI.

Lasciando da parte il caso, alquanto raro dell’offerta a costi costanti, ma di cui non si discute la le-
gittimità logica, passo a considerare il caso di costi decrescenti.
Nella precedente edizione di questo corso, riferendomi al Fasiani specialmente, che riteneva, come
molti economisti, incompatibili le condizioni di costi decrescenti e di concorrenza perfetta, avevo accennato
alle posizioni di studiosi, come Amoroso, Barone, Sraffa, il quale ultimo, specialmente, aveva riveduto pro-
posizioni pacifiche di Marshall, che introduceva l'ipotesi suddetta ragionando sui costi medi. Robertson,
Shove, Pigou, lo stesso Sraffa, Kaldor ed altri ne hanno discettato e in scritti riprodotti nella «Nuova Colla-
na di Economisti», e in scritti che figurano nella bibliografia utilizzata dal ricordato Weintraub, il quale
consente di aggiornarsi in proposito.

__________
Geometricamente, la relazione fra curva o linea di domanda (o di provento medio) e curva o linea di provento mar-
ginale, si individua derivando la seconda dalla prima:

Supponendo, per semplificare, che le linee della domanda e del provento marginale siano rette, l'inclinazione della
curva di domanda è doppia di quella della curva del provento marginale; l'area ODsrq compresa fra la linea del pro-
vento marginale e gli assi è eguale all'area del rettangolo Ovpq, derivante dal prodotto del prezzo per la quantità offer-
ta; la linea Dr, che è la linea del provento marginale ha le ascisse eguali a metà di quelle della curva di domanda DD'.
Il tratto rq < pq, individua il provento marginale relativo alla quantià Oq offerta al al prezzo pq.
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In questo corso, potrei seguire il 'sistema di Dalton246, che continua a prospettare l'ipotesi di curva
d'offerta decrescente, in regime di concorrenza, nello studio degli effetti di imposte, ad es. sulle unità di
merci prodotte, annotando: «Molto è stato scritto recentemente in merito alle condizioni, se vi sono, nelle
quali questa semplice concezione è legittimo. Non posso esplorare qui queste vie secondarie per quanto in-
teressanti possano essere».
Voglio aggiungere il caso ipotetico dei costi decrescenti per i seguenti motivi: 1) perché si nota tut-
tora la confusione fra domanda e offerta dell'impresa, e domanda e offerta dell'industria in molti scritti ed
anche nella nuova edizione dei Principii del Fasiani, che continua a ritenere priva di serio fondamento la
coesistenza ipotetica di costi decrescenti e concorrenza; 2) perché la teoria, che espone ed ha tenuto presen-
te ad es. il Demarca (che di proposito ho ricordato nel primo paragrafo di questo capitolo) contempla la
condizione della concorrenza perfetta di un solo venditore-produttore che venda a prezzo di costo. Ciò valo-
rizza un caso ipotizzato, come ricordai nel 1944, dal Barone e dal Pigou, a cui tosto mi riferisco, la cui le-
gittimità logica vedo confermata dalle citate Robinson ed Aubert (cioè dalla più recente letteratura margina-
listica, nelle cui espressioni geometriche intendo presentare l'ipotesi che, nella edizione precedente di que-
ste lezioni, era espressa in termini Marshalliani di cui si riprova la non tramontata fecondità). 3) Infine torno
sul caso, perché ho avuto la ventura di accennare a questo punto di vista, che legittima la coerente coesi-
stenza di costi decrescenti e concorrenza perfetta - ottenendone consenso - oralmente allo stesso Sraffa, che,
in un fortunato scritto, aveva sollevato maggiormente il dubbio sulla contraddittorietà degli assunti.
Conviene riferirsi anche a quanto precede circa la genesi della curva d'offerta, che, per l'industria, si
è derivata sommando, sull'asse delle ascisse, le quantità di merce offerte da ogni impresa, considerando per
ognuna il punto d'incontro del ramo ascendente della curva dei costi marginali, con la linea del prezzo:
donde la curva crescente collettiva d'offerta SS', su cui si è ragionato come su ipotesi normale e, per così di-
re) naturale in condizioni di mercato di concorrenza perfetta.
A) Ma in brevi periodi ne trovo, anzitutto, conferma in una delle più minute ed approfondite analisi,
cioè in quella della curva d'offerta della Aubert, presentata agli studiosi da un rappresentativo economista
del tempo nostro, il ricordato Chamberlin. Egli ha illustrato, come si è detto, l'ipotesi di concorrenza imper-
fetta. Per questa condizione, coerentemente sarebbe connaturale (come per il monopolio totale) l'ipotesi di
costi decrescenti. Ma nella monografia della Aubert, in condizioni di concorrenza perfetta si avanza la pos-
sibilità teorica di costi decrescenti, se i costi variabili sono proporzionali alla quantità prodotta. Se i costi
medi sono decrescenti (in nota a pag. 107), la curva dei costi marginali è constantemente inferiore alla cur-
va dei costi medi.
L'A. si riferisce ad un esempio concreto che si riscontra nell'opera nota della Robinson, che ritengo
di far conoscere (247), e che conferma la inclinazione dei costi medi in senso continuamente decrescente, e

__________
246
Dalton, Public finance, cit., pag. 78 dell'ed. 1949.
247
( ) In breve periodo, si ammettono i costi decrescenti se quelli variabili sono direttamente proporzionali o se il costo
marginale rimane costante mentre il costo medio sia decrescente. Questo risulta formato di due elementi, di cui una
quantità varia direttamente con la produzione ed una è costante.

Si suol fare l'esempio della produzione di medaglie, il cui costo speciale sia 1, espresso in qualunque moneta, otte-
nute da un mezzo da conio con costo 100 e con l'impiego di due uomini (nè più nè meno). Il costo marginale sarà 1 =
costante; il costo totale per un numero di medaglie da 1 a 100, salirà da 101 a 200. Il costo medio scenderà secondo la
ragione 101, 51, 34⅓, 26…..2. Cioè secondo l'andamento di una iperbole equilatera cc', asintotica alla linea del costo
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sopra la curva del costo marginale, che non determina la quantità offerta, non incontrando la curva dei
prezzi.B) Si può lamentare nella Aubert la mancata visione della ipotesi che una sola impresa (Barone, Pi-
gou) alimenti l'offerta di una industria, o, come si esprime il Pigou248, l'ipotesi di «industrie con una ditta
sola».
La Robinson, la quale pure ammette che, finché i costi medi vanno continuamente decrescendo
senza raggiungere un minimo il costo marginale, sarà sempre sotto quello medio, teme che l'espansione del-
la «ditta» (o l'assorbimento di altre coesistenti) faccia ridurre il numero delle imprese, facendo cessare la
condizione di concorrenza perfetta.
In sede deterministica, come inevitabilità meccanica del comportamento dell'impresa unica in senso
quasi o pienamente monopolistico, si potrebbe ammettere questa inconciliabilità fra costi decrescenti e con-
correnza perfetta. Ma si è visto che gli economisti, implicitamente introducendo l'elemento che ho dianzi
qualificato finalistico o volontaristico, hanno concepito, come ha riferito ragionatamente il Demaria (cit.), il
caso di un solo venditore-produttore in regime di concorrenza perfetta, nel senso che di questa condizione
di mercato ideale l'unico offerente intenda conservare la caratteristica costituita da una politica di prezzi che
assicuri lo stato di «soddisfazione massima» degli scambisti, ottenibile con la polverizzazione dell’offerta,
senza prevaricare verso atteggiamenti di tipo monopolistico.
La caratteristica della perfetta concorrenza, cioè la polverizzazione dell'offerta, costituisce situazio-
ne che fa sì che l'impresa singola non possa influenzare il prezzo di mercato. Epperò, l’offerta da parte di
un unica «ditta» o di un unico venditore-produttore, pur non costituendo un granello di polvere ma una
quantità direttamente determinante, può far raggiungere lo stesso effetto per il mercato, in quanto egli, pur
potendo, non voglia adottare prezzi diversi da quello in cui si abbia eguaglianza con il costo medio, lungo la
curva dei costi decrescenti.
Il comportamento della impresa unica, secondo una visione che caratterizza la letteratura economi-
ca odierna nel mondo, proprio in caso di monopolio, anche in regime di concorrenza può essere orientato da
moventi e preferenze soggettive, gravitanti nel dominio delle soddisfazioni spirituali in senso ampio, da cui
esulino i «pecuniary motives». Inoltre, come si è detto per spiegare l'apparente paradosso letterale, detta
condotta dell'impresa (che subisca i prezzi di mercato nonostante possa coincidere con l'industria e, quindi,
manovrarli), può essere dettato dal timore o dalla previsione o dal rischio della concorrenza potenziale di al-
tre imprese che entrino nel mercato.
Tutto ciò legittima l'introduzione di una curva dei prezzi o di domanda inclinata e non parallela al-
l'asse delle ascisse (dato, che questa vale per la singola impresa che coesista con altre e non per l'industria
«con una ditta sola» di cui discorre Pigou), pur come se esistessero tutte le condizioni della concorrenza
perfetta.
Coerentemente con la visione che anima l'Introduzione, considero il caso, anche se in concreto pos-
sa costituire caso-limite o non frequente o più probabile in futuro, con l'evolversi della «coscienza sociale
dei produttori». E passo alla dimostrazione in base all'ipotesi, legittima dopo quanto avverto, facendo inter-
venire il factum tributario, configurato, frattanto, come prelievo di imposta sulla quantità offerta o prodotta.
Sia la DD' la curva di domanda, inclinata rispetto agli assi, considerando l'ipotesi di una «industria
con una ditta sola» e pur con genesi di prezzi di concorrenza perfetta, subiti dal produttore venditore, che li
desume dalla richiesta del mercato che egli non influenza e non sfrutta con intenti monopolistici.
Sia CC' la curva del costo medio, decrescente continuamente. Rappresenti la Cm la curva del costo
marginale. Nel punto di incontro della curva di domanda con quella del costo medio (la quale costituisce
curva d'offerta per l'industria), si determini, col prezzo PQ, la corrispondente quantità venduta OQ. Tutte le
quantità sono vendute allo stesso prezzo, come vuole la condizione di concorrenza perfetta e non vi è inte-
resse a vendere una quantità maggiore di OQ, ad esempio OQ', nonostante le unità ulteriori di prodotto co-
stino di meno di PQ = OV, perché si andrebbe incontro a perdita essendo P'Q' < MQ'. E’ come se la ditta o
impresa fosse fra altre coesistenti ditte o imprese in regime di concorrenza perfetta e il prezzo eguagliasse il
costo medio minimo di produzione, con linea del prezzo tangente in detto punto di minimo.

__________
marginale, che nella fattispecie è una retta parallela all'asse delle x d'ordinata I.Nel testo, citando Barone e Pigou, si ri-
leva che la condizione, in generale, del costo medio decrescente, che sovrasti il costo marginale, viene generalizzata
oltre il caso-limite di questa nota, frequentemente ricordato.
248
PIGOU, Appendice III alla nella traduzione italiana di Economia del benessere, a pag. 700 della edizione Utet,
1947).
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Si introduca un'imposta sulle unità prodotte, che abbia l'effetto di innalzare le curve dei costi medi e
marginali. La cc' taglierà la curva di domanda (che nel mercato supponiamo immutata) nel punto P", de-
terminando un'offerta minore di OQ, ed esattamente l'offerta OQ". La differenza fra P"Q" e PQ evidente-
mente supera,

essendo TV > TZ, la grandezza dell'imposta Cc, misurata dalla distanza fra le coppie di curve dei
costi per elevazione di esse dovute al tributo.
La differenza dei prezzi indica l'incidenza sul mercato. Essa dipende, come si è visto per il caso di
costi crescenti: a) dalla elasticità delle curve di domanda (puntuale e degli archi di curva); b) dalla elasticità
della curva dei costi; c) dall'ammontare del tributo.
Il ragionamento si può ripetere supponendo l'ipotesi di un'imposta ad valorem.
C) Un regime di costi decrescenti, nell'ipotesi di concorrenza perfetta, può concepirsi, a lungo anda-
re, se si introduce l'influenza delle economie esterne di tipo Marshalliano. Queste non sono tramontate co-
me concetto che ad altri è sembrato indefinito, ma figurano nelle più recenti trattazioni di economia pura,
per la spiegazione della produttività crescente. Questa è dovuta, appunto, oltre che alla utilizzazione delle
combinazioni nell'interno della impresa, all'ambiente esterno di cui si sono date esemplificazioni in prece-
denza nelle lezioni.
Nella edizione del 1944 avevo ricordato una intuizione dell'Edgeworth, in tema di conciliabilità, nel
tempo, della concorrenza perfetta con l'ipotesi dei costi decrescenti. Scrivevo allora che egli intendeva rife-
rirsi, non alle curve d'offerta nel senso tradizionale che per brevi periodi sono sempre crescenti, (valga, pe-
rò, l'avvertenza del caso dianzi illustrato) e che vengono dette «primarie», ma a curve d'offerta dell'indu-
stria in regime di concorrenza, considerate per lunghi periodi, e «derivate» da quelle primarie.
Prima di tracciare una siffatta curva che lo stesso autore denominava a «molte branche», trascrivo
una similitudine che può riuscire a chiarire il concetto allo studente. Attingo alla Teoria pura dell'imposta
(249) là dove è detto: «È avvenuto a qualcuno di noi di ascendere il pendio di una montagna proprio fino al
punto in cui il desiderio di andare più innanzi era esattamente compensato dalla difficoltà della salita. Tale è
la posizione dell'uomo economico su di una curva di offerta primaria per brevi periodi, volgente all'alto
(crescente).
Supponiamo che, mentre una comitiva di alpinisti sale per un pendio scosceso, la cresta che sta loro
incontro ceda d'un tratto, di guisa che essi siano portati giù da una specie di valanga e si trovino su un nuo-
vo piano inclinato. Di nuovo essi spingono la loro marcia faticosa all'insù; e di nuovo prima di aver rag-
giunto la cima essi sono precipitati giù ad un altro livello; e così di seguito finché sono costretti ad una fer-
mata in qualche pendio scosceso e relativamente fermo. La via da essi percorsa nello spazio, benché in real-
tà sia una spezzata, può parere, a chi vi dia uno sguardo generale, una linea curva. Tale, forse, è la natura di
un'industria sottoposta a concorrenza, che ubbidisca alla legge della produttività crescente; per brevi periodi
essa segue una curva ascendente, in lunghi periodi una curva di offerta discendente.

__________
(249) EDGEWORTH , Op. cit. pagg. 309-310.
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«Supponiamo che la nostra comitiva, dopo una fermata su di un breve pendio, si senta incitata da
qualche nuovo stimolo; essa potrebbe sorpassare una nuova cresta e discendere per uno spazio fuori di ogni
proporzione colla causa eccitante. Al contrario, l'imposizione di un nuovo onere potrebbe avere impedito
che avvenisse una tale marcia in avanti. È così che, in un regime industriale della specie considerata, un
premio può abbassare il prezzo e un'imposta alzarlo; in misura sproporzionata».

Poiché l'Edgeworth nel dare l'idea della curva «a molte branche» ovvero della curva «derivata»
(lunghi periodi) da curve «primarie» (di brevi periodi) ha fatto riferimento alla curva di costi successivi, co-
sì denominata dal Cunynghame, traggo dal saggio di quest'ultimo («Economic Journal», vol. II) il tipo di
curva predetta, completandola ed esponendola con la convessità verso l'asse delle ascisse per uniformità di
rappresentazione.
Avverto, però, che il Cunynghame, nel rappresentare nel diagramma la curva alla quale è «atta-
ched» un gruppo di curve successive ha inteso prospettare uno stato di fatto esistente in un dato tempo e
non un gruppo di fenomeni successivi.
Se le curve «primarie» o per brevi periodi - conclude l'Edgeworth - sono discendenti, presumibil-
mente il caso appartiene al regime di monopolio.
Nella dimostrazione geometrica che precede, una curva collettiva di offerta a costi decrescenti, può
essere ravvisata se si tiene conto della CC', linea che non è una spezzata perché vorrebbe raffigurare la con-
tinuità nel caso in cui non si avessero le poche variazioni che in modo discontinuo figurano nel grafico, ma
numerose influenze di «economie esterne» in un grande mercato, nel quale domini la concorrenza perfetta.

IV.

TRASLAZIONE IN CONDIZIONI DI MONOPOLIO PURO E TOTALE.

A) Consideriamo il caso limite di monopolio, raramente rintracciabile nella realtà, quale monopolio
puro.
Dovrebbe trattarsi, come è noto, di una sola impresa o di un gruppo di imprese collegate, al fine di
conseguire il massimo guadagno consentito: a) dalla possibilità di portare sul mercato un prodotto comple-
tamente diverso da quello di ogni altra impresa; b) dalla esclusione o impossibilità di entrata nel mercato di
altre imprese. In maggior o minor misura, peraltro, i prodotti sono sostituibili, cosicché la concorrenza po-
tenziale è tale da escludere il caso di monopolio puro. Si può discutere in termini di gradi di monopolio,

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supponendo che il massimo grado consentito dalla possibilità di succedanei o surrogati viga sul mercato
particolare.
Dovendo qui esaminare variazioni di prezzo eventualmente dovute alla influenza del fatto tributa-
rio, cominciamo con il caratterizzare il prezzo di equilibrio in regime di monopolio che, per distinguerlo da
quello «puro», che si ritiene irreale in una economia di mercato, denomineremo totale.

I) Mentre, finora, il prezzo di equilibrio (concorrenza perfetta) è stato anche tale da consentire di
eguagliare domanda ed offerta
sul mercato, di solito si pensa che il prezzo di monopolio non abbia questa caratteristica, che i più
cauti teorici considerano probabile (non escludendola).
a) Come risultato di manovra del prezzo, fra gli infiniti rappresentabili sulla curva di domanda, che
è inclinata sull'asse delle X come curva di mercato o di industria, come altri dice,
b) o come conseguenza della manovra delle quantità,
si ha, per definizione, una quantità offerta che si suppone normalmente inferiore a quella che si po-
trebbe avere in condizioni di concorrenza perfetta.
II) Inoltre per contrapposizione: a) caratteristica della concorrenza perfetta (ma non ideale o piena)
è la possibilità di ottenere guadagno oltre quello «normale» della impresa marginale, differenziale rispetto
ad esso, avente natura di rendita, dato appunto dalla differenza fra prezzo di mercato e costo medio; b) nel
caso del monopolio, si suppone la possibilità di estendere ulteriormente il guadagno od utile. Questo risulte-
rebbe anche dalla differenza fra prezzo e costo marginale, che come il costo medio sarà sempre inferiore al
prezzo. Può darsi anche che il costo medio, nel punto di equilibrio, superi il costo marginale, se l'equilibrio
ha luogo nel ramo decrescente delle due curve.
Esprimo queste caratteristiche attraverso la rappresentazione diagrammatica seguente, per semplifi-
care tracciando come rette le linee della domanda e del provento marginale pm (eguale nel punto di equili-
brio al costo marginale che in questa ipotesi grafica risulta minore di cmd, cioè del costo medio).
In essa, quindi: I) la quantità offerta OQ' al prezzo di equilibrio PQ', compatibile con il massimo
guadagno o utile del monopolista GG'PM', è minore di quella che, in regime di concorrenza, avrebbe potuto
consentire di equilibrare domanda ed offerta (OQ).
Il punto di incontro fra curva dei ricavi marginali e dei costi marginali, in cui

dR dC
=
dx dx

cioè di eguaglianza al margine, determina, appunto, la quantità offerta, anche quando non lo si pon-
ga in evidenza ragionando, come oltre si farà, su quantità globali.

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Nel far intervenire il fattore tributario, come prelievo, che induce, appunto, il monopolista a rivede-
re gli elementi del calcolo del guadagno monopolistico, si suppone che egli abbia già conseguito la condi-
zione di massimo utile, attraverso gli infiniti tentativi costituiti da prezzi adottabili e correlativa reazione
della domanda e dei costi.
Una dimostrazione che ha particolare attitudine alla immediata convinzione del lettore, è quella ba-
sata sulle quantità globali, anziché marginali, in rapporto a diversi vincoli tributari che meglio vengono illu-
strati come ipotesi.
Invero, il riferimento alla figura che esprime le caratteristiche della condizione di equilibrio in re-
gime di monopolio, per analizzare gli effetti del prelievo del tributo, serve soprattutto a far mettere in evi-
denza la variazione del prezzo: ma essa risulta anche dalla curva di domanda correlata con quella del ricavo
totale e del guadagno o utile netto, nella dimostrazione geometrica qui esposta di seguito. L 'influenza del
modo di variare del costo marginale si riverbera sull'andamento del costo totale, da cui è derivabile.
Del resto, per definizione, il prezzo di equilibrio in regime di monopolio è quello che ha proprietà di
rendere massima la differenza fra (R) ricavo totale e (C) costo totale. Detta x la quantità prodotta, indicato
con p = f(x) il prezzo unitario; con R = xf(x) il ricavo totale; segnato il costo totale con C = F(x); si ha equi-
librio per il monopolista quando sia massima la differenza fra R e C ovvero xf(x) - F(x) = Max.
La più immediata rappresentazione dì questa condizione si ha ricorrendo a quella divenuta tradizio-
nale, resa familiare da Jannaccone a Barone e ad altri, che figura nelle precedenti lezioni: essa si presta a
dare una chiara visione degli effetti dell'imposizione, prescindendo dagli effetti della spesa pubblica (250).
- Sia la RR' la curva del ricavo totale;
- Sia la CC' la curva del costo totale (sul cui andamento si riflette quello dei costi marginali e me-
dii);
- Sia la dd' la curva di domanda, sulla quale sì individuino i tentativi infiniti del monopolista, par-
tendo da prezzi alti e passando a quelli via via minori, da sinistra a destra.
La curva del ricavo totale risulterà in un primo tratto crescente fino al raggiungimento di un punto
massimo in T; e poi decrescerà. Siamo nell'ipotesi più semplice di un andamento della domanda, che confe-
risca un solo massimo alla curva del ricavo totale.
Per determinare l'utile o guadagno netto, sì deve contrapporre alla curva del ricavo totale quella del
costo totale. È ovvio che, per quantità crescenti, il costo totale sarà crescente (anche se unitariamente decre-
scente).
Procedendo per differenze delle rispettive ordinate, dalle suddette due curve si deriva quella dell'u-
tile netto del monopolista. Essa, indicata con le lettere PP', avrà un massimo nel punto (di Cournot) in cui la
parallela all'asse delle ascisse è tangente alla curva medesima (M). (Il punto corrispondente sulla curva RR'
è a sinistra del

__________
(250) Nelle più razionali e moderne, anche qui citate, visioni teoriche di economia pura, si rappresenta il guadagno
anche in regime di concorrenza, avvalendosi di curve di ricavo e costo totale.
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punto di massimo introito lordo o ricavo totale). In M la derivata seconda è negativa ov


vero
d2
(R − C) < 0
dx 2
da cui
d 2 R d 2C
<
dx 2 dx 2

cioè il ricavo marginale aumenta meno del costo marginale.


Tracciata come si è detto, la curva dell'utile netto, postuliamo che essa sia caratterizzata dalle se-
guenti condizioni:
a) che ad ogni prezzo corrisponda un utile secondo gli sviluppi di una funzione continua; b) che l'u-
tile segua l'andamento di una curva crescente (e derivabile) al decrescere dei prezzi di vendita, prima di
raggiungere il punto massimo; c) che il saggio di incremento dell'utile sia decrescente, prima di raggiungere
il punto massimo.
Ciò posto rappresentiamo ancora, per comodità di studio, la sola curva dell'utile netto, con un solo
massimo, testè costruita per derivazione dalle curve dei ricavi e dei costi.
Introduciamo le ipotesi di tassazione del monopolista a mezzo di un'imposta: a) fissa qualunque sia
la quantità prodotta ed il corrispondente

rispondente utile netto. In tal caso il monopolista non ha interesse a diminuire la quantità prodotta,
ad elevare il prezzo ed a ridurre in conseguenza la rendita del consumatore. L'utile netto sarà decurtato della
stessa somma qualunque sia la quantità prodotta. Invero l'imposta sarà rappresentata da una parallela all'as-
se delle ascisse (o delle quantità) ss' (fig. 35).
In tal caso, l'imposta non si trasferisce ma incide sul monopolista. Essa, ovviamente, qualora fosse
di altezza eguale a C'R assorbirebbe tutto l'utile del monopolista.
b) Conclusioni analoghe valgono per il caso dell'imposta proporzionale all'utile netto, la quale non
induce il monopolista ad allontanarsi dal punto del massimo utile e quindi a modificare prezzi e quantità
prodotte.
È ben vero che l'eventuale tentativo di elevare il prezzo ha, oltre la conseguenza di ridurre l'utile
netto, anche la ripercussione di carattere fiscale di far ridurre l'onere dell'imposta, in quanto è, per ipotesi,
commisurata all'utile netto. E questo viene ridotto dalla elevazione del prezzo. Ma siffatto vantaggio di ori-
gine fiscale sarà sempre inferiore alla perdita che deriva dall'eventuale abbandono della posizione del mas-
simo utile (punto di Cournot). Se 100 era il massimo utile netto anteriore alla introduzione dell'imposta del
10%, il tentativo eventuale di elevare il prezzo di vendita (supponiamo da L. 5 a L. 6 il quintale) avrà, per
quanto precede, l'effetto necessario di ridurre l'utile netto da 100 poniamo ad 80. In conseguenza di ciò

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l'imposta si ridurrà da L. 10 (utile 100) a L. 8 (utile 80). Ma la perdita di L. 20 è ovviamente superiore al


vantaggio di una riduzione di L. 2 nell'onere dell'imposta. In breve, se due utili differiscono perché l'uno è
superiore all'altro, i loro residui al netto di imposta a percentuale costante, differiranno nello stesso senso.
La rappresentazione grafica è offerta tracciando una curva tt' che tagli proporzionalmente le ordinate della
curva dell'utile: la curva rappresenta, appunto, l'andamento di una imposta proporzionale all'utile.
c) Facciamo, infine, il caso di un'imposta proporzionale al prodotto venduto. Essa sarà rappresenta-
ta dalla retta 0I, la quale ha l'effetto di ridurre l'utile netto alla quantità (in ordinata) compresa fra essa me-
desima e la curva dell'utile. Nel caso che il monopolista abbia raggiunto la posizione di massimo utile, al
quale corrisponde una vendita di prodotto eguale ad OR, il profitto netto del monopolista sarà non più RC',
ma C'L.
Di fronte a codesta situazione il monopoli sta dovrà considerare che conseguenza della elevazione
eventuale del prezzi di vendita (allo scopo di tentare la traslazione) è bensì una diminuzione del profitto net-
to; ma essendo l'imposta commisurata alla quantità prodotta, la quale decresce aumentando il prezzo, egli
ottiene un vantaggio che compensa la perdita. Sul calcolo influisce l'elasticità della curva di domanda e
l'andamento della curva del costo, come diremo più oltre.
«Sarà dunque interesse del monopolista elevare il prezzo oltre l'antico fino ad un nuovo limite: al
quale la perdita nel profitto netto (ricavo lordo meno costo totale, che diminuisce con l'elevarsi del prezzo
oltre l'antico punto massimo) è esattamente compensata dal guadagno derivante dalla diminuzione dell'im-
posta» (Edgeworth) (251).
La soluzione del problema si ha, in modo univoco, per mezzo del calcolo matematico, dato che si è
postulata continuità della variazione delle curve considerate. Si è ormai dimostrato che fra gli infiniti prezzi
possibili (maggiori di quello che diede luogo al massimo utile netto anteriore alla introduzione dell'impo-
sta), ne esiste uno che consente al monopolista di rimanere con un utile netto da imposta maggiore di quel-
lo che gli sarebbe rimasto se non avesse compiuto il tentativo di trasferire il tributo medesimo. Infatti, re-
stringendo la quantità prodotta elevandosi il prezzo, il monopolista raggiungerà un nuovo punto di massimo
profitto netto da imposta. Esso si troverà a sinistra di C', e precisamente nel punto della curva in cui la di-
stanza, nel senso dell'ordinata, tra la curva dei profitti e la retta che rappresenta l'imposta, sarà massima (P).
Quel punto sarà geometricamente individuato dalla tangente alla curva dell'utile netto parallela alla retta
dell'imposta: in quel punto è infatti massima la differenza fra il profitto netto e l'imposta che va allo Stato:
ivi L'P è maggiore di LC. Il prezzo normalmente aumenta in misura diversa dall'ammontare dell'imposta. Si
potrebbe avere misura eguale se il saggio di decrescenza fosse eguale per la curva di domanda e del costo
marginale. (Così Villani, nella «Riv. Ital. di Scienze economiche», 1941).
Vi sono, però, eccezioni alla uniformità teorica su enunciata. Dell'Edgeworth medesimo, che si rifa-
ceva anche al Cournot, richiamo questa: «Quando non è in potere del monopolista accrescere o limitare la
sua produzione a volontà», egli «molto generalmente, dovrà sopportare l'imposta». L'esempio per la secon-
da ipotesi è quello del proprietario di aree fabbricabili (terreni urbani), che l'opinione pubblica impedisce
siano tenute fuori mercato.
In trattati di scienza delle finanze nei quali non si è fatto ricorso all'ausilio della rappresentazione
geometrica (che qui è del tipo di quelle generalizzate dal Barone) si è osservato, in passato, come la solu-
zione qui prospettata potesse non verificarsi. Ciò è dipeso dal fatto che gli esempi e le riprove del calcolo
presunto del monopolista sono stati basati su dati numerici, discontinui. Per contro la continuità delle quan-
tità che è postulata nella su esposta dimostrazione matematica, evita gli errori e conduce a soluzione univo-
ca, come s’è visto.
Naturalmente, si è fatta, fra l'altro, l'ipotesi che il monopolista abbia già raggiunto il punto di mas-
simo utile e collocato sul mercato le quantità che gli consentono di conseguirlo; ma se egli non abbia potuto
produrre tutta la quantità correlata al massimo utile netto, ovvero non abbia potuto restringere la quantità
medesima al limite che gli consente il massimo utile, si ha incidenza totale a carico del monopolista.
Per quanto riguarda l'influenza delle circostanze: a) elasticità della domanda; b) andamento della
curva dei costi di produzione, occorre aggiungere le seguenti considerazioni:
a) Alcuni autori hanno considerato l'elasticità della curva di domanda nel punto di equilibrio; altri
l'elasticità a sinistra del punto di massimo profitto senza l'imposta.

__________
(251) La teoria pura dell'imposta, cit., pagg., 314-315.
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Tornando al caso dell'imposta proporzionale alla quantità prodotta, si è dimostrato che la traslazio-
ne è tanto maggiore quanto più tende ad essere rigida la domanda (o quanto meno elastica è essa), intorno
al prezzo di equilibrio del monopolista.
Considerando l'elasticità della domanda quale è a sinistra del punto di massimo utile, si può dire
che" una data imposta tenda a portare il nuovo punto di massimo utile (netto da imposta) tanto più a sinistra
dell'iniziale punto di Cournot, quanto più la domanda sia elastica (determinando minore incidenza sui con-
sumatori). Questa conclusione è sulla linea logica di quella a cui sono pervenuti coloro che hanno esamina-
to l'andamento della elasticità non nel punto di equilibrio, ma lungo la curva: e cioè la variazione del prezzo
(traslazione) è tanto più rilevante, quanto meno cresce l'elasticità della domanda con l'aumentare del prezzo.
b) Per ciò che riguarda l'influenza della legge dei costi, occorre considerare se il punto di monopo-
lio, prima dell'imposta, si trovava (Barone) «nel campo dei costi crescenti o in quello dei costi decrescenti»
pel monopolista. Nel secondo caso si ha una traslazione maggiore sui consumatori che non nel caso di costi
crescenti. Nel caso di costi crescenti, invero, la curva dei profitti a sinistra del punto di massimo scende più
rapidamente che nel caso di costi decrescenti. Data una imposta, lo spostamento del nuovo punto di massi-
mo utile netto da imposta (a sinistra di quello iniziale) è maggiore nel caso dei costi decrescenti che non in
quello dei costi crescenti.
In generale, quindi, domanda elastica e costi crescenti tendono a rendere meno torte la traslazione:
domanda tendenzialmente rigida e costi decrescenti concorrono a rendere più rilevante la traslazione del-
l'imposta sulle quantità prodotte.
B) Facciamo, ora, il caso dell'imposta progressiva commisurata all'utile o guadagno netto conse-
guibile in singoli campi di attività, in condizioni di mercato caratterizzate da monopolio, principalmente, o
da concorrenza imperfetta o da ipotesi intermedie.
Il caso teorico non può essere studiato, inquadrando questo modo di ripartire le imposte nella spie-
gazione che, dal lato economico, si è data dell'imposizione progressiva e personale:
1) La logica della capacità contributiva relativa può servire a spiegare casi del genere; 2) talvolta si
tratta di modi di imposizione straordinaria, dettati dalla urgenza di ottenere nuove entrate; 3) altra volta è
problema di politica sociale avversa ai trusts monopolistici, nei paesi in cui l'economia di concorrenza, con
un minimo di vincoli e di prezzi prossimi ai costi marginali, costituisce ideale compatibile col massimo be-
nessere collettivo; 4) in altri casi si tratta di imposte progressive sui redditi da singole fonti (ad es. su terre-
ni, fabbricati, industrie, per «persuadere» i proprietari e imprenditori, riluttanti ad accettare un sistema col-
lettivistico, con abbandono della proprietà privata, ad aderire al sistema che sia frutto di rivoluzione sociale,
ecc.).
Nell'economia finanziaria, astratta, e prescindendo da specifica e diretta esemplificazione tratta da
eventuale casistica concreta corrispondente, se si avanza detta ipotesi, per quanto precede non la si può con-
siderare peregrina: invero la teoria pura economica la tiene presente, come si fa oggi dagli economisti per lo
studio delle proprietà dell'equilibrio in tal caso astratto.
Supponiamo, dunque, che l'imposta varii secondo un saggio talmente crescente, con l'aumentare
dell'utile,che il massimo conseguito

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dall'imprenditore prima dell'imposizione - anziché rimanere tale, al netto d'imposta, rispetto ai pre-
cedenti e seguenti come per la proporzionale - diventi un minimo netto da imposta. Trattandosi di curva
(prima dell'imposta) con un solo massimo, per ipotesi, la decurtazione provocata dal tributo a carattere for-
temente progressivo, dato l'andamento della curva stessa, determinerà due massimi, a destra ed a sinistra di
quello che l'imposta medesima abbia ridotto ad un minimo, come si desume dalla figura.
In questa rappresentazione: UQ è l'utile massimo prima dell'imposta; U'Q' e U"Q" i massimi (egua-
li) rispettivamente a sinistra ed a destra del minimo uQ provocato dall'imposta; VQ il massimo (unico) netto
da imposta proporzionale all'utile netto, con andamento RVL. Per l'imprenditore monopolista, in termini
monetari, diviene indifferente la scelta di U'Q' o U"Q", rispettivamente come risultato e fine della propria
attività animata da mero tornaconto, espresso in termini obiettivi. Il prezzo di vendita p'Q' corrispondente
ad OQ' sarà maggiore di pQ (anteriore all'imposta) e di p"Q" che si ha per OQ". Ma abbiamo visto (nel ca-
pitolo dell'imposizione progressiva) che l'imprenditore o produttore può non essere dominato, nell'agire, dal
fine di conseguire il massimo utile monetario netto: può, come si è visto, e come si vedrà più avanti, riusci-
re determinante lo scopo di estrinsecare una mentalità di «capitano di industria», di operatore che miri a
conferire alla propria personalità un «peso» sociale che sia direttamente in relazione con le dimensioni della
propria impresa in termini di forza capitalistica applicata (concentrazione finanziaria) o di grandezza nume-
rica della mano d'opera impiegata, che ami il rischio (in relazione a crisi, ecc.) che implica la produzione in
grande stile, ecc. quale è, nella rappresentazione grafica, OQ" (rispetto ad OQ).
Ma può darsi che si tratti di soggetto amante del «quieto vivere», che a parità di utile monetario,
netto, ritraibile, preferisca limitare la quantità prodotta dopo l'imposizione progressiva, ad OQ'. È un effetto
deprimente che la legislazione fiscale del tipo supposto esercita sulla mentalità di chi agisca soprattutto in
cerca del tornaconto in termini di utile monetario, ma che determina (supposta invariata la curva di doman-
da) p'Q' > pQ e traslazione parziale del tributo considerato. L'imposta progressiva ipotizzata, riferita all'as-
se delle ascisse, è rappresentata dalla linea tratteggiata RZL, tale che ZQ = uU.
Però detta «scelta», che è indifferente in ipotesi di economia atomistica non vincolata, quando ogni
decisione sia lasciata ai singoli, può non esserlo quando lo Stato si interessi ai riverberi sociali della attività
dei privati. È uno dei modi di considerare vincoli economici che la classe governante introduce nel campo
dell'economia di mercato, ad esempio, allo scopo di provocare una condizione di massima occupazione del
fattore di lavoro, d'andamento della produzione, di riduzione dei prezzi, ecc.
In questo caso e, per questo fine, che entra, come ipotesi, nelle visioni dell'equilibrio generale, alla
luce anche delle teorie di tipo Keynesiano indicate nella Introduzione, lo Stato può perseguire i fini simul-
tanei: α) di riduzione dell'utile del monopolista e del prezzo per le ragioni esemplificate sopra; β) di occu-
pazione massima del fattore lavoro in base a ragioni indipendenti e contemporanee. Appunto, possono tali
ragioni consistere nel provocare, con l'occupazione, una maggior domanda effettiva onde ristabilire l'equili-
brio nell’ambito ciclico fra risparmio e investimenti, per evitare la critica al sistema (pura economia di mer-

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cato), quando esso nella propria funzionalità avvalori il sofisma (che ha avuto portata anche storica nel pe-
riodo della «grande crisi») quale emerge dalla possibilità di produrre beni, occupare lavoro ed elevare i
consumi, con la quale contrastano in concreto, o possono contrastare in via ipotetica, la disoccupazione, la
contrazione del reddito e dei consumi.
È questo un momento ipotetico che fa entrare, razionalmente, nei ragionamenti il fattore spesa pub-
blica, nel processo traslativo modificandolo Mi riferisco alla erogazione di un premio di produzione a favo-
re dell'imprenditore, il cui importo, come caso-limite, può essere attinto al provento della stessa imposta
progressiva sull'utile netto (o ad altri proventi di tributi progressivi sugli alti redditieri od al prestito pubbli-
co): ma congegnato come premio proporzionale alla (o anche progressivo col crescere della) quantità pro-
dotta, abbassando, in relazione all'andamento della domanda, immutata, il prezzo al livello p"Q" < pQ <
p'Q' per il prodotto considerato. (Supponiamo trascurabile relativamente, la variazione di prezzi provocata
dall'ottenimento del premio come importo spendibile dallo Stato).
Nella rappresentazione grafica il premio sia rappresentato - nel caso di premio proporzionale alla
quantità prodotta - dalla retta OM e, cioè, per le varie quantità comprese fra O ed L, dalle ordinate calate
dalla OM, sulla OL, a cui in questa costruzione convenzionale diamo valore positivo nel bilancio economi-
co dell'imprenditore.
Data la indipendenza eppure la simultaneità dei fini statali supposti, è necessario che la spesa pub-
blica, che si traduce in premio, sia tale da sopprimere l'indifferenza delle scelte del produttore, a parità di u-
tile netto (due massimi di valore numerico eguale), indifferenza che in via probabilistica potrebbe portare
parimenti, come si è visto, a seconda della psichica dei soggetti, alla quantità offerta OQ' ed alla quantità
OQ", in conseguenza del solo prelievo dell'imposta.
Insomma la scelta univoca e certa che si intende provocare deve razionalmente conciliare la visione
statale dell'interesse o benessere collettivo (in termini di maggiore produzione, minore prezzo, massima oc-
cupazione, ecc.) con quella individualistica del produttore a cui carico si sia messa l'ipotetica imposta pro-
gressiva sull'utile monopolistico, quando egli ragioni, per assunto, in base a sole quantità monetarie ed o-
biettive e quando le si voglia rendere determinanti nel senso convergente in cui opera la psichica del «capi-
tano d'industria».
Perché questa simultanea e coerente esistenza di fini ed effetti si verifichi in sede di esperimento
ipotetico (e di fenomeno approssimativamente corrispondente) occorre che effetto della erogazione, come
spesa statale in premio di produzione, sia l'offerta da parte del monopolista di una quantità OQ", nel nostro
esempio e, in generale, maggiore di quella OQ di equilibrio anteriore alla introduzione dell'imposta.
C) Le conclusioni tradizionali che parevano pacifiche in quanto basate su sole quantità obiettive e
monetarie, su invarianza della curva di domanda, ecc., sono state attaccate come «false» e «ingannevoli»
per la chiara visione della teoria della tassazione e dell’employment.
In particolare il Boulding ha espresso questo pensiero (252), che pare non sia isolato, e non soltanto
perché il Tintner ha cooperato a dare una illustrazione geometrica dell’assunto del collega nord-americano.
Soprattutto crea divergenze di conclusioni, il riferimento che si fa all’ipotesi che si è già considerata in sede
di premesse dell’imposizione progressiva e nel paragrafo che precede: e cioè, che non la sola variabile mo-
netaria, in cui sia espresso l'utile massimo del monopolista, in questo caso, è quella che determina il pro-
blema; ma la ricerca di un massimo vincolato a preferenze soggettive, in tema di soddisfazione che offre
l'organizzazione della produzione e il conseguente volume di essa, e in genere il piacere di svolgere attività
di imprenditore o di datore di lavoro, quale «capitano d'industria», ecc.
Sintetizzo il pensiero del Boulding, come ho esposto, con intento di analisi critica, occupandomi del
tema «Effetti delle imposte e teorie del full employment» (E. D'ALBERGO, in «Economia Internazionale», a-
gosto 1948, cit.):
a) La impossibilità della traslazione (presunta dalla nota analisi economica) di un'imposta sui pro-
fitti è basata sull'assunto di una politica di impresa (monopolistica) orientata verso la «massimizzazione»
del proprio utile (in termini obiettivi o monetario).
b) Questa supposizione è, per il Boulding, una «prima grossolana approssimazione»; essa, addirittu-
ra, è talmente lontana dalla realtà, da riuscire ingannevole (misleading).
c) Per chiarire il pensiero di questo autore, preciso un altro supposto che caratterizzerebbe l'impo-
stazione classica (di cui si da la rappresentazione, ragionando in base a quantità globali): per gli imprendito-
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(252) The incidence of a Profit tax, in «The American Economic Review», settembre 1944.
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ri che abbiano interesse a raggiungere il massimo profitto, sono indifferenti le dimensioni dell'impresa, a
meno che esse influenzino il profitto totale.
Il Boulding si è proposto di analizzare la condotta dell'impresa, basandosi sulle seguenti ipotesi più
realistiche, e di «usare dell'analisi» per provare ciò che è asserito fortemente dagli uomini d'affari e «nega-
to» dagli economisti: e, cioè, che l'imposta sui profitti monopolistici può avere effetti sui prezzi e sulla pro-
duzione dell'impresa. Naturalmente non contesta, date le sue premesse, la conclusione tradizionale: che
l'imposta commisurata all'utile netto, lascia immutata la quantità prodotta e fa contrarre il profitto (la curva
rimane abbassata in funzione dell'imposta). Ma la validità della conclusione tradizionale è, per il Boulding,
subordinata alla ipotesi della perfetta elasticità della curva di indifferenza che esprime, appunto, l'elasticità
di offerta di «intrapresa» (termine che esprime volontaristicamente il «programma di realizzare profitti»).
Detta «supply of enterprise», di cui riconosce la difficoltà di misurazione, esiste ed è importante.
Ma essa - non può essere negato dall'autore, che pure non ne fa cenno - costituisce una variabile
non considerata (per lo meno in codesti termini) nelle ipotesi tradizionali ed anche recenti, in cui, per dirla
con il Ricci, il monopolista è supposto ligio alla «voce del tornaconto», raffigurato in termini di profitto
monetario e tende al massimo. La variabile di Boulding è di carattere subiettivo (contrapposto a quella di
natura obiettiva che si concreta nel massimo profitto monetario raggiungibile). Invero l'a. pone innanzi due
tipi di imprenditori: I) l'estremamente ambizioso di far da «capitano» di una grande industria, amante del
prestigio e della potenza, che preferirà spingere l'espansione dei propri affari a costo, anche, di minori pro-
fitti (rispetto a quelli altrimenti conseguibili); II) colui che non ama i fastidi che provengono dalla gestione
di una grande impresa, che vive di altri interessi, schiva i rischi, ama il quieto vivere e preferisce una minor
produzione, a costo di minor profitto.
Non si comprende come il Boulding, di cui non si contestano le ipotesi, che sono fra le infinite pos-
sibili e anche alquanto frequenti, in senso storico-statistico, non abbia ritenuto inseribili dette supposizioni
nello schema tradizionale, che pure, per apporto di vari studiosi, contempla anche i casi di mancato rag-
giungimento della quantità offerta o prodotta, massimizzante l'utile monopolistico, anche per ragioni extra-
economiche. In altri termini, escluso che si tenda al massimo (per il quale valgono le mal criticate uniformi-
tà in tema di traslazione) si possono pensare altre variabili (anche subiettive, ad alcune delle quali tosto si
accenna come già individuate da altri autori) che facciano scostare dalle considerazioni di prezzi e quantità
compatibili con il massimo (vincolato dal fatto ipotetico tributario). Ossia, vanno accolte o sostituite - non
criticate nel senso del Boulding - le premesse che indussero Cournot ed altri economisti a determinare il
problema, con necessaria accettazione delle conseguenze logiche.
La collaborazione del Tintner, come si è detto, ha fatto pervenire alla espressione della elasticità di
«supply of enterprise»:
a) in senso positivo (curve di indifferenza del produttore inclinate positivamente e considerate nel
punto di tangenza con la curva dell'utile). È il caso dell'individuo «cauto» ed amante del quieto vivere e che
rifugge dai rischi di una larga produzione. In tal caso un'imposta sull'utile netto potrebbe (253) abbassare il
desiderio dell'imprenditore di impegnarsi in nuovi affari.
b) L'inclinazione negativa riflette il caso opposto.
c) Nel caso-limite di elasticità perfetta di «supply of enterprise», si avrebbe curva di indifferenza
parallela all'asse delle ascisse, con massimizzazione di profitto, ovvero tangente nel punto di Cournot alla
curva dell'utile.
Il caso del primo tipo di imprenditore è accentuato (in base al «rischio crescente», nozione utilizza-
ta dal Kalecki) nell'ipotesi in cui l'impresa operi con capitale non proprio.
Dal seguente diagramma che espongo, risultano gli opposti casi di produzione minore e maggiore,
rispettivamente, di quella OD di equilibrio, che massimizza i profitti del caso della teoria classica, in rap-
porto al massimo utile netto DB, che diviene DB', dopo l'imposta proporzionale all'utile o profitto netto.
Alle variazioni di quantità rispettivamente da OF ad OH, e da OF' ad OH', corrisponderanno varia-
zioni di prezzi del prodotto nel senso: I) dell'aumento o II) dèlla diminuzione con l'allontanarsi verso O o
verso C dal quantum corrispondente al punto di Cournot (B), misurato dal segmento OD.

__________
(253) Esprimo una semplice possibilità collegata con il tipo di indifferenza adottate nello schema Boulding-Tintner.
Più avanti raffiguro un diverso andamento delle curve di indifferenza, peraltro ritenuto più adatto a riflettere le «scel-
te» collegate alle «psicologie» di imprenditori ipotizzati.
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I,,'incidenza parziale sui consumatori dell'imposta proporzionale che abbassa la curva dell'utile net-
to dalla ABC alla AB'C, con contrazione della produzione da OF ad OH, si avrebbe nel I caso. Nel II, per
l'«alchimia misteriosa» della umana natura, non soltanto l'intero onere dell'imposta rimane a carico dell'im-
prenditore; ma questi compirebbe sforzi ulteriori per accrescere la produzione, con vantaggio della colletti-
vità.
Corrisponderebbe all'optimum collettivo, la costanza e, meglio, l'aumento della produzione, compa-
tibilmente col vincolo fiscale; soprattutto il premio ai produttori risponderebbe allo scopo, in rapporto alla
occupazione. Comunque la teoria classica indurrebbe in errore e, di massima, appare non realistica o inade-
guata a spiegare

i problemi di tipo Keynesiano: questo è il succo della asserzione che anima, lo scritto del Boulding
e che, a prescindere da quanto l'autore pensa, comunque induce a porsi il problema teorico che viene qui
prospettato.
Sciolgo la riserva contenuta nella ultima nota, in cui asserivo che l'effetto dell'imposta sui profitti
monopolistici potrebbe essere quello descritto dal Boulding, per mettere in evidenza ipotesi da cui si ricavi-
no effetti diversi o addirittura opposti.
Invero, basta considerare curve di indifferenza che si aprano «a ventaglio», meglio rispondenti alla
psichica di chi è restio ad estendere le dimensioni dell'azienda («cauto») e, appunto per questo, è abbiso-
gnevole di stimolo (profitto) crescente, relativamente all'ammontare della «supply of entreprise».
Questa che è una mia visione particolare o rispondente ad una configurazione psicologica del pro-
duttore, è sembrata degna di generalizzazione (254).
Questo modo di variare del profitto, si ammetta o meno detta generalizzazione costituisce la «causa
efficiente» particolarmente considerata nella mia visione, atta a giustificare la divergenza della curva di in-
differenza, non soltanto con inclinazione positiva, ma anche con inclinazione negativa. In tal caso, il saggio
negativo di variazione dei profitti è compatibile con la psichica relativa all'imprenditore, che intende allar-
gare la produzione, purché un profitto, sia pure decrescente, sia ottenibile, assicurando, appunto, una data
soddisfazione.
__________
(254) In questo senso, la,mia esposizione ipotetica, fatta presso il Laboratorio di Economia e Finanza dell'Università
di Bologna, è stata vista dall’allievo Guglielmo Gola presso lo stesso seminario scientifico. Nel senso, cioè, che per gli
imprenditori «cauti», con l'aumentare della produzione (sforzi), si richiedano incrementi di profitto via via maggiori di
quelli che pure, per quantità prodotte (sforzi) minori, danno eguale incremento di soddisfazione (con passaggio alla
medesima curva di indifferenza di indice più elevato). Analogamente, ma in senso contrario, si raffigurerà la psichica
dell'imprenditore «attivo»: con l'aumentare della produzione (dimensioni dell'impresa), via via minori incrementi di
profitto occorrono perché l'individuo ritragga eguale incremento di soddisfazione rispetto a quella della combinazione
di sforzo ed utile relativo appartenente a curva di indifferenza ad indice minore.
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Curve di indifferenza, che qui introduco «a ventaglio», erano state considerate come familiari e lo-
giche nello studio delle variazioni delle ofelimità, con convessità verso l'ascissa, per taluni beni di cui si
consideri l'unità subiettiva di incrementi di quantità, rispetto ai bisogni. A maggior ragione sono ammissibi-
li in questo campo (soddisfazioni del produttore) in cui, specialmente nell'ipotesi di monopolio, combina-
zioni riguardanti l'offerta e i prezzi sono nel dominio della volontà del soggetto, con un campo di variazioni
più ampio di quello che è riservato alla relazione tra quantità consumabili, apprezzamenti utilitari e bisogni
dell'edonista consumatore.
Comunque, ammessa questa famiglia di curve e facendo, per brevità, riferimento alla rappresenta-
zione grafica, non soltanto non troviamo verificato, in sede logica, l'effetto della diminuzione della quantità
prodotta, dovuto alla imposizione del profitto del monopolista; ma la serie a, a', a",….. di curve di indiffe-
renza a inclinazione positiva e quella b, b', b"….. a inclinazione negativa, legittimano

la costanza della quantità prodotta, in seguito a prelievo proporzionale dell'imposta sui profitti.
Infatti OF, come quantità prodotta, non muta con l'introduzione dell'imposta con andamento AB'C,
perché le curve di indifferenza aa" sono tangenti in E e G - alle curve dell'utile rispettivamente al lordo e al
netto dell'imposta - sulla stessa ordinata EF.
Inoltre la divergenza dei gradi di inclinazione che qui ipotizzo, può essere tale che, rappresentando-
la corrispondente a quella che la curva m realizza nei confronti della a, addirittura effetto dell'imposta è un
aumento della quantità offerta della merce considerata, prodotta dal monopolista avente la supposta confi-
gurazione psicologica, avendosi per m tangente in H, OK > OF.
Il che ci dice che, una volta ammessa la relatività psicologica, è troppo rigida la rappresentazione
geometrica del Boulding ed esclusiva di altre ipotesi. Le quali annullano la conclusione logica generalizzan-
te di questo autore (e di quanti ne seguono il pensiero) e adducono a conclusioni opposte. Le quali, appunto,
sono maggiormente compatibili con le visioni di tipo Keynesiano dell'equilibrio economico generale, de-
terminabile anche in funzione della manovra delle quantità tributarie.
Ho seguito sin qui le impostazioni del Boulding e del Tintner per portare la critica nel campo delle
loro ipotesi. Ma a me interessa, se non la riabilitazione, la difesa dell'impostazione razionale e fin qui paci-
fica (come anche atta ad interpretare il mondo reale, e il suo divenire) degli effetti economici dell'imposi-
zione, che gli autori qui presi in considerazione denominano «classica».
Rispetto a questo gruppo di ipotesi e di ragionamenti, la critica, peraltro, di scarso realismo (quando
si considerino problemi di tipo Keynesiano, o comunque di relazioni fra effetti tributari ed «employment»)
va proprio rivolta al Boulding ed a quanti ne condividono le vedute. Il motivo è che queste pretendono il
superamento o, peggio ancora, la reductio in absurdum delle acquisite teorie. Invero si trascura (insistendo
sull'implicita clausola della «imposta grandine») proprio l'iniziativa statale o la spesa che solleciti gli inve-
stimenti e influenzi i consumi. Codesto tipo di imprese diviene, in tal caso, strumento necessariamente utile
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per l'ottenimento di una situazione di occupazione integrale. Ma prima di tornare su questo punto, indico il
realismo contenuto nelle ipotesi di altri autori, in tema di rapporti fra variazione della produzione e trasla-
zione (o effetti dell'imposizione).
Già sono stati adombrati o trattati casi di soggetti (monopolisti), i quali, senza necessariamente es-
sere influenzati da preoccupazioni o gusti del tipo di quelli che ha posto innanzi il Boulding per l'ambiente
economico concreto (nord-americano in ispecie), sfuggano alla sollecitazione della voce del tornaconto
(tendenza al massimo di Cournot) e con cui gli autori, tuttavia, non pretendono di infirmare, ma consentono
di confermare la teoria della traslazione.
Mi limito a una succinta indicazione di qualche ipotesi di «non-massimizzazione» dell'utile netto.
Un calcolo (non filantropia) che induca a familiarizzare il prodotto può indurre il monopolista, specie per
un periodo breve, ad estendere la produzione ad un livello eccedente quello immediatamente compatibile
con il massimo di Cournot. È il caso, in cui davvero non si è perduto di vista l'interesse collettivo, previsto
dal Marshall (255) del beneficio compromissorio, che conduce all'offerta X' > X (ad un prezzo PI < P0, que-
st'ultimo supposto tipico dell'equilibrio in un punto massimizzante l'utile) .
a) Pur di fronte ad altro tipo di imposta (sulle merci) un caso di attrito, assai realistico, viene pro-
spettato dal Barone: produttore che, allorquando arriva l'imposta, non riesca a ridurre la produzione (Prin-
cipii, paragrafo 368) in modo da portarsi sul punto di massimo utile compatibile con il vincolo tributario.
b) Wicksell prospetta il caso in cui, in realtà, non si rettifichi il prezzo e, quindi, a parità di elasticità
della curva di domanda, la quantità offerta non si modifichi: fra le altre ragioni, ciò avviene perché il gua-
dagno (per il risparmio dell'imposta) che il monopolista può realizzare, è piccolo. Approssimazione realisti-
ca, anche questa, della teoria tradizionale, al concreto (Saggi di finanza teorica, cap. II, in «Nuova Collana
di Economisti»).
c) Studiando la flessibilità dei prezzi in regime di monopolio, in ambiente nord-americano, terra
delle organizzazioni monopolistiche, T. de Scitovzsky accenna ai costi subiettivi che sostiene l'imprendito-
re, accanto a quelli obiettivi. Fra gli esempi, figura il timore di reazioni politiche o della pubblica opinione,
provocate dalla condotta «massimizzante» l'utile: condizione questa (di massimo) che va limitata, con l'av-
vertenza che i risultati dell'indagine teorica vanno integrati da detti vincoli soggettivi all'azione. Essi ricor-
rono in termini diversi in Cournot, Seligman, Pantaleoni, nelle moderne trattazioni di Bresciani Turroni,
Demaria, ecc., accanto al timore dell'arrivo o ingresso dei concorrenti, od alla speranza di apparire o sentirsi
moralmente coerenti con fedi di sistemi politici (corporativo, secondo Da Empoli), con influenza sul
quantum prodotto, sul prezzo adottato e allontanamento dal punto (utile lordo, netto e produzione) «massi-
mizzante» di Cournot.
Questi richiami vogliono indicare l'esistenza di visioni realistiche anche nell'ambito di teorie dalle
quali esuli una diretta visione di optimum sociale e, tuttavia, teleologicamente riducibili al punto di vista
che tengono presente gli studiosi di problemi dell'employment.
In altri termini: il caso-limite, esposto per la coerente utilizzazione teorica di tutte le possibilità che
sono concesse a chi si trovi in condizioni di monopolio totale, ha valore di formulazione di tendenza. Que-
sta osservazione non viene meno anche di fronte alla dizione dell'Edgeworth (256), riferentesi a quantità che
deve riuscire massima, quando il prezzo di monopolio è determinato dalla condizione che il guadagno netto
del monopolista «debba» essere un maximum. È logico che a siffatta posizione finale di equilibrio, corra la
mente di chi consideri l'interferenza di un vincolo tributario del tipo kr (imposta proporzionale al profitto) o
arh (progressiva sul profitto netto del monopolista. Donde la costanza della quantità prodotta in conseguen-
za di scelta coerente del produttore-monopolista, compatibile con l'interferenza di detto vincolo tributario.
Il Cournot, di fronte ad una imposta del tipo rI, dove I sia uguale ad un massimo valore di xf(x) -
F(x), (termini rispettivamente rappresentativi del massimo ricavo lordo e del costo totale), ed r è l'imposta
proporzionale al profitto netto, aveva avvertito che detta imposta «non influisce direttamente sul prezzo del-
la derrata nè sulla produzione della stessa, come non gravita sul consumatore. Il suo risultato immediato è
di diminuire il reddito o la ricchezza capitale del produttore». Ma egli ritiene che detto prelievo risulti di
pregiudizio al generale interesse, perché la somma è generalmente adoperata in modo meno profittevole al-
l'aumento del prodotto annuo della ricchezza nazionale e del benessere della popolazione, che se fosse ri-
masta a disposizione dello stesso produttore.
__________
(255) Principii, cit. paragrafi 269-270.
(256) Nel «Giornale degli Economisti», 1897.
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Il Cournot continua avvertendo: «Non esaminiamo adesso gli effetti di un tal prelevamento sulla di-
stribuzione dei prodotti della natura e del lavoro, quantunque questo sia l'oggetto finale dei problemi che
hanno relazione con la teorica delle ricchezze».
Nello spirito anche di Ricardo, che accenna alla sostituzione, per effetto dell'imposta, della doman-
da statale a quella privata, anche per gli stessi beni, si è avuto il pensiero di Wicksell e di altri italiani, ri-
cordati dallo scrivente nella precedente edizione di questo Corso. Merita per gli stranieri, cultori di queste
materie, indicare che: a) L. Einaudi ha fatto l'ipotesi che l'imposta pagata dal monopolista alimenti la do-
manda statale del «prodotto del medesimo monopolista», il quale potrebbe aumentare alquanto il prezzo e
trasferire in parte l'imposta, in funzione proprio di un aumento di richiesta e di offerta del prodotto; b) nello
schema di De Viti De Marco, se lo Stato e i privati, per effetto dell'imposta, aumentano la domanda del
mercato, il monopolista ha interesse di assecondarla, aumentando la produzione, perché così ripercuote in
tutto o in parte l'imposta.
Non so se si possa negare una certa corrispondenza di visioni dell'intero equilibrio (pur senza entra-
re nella analisi di queste affermazioni conclusive) con quella di tipo Keynesiano, pur se non si ha di mira, in
senso finalistico, il raggiungimento di una condizione di optimum (full employment), quale viene lumeggia-
ta da recenti teorie su cui la grande crisi economica e la guerra hanno proiettato una luce, che chiarisce pre-
occupazioni sociali da analizzare per le basi razionali.
Ma allontaniamoci pure da questi schemi che sono certamente257 assai comprensivi e conciliabili
con le moderne teorie sollecitate da quella che si considera la «rivoluzione Keynesiana», e consideriamo,
per sè, (senza spiegare quale possa essere la fonte che alimenti una maggior domanda della merce monopo-
listica di cui si tassi il reddito netto) l'effetto della elevazione della richiesta di detta merce. Si tratta dell'ipo-
tesi di una elevazione di una curva Marshalliana della domanda, che Edgeworth (Teoria pura dell'imposta,
cit.) ha preso in esame proprio per trattare degli effetti di un'imposta sul reddito netto del monopolista. Con
riferimento alla dimostrazione geometrica del Marshall (paragrafo 266 dei Principii), in cui la curva dell'u-
tile monopolistico è riferita all'unità di prodotto e considerata nei suoi punti di tangenza con curve di reddi-
to costante (tratteggiate), per effetto di un aumento della domanda (da DD' a dd).
L'utile netto da imposta, unitariamente, risulterà elevato ad Lm talché sia Lm > Lh, essendo suppo-
sta costante OL. Non si ha certezza che Lg (nuovo prezzo) sia compatibile con un utile totale massimo. Ma
Edgeworth ha raccolto la premessa Marshalliana che, allorché la domanda di merce monopolizzata «cre-
sca», il «consumatore medio» ne comprerà più di quanto ne avrebbe comperato prima allo stesso prezzo o
ne comprerà quanto prima ad un prezzo più alto. Quindi, in ogni caso, OL immutato o tendenzialmente ON
> OL. Inoltre, lo spostamento di domanda può probabilmente essere tale che riesca Nn > Lh; ma l'utile tota-
le massimo ONnw > OLhv, nonché Onnw >OLmv'; essendo n su di una curva di reddito costante più eleva-
ta di quella a cui è tangente h e non essendo m in un punto di tangenza.
Fatta l'ipotesi di una elevazione della domanda, quindi probabilmente si ha elevazione del profitto
unitario netto (Lm > Lh); ma non si esclude che sia Nn ≤ Lh. La traslazione dell'imposta proporzionale può
avvenire nel senso in cui Jannaccone non intenderebbe che assumesse il nome tradizionale (ma di un bilan-
cio globale con utile netto maggiore di quello del momento logico anteriore all'imposizione), anche senza
aumento di prezzo in corrispondenza. Nella nostra ipotesi, si ha anche l'aumento di prezzo e traslazione nel
senso tradizionale, con utile totale netto ONnw maggiore di quello corrispondente all'utile unitario Lh ed
Lm. Per aversi, con offerta OL, tangenza di m con una curva di reddito costante e, quindi, OLmv' un massi-
mo utile totale, si dovrebbe ipotizzare una particolare variazione della curva di domanda in corrispondenza
di Lg. Di tale variazione, appunto, come si dice nel testo, non si ha certezza. In generale, appare più proba-
bile l'ipotesi di n tangente, di Np < Lg e ON > OL.
Si può dire che dallo schema classico, come asserisce il Boulding, che però non fa l'ipotesi dell'au-
mento della domanda anche in questo caso, esuli l'idea di aumento di quantità prodotte, che potrebbe corre-
larsi con una più generale politica di elevazione della occupazione, fino ad un pieno o anche fino all'ideale
più razionale e durevole di una «alta» occupazione, come si esprime Röpke?
In ogni caso, peraltro, la spesa (che ecciti «inducement to invest» e «propensity to consume») per
intervento statale, che attinga anche a maggiore utile netto (dovuto ad elevazione del profitto del monopoli-
sta di cui sia, in un primo momento, aumentata la domanda) potrà tradursi in aumento ulteriore della spesa

__________
257
Si vegga: EINAUDI, Principii di Scienza delle finanze, 1940, pag. 247.
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statale e dei privati. In altri termini, si può qualificare quale sta la fonte od origine della maggior domanda
pubblica.
In ipotesi di finanza straordinaria, il Borgatta aderisce a mia ipotesi già nota, che fa proprio il caso
del consumo degli stessi beni del produttore, per sostituzione della domanda statale a quella privata, in fun-
zione del prelievo di tributi o di altre forme di forzata diminuzione del consumo. Ma la domanda può orien-
tarsi anche verso beni prodotti da altri gruppi di produttori. Lo schema si allarga senza contrastare con la
strumentalità tributaria di tipo Keynesiano.

V.

TRASLAZIONE IN CONDIZIONE Dl MONOPOLIO PARZIALE.

Ragionando intorno all'ipotesi del monopolio totale, lo si è distinto da quello «puro» che, come si è
visto, presuppone il controllo di tutta l'offerta, su un intero mercato, da parte di un unico produttore. Questa
ipotesi («puro») si realizza in regime di economia integralmente vincolata e dominata dall'ordinamento sta-
tale collettivistico. Soltanto in tale caso non ha significato dire che il monopolio è soggetto alla concorrenza
eventuale o potenziale e probabile.
Per contro la condizione di monopolio totale è «minacciata» permanentemente dall’ombra del so-
pravvenire della concorrenza (perciò detta potenziale).
Allorché il monopolista non riesce effettivamente a dominare il mercato nell'offerta del proprio
prodotto, e il pericolo probabile della concorrenza si trasforma in certezza della evoluzione della concorren-
za da potenziale in effettiva e coesistente, entro certi limiti, mediante l'offerta di imprese minori concorren-
ti, si viene ad introdurre nei ragionamenti l'ipotesi del monopolio parziale.

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Il dominio del monopolista viene a limitarsi ad un settore del mercato del prodotto offerto: ad es.
per riferire il rapporto che figura in casi ipotetici numericamente esposti dall'Amoroso, si può ammettere,
come condizione anche rispondente frequentemente al concreto, che una grande impresa (od un trust di im-
prese) domini due terzi del mercato, sul quale portino simultaneamente l'offerta della stessa merce o dello
stesso prodotto altre, solitamente minori, imprese concorrenti (258).
1) In questa situazione, di monopolio parziale, rispetto a quella di monopolio totale, la «potenza
dell'impresa» risulta limitata e il campo di manovra del prezzo diviene ristretto, per l'operare simultaneo
della reazione dei consumatori e della reazione della concorrenza (oltre che dall'andamento delle curve dei
costi nei due campi di produzione rispettivi).
2) L'elasticità incrociata della domanda, nel significato che subito riferisco, nel caso di monopolio
parziale, in cui si considera la relazione fra la politica dei prezzi di un'impresa (o di un gruppo agente unita-
riamente) e le rimanenti (N) imprese coesistenti, è, teoricamente, una quantità finita e, praticamente, rile-
vante (259).
[Dicesi «elasticità incrociata della domanda» (cross elasticity of demand) il rapporto fra la variazio-
ne relativa della quantità domandata della merce y, conseguente ad una variazione (relativa) del prezzo Px
della merce x, quando Py, prezzo di y, sia costante.
In simboli:
dy
y p dy
px E y = = x
dp x y dp x
px

È evidente -che, nel caso qui in esame, tale concetto deve essere adattato, nel senso che x e y si rife-
riscono alla stessa merce, omogenea, offerta dall'impresa parzialmente monopolista (x) e dalle imprese con-
correnti (y)].
Inoltre, chiamando P' la variazione del prezzo in regime di monopolio parziale possiamo scrivere:

P' = f (e, s)

dove e, l’elasticità della domanda, è data da

dx + dy
x+ y
e=−
dp
p

(con x parte della domanda soddisfatta dall'impresa parzialmente monopolistica, e y parte della do-
manda soddisfatta dalla concorrenza), ed s, reattività della concorrenza, è data da

__________
(258) Questa situazione può spontaneamente crearsi sul mercato, in regime di concentrazione industriale, o può essere
determinata con l'introduzione di vincoli, parzialmente, da parte della classe governante. Un esempio può trovarsi nella
legislazione che ha introdotto il controllo nelle autorizzazioni di nuovi impianti industriali e che mirerebbe a far coesi-
stere, con le predominanti, maggiori imprese, le minori a cui venga riservata, così, parte del mercato.
(259) Il concetto di elasticità incrociata della domanda può costituire, invero - secondo quanto si fa risalire al Kaldor
- un modo di distinguere le condizioni del mercato, dal punto di vista dei rapporti quantitativi che corrono fra l'azione
o il comportamento di un’impresa e le rimanenti ipotizzate, a seconda dei casi, come effettivamente coesistenti oppure
come virtuali o potenziali. Nelle condizioni di concorrenza perfetta e di monopolio totale l'elasticità incrociata della
domanda è nulla, come appare evidente dalla definizione delle condizioni stesse.
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dy
y
s=−
dx + dy
x+ y

che è il rapporto fra saggio di variazione dell'offerta della concorrenza e saggio di variazione del-
l'offerta totale.
In altre parole, in prima approssimazione si può dire che (a differenza di quanto si è visto nel caso
di monopolio totale), nel caso che qui si ipotizza, un aumento di prezzo tentato eventualmente dall'impresa
(o gruppo di imprese collegate) parzialmente monopolista, per trasferire l'imposta, può raggiungere un li-
vello inferiore a quello prevedibile in regime di monopolio totale. Questo si afferma perché la coesistenza
della concorrenza, con l'offerta aggiuntiva - sollecitata dal maggior prezzo tentato dalla impresa predomi-
nante - fa da freno all'aumento del prezzo medesimo che, quindi, è relativamente minore in regime di mo-
nopolio parziale.
Si pensa alla variazione del prezzo, come mezzo per attuare la traslazione di una ipotetica imposta
sulle quantità prodotte. Se queste sono omogenee (prodotto identico), si deve supporre che, normalmente,
l'imposta si riferisca anche al prodotto offerto dalle coesistenti imprese concorrenti (N).
L'imposta, dopo quanto si è premesso, se si traduce in aumento di costi, si aggiunge al maggior co-
sto marginale delle minori quantità offerte dall'impresa (A) (se effetto dell'aumento del prezzo è di ridurre la
quantità normalmente prodotta in regime di costi decrescenti), e simultaneamente si aggiunge al maggior
costo marginale delle maggiori quantità offerte (a costi crescenti) dalle (N) imprese concorrenti, frenandone
l'offerta entro certi limiti.
Il risultato per l'impresa (A), tendenzialmente, sarà costituito da una minore possibilità di elevare il
prezzo per trasferire l'imposta.
Se vogliamo dare un'idea vaga e grossolana, ma immediatamente evidente delle diverse condizioni
in cui si svolge la traslazione, rispetto al caso in precedenza illustrato con dimostrazione geometrica

per il monopolio totale, possiamo fare riferimento alla figura 35, limitandoci al solo caso dell'impo-
sta proporzionale alle quantità prodotte, ricavandone la figura 40.
Invero, l'aggiungersi della reazione della concorrenza alla reazione dei consumatori nel mercato
particolare (in cui prima dominava il monopolista) nel rendere parziale il dominio di questi, frenando la
manovra dei prezzi, si può ritenere equivalente, pei risultati definitivi (utile netto da imposta), ad un accen-
tuarsi della elasticità della domanda, quale figura nel diagramma 40. È come se la curva DD' fosse stata so-
stituita dalla dd' tratteggiata, con minore inclinazione rispetto agli assi ortogonali.

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In tal caso il prezzo aumenterà di meno e la traslazione sarà inferiore che nel caso in cui non si po-
stuli una accentuazione della elasticità della domanda, ipotesi che ho introdotto per assommare alla reazio-
ne dei consumatori la reazione delle imprese concorrenti che si ha nel caso del monopolio parziale. (È un
modo grossolano di dare l'idea della traslazione in questa seconda ipotesi, ponendoci dal punto di vista del
produttore che domini parzialmente il mercato, per il quale l'equivalenza di ipotesi che precede è ammissi-
bile quantitativamente).
Per un semplice chiarimento di idee, si ripensi alla curva del massimo utile e si introduca una ac-
centuazione della elasticità della domanda, a sinistra del punto di massimo utile, tale che la curva degli in-
cassi a cui si era contrapposta la curva dei costi, risulti modificata - in relazione alla supposta, accentuata
elasticità della domanda - in modo da far discendere secondo MN (anziché secondo MN') la curva dell'utile
netto a sinistra del punto massimo.
Data l'imposta del tipo ipotizzato, a traslazione avvenuta il punto di equilibrio non si avrà in M', a
sinistra di M sulla prima curva, ma in un punto intermedio M" sulla curva modificata, in modo che ad esso
corrisponde un prezzo minore di quello che corrispondeva al punto M' (naturalmente maggiore di quello
che era in vigore nell'ipotesi del conseguimento di M, massimo dei massimi, prima dell'imposta).
L'utile netto che rimane all'impresa che predomini un settore del mercato, nella figura, dopo il ten-
tativo di trasferire l'imposta, è M"t", minore di M't', conseguibile in regime di puro monopolio quando l'uni-
ca impresa che domini l'intero mercato effettui la traslazione dell'imposta ipotizzata. Anche la restrizione
dell'offerta - che poteva essere compiuta per la quantità QQ' dal monopolista totale - si 'limita alla quantità
QQ", data la possibilità di ingresso delle imprese concorrenti nel settore dell'offerta lasciato libero.
Attraverso un artificio, che si è rivelato convincente didatticamente, cioè ritenendo che la reazione
della concorrenza (nel caso del monopolio parziale o della concentrazione industriale in cui un'impresa do-
mini un settore del mercato) negli effetti equivalga ad una accentuazione della elasticità della domanda nel
caso del monopolio totale, a sinistra del punto di massimo, si è cercato di dare una qualche grossolana idea
della modificazione del prezzo e dell'utile netto nell'ipotesi che si è considerata in questo paragrafo, in cui il
prezzo ha un campo di variazione limitato dalle due reazioni di e e di s.

VI.

TRASLAZIONE IN CONDIZIONI DI CONCORRENZA MONOPOLISTICA.

Per contrapposizione all'ipotesi di concorrenza perfetta, si dovrebbe adottare la qualifica di concor-


renza imperfetta per questo caso, accogliendo la terminologia che ha reso familiare la Robinson con la cita-
ta opera. Comunque denominato, è il caso più frequente in concreto, nell'industria e forse ancor più nel
commercio di ogni grado.
Ma la reazione del Chamberlin (cit.) dimostrata nella serie di conferenze tenute in università euro-
pee sui tema, avverso alla confusione del suo punto di vista con quello della Robinson, e la difesa ad un
tempo della priorità della propria concezione, inducono a pensare se non sia preferibile, in queste pagine,
adottare l'espressione di questo autore, e ciò «pour cause», nel qualificare questo caso ipotetico.
Invero, in queste pagine l'elemento monopolistico viene considerato dal punto di vista del grado di
possibilità di controllare, a prescindere dalla volontà dell'impresa (visione deterministica), e dalla intenzio-
ne di controllare (visione finalistica) il prezzo del mercato e l'offerta propria e di altre imprese.
L'elemento monopolistico, cioè, risulta effettivamente permeante le situazioni in cui avviene l'offer-
ta e le ipotesi corrispondenti di teoria pura. Orbene, chi scorra le pagine della Robinson nota confronti di e-
lementi separati di concorrenza e di monopolio, pur se il concetto di «controllo» del mercato non manca (si
veda, ad es., a pag. 10 dell'opera citata).
Per vero, l'elemento monopolistico, come sopra è detto, va considerato come atto a qualificare si-
tuazioni di offerta, in quanto fuso o combinato con l'elemento della concorrenza. Per questo il Chamberlin,
nel caso della concorrenza monopolistica, pone l'accento sulla «fusione» delle teorie, finora separate, del
monopolio e della concorrenza (laddove la concorrenza imperfetta, oltre a far pensare ad attriti dell'operare

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delle forze economiche, lascia sussistere la dicotomia convenzionale che nettamente separa concorrenza da
monopolio). E ciò anche «inconsciamente».
Fatte queste avvertenze, a spiegazione del motivo razionale che fa preferire il concetto di concor-
renza monopolistica, fissiamone le caratteristiche.
I) Esistono numerosi offerenti, cioè vi è un gruppo in cui ognuno è monopolista nel «suo» mercato,
compatibilmente con la concorrenza delle altre imprese da cui quello non è isolato.
II) Ogni prodotto è eterogeneo, da vari punti di vista: ad es. del modo di presentarlo, del luogo in
cui è offerto (differenziazione spaziale), del nome che lo distingue, del marchio di fabbrica, ecc.
In una sola espressione: il prodotto è differenziato in rapporto alla varietà dei gusti o delle preferen-
ze dei consumatori e, in genere, di quanti ne fanno domanda; ha, cioè (a differenza dei casi finora conside-
rati di identità di prodotti) per ogni impresa o «ditta» un minimo di «individualità» propria.
III) Il sistema generale di preferenze dei consumatori, fa sorgere per la singola impresa o «ditta» (il
termine firm ricorre con insistenza particolarmente in questa trattazione presso gli anglosassoni) una curva
di domanda inclinata rispetto agli assi come espressione del generale desiderio di varietà (Chamberlin).
IV) Ogni impresa o «ditta» è in grado, pur stando in rapporto con altre, di adattare e modificare, fin
dall'inizio della propria attività, prezzi, spese di vendita (particolarmente di pubblicità, per creare o interpre-
tare in modo differenziato i gusti dei consumatori).
V) Vi è possibilità di «ingresso» nel mercato ad imprese che producano od offrano non l'identico
prodotto, ma un prodotto affine o «similare», con influenza sui profitti o utili delle imprese che offrano il
prodotto differenziato nel «proprio» mercato, che è relativamente riservato (non assolutamente come nel
caso del monopolio totale).
VI) L'elasticità incrociata della domanda, nel senso in precedenza spiegato, è positiva e finita e, di
massima, relativamente più sensibile che nel caso del monopolio parziale.
VII) Vi è, come risultato, una simultanea varietà di prezzi normalmente e variabilità di produzione e
di profitti, molti dei quali possono sussistere in brevi periodi (o si cancellano a lungo andare).
(Come caso limite si può avere l'annullamento dei profitti eccedenti il normale, o di concorrenza
perfetta).
VIII) Normalmente nella concorrenza monopolistica il prezzo è più alto, a parità di elasticità di
domanda, e la quantità offerta minore che nel caso di concorrenza perfetta. Ovviamente, ciò vale nell'ambi-
to delle ipotesi che abbiamo qualificato come proprie della teoria classica, allorché, studiando il caso del
monopolio puro, totale, si sono introdotte visioni che fanno dipendere la posizione di equilibrio del produt-
tore anche da quella che è stata definita «volontà di realizzare profitti».
Premesse queste caratteristiche che sembrano inquadrare il caso della concorrenza monopolistica,
consideriamo un'impresa appartenente ad un gruppo di esse, e ipotizziamo l'intervento di alcuni tipi di im-
poste, come vincoli tributari che modifichino o condizionino l'equilibrio, pro-tempore, dell'impresa operan-
te nel regime di offerta e domanda qui ipotizzato.
Per mettere in evidenza la traslazione, secondo gli schemi che precedono, anziché ipotizzare la
condotta di impresa che agisca riducendo il prezzo - per sottrarre clientela alle altre n - I coesistenti -
supponiamo che aumenti il prezzo. La conseguenza, dal lato della differenziazione basata sull'elemento
spaziale (sulla ubicazione della «ditta» di vendita ad es.), può essere una perdita di clienti al margine del
«proprio» mercato, come «zona» a cui si estenda il controllo caratteristico operato dall'impresa, nel caso
della concorrenza monopolistica. Rimarranno fedeli al mercato di codesta «ditta» i clienti o consumatori più
vicini che preferiscono (secondo un attrito per lo più ragionato e non di inerzia, realistico nel caso del
commercio al minuto) pagare un prezzo più alto, anziché correre da un più distante venditore.
Ma si può fare una prima ipotesi in cui non ricorra alcun aumento di prezzo: cioè di percussione
dell'imposta che coincida con il momento della incidenza a carico della impresa o «ditta» ipotizzata.
I) Per fare questo esempio, occorre riferirsi all'imposta non commisurata nè al profitto o utile netto,
nè al provento lordo, nè alla quantità prodotta. Ma ad un vincolo tributario della specie k=costante, consi-
derata nel cap VIII della Introduzione. L'esempio ricorre nella casistica estera, denominato imposta per «il
privilegio di svolgere attività economica». Ho ricordato i casi italiani di imposta sulle concessioni governa-
tive o di licenza, per iniziare una attività economica industriale o commerciale.
Dal lato teorico, un'imposta di questo tipo aumenterebbe le spese fisse, le quali incidono sulla prima
unità prodotta ma non entrano nei costi marginali, i quali concorrono a determinare la quantità offerta in
regime di concorrenza monopolistica, nel punto di incontro con la linea dei proventi marginali.

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Se queste due linee non vengono influenzate dall'imposta fissa, fatta equivalente ad elevazione delle
spese costanti, nè il prezzo nè la quantità venduta varieranno.
Non si avrà, quindi, traslazione in avanti o progressiva.
Ma la curva del costo medio o unitario, con l'introduzione di un'imposta che sia considerata dal-
l'imprenditore come aumento delle spese fisse, poiché rappresenta aritmeticamente la media di spese co-
stanti e variabili, incontrate per la produzione, passerà dal livello indicato dalla curva CC'm a quello rag-
giunto dalla cc'm nella rappresentazione geometrica.
Se l'area OQS'S rappresentava il costo totale di produzione della quantità OQ, prima della introdu-
zione dell'imposta, la nuova area OQs's misura, ora, il costo di produzione dopo l'introduzione dell'imposta.
L'area differenziale SS's's rappresenterà la riduzione del guadagno o utile dell'impresa, dovuta alla introdu-
zione di detto tipo di imposta k, che non venga trasferita sui consumatori nè su coloro che offrano fattori di
produzione o prodotti per la vendita; (fornitori, in una parola) alla impresa o «ditta» a cui si riferisca l'impo-
sta, che nel grafico è, appunto, misurata dall'area SS's's=k.
Ma imposte del genere, pur essendo direttamente indipendenti dal volume della produzione di beni
e servizi, sono correlate a quantità, in concreto, che hanno rapporti indiretti con il volume della

produzione. Quindi, indirettamente, attraverso un procedimento di imputazione contabile, nell'am-


bito dell'impresa o «ditta» possono essere rese equivalenti ad imposte commisurate, ad es., al costo delle
singole unità prodotte. Ho messo in evidenza casi di equivalenza, per il produttore, di una imposta «unica»
ad imposte sulle singole unità prodotte e vendute260.
II) Nel qual caso si può passare - per equivalenza: a) di modo di commisurare il vincolo tributario o
per traduzione «a posteriori» di k in ku (v. cap. VIII della Introduzione); e b) di effetti economici - all'ipotesi
dell'imposta fissa per unità prodotta. Essendo possibile considerarla come un incremento costante dei costi
variabili (siano essi visti come costi marginali o medii), riferendoci alla curva dei costi marginali, avremo
un'elevazione della curva CC'ml della fig. 42, parallelamente a se stessa, dalla posizione anteriore all'impo-
sta a quella che, quindi, assume come curva cc'ml.

Il nuovo punto in cui la linea dei proventi marginali incontrerà la più elevata curva dei costi margi-
nali, determinerà una minore (OQ' < OQ) quantità prodotta o venduta od offerta. Il prezzo passerà da P a P'

__________
260
Si vegga: E. D'ALBERGO, Di alcuni effetti economici delle imposte sugli scambi, «Giorn. degli Economisti», di-
cembre 1931.
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in base al quale sarà determinato il nuovo massimo utile, compatibile con l’'introduzione di questo tipo di
imposta: g'v'vP' < gu uP.
L'aumento del prezzo gg' risulta inferiore all'aumento del costo, determinato dall'imposta, u'v'. L'in-
cidenza ha luogo in parte sui consumatori, in parte sul produttore come impresa produttrice o «ditta» com-
merciale offerente, che pure troverebbe un compenso nel minor costo a cui si suppone siano prodotte le mi-
nori quantità offerte (vigendo, per ipotesi, la parte crescente della curva d'offerta).
Abbiamo fatto l'ipotesi che l'imposta sia riferita a impresa che faccia parte del gruppo in cui vigano
legami di concorrenza monopolistica, e che non si applichi anche alle altre imprese concorrenti con prodotti
similari, entro certi limiti sostituibili a quelli dell'impresa colpita. Ovviamente la tendenza alla elevazione
del prezzo sarà maggiore quando l'imposta colpisca uniformemente tutti i prodotti offerti da tutte le impre-
se, che coesistano sui mercati interferenti o relativamente controllati dalle imprese.
Oltre alla «elasticità incrociata» della domanda, è determinante in modo notevole l'elasticità della
curva di domanda della merce o del prodotto differenziato che offre l'impresa ipotizzata, che agisca nel
gruppo caratterizzato da concorrenza monopolistica.
[Anche in questo caso può aversi traslazione regressiva (di cui vedremo separatamente le uniformi-
tà) su fornitori dell'impresa colpita da imposta].
III) Possiamo fare il caso, notevole nella: fenomenica concreta di tutti i paesi, dell'imposta ad valo-
rem, commisurata, cioè, al prezzo del prodotto. Questa può essere considerata come una quantità in termini
monetari, aggiunta ai costi variabili, decrescente con il decrescere del valore o prezzo delle unità, lungo la
linea del prezzo o di domanda. Diminuendo il prezzo unitario con il crescere delle quantità offerte, riferen-
doci alla apposita rappresentazione geometrica (fig. 43) si nota che la curva del costo marginale, con l'ag-
giunta di onere monetario decrescente a titolo di imposta, si innalza non parallelamente a se stessa, ma con
saggio decrescente di elevazione. Il punto di incontro con la curva del provento marginale, fa determinare
una quantità offerta, dopo l'imposta, inferiore a quella di equilibrio preesistente ed inferiore anche a quella
che si sarebbe determinata con l'imposta specifica, fissa per unità prodotta, come è dimostrato nel preceden-
te grafico n. 42, in cui la curva dei costi marginali ss' (tratteggiata), che tiene conto dell'imposta ad valorem,
incontra la linea del provento marginale in z' determinando P"Q" > P'Q' e OQ" < OQ', analogamente a
quanto è stato rilevato nel caso di libera concorrenza (vedi figura 28).
Il prezzo può aumentare meno dell'ammontare dell'imposta (zz' < tt'), la quale incide in parte sul-
l'impresa offerente, in funzione del grado di elasticità della domanda per il mercato, che controlla relativa-
mente per il «suo» differenziato prodotto, e della elasticità incrociata della domanda. E questa, come si è vi-
sto, è diversa a seconda che l'imposta ad valorem sia limitata all'impresa considerata, oppure sia estesa an-
che alle n - I imprese o «ditte» del gruppo nel cui ambito agisca il rapporto di concorrenza monopolistica.
Nel trattare di concorrenza monopolistica, nei libri di testo si incontra l'esempio del commercio al
dettaglio. Nelle discussioni recenti,

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a cui in una futura edizione di queste lezioni si farà riferimento analitico (ad es. tenendo conto del
pensiero di M. Hall, H. Smith, E. S. Jamey, J. Hood, per gli scritti apparsi su «Economica», 1951 e 1952),
si discute se far oscillare il caso esemplificato verso la concorrenza o verso la concorrenza monopolistica o
l'oligopolio, per il quale la probabile offerta delle altre ditte è un dato per la politica dell'offerta e dei prezzi
delle singole imprese o verso il monopolio parziale.
Quello che qui interessa, intanto, osservare è che finora si è ragionato, fra l'altro, tenendo presente
che vi è possibilità di «ingresso» delle imprese che offrano prodotti similari; che non vi è accordo fra le dit-
te circa la politica dei prezzi.
Si ammette da alcuni che, se vi è un limite al numero dei negozi di vendita, che possono prendere
posto in una data area, si sfocia in una condizione di oligopolio. Ma se si può «bloccare» l'ingresso di nuove
ditte sul mercato e si può pervenire ad accordo per i prezzi, si passa alla condizione di monopolio, già esa-
minata; naturalmente si tende alla condizione di concorrenza se il numero degli oligopolisti diviene assai
grande. E’ una materia per la quale si potrebbe usare con qualche restrizione l'espressione di Demaria261,
quando asseriva: «la dottrina ha minutamente elaborato le leggi dell'equilibrio della concorrenza e del mo-
nopolio singolo, ma nulla o quasi nulla ha fatto di conclusivo in questo nuovo campo» (riguardante m mer-
cati, ad es. m situazioni di monopolio perfetto o parziale: duopolio, oligopolio, polipolio; od m situazioni di
monopolio bilaterale perfetto e parziale).
Le oscillazioni teoriche che si notano nelle citate discussioni in corso nella letteratura internaziona-
le, giustificano anche la nota limitativa che figura all'inizio della trattazione prossima, del tema della trasla-
zione regressiva.

VII.

L' IPOTESI DI MONOPOLIO BILATERALE E LA TRASLAZIONE.

Sebbene gran parte del fenomeno concreto di tutti i tempi sia riflesso in quanto è stato supposto fi-
nora nel processo traslativo, può essere ulteriormente fecondo l'informare le ipotesi a situazioni immagina-

__________
261
Cfr.: DEMARCA G., Principii generali di logica economica, p. III, cap. VII, cit. .
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bili o storicamente realizzatesi o realizzabili, a cui si accenna in questo paragrafo. Dette ipotesi sono carat-
terizzate dalla esistenza di due soggetti o gruppi o Stati che monopolizzino rispettivamente la domanda e
l'offerta di beni e servizi.
A rigore si dovrebbe etimologicamente contrapporre, ai fini della individuazione dell'equilibrio (e
delle variazioni possibili e probabili) il «monopsonista» [contrapponendo πωλέω (vendo) ad ώvέoµαι (com-
pro) (262)], il «mononista», che accentra gli acquisti o la domanda, e il monopolista, che accentra le vendite
o l'offerta. Ma il primo termine non è ancora entrato nella nostra letteratura, così che dovremmo dire di
soggetto che esclusivamente compia l'offerta (monopolista) e di soggetto che esclusivamente eserciti la
domanda o mononista (e non discorrere di due monopolisti, con evidente conflitto di termini).
Ciò premesso, ricordo che, nonostante le ricerche di illustri economisti, dal Menger al Wieser, da
Edgeworth a Marshall, da Jannaccone a Pigou, da Schumpeter a Wicksell, a Bowley, a Schneider e ad altri
odierni studiosi (che nei trattati più recenti affinano la presentazione del problema), questo non ha sostan-
zialmente visto modificarsi la conclusione teorica di massima, acquisita.
Essa viene formulata col dire che il prezzo di mercato, nell'ipotesi di monopolio bilaterale, è inde-
terminato nella analisi economica. Infatti si può contribuire ad illustrare la zona o il campo in cui sono pos-
sibili infinite ragioni di scambio, ma non si può indicare a priori, in base a sole ragioni economiche, quale
verrà prescelta fra le estreme che delimitano l'ambito delle contrattazioni. E ciò perché ognuno dei due mo-
nopolisti non ha piena conoscenza delle condizioni in cui avviene l'offerta dell'altro, non conosce il prezzo e
la quantità che sarà offerta e rispettivamente domandata dall'altro, ha una diversa «forza contrattuale» (263) o
una diversa «strategia» per usare una espressione di più recente conio.
Mentre nel campo della «forza contrattuale» entrano, quindi, fattori determinanti extra-economici
normalmente, imprevedibili o probabili, i fattori economici quantitativamente considerati in via ipotetica
possono contribuire a determinare i limiti o confini della zona o del campo delle possibili contrattazioni: ad
es., l'utilità marginale del bene ceduto e di quello domandato nello scambio.
Per rendere più agevole la comprensione di quello che ad es. il Pigou per i salari considera il margi-
ne di indeterminatezza, conviene premettere esempi teorici, che possono trovare una rispondenza più o me-
no frequente e probabile nella fenomenica concreta.
Può trattarsi del caso-limite di una sola persona che offra un bene sul mercato e di una sola persona
che ne faccia domanda; di una sola impresa che faccia domanda di servizi (lavoro) e di un solo offerente
(operaio o professionista specializzato). Dai casi-limite, attingendo più direttamente al concreto, si arriva a
quelli non infrequenti o impossibili di due trusts, che accentrino rispettivamente la domanda e l'offerta di
prodotti, nel mercato interno ovvero di due Stati che monopolizzino, nei rapporti internazionali, l'oggetto
dello scambio. Il caso più studiato sembra quello del monopolio, rispettivamente, della domanda e
dell’offerta di servizi (lavoro) da parte di organizzazioni (sindacati) che contrattino per arrivare alla fissa-
zione del salario (264).
Se si vuol fare l'ipotesi del lavoro, come servizio scambiato che frequentemente avvalora in concre-
to la condizione di monopolio bilaterale, possiamo dire che, in base ai fattori economici, i limiti o confini
della zona dei contratti siano determinati per il salario: a) (per il monopolista della domanda) dalla produt-
tività o dal rendimento del lavoro; b) (per il monopolista dell'offerta) dal minimo di sussistenza o tenore di
vita che il salario deve assicurare al lavoratore.
Entro quei limiti, che supponiamo siano determinati dai fattori economici oggettivi qui indicati, si
hanno infiniti salari possibili: il salario di equilibrio in regime di monopolio bilaterale sarà, però, fissato con

__________
(262) Il significato del sostantivo òψ-ώνιον (spesa) potrebbe addurre a quello di compera in senso traslativo e adegua-
tamente allargare il concetto di òψ-ωνέω (spendo).
(263) Secondo il Demaria (cit.) «La forza contrattuale può definirsi come quell'insieme di abilità tattica, intelligenza,
potere di coercizione di natura varia (psicologica, giuridica, economica) per cui chi ne è in possesso cerca di disporre
l’altra parte in favore del rapporto di scambio a sè più conveniente». Astuzia, efficienza organizzativa (caso dei sinda-
cati), ecc. contribuiscono al successo della manovra di chi monopolizzi un aspetto dello scambio e controlli le condi-
zioni di domanda o di offerta delle merci e dei servizi che costituiscono oggetto delle contrattazioni.
(264) Avverte il Demaria che «nel mercato del lavoro vale soprattutto lo schema del monopolio bilaterale, anche per-
ché, quando non si è raggiunta di diritto l'unità sindacale, la concorrenza che due o più sindacati si fanno non ha carat-
tere meramente economico ma piuttosto politico, di proselitismo, e sul terreno del prezzo, per non guastare il mercato,
si ha l'accordo esplicito o tacito dei diversi sindacati monopolisti o il controllo o del più forte sugli altri» (Principii ge-
nerali di logica economica, cit., pag. 428).
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l'apporto della «forza contrattuale», fra quelli economicamente possibili, tenendo conto della altezza e della
elasticità della domanda e della quantità che può essere offerta e manovrata (limitazione voluta del numero
dei lavoratori occupati ponendo a carico del sindacato l'onere del sussidio della disoccupazione).
Premesse queste nozioni, mi avvalgo della rappresentazione più semplice, senza far ricorso alle
curve di contratti e di indifferenza.
Seguendo il Pigou (che, in Appendice alla Economia del benessere cit., voleva dar conto dei limiti
dello «sfruttamento» sperato da una delle due parti contraenti), indichiamo in un diagramma (fig. 44) la
curva di domanda e quella di offerta di lavoro, nell'ipotesi di monopolio bilaterale a cui si riferisce questo
autore, rimandando, appunto, all'ipotesi in cui taccia la concorrenza e i salari siano fissati «da trattative fra
il sindacato operaio da una parte e la associazione industriale dall'altra». In tal caso «le tariffe salariali non
sono più fissate ad un singolo punto, ma esiste un certo margine di indeterminatezza» (pag. 400 op. cit.).

Sia la DD' la curva di domanda di lavoro da parte degli imprenditori ed SS' la curva di offerta di la-
voro.
Se esistesse libera concorrenza, si avrebbe un prezzo di equilibrio noto a priori ed uno solo, indivi-
duato attraverso l'incontro della curva di domanda con quella di offerta. Precisamente si avrebbe la quantità
di equilibrio (lavoro offerto) OL, al prezzo o salario PL.
Ma si è postulato che l'offerta e la domanda siano rispettivamente accentrate nelle mani delle due
associazioni o sindacati. Quindi avremo, dopo quanto precede, non un salario ma infiniti possibili, compresi
fra i punti G ed R. Indichi, invero, GL" il salario più vantaggioso ottenibile attraverso la «forza contrattua-
le» del sindacato dei lavoratori, e costituisca esso anche quello massimo che il sindacato dei datori di lavoro
sia disposto a corrispondere tenendo conto della produttività del lavoro, per la quantità offerta OL". Rappre-
senti RL' il minimo più vantaggioso per i datori di lavoro, per la quantità di lavoro OL' e il limite minimo di
sussistenza o compatibile col tenor di vita acquisito. Il margine di indeterminatezza è coperto da tutti i saggi
di salario compresi fra GL" ed RL'. Supponiamo che EL' risulti il salario di equilibrio, pro-tempore, ponen-
do DD' in rapporto con la curva ss' d'offerta di lavoro.
Si introduca un 'imposta a carico dei datori di lavoro o dei lavoratori, in ogni caso commisurata ai
salari. Non può dirsi nulla a priori circa l'incidenza dell'imposta medesima. Essa: 1) può incidere sui datori
di lavoro, se la manovra dell'offerta come quantità e come strategia fa convergere il prezzo al livello GL";
2) ovvero può incidere a carico dei lavoratori, se il prezzo o salario tenderà al livello RL'. Si potrebbe avere
costanza di offerta di lavoro, nonostante il passaggio del salario da EL' ad RL', cioè OL'=K, ragionando in
base al margine concesso dalla possibilità dell'assorbimento di rendita ER di protezione sindacale, a van-
taggio dell'altro monopolista contraente (datore di lavoro). L'incidenza può tendere, in generale, ad abbassa-
re il prezzo (salario) oltre il limite minimo (che supponiamo sia rappresentato dalle sussistenze o dal mini-
mo per un tenor di vita acquisito e difeso). In questo caso dovrebbe cessare, a lungo andare, l'offerta di la-
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voro. Soltanto transitoriamente o per brevi periodi ed in vista di successive rivendicazioni o di rafforzamen-
to del sindacato, di circostanze extra-economiche a questo favorevoli si potrebbe ammettere una incidenza
che riduca il reddito al di sotto del livello minimo, supposto rappresentato dall'andamento della curva SS'.
Le conclusioni sono diverse se, d'altra parte, la spesa pubblica si traduce tendenzialmente in van-
taggi differenziali a favore dei lavoratori. Si avrebbe, in definitiva, un vincolo al modo di spendere il reddi-
to salariale, cioè una predestinazione assegnata a voci del bilancio privato, ovvero un risparmio forzato, nel-
la superiore visione del benessere dei lavoratori, interpretata dai parlamenti ed operante attraverso la simul-
tanea considerazione delle entrate e delle spese pubbliche. E tutto ciò tradotto in reddito reale, nel bilancio
definitivo di oneri e vantaggi, potrebbe dare la spiegazione dell'incidenza in apparenza paradossale, come
l'eventuale accettazione sindacale di una incidenza tributaria che porti al limite minimo (offerta) della zona
di possibili contrattazioni o transitoriamente al di sotto di esso.

VIII.

LA TRASLAZIONE REGRESSIVA.

La traslazione, come si è premesso nella introduzione a questo capitolo, si definisce progressiva o


«in avanti» quando essa si svolga, ad es., nei rapporti fra produttore e consumatore, seguendo il ciclo del
processo di trasformazione tecnica o quella spaziale (dal commerciante al consumatore) o la naturale rela-
zione che corre fra offerta di servizi (professionali, artigianali, ecc.) e la loro domanda(265).
Ma già in sede di ipotesi di monopolio bilaterale, si è vista la possibilità, nelle contrattazioni collet-
tive per conto di intere categorie di datori di lavoro e prestatori d'opera, di una traslazione regressiva, o al-
l'indietro, retrocedendo nel ciclo di trasformazione di fattori o produzione dei beni. Cioè, la traslazione può
aver luogo nel senso opposto a quello preminentemente fin qui considerato: e precisamente può aver luogo
a carico di chi offra i «servizi produttori», i fattori di produzione al produttore, in senso ampio, di beni e
servizi.
Finora si è massimamente tenuto conto dei rapporti fra produttori (venditori in genere) e consuma-
tori (compratori), per determinare in quali condizioni ed ipotesi l'imposta rimanga a carico dei primi e in
quali venga a suddividersi fra venditori e compratori, in misura diversa.
Ora occorre riferirsi ex professo, dopo qualche accenno incidentale che precede, ai rapporti che cor-
rono, invertendo il corso del ciclo di trasformazione dei beni (che è stato visto dalla produzione al consu-
mo), rifacendo a ritroso il cammino economico dal momento in cui i prodotti siano finiti e i servizi siano at-
ti ad essere consumati, al momento di impiego di beni strumentali per la trasformazione di essi, al fine di ar-
rivare al prodotto finito ed ai servizi consumabili.
I fattori a cui si fa riferimento sono le materie prime, il lavoro, il capitale nella forma monetaria,
ecc. Orbene, è immaginabile che, introdotta l'imposta, anziché una elevazione dei costi, quale è prospettata
come effetto immediato, si abbia, o simultaneamente (effetto scontato) o in ipotesi di effetti successivi, una
diminuzione di prezzi dei fattori impiegati: quindi un minor costo, per questa causa, a favore dei produttori.
Così che in parte una incidenza potrebbe aversi indirettamente sotto forma di diminuzione del prezzo dei
beni strumentali necessari alla creazione di prodotti e servigi direttamente tassati. A detta incidenza si arri-
verebbe, appunto, attraverso un processo di traslazione regressiva o all'indietro.
Si rifaccia il lettore a tutte le ipotesi in cui effetto dell'imposta sia stato quello di ridurre la quantità
prodotta od offerta, e immagini che, a parità di offerta di beni strumentali per ottenere i prodotti e servizi
tassati, per la minor domanda che se ne faccia, dai produttori-venditori colpiti, si abbia diminuzione di
prezzo. Allora il livello delle curve dei costi, marginali e medi, dopo la riduzione della produzione dovuta
__________
(265) Per le ipotesi, meno «feconde» di duopolio, oligopolio e polipolio, che per amore di brevità e di più nette e de-
terminabili contrapposizioni trascuro in questa edizione, rimando, dal punto di vista degli effetti dell'imposizione, per
la letteratura italiana, all'articolo di F. VILLANI (La ripercussione di un'accisa in regime di duopolio, in «Studi econo-
mici e finanziari corporativi») ed alla utilizzazione di questo e di altri scritti da parte del Fasiani, nell'edizione del 1951
dei già citati Principii, con personali osservazioni.
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all'imposta (secondo si legge nelle figure 25 e 26, ad esempio) sarà in un secondo momento (o simultanea-
mente) inferiore a quello che si è esposto graficamente. Ma il ragionamento, specialmente nei casi di mo-
nopolio totale, parziale e di concorrenza monopolistica (o imperfetta), agevolmente può continuarsi suppo-
nendo che la riduzione della quantità prodotta abbia l'effetto simultaneo di abbassare il prezzo dei beni
strumentali suddetti, con riduzione dell'incidenza a carico dei produttori, e incidenza corrispondente a cari-
co di coloro che offrano i fattori di produzione o beni strumentali. Donde: 1) un minor aumento del prezzo
dei prodotti finiti, col quale si è misurata nelle rappresentazioni geometriche la traslazione in avanti o pro-
gressiva; 2) od una minor riduzione di utile netto a parità di prezzi misuratori della traslazione con la loro
differenza da quelli di equilibrio (anteriori all'imposizione di varia specie, in precedenza ipotizzata).
A) Per rendersi conto di ciò che ipoteticamente avviene per effetto dell'imposizione, si consideri la
diversità di situazioni che per l'offerta ed i prezzi di beni strumentali (ad es. materie prime) si venga ad ave-
re nelle circostanze teoriche che si contrappongono.
Osservando la figura 45 si noti la differenza che corre fra il caso:
I) in cui la quantità di prodotto finito o servizio consumabile, sia OA, a prescindere dalla imposizio-
ne; ovvero in corrispondenza dei gusti dominanti per quel bene (a), si abbia la domanda espressa dalla cur-
va dd' sul mercato, contrapposta alla offerta SS';
II) in cui per effetto della elevazione del costo pari a MV, dovuta alla imposta commisurata alle sin-
gole unità prodotte, la quantità offerta passi (supposta la domanda DD' che, contrapposta alla SS', dava luo-
go alla quantità di equilibrio OQ, prima dell'imposta) da OQ ad OA.
Orbene, nel primo caso, la spesa era rappresentata da OApV, per l'acquisto della quantità OA pro-
dotta dalla o dalle imprese a cui si sia rivolta la domanda dd' dei consumatori, ferma rimanendo la quantità
residua di potere d'acquisto sul mercato e, quindi, la quantità acquistabile dei beni prodotti (b, c ….. n) dalle
altre (n-I) oppure (n-π) imprese coesistenti, che possiamo supporre colpite o non da imposta.
Quando sopravvenga l'imposta - secondo caso - come si è visto, in via di ipotesi, la quantità offerta
si riduce da OQ ad OA.

(OA nel I caso era, senza imposizione, la quantità iniziale, relativa a domanda dd' ed al prezzo pA).
Ma per ottenere detta (OA) quantità, si richiede al nuovo prezzo P'A > pA una spesa OAP'M > OapV. La
quantità di potere d'acquisto VpP'M, sottratta dallo Stato con l'imposta che il venditore colpitone versa alla
cassa dell'ente impositore (e che, prima dell'imposta, si riversava per la parte eguale ad AQPZVp su OQ, per
la domanda DD', cioè si rivolgeva al bene a; oppure si riversava tutta sui beni b, c,…..n, quando la doman-
da, senza imposizione, si immaginava dd') assumerà, dopo l'imposta, in corrispondenza di VpP'M, altra de-
stinazione, in linea di massima.
α) Se si tratta di beni strumentali che non possono, come materie prime, trovare impiego o trovarlo
facilmente od immediatamente in altri campi a cui si rivolga la spesa pubblica, il loro prezzo per l'ecceden-
za dell'offerta diminuirà e i fornitori di detti beni strumentali vedranno incidere nei loro bilanci, in parte,

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l'imposta che colpiva il prodotto finito. È questo un processo di traslazione regressiva, intuibile dopo la rap-
presentazione esplicita delle circostanze determinanti.
β) Se si tratta di materie prime e beni strumentali facilmente surrogabili ed impiegabili, così che le
quantità che si rendano libere, per la riduzione della quantità di prodotto finito da OQ ad OA, siano assorbi-
te agevolmente e immediatamente dalle n-I (o n-π) imprese coesistenti che producano i beni e servizi b, c,
d,…..n, si ristabilirà un nuovo equilibrio economico generale sul mercato, tendenzialmente senza incidenza
a carico dei fornitori di detti beni strumentali. Mancando traslazione regressiva, l'incidènza si ripartirà fra
venditori e consumatori del prodotto finito o servizio, attraverso un processo di sola traslazione progressiva.
B) Supponiamo che il fattore di produzione che possa trovare impiego nella produzione di beni of-
ferti come prodotti finiti e servizi consumabili, sia costituito dal lavoro.
Si faccia anche l'ipotesi che il lavoro impiegato nella impresa o nell'industria di cui si colpisca il
prodotto o servizio, non possa trovare facile o pronta occupazione in altri campi di impiego:
a) perché si tratti di casi-limite, cioè d'offerta rigida di lavoro non qualificato o, rispettivamente, e-
stremamente specializzato, e quindi, nei due casi, non facile ad essere assorbito quando se ne riduca l'occu-
pazione in un dato impiego precedente all'imposizione del prodotto ottenutone, prescindendo dall'uso del
potere d'acquisto prelevato, con l'imposta, dallo Stato;
b) perché la destinazione della spesa statale (ad es. a servizi per la difesa militare, con priorità sui
consumi civili, i quali ultimi vengano a ridursi coattivamente) crei eccedenza di offerta di mano d'opera in
determinati settori (edilizia, beni voluttuari, ecc.).
In tali casi ipotetici, si può avvalorare la concepibilità - che, in generale, era formulata dal Wicksell
- di una trasferibilità dell'imposta sulla produzione - per cui sia stato necessario avvalersi di capitale e lavo-
ro - in una traslazione regressiva o all'indietro a carico di quanti facciano offerta dei due fattori.
[Qui non considero la riduzione nel saggio di interesse, meno probabile, dati i due vincoli (a e b)
ipotetici che sopra figurano, data cioè la complementarietà multipla del capitale monetario, ovvero la facili-
tà dell'impiego di esso in tutti i campi].
La esemplificazione si limita al caso della offerta del fattore lavoro. La ammissibilità della possibile
riduzione del saggio di salario per traslazione regressiva di un'imposta sulla produzione, che risulta dall'im-
piego anche di lavoro, può rappresentarsi più elegantemente, per equivalenza d'effetti, traducendo l'impo-
sta, come ammetteva Pantaleoni, indifferentemente per il produttore, o in diminuzione di utili o in aumento
di costi, aggiungendo qui la possibilità equivalente di una diminuzione della produttività del lavoro.
Per la dimostrazione della trasferibilità all'indietro o regressiva di un'imposta sulla produzione, co-
me sopra interpretata, dal produttore colpito per la quantità prodotta od offerta al lavoratore-salariato, mi
avvalgo della espressione grafica Wickselliana opportunamente adattata alle ipotesi che seguono.
Sull'asse delle ascisse si rappresenti il periodo di tempo (medio) in cui si investa un dato capitale e
si faccia lavorare un dato numero di operai. Sull'asse delle ordinate si rappresentino la produzione che via
via viene ottenuta ed il livello del salario. Supposto dato un livello dei salari (s) si otterrà l'impiego del lavo-
ro atto a dare il risultato più vantaggioso (periodo di investimento più vantaggioso) tracciando dal punto che
indica sulla ordinata il livello dei salari, una tangente alla curva ol che indica la produttività del lavoro.
L'ordinata da quel punto di tangenza segnerà la produzione tP nel periodo ot, investendo il capitale otvs.
Si supponga (come si è postulato) che l'effetto dell'imposta, la quale assorba una parte della produ-
zione (ad esempio un terzo del prodotto lordo), sia per colui che impiega mano d'opera equivalente ad una
riduzione nella produttività del lavoro. Ciò, seguendo il Wicksell, equivale a dire che alla curva iniziale si
sostituisca una curva ol', le cui ordinate siano i due terzi delle corrispondenti ordinate di quella tracciata
prima dell'introduzione dell'imposta.
Tracciando la tangente alla nuova curva in p, si trova che essa incontra l'asse delle ordinate nel pun-
to s', significativo nella «contabilità» dell'imprenditore, che abbia la forza contrattuale di tradurre le equi-
valenze che calcola in variazioni delle ragioni di scambio. In conseguenza dell'imposta, se si fa l'ipotesi che
essa sia equiparabile alla proporzionale riduzione, fin dall'inizio, della quantità di capitale-salari

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impiegato (rappresentata dal rettangolo ss'v'v che va allo Stato, come potere d'acquisto che non assorba quel
contingente di lavoro, con riduzione del saggio dei salari), si ha una incidenza a carico dei lavoratori nella
misura in cui si riduce il livello del salario=ss'.
Supponiamo che i vincoli politico-giuridici o la forza contrattuale dei rappresentanti dei salariati
rendano possibile una rimozione parziale -fenomeno od effetto a cui oltre si accenna - attraverso un aumen-
to della produzione dovuto alla estensione del periodo di investimento, di un capitale ot'rs' pari a quello an-
teriore all'imposta: si avrà un aumento di salario; ma non in misura tale che sia proporzionale all'aumento
del capitale ot'rs'. Si avrà, cioè, nonostante la rimozione tentata, una incidenza parziale a carico dei lavora-
tori, in quanto il livello os anteriore all'imposta non verrà raggiunto; ma la tangente s"P' taglierà l'asse delle
ordinate in s". Ed os" è minore di os.
La misura di tale riduzione, che può costituire un caso di traslazione all'indietro sui servizi produt-
tori (nel caso: lavoro) anche supponendo mobilità o trasferibilità del lavoro, dipende dall'andamento della
curva che rappresenta la produttività del lavoro medesimo e dalla forza contrattuale di coloro che lo impie-
gano e determinano i saggi di salario.
Sebbene la dimostrazione Wickselliana, che modifico traendola dall'Appendice relativa al capitolo
della incidenza dell'imposta in regime di concorrenza, avesse il fine di dimostrare le proporzioni dell'inci-
denza di un'imposta sul prodotto lordo, a carico dei fattori della produzione, mi sembra che senza eccessivo
arbitrio la si possa utilizzare incidentalmente, come caso ipotetico di traslazione parziale all'indietro su uno
dei fattori produttivi. E ciò nell'ipotesi di libera concorrenza esistente fra i datori di lavoro e di libera trasfe-
ribilità dei lavoratori da un campo di attività all'altro.
S'intende che si prescinde dalla domanda di lavoro da parte dello Stato, mediante l'impiego della
somma prelevata a titolo di imposta, o si, ragiona secondo la proposizione contenuta sotto la lettera b) in
questo paragrafo.

IX.

EFFETTI DELL IMPOSIZIONE E RENDITA DEL CONSUMATORE.

Poteva sorgere dubbio sulla legittimità oltre che sulla utilità scientifica di far ricorso al concetto di
«rendita del consumatore» nel quadro dell'analisi degli effetti dell'imposizione, allo scopo di porne in evi-
denza l'onere (o burden) in termini di diminuzione, e di variazione in genere di detta entità (rendita) per l'in-
terferenza del fattore tributario sotto la specie di una variazione di prezzo, nel senso preminente dell'aumen-
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to di esso (e della correlata diminuzione di quantità offerta e dell'acquisto della stessa appunto a maggior
prezzo).
Detta categoria Marshalliana, proposta dal Dupuit, che si suppone ben nota a quanti abbiano seguito
i corsi di economia politica o siano iniziati in generale in questi studi, già figurava in precedente capitolo
per la spiegazione del «prezzo pubblico». Ma l'intento di spiegare questo istituto, che ricorre nelle entrate
pubbliche dal punto di vista di chi offra i servizi ed esiga (come ente pubblico) il prezzo detto «pubblico»,
faceva gravitare i ragionamenti nel campo delle quantità oggettive, trattandosi di bilanciare, tendenzialmèn-
te, ricavi e costi per l'offerente, che presuma di avere di fronte a sè diverse capacità di acquisto, in relazio-
ne, nella rappresentazione grafica, a corrispondenti tratti di una unica curva di domanda.
Peraltro, l'onere o «burden» degli anglosassoni, di cui si intende discorrere in questa parte del corso,
in relazione agli effetti dell'imposizione, potrebbe riferirsi non soltanto alla maggiore spesa in termini mo-
netari che i compratori, ad es. di merci tassate, debbano compiere per ottenere una minore quantità di merci,
compatibile con l'andamento della curva di domanda; bensì alla perdita, anche, di utilità o di benessere
(welfare), collegata con l'incidenza dell'imposizione sotto forma di aumento di prezzo di merci o beni che
entrino nel bilancio del consumatore.
Da questo punto di vista, alle critiche che sono state rivolte alla «rendita del consumatore» nel sen-
so di Dupuit-Marshall, altre se ne sono aggiunte di Samuelson266, che sono culminate nella qualifica di «su-
perfluo» riferita al concetto di «rendita del consumatore». Addirittura esso non gli appare «necessario e de-
siderabile» per la soluzione di alcuni problemi anche di finanza teorica (tra essi, quello della preferibilità
dell'imposizione diretta e indiretta a parità di provento, per il quale, come si vedrà oltre, da tanti anni si è
già adottata la via dimostrativa a cui accenna questo autore), per cui strumento esplicativo più razionale si
rivela il sistema tecnico e logico delle curve di indifferenza.
Ma questo sistema di preferenze esposte in senso ordinale, ad es. dallo Hicks, che ha «riabilitato» il
concetto di «rendita del consumatore» («consumer's surplus o rent») costituisce un modo più completo di
prospettare e di misurare tendenzialmente la «rendita del consumatore»: non un procedimento logico che
annulli il Marshalliano concetto di «rendita del consumatore», tuttora adottato perché semplice e fecondo
nel campo economico. Così lo fa giudicare pure il fatto che esso figura nei più moderni trattati di lingua an-
che anglosassone, compreso quello, che non costituirà «gli ideali Principii» di economica, in cui Samuelson
(con l'entusiasmo divoratore del neofita attratto dal simbolismo strumentale più che dalla logica fondamen-
tale - difetto non solo suo -) non vorrebbe includere la «rendita del consumatore». Mi riferisco all'opera
successiva a quella che conteneva detta asserzione (Economics, cit. del 1949, dello stesso autore).
E non solo induce a non tener conto di detta visione, che vorrebbe escludere il concetto di «rendita
del consumatore» e la quantità che vi corrisponde nelle diverse rappresentazioni (con curve di domanda e di
indifferenza), il fatto che proprio il Samuelson (che cita altri autori per rafforzare il pensiero critico pro-
prio), oltre a una chiara definizione anche genetica, considera già nei Foundations (cit. pag. 198) la rendita
medesima come categoria logica e come quantità di cui si è fatta applicazione nell'analisi dell'onere deri-
vante dalla tassazione delle merci. In questo caso non annulla la strumentalità logica della «rendita del con-
sumatore», ma afferma che i teoremi relativi all'onere (burden) dell'imposizione possono essere impostati
indipendentemente da ogni misura numerica della utilità nello scambio dei beni. In questo campo lo si può
seguire perché non interessa detta misurazione in sè, ma come indice di variazioni di utilità, benessere, van-
taggi, ecc.
Questa avvertenza introduttiva vale per quanti condividano opinioni di cui Samuelson è qui consi-
derato un espositore tipico.
Ma proprio le sue parole (Economics, pagg. 484-485) possono servire a riassumere il concetto che,
pure, si suppone noto a coloro a cui si sottopone lo studio degli effetti dell'imposizione anche dal punto di
vista delle variazioni che determinano nella entità detta «rendita del consumatore».

__________
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Si vegga: Samuelson, Foundations of economic analysis, Harvard University Press, 1948.
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Come ho detto, egli ritorna a quella che Weintraub (cit., pag. 25) considera la «vecchia letteratura»,
per la spiegazione genetica della «rendita del consumatore». Ogni unità di merce che il consumatore acqui-
sta gli costa quanto vale (s'intenda sul mercato) l'ultima unità. Ma per la nostra legge fondamentale (della
decrescenza della utilità marginale, verosimilmente) le precedenti unità valgono (soggettivamente, quindi)
per il consumatore più dell’ultima. Perciò egli gode di una eccedenza (surplus) su ognuna delle precedenti
unità».
Per misurare detta rendita, sono stati considerati «molti ingegnosi sistemi», che Samuelson conside-
ra di non speciale rilevanza. L'importante è che questa quantità esista, e che il soggetto, come consumatore,
sia disposto a tradurla in denaro, come potrebbe avvenire se un venditore dicesse al compratore: «o mi pa-
ghi un ammontare di moneta extra per l'insieme delle unità di merce che consumi, o rinunci a tutte le unità,
dalla prima all'ultima. Prendere o lasciare». «Il consumatore consentirebbe certamente al pagamento di una
eccedenza in denaro per continuare a consumare la merce».
Orbene, che cosa è codesta se non quella che nella più aggiornata letteratura (cito nel campo anglo-
sassone ancora il Boulding), in condizioni di monopolio, è la più estesa discriminazione dei prezzi secondo
le quantità? «Rendita del consumatore», o del compratore in tal caso, viene definita, oggi, «la differenza fra
ciò che paga un consumatore quando ci sia un unico prezzo (in un mercato perfetto) per tutte le quantità e il
massimo ammontare di moneta o reddito che gli si potrebbe portar via attraverso una perfetta o continua
differenziazione di prezzi».
Allo scopo di far rilevare allo studente, come le definizioni vecchie e nuove si equivalgano, ricordo
quella che seguiva il solco logico aperto dal Dupuit267 quasi cinquant'anni prima dell'edizione dei Principii,
cioè nel 1844. Secondo Marshall «l'eccesso del prezzo che la persona sarebbe disposta a pagare piuttosto
che star senza la cosa, sul prezzo che effettivamente paga, è la misura economica di questa maggior soddi-
sfazione. Esso ha certe analogie con una rendita ma forse è meglio chiamarlo sovrappiù del consumatore».
Nella semplice figura 47, l'area CPD misura la rendita del consumatore, rispetto all'ipotesi del prez-
zo eguale a PQ, laddove OCPQ rappresenta la somma effettivamente spesa per la quantità OQ.

A questa rappresentazione della «rendita del consumatore», si sono rivolte varie critiche, alcune
delle quali, già esposte nella precedente edizione di queste lezioni, riporto in nota (268). Qui, richiamandomi
__________
267
DUPUIT, De l'utilité et de sa mesure, Torino, La Riforma Sociale, 1934.
(268) Già al Dupuit, i grandi economisti che ne avevano riconosciuto la benemerenza nel campo della scienza, aveva-
no obiettato che la somma che si è disposti a spendere per una data merce, dipende dalla utilità che hanno tutte le altre
merci che il consumatore considera. Quindi il sacrificio pecuniario massimo che un consumatore è disposto a fare per
procurarsi una unità di un prodotto non dipende soltanto dalla utilità di quel prodotto, ma dalla utilità di tutti gli altri
prodotti che sono sul mercato; inoltre dipende dalla quantità di mezzi pecuniari (reddito) a disposizione del consuma-
tore, circostanza quest'ultima che Dupuit aveva trascurato.
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alla rappresentazione semplificata Marshalliana, insisto sulla caratteristica che massimamente si critica dal-
lo stesso Hicks (vedi E. D'ALBERGO, Sviluppi di un teorema finanziario e sue relazioni col massimo benes-
sere, estratto dagli «Studi in memoria di Guglielmo Masci», Giuffrè edit., 1943) e che ho ricordato a propo-
sito della spiegazione del prezzo pubblico: cioè la «costanza» della utilità marginale della moneta o del red-
dito, che è supposta dalla dimostrazione Marshalliana, basata sulla curva della domanda (e non sulle curve
di indifferenza), costanza di cui non teneva conto il Dupuit.
L'artifizio consiste, ai fini della semplificazione del problema, nel trascurare il fatto che la curva di
domanda è determinata: 1) da fattori psicologici relativi (a) non solo all'apprezzamento soggettivo utilitario
concernente le dosi o unità di beni o merci a cui si riferisce, ma (b) anche al reddito monetario destinabile
all'acquisto (che può variare); 2) oltre che dai prezzi successivi ipotizzabili delle unità di quel bene (e degli
altri acquistabili, come dico in nota).
In particolare, quando si avverte che si ragiona in ipotesi di costanza dell'utilità marginale della
moneta o del reddito, si considera la domanda del bene indipendente dall'ammontare (e dalle variazioni) del
reddito: cosi che l'andamento normalmente decrescente della curva di domanda si considera in modo esclu-
sivo ed immediato dipendente dalla curva di utilità del bene considerato. La semplificazione non è sembrata
contraddittoria con la realtà per piccolissime quote di reddito spese nei singoli beni volta a volta ipotizzati.
[Occorre, però, avvertire che questo tipo di semplificazione non si ha soltanto allorché si adottino le
curve di domanda per la spiegazione di questi fenomeni, ma anche quando si faccia ricorso allo strumento
più idoneo a far tener conto simultaneamente dei prezzi, del reddito spendibile e dei gusti o preferenze: mi
riferisco alle curve di indifferenza, che suppongo note come mezzo di conoscenza e dimostrazione.

__________
Parimenti, varie critiche sono state rivolte al Marshall, che il concetto ha generalizzato ed applicato anche alla solu-
zione di problemi di carattere fiscale, così come aveva fatto il Dupuit:
a) Anzitutto si è obiettato che nonostante il tentativo di «obbiettivare», in termini monetari, il concetto di soprappiù
del consumatore (come differenza fra due prezzi), non si riesce a superare la sostanza del fatto: e cioè che trattasi, in
ogni caso, di una valutazione edonistica, cioè di una eccedenza di soddisfazione derivante dal potere il consumatore,
per il basso prezzo di una data merce, intensificare ed estendere altri consumi. Invero il concetto edonistico è rintrac-
ciabile (anche senza la generosa interpretazione che lo Jannaccone ha fatto dell'idea Marshalliana) nella citata defini-
zione dell'economista inglese, allorché egli afferma che l'eccesso del prezzo pagato su quello che si sarebbe disposti a
pagare è la misura economica di una maggior soddisfazione.
Ma in tal caso, si afferma dai critici, la somma monetaria (eccedenza del prezzo) sarebbe l'indice di una somma di
ofelimità o di utilità delle quantità di consumi attuali e futuri che un dato consumatore può acquistare per il fatto che
paga un dato prezzo [inferiore a quello che sarebbe disposto a pagare per una data merce (Borgatta)]. Occorrerebbe
poter procedere ad un confronto fra l'ofelimità totale goduta con il consumo delle dosi del bene acquistato, e la mag-
giore ofelimità goduta consumando anche i beni che si possono acquistare con l'eccesso di prezzo di cui fa parola il
Marshall.
b) Inoltre, la curva di domanda si riferisce allo stesso consumatore o ad un gruppo di consumatori in condizioni di
gusti e di reddito approssimativamente uguali. E il Marshall, quando considera il soprappiù rispetto ad un intero mer-
cato, fa delle premesse limitative (ad es. che la stessa somma di denaro rappresenti quantità eguali di piacere per per-
sone diverse; che le diverse quantità del mercato siano numerate secondo il desiderio dei compratori; che il desiderio
di ogni quantità da parte di ciascuno sia misurato dal prezzo che egli è proprio esattamente disposto a pagare per quel-
la quantità) che riducono la applicabilità del concetto ai problemi di massa, con eterogeneità di soggetti e di gruppi.
c) Il concetto Marshalliano potrebbe dare l'idea di un risparmio di moneta che rimanga disponibile per altri consumi;
mentre evidentemente il Marshall confronta due posizioni alternative di cui una reale (prezzo effettivamente pagato)
ed un'altra virtuale (prezzo che si sarebbe disposti a pagare, ovvero ipotetico). Inoltre, come guadagno di moneta, esso
scompare nel bilancio di un individuo. Ciò che può sussistere quando il reddito del consumatore sia speso, è l'utilità
differenziale o la differenza delle ofelimità totali che un consumatore o più consumatori godranno, confrontando due
posizioni di equilibrio caratterizzate da diversi livelli di prezzi.
d) Infine, si è fatta questione di termini. Invero «rendita» è concetto Ricardiano differenziale che potrebbe dare l'idea
di un privilegio di taluni consumatori nei confronti di determinati beni, allorché si considerino consumatori esclusi dal
consumo dei beni medesimi. Ciò può verificarsi per talune categorie di beni (quelli per cui regna sovrana la «moda» o
per quelli di lusso: diamanti, gioielli in genere) per i quali, come è stato dimostrato dal Cunningham, il piacere (come
rendita del consumatore) diminuisce con il generalizzarsi del consumo dei beni medesimi, cioè è dipendente dal fatto
che altri consumatori abbiano i beni in discorso ovvero dalla quantità di detti beni acquistati da altri.
Per contro, il concetto di «rendita del consumatore», secondo Marshall, non è funzione delle quantità dei beni acqui-
stati dagli altri consumatori ed esiste per tutti i consumatori, nel senso del soprappiù che giustamente il maestro ingle-
se scelse per denominare l'utilità differenziale posta in evidenza dal Dupuit.
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Cioè, le curve di indifferenza possono essere ipotizzate nel significato seguente: che, cioè, rispetto a
date quantità di beni o merci, l'inclinazione delle curve di indifferenza ovvero il saggio marginale di sosti-
tuzione sia lo stesso, qualunque sia la quantità di moneta o reddito a disposizione del consumatore, con
semplificazione di dipendenza che può riferirsi a caso assai particolare (PARETO, Manuale, cit., pag. 260).
Se si esprime il saggio marginale di sostituzione in termini di moneta per unità di merce, detto saggio di-
viene:

utilità m arg inale della merce


utilità m arg inale della moneta

Se si ipotizza costante l'utilità marginale della moneta (come nella avvertenza ipotetica di Mar-
shall), il saggio marginale di sostituzione dipende soltanto dalla quantità di merce, non dalla quantità di
moneta o reddito Così che la domanda di merce dipende soltanto dall'apprezzamento utilitario delle quantità
della merce medesima (e non anche della moneta). Come si vede si è alquanto vicini, con questa semplifi-
cazione - che pure si avvale delle curve di indifferenza, con violazione, peraltro, della loro logica - a quella
Marshalliana della costanza di utilità marginale della moneta, ragionando direttamente su curve di domanda
(269).
La semplificazione è contro la visione normale del rapporto di sostituzione, che è decrescente,
quando si considerino combinazioni di merci, ad es. y in rapporto ad x, per significare la quantità di y che si
sarebbe disposti a sacrificare per ottenere un incremento ulteriore di x. Espresso nei termini:

dy

dx

è rappresentato da una curva di indifferenza in cui al diminuire di y aumenta la quantità di x nella


combinazione che lascia costante la soddisfazione del soggetto. L'inclinazione della tangente alla curva di
indifferenza varierà da punto a punto, col variare delle relative quantità di y ed x. La diminuzione del rap-
porto delle relative utilità marginali delle quantità y ed x, valutate dal soggetto, conferisce decrescenza al
saggio marginale di sostituzione (ad es.: 5/I, … 4/I, … 3/I, … 2/I, … I/I, … I/2, … I/3, … I/4). In luogo del-
la decrescenza della utilità marginale di un bene, abbiamo la decrescenza del saggio di sostituzione di due
beni, di cui si considerino soggettivamente le utilità relative].
Queste nozioni, che tuttavia si suppongono note dallo studio della economia politica, andavano ri-
cordate, per spiegare in che consista la semplificazione che fa considerare l'interferenza del fattore fiscale
(imposta sulle merci che ne varii il prezzo), ragionando direttamente sulla curva di domanda, che Marshall
(come Dupuit) teneva presente nello studiare la «rendita del consumatore», nel senso della definizione da-
tane, con la restrizione della costanza dell'utilità marginale della moneta.
Invero, il grado di elasticità della domanda deciderà - considerando costante l'utilità marginale della
moneta o del reddito - del «quantum») di rendita del consumatore sacrificata dall'imposta sulle merci, o del-
l'onere in questi termini di detto modo di imposizione
Si possono trarre le conclusioni per i casi ipotetici che rappresentati nella figura. 48.
I) Nel primo caso di domanda relativamente elastica è evidente che lo Stato introducendo l'imposta
lR, ottiene un provento misurato dal rettangolo lRNS. Il consumatore non soltanto perde una frazione di
«rendita» corrispondente all'area rettangolare Ml'RN, a cui corrisponde una quantità monetaria che va all'e-
rario, ma sacrifica anche una rendita rappresentata dal triangolo RPl'. [Il Dupuit considerava il triangolo
RPl come l'utilità perduta dal contribuente e dal fisco e continuava enunciando due teoremi: 1) quanto più
le imposte sono forti, meno esse producono relativamente; 2) l'utilità perduta cresce come il quadrato del-
l'imposta].

__________
(269) Si è avvertito che il saggio marginale di sostituzione potrebbe essere indipendente dalla quantità di moneta, an-
che se mutasse l'utilità marginale della moneta al crescere della quantità disponibile, purché l'utilità marginale della
merce variasse nella stessa proporzione.
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Il Marshall continuava rilevando che la perdita nella «rendita» è piccola o grande, ceteris paribus
secondo che DD' è più o meno inclinata verticalmente. Cioè è piccolissima per quelle merci la cui domanda
è meno elastica, ovvero per le merci di prima necessità. Ed enunciava la norma agendi secondo la quale:
«se una data somma d'imposta deve essere prelevata ad ogni costo da una data classe, sarà minore la perdita
nella rendita del consumatore, se l'imposta è prelevata su merci necessarie, che non su merci di lusso».

Ciò posto sono intuibili i due casi-limite seguenti:


2) E cioè la «rendita del consumatore» sarebbe infinita nel caso di domanda rigida. Nel qual caso
qualunque elevazione del prezzo sarebbe possibile; e la diminuzione della rendita del consumatore sarà tan-
to maggiore quanto maggiore è il rettangolo PlNM, di cui l'altezza è data dall'ammontare dell'imposta. Tale
rettangolo misura esattamente il provento fiscale.
3) Nessun aumento del prezzo è possibile nel caso-limite di domanda assolutamente elastica. Nes-
suna «rendita del consumatore» è distrutta dalla imposta. Ma si riduce il consumo del prodotto da OP' ad
OQ ed è basso in proporzione il provento che può ricavare lo Stato (RDSl).
Per dare un'idea della divergenza fra la soluzione del problema fiscale (riduzione di «rendita del
consumatore» per l'interferenza di un'imposta sulla merce considerata), nella (A) semplificazione del Mar-
shall (che ragiona sulla curva di domanda, supponendo costante l'utilità marginale della moneta e l'utilità
del bene dipendente soltanto dalla sua quantità) e (B) il caso normale della decrescenza del saggio margina-
le di sostituzione, ricorriamo alla dimostrazione che si avvale di curve di indifferenza.
Esprimiamo sull'asse delle y il reddito monetario OP di cui l'individuo dispone e sull'ascissa la mer-
ce x. La linea del prezzo PP', nel punto di tangenza S con una delle curve di indifferenza, fa individuare sul-
l'ascissa la quantità OQ acquistata. La somma di reddito monetario spesa nell'acquisto è rappresentata dalla
quantità SR, essendo SQ, reddito residuo, destinato alle rimanenti merci rappresentate dalla moneta. L'ecce-
denza che, nella visione Dupuit-Marshall, ha natura di rendita, è rappresentata dalla differenza, in questo
schema, fra il prezzo globale che il soggetto, in possesso del reddito OP, sarebbe disposto a pagare pur di
non rinunciare alla quantità OQ di merce, cioè RT (T si trova sulla curva di indifferenza, a indice inferiore,
passante per il punto P) e il prezzo globale RS nella prima.

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ipotesi di prezzo di mercato. La rendita del consumatore è misurata cioè, da ST.


Se supponiamo che effetto dell'imposta sulla merce x sia di farne aumentare il prezzo nel senso che
si passi dalla linea PP' alla linea PP" tangente ad altra curva di indifferenza in S', tendenzialmente viene a
prodursi, con la diminuzione della domanda di x (da OQ a OQ'), la riduzione della rendita del consumatore
(da ST a S'T'). Il termine «tendenzialmente» è stato usato, evidentemente, non con riferimento al caso qui
graficamente rappresentato, dato che per essere S' a sinistra di S (a significare la minore quantità di merce
domandata), è ST maggiore di S'T'. La diseguaglianza, però, potrebbe anche essere rovesciata qualora, in
corrispondenza ad un appropriato andamento delle curve di indifferenza, facilmente tracciabile (che rifletta
una particolarità della domanda del bene) il punto S' venisse a trovarsi a destra di S (il che starebbe a signi-
ficare che la domanda di x è aumentata con l'aumentare del prezzo). È questa una ipotesi che viene presa in
considerazione, anche in questo Corso, nell'analisi di successive approssimazioni del problema teorico ra-
zionale al fenomeno concreto (v. nel capitolo XI, il paragrafo riguardante l'analisi Pareto-Slutzky della do-
manda e la teoria delle imposte sui consumi).
Quanto segue fa riconoscere l'abuso ipotetico della costanza della utilità marginale del reddito mo-
netario, che accentra l'attenzione, nel ragionamento, sulla variabile costituita dalla utilità marginale della
merce, ovvero fa argomentare in base allo strumento costituito dalla domanda, che, per dirla con l'Amoroso
(Lezioni di economia matematica, Bologna, 1921), rappresenta un fenomeno sintetico derivato (effetto), che
sta in relazione anche con la funzione di ofelimità od utilità soggettiva, il quale è fenomeno analitico (agen-
te da causa).
Ma la immediata evidenza della dimostrazione, che si ottiene avvalendosi delle curve di domanda, è
tale che, nell'ambito della eguaglianza del senso della soluzione (assorbimento di rendita del consumatore
in ragione delle variazioni di prezzo arrecate dall'imposta), si rivela didatticamente ancora proficuo il ricor-
so allo schema Marshalliano (fig. 50).
Ad esso si fa riferimento per dimostrare quali variazioni della «rendita del consumatore» siano do-
vute alla considerazione dell'imposta sulle merci come aggiunta uniforme ai costi medi (rispettivamente co-
stanti, crescenti e decrescenti). Le riserve che precedono, naturalmente, servono a fai leggere, con la dovuta
approssimazione di effetti, le relazioni quantitative fra i fattori che si isolano nella dimostrazione: variazioni
delle ipotesi relative alle condizioni dell'offerta, imposta e prezzi.
I) Secondo la, dimostrazione grafica Marshalliana, nel caso di produzione della merce tassata in re-
gime di costi costanti, la perdita di rendita del consumatore è maggiore della somma che va allo Stato a ti-
tolo di provento lordo. Invero, nella figura, sSAa è maggiore di sSKa, dopo l'applicazione dell'imposta aK.
II) Nell'ipotesi di produzione della merce in regime di costi crescenti (di produttività decrescente,
scrive il Marshall), come si è visto il prezzo aumenterà di meno dell'ammontare dell’imposta. E se tale leg-

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ge agisce fortemente, in linea generale la somma che va allo Stato a titolo di provento fiscale, supera la
perdita di rendita
del consumatore. Ciò si desume dalla dimostrazione grafica (caso II) in cui cFEa è maggiore di
cCAa dopo l'introduzione dell'imposta aE, che eleva da SS' ad ss' il costo di produzione e riduce a OR la
quantità venduta.
III) Nell'ipotesi, infine, di merce tassata prodotta in regime di costi decrescenti, l'area che nella fi-
gura rappresenta la somma incassata dallo Stato (per l'applicazione dell'imposta aE che eleva la curva del
costo da SS' ad ss') è cFEa, minore dell'area cCAa, sacrificata come rendita del consumatore.
Poiché la concessione di un premio ai produttori, per ottenere una riduzione di prezzo, opera nel
senso opposto, nei casi di costi crescenti e decrescenti - nel senso che il guadagno in rendita del consuma-
tore è minore della somma versata dallo Stato ai produttori a titolo di premio nell'ipotesi di produzione a
costi crescenti, mentre è maggiore in regime di costi decrescenti - il Marshall aveva enunciato quello che
l'Edgeworth - che pure nella Psichica matematica ha ragionato in base alla variabile utilità soggettiva - su-
perando l'arbitrio suddetto della costanza di essa ha denominato, con evidente ammirazione che emerge dal
testo citato, il «teorema di Marshall». Questo si enuncia nel senso che può rispondere al fine della soddisfa-
zione massima della collettività il prelievo di un’imposta sulle merci prodotte in regime di costi crescenti,
per destinarne il provento alla concessione di un premio ai produttori di merci in regime di costi decre-
scenti.

Ciò discende dalla applicazione delle nozioni teoriche che sopra si sono enunciate, considerando il
concetto di rendita del consumatore. Ma il problema non è così semplice, dovendosi tener conto delle nu-
merose circostanze che, nel caso concreto, affaccia lo stesso Marshall e, fra l'altro, di quelle considerate dal
Borgatta nell'articolo citato, e infine dei rilievi degli economisti intorno al confronto che dovrebbe farsi
(ammesso che sia razionalmente e statisticamente possibile) fra utilità perduta dai contribuenti su cui grava
il premio e aumento di rendita dei consumatori.

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X.

EFFETTI DELL'IMPOSTA SULLE QUANTITÀ:

A) DI BENI COMPLEMENTARI; B) DI BENI SUCCEDANEI.

Fino a questo punto si è ragionato implicitamente, nelle ipotesi di tassazione delle merci, di imposte
sui beni considerati ad utilità indipendente, di cui i soggetti facciano domanda separata. È una restrizione
ipotetica che allontana dal fenomeno concreto, nel quale normalmente i beni sono legati da relazioni di
complementarietà in senso ampio, nel senso cioè che, al variare della quantità domandata o consumata di un
bene, varia (in aumento o diminuzione) l'utilità di altri beni.
Nel passare a considerare l'influenza del variare di costi e prezzi in sede di processo traslativo, ra-
gioniamo in prima approssimazione, seguendo teorie acquisite, le quali prescindono dalla gerarchia dei be-
ni, distinti fra «superiori» e «inferiori» (ad es. polenta, pane, carne; carne di I, II qualità) e posti in relazione
con variazioni del reddito, nel senso che, aumentando il reddito, la domanda si sposta verso i consumi «su-
periori».
Effetto equivalente ad un aumento del reddito si ha allorché diminuisca il prezzo di beni inferiori:
in tal caso, anziché aver luogo, secondo la univoca visione della teoria della domanda, un aumento della
domanda di tali beni «inferiori», si ha uno spostamento della domanda verso i beni «superiori». Lo stesso
dicasi per esenzioni o riduzione di imposte sui consumi inferiori o «popolari», rispetto al maggior onere di
imposta a carico dei consumi di «lusso».
Di questa, che viene detta la multidirezionalità della domanda, non si è tenuto conto, finora, nella
teoria finanziaria internazionale Ho introdotto questi concetti270 tenendo conto anche degli sviluppi che so-
prattutto lo Slutzky aveva dato, analiticamente, alla visione Paretiana della gerarchia dei beni. Del pari, in
economia pura, compiutamente lo Hicks ha ben contrapposto la teoria della domanda nel caso di merci o
beni «superiori» (per cui al diminuire del prezzo aumenta la quantità domandata: questo è definito «effetto
di sostituzione») alla teoria, svolta attraverso curve di indifferenza o equivalenti (di valutazione marginale
della domanda), che a prima vista sembra paradossale. Invero, come ho detto, diminuendo il prezzo di beni
«inferiori», non sempre ne aumenta la domanda, in quanto il maggior potere d'acquisto, che realmente ne
discende, si riversa verso consumi «superiori».
L'introduzione, sia di queste visioni (beni «inferiori» e «superiori»), sia di variazioni di reddito mo-
netario (imputabili, ad es. a variazioni della spesa pubblica), fa modificare le conclusioni tradizionali in te-
ma di effetti delle imposte sulle merci, per quanto attiene alle relazioni fra variazioni di prezzi e di quantità
domandate nei casi di beni non più considerati indipendentemente gli uni dagli altri, nell'equilibrio del con-
sumatore. Di questo diremo, quindi, in seconda approssimazione, più oltre (si veda il capitolo seguente).
Intanto, consideriamo l'influenza che i rapporti di complementarietà e di succedaneità (o surrogabi-
lità) esercitano sul processo traslativo.

A) Traslazione dell'imposta nel caso di beni complementari.


I) In senso stretto si considerano legati da rapporto di complementarietà i beni quando, aumentando
la domanda di uno di essi, aumenta l'utilità marginale dell'altro. Donde altra sequenza pure di prima appros-
simazione, nel senso che: aumentando la domanda di un bene, aumenta il prezzo dell'altro. E in termini di
prezzi relativi, se l'aumento del prezzo di un bene fa diminuire la domanda di esso, anche domanda e prezzo
dell'altro bene diminuiranno.
Esempi frequenti non mancano, in concreto, di beni diretti a domanda congiunta, per il soddisfaci-
mento di un bisogno. Zucchero e caffè, benzina ed automobile, penna e inchiostro, ecc. sono legati in diver-
so grado da rapporto di complementarietà, la quale può spingersi ad un rapporto fisso nella combinazione di
dati beni, nel loro uso congiunto.
__________
270
Si vegga: E. D'ALBERGO, L’analisi Pareto-Slutzky della domanda e la teoria delle imposte sui consumi, «Giorn.
degli Econ.», gennaio-febbraio 1949.
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Ciò influenza la relatività delle soluzioni in tema di analisi degli effetti dell'imposizione delle mer-
ci, di cui, ad es. (per studiarne le ripercussioni sulla «rendita del consumatore») si era occupato il Borgat-
ta271 (Giorn. degli Economisti, 1921). Di massima, data la definizione di complementarietà, non poteva non
ammettere, invero genericamente, in quanto, nell'enunciato, non determinava il senso della variazione, che:
«un'imposta, che colpisca un bene appartenente ad un complesso di beni complementari, ha l'effetto non
soltanto di modificare il prezzo e la quantità domandata di siffatto bene, ma anche il prezzo e la quantità
domandata dei beni legati (col primo) da rapporto di complementarietà».
La dimostrazione geometrica che ne da, con curve Marshalliane, in parte pone in evidenza determi-
nate variazioni di quantità e di prezzi, in parte le suppone implicite.
Comunque, per dare il senso dello sviluppo del fenomeno complesso, si supponga che la domanda
congiunta relativa a due beni

(A e B), legati da relazione di stretta complementarietà, sia rappresentata, nella dimostrazione geo-
metrica, che si completa, da una curva DD' mentre la curva SS' segna l'andamento del costo del gruppo
complementare di cui trattasi.
[Non mancano casi, in concreto, di vendita in solo involucro e ad un solo prezzo complessivo, ri-
guardanti più beni di consumo legati da rapporti di complementarietà, se si pensa ai generi alimentari nei
mercati concreti al minuto. È possibile, naturalmente, conoscendosi il prezzo separato di uno dei prodotti
componenti la combinazione domandata (e offerta) congiuntamente, ricavare quelle che sarebbero le sepa-
rate curve di domanda ed offerta].
Siano dd' ed ss' le curve, rispettivamente, di domanda ed offerta del bene A, le quali si incontrano in
p, sulla PQ, che misura il prezzo di equilibrio del gruppo, a cui corrisponde la quantità OQ.
Supponiamo che un'imposta sul prodotto (A) abbia l'effetto di elevare la curva del costo da ss' a tt',
dato che l'ammontare del tributo specifico sia pp'. Supponiamo, come uno dei casi possibili, che l'imposta
determini, ceteris paribus o in prima approssimazione una elevazione del costo del gruppo complementare
(A, B) da SS' a TT.
Dal diagramma risulta: a) un aumento del prezzo globale da Q P a Q'P'; b) la riduzione da OQ a
OQ' nella quantità domandata complessivamente; c) un aumento del prezzo di A ed una variazione del
prezzo di B che dipende dal punto in cui la nuova curva tt' di offerta di A incontra la curva di domanda dd'
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BORGATTA Gino, Giornale degli Economisti, 1921.
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particolare o relativa. Nel caso descritto dal Borgatta, il punto d'incontro della curva di offerta e di domanda
di A è a sinistra della linea del prezzo complessivo (o relativo all'intero gruppo complementare). Quindi la
diminuzione della quantità domandata, che si ridurrebbe ad OQ", al maggior prezzo particolare dQ", del so-
lo prodotto A, sarebbe stata maggiore di QQ', cioè di quella corrispondente al gruppo complementare. Que-
sto fa pensare che deve esservi stata necessariamente modificazione anche di prezzo - scrive il Borgatta -
oltre che di quantità domandata per il prodotto B (supposto non colpito d'imposta, ma legato da rapporto di
complementarietà con il bene o prodotto A, tassato).
L'Edgeworth afferma che «un'imposta su una delle due merci complementari innalzerà il prezzo di
quella colpita e abbasserà il prezzo di quella che non è colpita» (op. cit., pag. 292).
Il che, in base alle uniformità di massima che, in prima approssimazione, precedono, può significa-
re che taluni fenomeni impliciti, intuiti, possano porsi in evidenza esplicitamente, modificando la rappre-
sentazione del Borgatta, per la dimostrazione:
I) Supponiamo che simultaneamente all'aumento del costo, imputato all'introduzione dell'imposta e
nella misura di questa, con la corrispondente riduzione della quantità domandata di A, si sia determinata
(come vuole una definizione dei rapporti di complementarietà) una diminuzione dell'utilità del bene B.
Ma questo fatto, nella visione Marshalliana della relazione, a cui si è accennato in precedenza, fra le
curve di domanda e di utilità (supposta costante l'utilità marginale della moneta), porta ad un abbassamento
della curva di domanda per il bene B; nel qual caso per individuare l'azione componente della domanda,
mutata, del bene B, si fa subire conseguentemente, in prima approssimazione, un abbassamento alla DD',
che si porta nella posizione VV'. Quest'ultima incontra, allora, TT' (curva del costo del gruppo al lordo del-
l'imposta su A) in un punto M a sinistra di P', ossia verrebbe individuata per il gruppo la quantità di equili-
brio OQ,"' minore di quella OQ' in precedenza indicata.
II) Orbene, se alla curva DD' non si fanno subire spostamenti, - come nell'esemplificazione grafica
fatta dal Borgatta, il quale pure aveva presente la suddetta relazione fra quantità e utilità dei beni comple-
mentari - ciò sta a significare che le combinazioni dei due beni A e B, espresse dalle ascisse, sono le mede-
sime preesistenti all'imposta sul bene A, la quale ha modificato l'andamento del costo da SS' a TT'. E sicco-
me la variazione del costo del gruppo appare, nel caso illustrato, diversa (minore) da quella (ammontare
dell'imposta) immaginabile per il bene A tassato, si deduce che nei prezzi di A e B singolarmente considera-
ti, sono avvenuti aggiustamenti, con fatti anche di traslazione obliqua da A a B, e corrispondenti incidenze a
carico del produttore.
Queste variazioni ipotetiche non contrastano, di massima, con l'uniformità generica, su citata, del
Borgatta, nè con quella specifica dell'Edgeworth, in tema di effetti dell'imposta sui beni complementari.

B) Traslazione dell'imposta nel caso di beni succedanei.


Anche questo caso è frequentissimo in concreto e giustifica l'attenzione che ad esso si presta in sede
teorica.
I) Nel precisare in qual senso abbia luogo la traslazione di un'imposta nell'ipotesi che qui si fa, si
tiene conto della indagine specifica condotta da Marco Fanno nella ben nota monografia (272).
Intanto ricordiamo alcuni concetti essenziali, affinché si possa comprendere l'enunciazione delle u-
niformità di carattere finanziario in tema appunto di traslazione dell'imposta, che colpisca un bene avente
succedanei oppure il bene principale ed il suo succedaneo.
Si denominano surrogati o succedanei i beni che possono sostituirsi gli uni agli altri nel consegui-
mento di un dato effetto utile. Esempi concreti che rispondano alla definizione sono numerosissimi, sia nei
rapporti fra beni diretti di diversa specie (caffè e the, birra e vino, cotone e lana, ecc.); sia tra beni della
stessa specie ma di qualità diversa (vino, olio, caffè di prima, seconda e terza qualità, compartimenti ferro-
viari di diversa classe, oggetti usati rispetto ai nuovi, ecc.); sia tra beni strumentali (legna rispetto a carbone,
lavoro meccanico rispetto al manuale, energia elettrica ed energia idraulica, ecc.).
Rispetto al soddisfacimento di dati bisogni, se consideriamo l'ipotesi più semplice, due beni diretti,
che siano fra loro succedanei, possono sostituirsi l'uno all'altro totalmente o parzialmente. Il soggetto quale
consumatore può acquistare esclusivamente l'uno o esclusivamente l'altro oppure simultaneamente entram-
bi, nelle proporzioni più varie. Allorché le quantità alternativamente o simultaneamente impiegate dei due
beni procurino lo stesso effetto utile, esse formano i termini di alternative indifferenti.
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(272) FANNO MARCO, Contributo alla teoria economica dei beni succedanei, «Annali di Economia», 1926.
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I beni, nelle varie alternative, si sostituiscono fra loro in un determinato rapporto, che viene detto
rapporto di sostituzione o di succedaneità. Due beni tendono a sostituirsi fra loro in modo che le quantità
rispettive risultino l'una rispetto all'altra economicamente equivalenti, cioè siano inversamente proporziona-
li ai gradi di utilità: perciò il rapporto di sostituzione è stato fatto eguale al reciproco del rapporto dei gradi
di utilità. Questi possono essere noti attraverso le scelte dei consumatori. Le scelte indifferenti di un indivi-
duo rispetto a due beni, che possono sostituirsi fra loro nelle proporzioni più varie, sono infinite e possono
rappresentarsi geometricamente con curve o sistemi di curve d'indifferenza.
II) Ho fatto precedere queste nozioni (sebbene esse debbano ritenersi note attraverso i corsi prope-
deutici di economia politica) per potere introdurre l'ipotesi tributaria e considerare la tendenza della varia-
zione dei prezzi.
Anzitutto partiamo dalla condizione di equilibrio, supponendo equilibri parziali (un gruppo di beni
soltanto) e prezzi' costanti. In tal caso il consumatore, volendo godere dei beni congiuntamente, sceglierà
fra tutte le combinazioni possibili quella nella quale le quantità dei due beni A e B si trovino in tal modo
combinate che in corrispondenza di esse il rapporto marginale di sostituzione risulti uguale al reciproco
del rapporto fra i prezzi. Supponendo impiego simultaneo e congiunto dei due beni, si esclude, per ipotesi,
che i rapporti fra i prezzi siano eccessivamente grandi o piccoli e tali da risultare superiori o inferiori a tutti
i rapporti di sostituzione. Nel qual caso il consumo si accentrerebbe su uno solo dei due beni. E ciò è contro
l'assunto.
Supponiamo che intervenga un'imposta sulla produzione di A nella misura di I per ogni unità metri-
ca prodotta, e che ciò equivalga ad un aumento del costo di produzione di A Il prezzo corrispondente (a)
aumenterà. Ma una parte della domanda di (A) si sposterà verso B ed anche il prezzo (b) finirà con l'elevar-
si. Quindi un'imposta stabilita sulla produzione di A determina l'aumento del prezzo di questo bene e del
suo succedaneo. Essa viene a trasferirsi sui consumatori di entrambi i beni, cioè anche sui consumatori dei
beni esenti da imposta.
Poiché l'elasticità della domanda è fra le condizioni (come si è visto) che influiscono sulla trasferi-
bilità di un'imposta, in generale l'esistenza di succedanei accresce l'elasticità della domanda del bene prin-
cipale. Di modo che essa risulta superiore alla elasticità che la domanda avrebbe se non esistessero succe-
danei del bene tassato. Quindi l'imposta sul bene (A) si trasferisce sui consumatori del bene medesimo in
misura minore che in assenza di succedanei: ma si trasferisce sui consumatori di B. Se la produzione di
questo bene (in regime di concorrenza) avviene a costi crescenti, la tassazione del bene principale (A) e-
stendendo la produzione di B (dato il maggior consumo) determina un aumento del prezzo del succedaneo
(B). E poiché siffatta variazione di prezzo limita il consumo di (B) il Fanno ha potuto trarre, nei limiti delle
premesse, la uniformità che: un'imposta sulla produzione di un dato bene è fiscalmente produttiva solo in
quanto determini un aumento del prezzo del suo succedaneo e tanto più produttiva quanto più, a parità di
altre circostanze, è notevole siffatto aumento.
Questa considerazione è importante, nella spiegazione dei fatti, in quanto può avvenire che pur tas-
sando, il legislatore, (in base a premesse di politica sociale) i generi di lusso, praticamente se questi hanno
dei succedanei (non tassati) la domanda si rivolga verso i medesimi, dando luogo ad un aumento di prezzo
(che voleva evitarsi in sede di tassazione), con danno delle classi meno abbienti che il legislatore intendeva
non danneggiare.
Do di questo processo una dimostrazione geometrica allo scopo di chiarire, in modo approssimato,
il ragionamento che precede, del Fanno, che l'autore espone nel solo linguaggio comune.
Riportiamo sull'asse delle ascisse le quantità rispettive, OE (di A) ed OC (di B), supponendo che la
scelta sia avvenuta in modo che le unità finite predette del bene principale A e del succedaneo B si sostitui-
scano nello stesso rapporto delle corrispondenti utilità marginali. (Nella figura si spostano le quantità al fine
di rendere chiara la lettura del grafico).
Tracciamo le rispettive curve di domanda e di costo, e le linee dei prezzi corrispondenti.
Per chiarire il concetto graficamente, si sono tracciate due curve di domanda (DD' e uu') con diver-
so grado di elasticità per il bene principale (A), quasi supponendo l'inesistenza, prima, del bene succedaneo,
per mettere poi in chiaro l'influenza della possibilità di sostituire al bene principale di cui l'imposta ii' abbia
fatto elevare il prezzo (da PE a P'E') una certa quantità di bene succedaneo. La quale possibilità farebbe
aumentare il prezzo ad E"P", minore di P'E' e farebbe ridurre maggiormente la quantità domandata del bene
principale (essa diminuirebbe da OE' ad OE") in parte sostituendosi alla domanda di (A) (divenuta mag-
giormente elastica come figura

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dalla uu' curva tratteggiata) una maggior domanda del bene (B) succedaneo (che risulta elevata da
dd' a vv', passando la quantità domandata da OC a OC').
Producendosi il bene B (succedaneo) in regime di costi crescenti, come figura dalla curva ss', le
maggiori quantità richieste in sostituzione del bene principale (A), avranno un prezzo più elevato, che, se-
condo la dimostrazione del Fanno, va a danneggiare i consumatori di codesto bene in conseguenza del fatto
che il tributo ii' abbia colpito il bene principale (A), facendo spostare verso il bene (B) una parte della do-
manda di (A).
Volendo evitare che una parte della domanda del bene (A) (principale) tassato, si riversi, per il de-
scritto processo di succedaneità, sul bene B, surrogato, occorre che si tassi anche il bene B con un'imposta
(che nella figura a titolo di esemplificazione appare eguale a tt'). In tal caso la quantità di succedaneo che si
sostituisce al bene principale, risulta minore di quella CC' ipotizzata in mancanza di tassazione del succe-
daneo e, precisamente, assume le dimensioni CC". Se ciò è supposto, è anche da pensare che la quantità del
bene principale non si riduca da OE ad OE", ma ad una quantità intermedia fra le due. Ossia, come è detto
dal Fanno, quando non soltanto il bene principale ma anche il suo succedaneo venga tassato, la redistribu-
zione della domanda è minore ed il provento per il fisco è maggiore.
In generale per evitare che la domanda si sposti verso i succedanei, occorre che anche questi venga-
no simultaneamente colpiti da imposta. E dipende dalla misura relativa delle due imposte se un trasferimen-
to della domanda si verifichi da un bene all'altro e in quali proporzioni ciò avvenga. Esiste una misura rela-
tiva delle due imposte [sul bene (A) e sul suo succedaneo (B)] tale che, in corrispondenza ad essa, la distri-
buzione delle domande dei due beni rimanga inalterata.
Comunque, allorché si verifichi un trasferimento della domanda dal consumo del bene (A) verso il
consumo del bene (B), se anche questo è colpito da imposta si attenua il trasferimento della domanda da
(A) a (B).
Si può pertanto concludere, con il Fanno, che «ceteris paribus» un'imposta, che colpisca simultane-
amente tutti i beni fra loro succedanei, evita in tutto o in parte la redistribuzione del reddito fra consumi
tassati e non tassati che si verifica, appunto, nell'ipotesi in cui uno solo venga tassato. Anche il provento fi-
scale è maggiore nel caso in cui entrambi i beni (nell'ipotesi di due) siano tassati, che nel caso in cui uno so-
lo venga tassato de jure con una aliquota eguale alla somma di quelle che virtualmente possano colpire en-
trambi i beni.
Queste ripercussioni ricavate nell'ipotesi di equilibri parziali e non considerando l'equilibrio genera-
le del consumatore possono essere atteggiate come «norma agendi» nei limiti delle ipotesi che prescindono
dalle numerose e complesse circostanze del mercato in concreto. Finora, in via ipotetica, si è ragionato in
base alla legge della domanda, quale fin qui è stata supposta. Vedremo come le uniformità del Fanno si
modifichino assumendo un diverso modo di atteggiarsi della domanda dei beni, nel paragrafo VII del capi-
tolo XI.

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XI.

COINCIDENZA DI PERCUSSIONE ED INCIDENZA:


L'AMMORTAMENTO DELL'IMPOSTA.

Altro effetto economico dell'imposizione è l'ammortamento. Esso si può avere solo quando un'im-
posta nuova, od un incremento di una esistente, colpisce il reddito di un capitale impiegato durevolmente
(come in terreni, fabbricati, nelle rendite perpetue, obbligazioni, ecc.). Si dice, ad esempio, che l'imposta
fondiaria nel momento in cui è introdotta, tende a diminuire il valore dei fondi nella misura del tributo capi-
talizzato al saggio corrente dell'interesse e quindi grava su coloro che sono proprietari al momento della sua
introduzione, ma non su coloro che ne diventano proprietari successivamente. Poiché questi, acquistando i
fondi gravati d'imposta al prezzo diminuito dell'onere (capitalizzato) dell'imposta, impiegano i loro capitali
al saggio corrente di interesse, pur corrispondendo allo Stato l'imposta, non ne risentono il peso. L'imposta
si ammortizza nel valore del fondo riducendolo del valore dell'imposta capitalizzata al tasso corrente, ed il
processo economico mediante il quale avviene questo calcolo è appunto il processo di ammortamento. In
generale questo consiste in una diminuzione del valore capitale (dei beni durevoli di cui si colpisca il reddi-
to) eguale alla capitalizzazione dell'imposta al saggio corrente dell'interesse, per i vari tipi di investimenti.
Questo effetto è potenziale o virtuale, se non ha luogo la vendita del bene, nel momento in cui si introduce
l'imposta.
Supponiamo un fondo che abbia il valore di 100.000 lire e che dia un reddito normale di 5.000 lire:
se si introduce un'imposta sul reddito del 20%, esso (reddito) è decurtato di 1.000 lire e si riduce a 4.000.
Supposto che il saggio d'interesse corrente del mercato sia il 5%, capitalizzando il nuovo reddito, si otten-
gono 80.000 lire, nuovo valore del fondo, corrispondente all'antico, dedotta l'imposta capitalizzata; ed è tale
valore che si ricaverà dalla vendita del fondo. Questa diminuzione del valore capitale del fondo rappresenta
l'ammortamento dell'imposta. Invece il proprietario successivo, acquistando il fondo al prezzo di 80.000 li-
re, ricavando da esso la rendita lorda di 5.000 lire, che diventa di 4.000 lire quando la si depura dell'imposta
di 1.000 lire, ricava dal suo capitale il saggio corrente d'interesse 5% e paga di diritto l'imposta senza eco-
nomicamente sopportarne l'onere. Quindi il contribuente di diritto diventa il proprietario acquirente del ter-
reno, ma il contribuente di fatto è quello che effettivamente vede il valore del suo terreno decurtato per ef-
fetto dell'imposta (venditore).
All'atto in cui l'imposta viene introdotta (prima della compravendita del bene di cui si tassi il reddi-
to) si può dire che virtualmente coincidano la percussione e la incidenza del tributo.
La teoria corrente considera il fenomeno nei rapporti tra venditore e compratore. L 'errore sta nel
non avere avvertito che, tra compratore e venditore, il consolidamento o ammortamento, è bilaterale. Cia-
scuna delle parti contraenti elide l'imposta di cui è gravato il bene che compera, ossia che riceve in cambio
del bene che vende (De Viti De Marco).
Facciamo il caso tipico di una permuta tra un terreno e titoli industriali. Il compratore del terreno
elide l'imposta fondiaria: ma anche il compratore dei titoli industriali elide l'imposta mobiliare. In una paro-
la si permutano o si vendono o si comperano sempre redditi netti da elementi indisponibili.
Donde segue che, dopo la permuta, ognuna delle parti contraenti pagherà di diritto l'imposta che
grava sul bene comperato: ma di fatto continua a pagare l'imposta che colpisce il bene venduto. Cioè ognu-
no porta con sè, di fatto, l'imposta che pagava. Ad esempio, se si permuta un terreno che rende 1.100 e paga
100 d'imposta, contro una casa che rende 1.200 e paga 200 d'imposta, il valore totale - senza l'imposta - sa-
rebbe, al tasso del 5%, di 22.000 e 24.000 rispettivamente: ma lo scambio avviene alla pari in base alla pari-
tà dei redditi netti. Cioè il proprietario fondiario ottiene 20.000 lasciando nelle mani del proprietario di casa
2.000, corrispondenti al valore capitale di 100 d'imposta: e il proprietario di casa ottiene 20.000 lasciando
nelle mani del proprietario fondiario 4.000, pari al capitale di 200 d'imposta. Quindi, dopo la permuta, il
proprietario fondiario pagherà bensì 200 d'imposta sulla casa comperata, ma ha anche trattenuto 2.000 in
più sul prezzo d'acquisto; perciò è come se continuasse a pagare 100 di prima. Similmente il venditore della
casa pagherà sul fondo comperato 100 invece di 200, ma è anche vero che ha dovuto rinunziare a 2.000 di
capitale nel computo dei valori permutati.

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Volendo passare dal caso della permuta a quello della compravendita in cui il terreno si scambia
con moneta, siccome questa non è gravata d'imposta, sembra che il consolidamento torni ad essere unilate-
rale. Ma questa è soltanto l'apparenza, poiché il venditore del terreno, osservando l'«orizzonte economico»
come investitore, sconta nel prezzo l'imposta media che pagherà sul reddito di qualunque investimento, a
cui si destina il ricavo della vendita.
La definizione di ammortamento viene rispettata, anche in questo caso di svalutazione, in termini
reali o di potere d'acquisto, della moneta che potrebbe non costituire bene durevole. Ma essa, come «porta-
valori», nel tempo, rappresenta (oltre che i beni di consumo) i beni durevoli in cui può investirsi e di cui,
quindi, si scontano i redditi virtuali o possibili.
Il De Viti conclude: a) ogni parte contraente, dopo la compravendita, continua a pagare di fatto
l'imposta che pagava; b) quindi, la eventuale imposta maggiore da cui i primi venditori erano incisi, resta
definitivamente consolidata a loro danno; c) il fisco continua a riscuotere di diritto e di fatto la medesima
imposta di prima.
Si può avere un ammortamento dell'imposta anche per traslazione: se, ad es., è istituita una nuova
imposta sui salari e stipendi e c'è la possibilità da parte dei salariati di ripercuotere l'imposta sull'imprendi-
tore, il patrimonio dell'impresa viene automaticamente svalutato.
Naturalmente se, dopo che abbia avuto luogo l'ammortamento, si verifica una variazione (diminu-
zione) del tasso d'interesse, sul mercato, l'ammortamento tende ad annullarsi. Da alcuni autori, fra cui l'Ei-
naudi (Osservazioni critiche, cit. nel cap. VII, saggio che giudico il maggior contributo scientifico dell'e-
gregio A.), si è fatta l'ipotesi che il provento dell'imposta possa essere impiegato in servizi pubblici relati-
vamente più vantaggiosi della somma di utilità che si sarebbe conseguita se il reddito corrispondente all'im-
posta fosse rimasto presso i privati. Un aumento di sicurezza interna e internazionale, una più efficiente
amministrazione della giustizia, ecc., possono fare abbassare il rischio dell'investimento e, quindi, il tasso
di interesse.
Questo è un caso teorico non privo peraltro di riflessi storici che dimostra come l'effetto dell'am-
mortamento possa essere eliso da ulteriori conseguenze del fenomeno finanziario sul livello del tasso d'inte-
resse. Questo, s'intende, può variare e varia anche per ragioni economiche e politiche non aventi rapporto
col fenomeno finanziario.
Nel definire il processo economico che prende il nome di ammortamento dell'imposta, si è implici-
tamente fatto il caso di un'imposta speciale, cioè che non tassi uniformemente tutte le categorie di redditi.
Ma anche si facesse il caso di un'imposta generale ed uniforme, poiché non tutti i redditi provengo-
no da fonte durevole od egualmente durevole, l'effetto in discorso avrebbe luogo nei confronti soltanto dei
redditi derivanti dalle fonti che costituiscano beni durevoli. Inoltre, dato che non per tutte le fonti (e in tutti i
luoghi nello stesso mercato nazionale) vige lo stesso tasso di capitalizzazione del reddito, effetto dell'impo-
sta sia pur supposta generale ed uniforme, non è quello di modificare in modo uniforme il valore capitale
dei beni durevolmente capaci di fornire reddito.
Supponiamo, ora, che si tratti di imposta commisurata al valore capitale (ad valorem) dei beni, al-
l'atto della compravendita. Il legislatore, di solito, ritiene solidalmente obbligati de jure a corrispondere il
tributo, tanto il venditore quanto il compratore. Talvolta indica la persona del venditore o quella del com-
pratore. In qualche caso (ad es. l'italiano, dell'imposta sul plusvalore degli immobili introdotta nel 1940)
non indica affatto il soggetto passivo. [Contrariamente all'opinione allora manifestata da qualche studioso di
finanza, io affermai che è indifferente, dal lato economico (non per i riflessi giuridici) la persona del sogget-
to passivo, rispettivamente il compratore o il venditore]. Invero il primo (e ciò vale come tesi generale) in-
tende ottenere un dato saggio netto di reddito dal bene che acquista. In rapporto a ciò tiene conto a carico
del venditore dell'onere costituito dall'imposta «ad valorem» (ad es. di registro) e ne detrae l'importo in tutto
o in parte nel fissare il valore capitale che versa al venditore.
Allora si dice che il compratore trasferisce l'imposta sul venditore e che un processo di traslazione
regressiva si ha specialmente quando la legge individui nella persona del compratore il soggetto passivo.
A rigore, poiché in certo senso il processo è automatico e riflette la genesi obiettiva del valore ve-
nale dei beni capitali a prescindere, in certi limiti, dal modo di comportarsi del compratore, si potrebbe dire
che si tratti di un caso di incidenza oggettiva derivante dalla semplice introduzione o maggiorazione di u-
n'imposta. E si può ritenere detta incidenza: equivalente ad una percussione oggettiva, genericamente riferi-
ta alla categoria di beni individuata dalla legge fiscale come oggetto imponibile, a prescindere dal soggetto
passivo (venditore o compratore) che può anche (come di fatto è avvenuto) non essere formalmente indicato

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dalla legge medesima (che nel silenzio, evidentemente, tiene conto della solidarietà tradizionalmente vigen-
te nell'obbligo fiscale collegato alla compravendita, fra le parti che la pongono in essere).
Non bisogna infine confondere l'eventuale elisione temporanea o durevole dell'ammortamento, per
effetto di traslazione dell'imposta di nuova istituzione, con il mancato ammortamento. Trattasi di eventuale
compensazione di effetti, che non inficia per nulla la teoria dell'ammortamento come è esposta dalla dottri-
na corrente. I due fenomeni (ammortamento e traslazione) sono paralleli, anche se, negli effetti, si neutra-
lizzano in tutto o in parte e per periodi determinati di tempo.

XII.

LA RIMOZIONE DELL'IMPOSTA.

Si ricorderà che, nel dar conto razionalmente dei «momenti» degli effetti delle imposte, si è accen-
nato anche alla diffusione dell'imposizione, sotto le forme molteplici che presenta la reazione, come com-
portamento economico, dei soggetti che vedano ridotto definitivamente il proprio reddito, attraverso una in-
cidenza a loro carico.
Come effetto dell'incidenza o modo di compiersi della diffusione, è stato considerato il comporta-
mento dei soggetti incisi come produttori di reddito e consumatori-edonisti. Di fronte alla privazione del
reddito dovuto a varie forme di imposta ipotizzabili, si suppone che possa aver luogo una intensificazione di
sforzi tendente a reintegrare il potere d'acquisto dei bilanci individuali, con ritorno almeno parziale a con-
sumo di beni privati, la cui limitazione si suppone sia stata dovuta a consumo coattivo di servizi pubblici e
comunque a destinazione definitiva di una parte di reddito individuale al settore pubblico della economia.
Il problema della rimozione dell'imposta è stato toccato da più autori, dal Pantaleoni (che ne scrisse
nel 1887 e, con diverse conclusioni, nel 1904) al Barone (1894 e 1912), che ne diede razionale impostazio-
ne, poi completata ed approfondita da L. Rossi; nonché altri numerosi, fra cui indico Einaudi, Borgatta, Fa-
siani e, fra gli stranieri, Pigou, Dalton, Black, Knight, Robbins, Frisch, con discordanza di conclusioni, che
sembra lasciare il campo aperto alle discussioni. È bensì vero che, per lo più, tale discordanza è dovuta a
diversità delle ipotesi poste alla base dei ragionamenti da parte dei vari autori; se non, talvolta, a difettosa
coerenza dello svolgimento dei ragionamenti stessi con le premesse o con la natura degli strumenti logici
usati nelle rispettive analisi. È questo il caso, ad esempio, di G. Déhove273, il quale ha, erroneamente, rite-
nuto di poter invalidare i risultati enunciati da L. Rossi, in questo paragrafo tenuti presenti, come si dirà ol-
tre.
Debbo, poi, rilevare che, in generale, il problema della rimozione dell'imposta ha trovato opportuni-
tà di studio in sede di analisi dell'offerta di lavoro, come attestano, appunto, i saggi di gran parte degli stu-
diosi sopraindicati.
Intanto ricordo che il Pantaleoni, esaminando gli effetti della pressione tributaria, impostava, sotto
siffatta specificazione, il problema della rimozione dell'imposta. Fatta l'ipotesi di una compiuta traslazione
(o di una avvenuta incidenza) e di mercato chiuso (e di una somma di imposte non maggiore della somma
dei redditi netti), egli analizzava gli effetti della pressione tributaria nei confronti di un individuo che si tro-
vi in condizioni di equilibrio, come lavoratore.
Per definizione, detto individuo spinge il proprio lavoro penoso fino al punto in cui il costo margi-
nale (o il grado finale di costo o la disutilità di detto lavoro) sia eguale all'utilità marginale (o al grado finale
di utilità) del reddito o, del prodotto conseguito con il lavoro.
Nel grafico n. 53, prescindendo dall'intervento del fattore tributario, il punto di equilibrio è dato dal
punto in cui si intersecano le curve AB e CD, rappresentative, rispettivamente, dell'utilità e degli sforzi (o
dei costi), tenendo presente che sull'ordinata viene rappresentata l'utilità marginale e che nell'ascissa figura
la corrispondente dose di reddito (o bene o prodotto).

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DEHOVE, G., Impôt, Economie et Politique, I, Pression fiscale et équilibre économique, 1947, Paris.
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A) Ipotesi di imposta fissa.


Ciò premesso, il Pantaleoni faceva l'ipotesi che la condizione di equilibrio (la quale rendeva mas-
sima la differenza fra l'utilità totale ricavabile, dal reddito o prodotto e la penosità o il costo totale per il
conseguimento del reddito o prodotto), venisse turbata dall'imposta, la quale veniva considerata indifferen-
temente come un aumento del costo marginale o come una diminuzione dell'utilità marginale. Egli faceva
prima l'ipotesi di un aggravio costante (imposta di capitazione, quale sarebbe ad es. l'imposta sui celibi per
la parte che è rapportata alle classi di età e prescinde dall'entità del reddito globale dei celibi). In tal caso
l'effetto dell'imposta sarà di determinare una nuova posizione di equilibrio in cui l'utilità marginale del red-
dito (o prodotto) godibile (cioè non assorbito dall'imposta) sarà pari al costo marginale del prodotto totale.
Poiché lo stesso Pantaleoni, che aveva scritto nel 1887, successivamente ha rimandato alla dimo-
strazione che del suo teorema fece

nel 1894 il Barone, mi riferisco a quanto esponeva questo autore per la dimostrazione del caso su
indicato.
Nella rappresentazione grafica (fig. 53), supponiamo che l'imposta fissa (capitazione) sia dell'am-
montare t pari a RR'. Si tratta di sapere se il contribuente-lavoratore sarà indotto a intensificare i propri sfor-
zi e fino a qual punto, per ridurre il meno possibile i consumi privati. È evidente che, dopo la riduzione del
suo reddito a causa dell'imposta, l'ordinata R'V che corrisponde ad R' è più elevata di quella RI che misura il
costo marginale del reddito OR. Ciò vuol dire che il lavoratore, in linea di massima, sarà indotto a produrre
un reddito maggiore di OR. Intanto, per determinare il problema, occorre tracciare la curva di utilità relativa
al reddito decurtato dell'imposta t; e cioè una curva (Barone) le cui ascisse superino dell'ammontare t = RR'
= MI' quelle della AB corrispondenti a pari ordinate. La nuova curva che possegga detta proprietà sarà la
A'B' che ha le ascisse che superano appunto di MI' = RR' quelle della AB.
Ciò posto, se l'individuo volesse ottenere un reddito netto da imposta eguale a quello OR, dovrebbe
spingere il proprio sforzo sino ad ottenere OR", per il quale il costo marginale s'R", però, supera l'utilità
marginale (sR"). Il punto di equilibrio, invece, sarà determinato dal punto di incontro della nuova curva di
utilità marginale, con la curva dei costi o degli sforzi. Precisamente sarà I', a cui corrisponderà il reddito
lordo da imposta OP ed il reddito netto o godibile OP'. È evidente che sono eguali, in quel punto, l'utilità
marginale della parte OP' godibile ed il costo marginale di tutta la quantità OP prodotta. Sarà cioè: MP' =
I'P. La rimozione, nelle ipotesi fatte, sarà parziale.

B) Ipotesi di imposta proporzionale al reddito.


Per i1 caso più frequente in cui l'imposta è proporzionale al reddito (od al prodotto), Pantaloni af-
ferma che «la parte di prodotto (o reddito) godibile non è più come nel primo caso, l'intero prodotto (o red-
dito) meno una parte costante, ma l'intero prodotto meno una frazione costante dell'intero». Anche in tale
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ipotesi «si avrà una posizione di equilibrio allorché la disutilità marginale del lavoro sarà eguale (come co-
sto) all'utilità marginale del prodotto godibile ridotta nella stessa proporzione, ovvero - come dice il Baro-
ne - ridotta al netto». Ciò appare chiaro, egli aggiunge, considerando che si tratta ancora di rendere o con-
servare massima la differenza fra utilità totale e costo totale e che l'utilità totale è data dall'utilità del prodot-
to meno la sua frazione assorbita dall'imposta.
Anziché avvalermi della dimostrazione data dal Barone mediante, come egli scriveva, una diretta il-
lustrazione geometrica, espongo quella più chiara di L. Rossi274 [Mentre, invero, il Barone non ritenne ne-
cessario costruire tutta la curva trasformata, l'autore che qui si tiene presente tracciò l'intera curva suddetta,
rendendo più evidente la determinazione dei punti di equilibrio nelle varie ipotesi].
Per chiarire quanto precede, si tenga presente che gli elementi che condizionano il problema, nell'i-
potesi di imposta proporzionale al reddito (Pantaleoni considerava il prodotto), sono: a) la diminuzione del-
l'utilità delle dosi di reddito che si otterranno dopo che l'imposta le decurti in misura proporzionale; b)
l'aumento dell'utilità marginale dell'unità di reddito disponibile o godibile dopo che l'intero reddito prodot-
to sia ridotto al netto dell'imposta; c) in relazione ad a) e b) l'elasticità della curva di utilità in ogni suo pun-
to, e particolarmente nel punto di incontro con la curva dei costi; d) l'andamento della curva dei costi o de-
gli sforzi; e) l'altezza della imposta.
Alla luce delle considerazioni a) e b) si avrà una trasformazione della primitiva curva di utilità
marginale, supposta decrescente con andamento UU', nella uu', secondo la figura nella dimostrazione grafi-
ca (fig. 54).

Per rendersi conto della predetta trasformazione, si tenga presente che se 10, 9, 8, 7, 6, 5 sono indici
empirici dell'utilità marginale del reddito di 100 (centesimi), 200, 300, 400, 500, 600 rispettivamente otte-
nuto in 1, 2, 3, 4, 5, 6 ore di lavoro, la differenza progressiva fra gli indici di utilità è di uno.
Invece, se procediamo al prelievo di un'imposta del 20%, questa porterà ad 80 il netto nel caso della
prima ora di lavoro ed a 8 l'indice di utilità totale e marginale. Per 100 l'indice dell'utilità era 10: si ha quin-
di un abbassamento di 2 che si riflette sull'altezza della curva in quel punto.
Ma quando si passi al reddito di 200, ridotto a 160 dall'imposta, si avrà un'utilità totale pari a 10
(per i primi 100 centesimi) e di 5,40 (per i 60 centesimi moltiplicati per l'indice 9); in totale 15,40. Orbene,
togliendo 8 da 15,40 si ottiene, nel costruire la curva trasformata, non 7 utilità marginale, ma 7,40, cioè la
differenza è minore dell'unità. Di conseguenza nel passare dall'indice 9 per 200 cent. (prima dell'imposta) a
quello 7,40 per cent. 160 (dopo l'imposta) l'indice dell'utilità è diminuito di 1,6 anziché di 2.

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ROSSI, L., Di un caso particolare di Abwälzung, «Giornale degli Economisti», ottobre 1929.
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Continuando il ragionamento, si trova che per 300 cent. di reddito nella terza ora, avente utilità de-
crescente 8, l'utilità totale, dopo dedotta l'imposta di 60, diviene 10 per i primi 100 cent., 9 per i 200 e 8
moltiplicato 40, cioè per la rimanenza netta: in tutto 19 + 3,20, cioè 22,20, da cui, detraendo 15,40 (per
l'ammontare anteriore) si ottiene come utilità del salario netto dell'ultima ora un ammontare di 6,80. To-
gliendo, anche in questo caso, da 7,40, 6,80, si ottiene 0,60, che è meno dell'unità.
Per 300 cent. (salario della terza ora) l'indice di utilità era 8, prima dell'imposta. Dopo l'imposta,
come si è visto, al margine diventa 6,80. La differenza fra 8 e 6,80 diventa 1,2 (minore di 2 e di 1,6, cioè
delle precedenti).
Continuando il calcolo per le successive dosi del salario si trova che la differenza fra gli indici si at-
tenua sempre più, sino a dar luogo ad una elevazione degli indici che rappresentano l'utilità marginale delle
dosi di reddito dopo l'imposta, che diventano minuendi rispetto agli indici postulati prima della applicazio-
ne dell'imposta (che diventano sottraendi).
Riportando su assi cartesiani i valori rispettivi, si vede, appunto, che la curva dell'utilità marginale
del reddito netto da imposta (trasformata), dopo un tratto lungo il quale si mantiene inferiore alla curva ori-
ginale (prima dell'imposta), incontra o taglia quest'ultima in un punto, fino a divenire più elevata. Sul punto
in cui le due curve si taglieranno e sulla probabilità che ciò avvenga, influiranno l'inclinazione della curva
originale e la corrispondente decrescenza della curva di utilità in relazione all'ammontare del reddito, non-
ché il tipo e l'ammontare della tassazione.
Immaginiamo che, riflettendo il computo sopra indicato, risulti trasformata nella uu', la UU'.
Se supponiamo che il modo di crescere degli sforzi sia rappresentato dalla: CC', è chiaro che, data
la trasformazione della curva dell'utilità, il lavoratore non ha interesse a spostarsi a destra di R' perché ogni
sforzo non sarebbe compensato ulteriormente da un incremento di utilità (supposta decrescente oltre Q').
Se, invece, si fa l'ipotesi di un andamento della curva degli sforzi rappresentato dalla cc' e si suppo-
ne che il punto di equilibrio (fra costo e utilità marginale) si sia verificato in q (prima dell'imposta), la tra-
sformazione della curva dell'utilità marginale, come risulta dalla figura, consente al lavoratore di aumentare
gli sforzi fino a raggiungere il punto q' di equilibrio (dopo l'imposta) e di conseguire il reddito or' maggiore
di or. Vi è possibilità di rimuovere in parte la ipotizzata imposta che riduca il reddito or.
Vi sono in generale, alcuni tratti della curva dell'utilità marginale del reddito che fanno supporre
come certo, almeno entro dati limiti, il processo di rimozione dell'imposta. Faccio riferimento: a) ai redditi
minimi, per i quali si hanno apprezzamenti così intensi della loro utilità rispetto ai bisogni vitali o primari,
che la tendenza della curva si traccia nel senso di una rapida elevazione. b) Parimenti si può dire che la ri-
mozione abbia luogo con grande probabilità e in notevole misura, allorché la curva, supposta tendenzial-
mente decrescente, subisca interruzioni nel predetto andamento, elevandosi per un tratto per il sopravvenire
di bisogni intensi e non previsti (nel momento in cui si impostava il calcolo edonistico, che è supposto ca-
ratterizzato da un dato tipo di decrescenza dell'utilità al margine).
In generale, quindi, il processo di rimozione dipende: 1) dalla elasticità della curva dell'utilità del
reddito espressa, come appare nella figura, dalla inclinazione della curva dell'utilità marginale medesima, e
misurata in ogni punto della «trasformata» dal rapporto fra un incremento percentuale dell'ascissa ed un in-
cremento percentuale dell'ordinata; 2) dal modo di crescere della curva che esprime la penosità o il costo
del lavoro; 3) dall'ammontare dell'imposta proporzionale al reddito, prelevata dallo Stato.

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CAPITOLO XI.

ALTRI PROBLEMI CONCERNENTI LA TRASLAZIONE


ED EFFETTI ECONOMICI ED EDONISTICI DI TRIBUTI.

I.

DAZI FISCALI.

Questa categoria di tributi, che, appunto, attraverso processi traslativi ovvero per gli effetti a cui da
luogo, può essere assimilata a quella delle imposte di consumo, va presa in considerazione dal punto di vi-
sta teorico concernente la sua ripartizione di fatto. Essi si inseriscono nella finanza pubblica quando ricor-
rano le circostanze che qui di seguito si precisano.
A studi di teoria economica pura o generale, molto approfonditi, ha dato luogo l'istituto del dazio
doganale. Ciò è dovuto al fatto che il dazio ha una funzione o scopo fiscale, ed una funzione protettiva, nei
confronti di fatti produttivi nazionali. Quindi l'economia politica e, soprattutto, la politica economica hanno
studiato i dazi sotto l'aspetto degli effetti che esercitano sul commercio internazionale e sull'economia dei
rispettivi mercati interni.
Dal punto di vista della finanza pubblica hanno importanza soltanto i dazi sull'importazione, sull'e-
sportazione o sul transito delle merci, aventi scopo od effetto fiscale .
Scopo ed effetto fiscale coincidono, dando luogo al dazio fiscale:
a) nel caso in cui il dazio (ad es., d'importazione, che è la categoria di gran lunga più importante)
colpisce una merce non prodotta nello stato;
b) quando il dazio è prelevato sulle merci estere, in misura esattamente eguale ad imposte sulla
produzione o sullo scambio di identiche merci nazionali, sul mercato interno (così, sullo zucchero si preleva
un'imposta di fabbricazione, per la parte prodotta in Italia: per essere fiscale, il dazio sullo zucchero impor-
tato deve essere della stessa altezza. Se si percepisce, in aggiunta, un sopradazio di confine, esso ha scopo
ed effetto protettivo).
Se una parte del dazio incide sull'esportatore straniero, l'imposta interna di consumo dovrebbe esse-
re minore dell'intero dazio fiscale, appunto affinché esso si mantenga tale: e cioè affinché l'onere

fiscale che gravi il prodotto oggetto di consumo sia eguale tanto a titolo di dazio esterno quanto a
titolo di tributo indiretto interno su quella voce di spesa, senza influenzare, per sè stesso, la produzione in-
terna e determinare preferenze dei consumatori per la merce estera o per quella nazionale.
c) Inoltre un dazio ha effetto fiscale quando sia insufficientemente protettivo. Un dazio è economico
o protettivo, quando la sua altezza è eguale alla differenza tra il costo di produzione del produttore privile-
giato all'estero e il costo di produzione del produttore marginale all'interno.
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Supponiamo che oa rappresenti la spesa unitaria del prodotto fabbricato dalle imprese a più basso
costo (privilegiate) dell'estero ed ob rappresenti la stessa spesa per il produttore marginale nazionale; il da-
zio protettivo, non tenendo conto delle spese di trasporto, per semplificare, sarà eguale ad ab. Esso terrà
conto del costo a cui produce la impresa marginale che occupi il punto c della curva collettiva ac dei costi
delle imprese nazionali, ordinate secondo una graduatoria o «gerarchia» dal punto di vista del livello dei co-
sti minimi rispettivi. Il prezzo sarà, in quel caso, eguale a cd = ob.
Se si facesse l'ipotesi di una riduzione del dazio da ab ad ae, il prezzo scenderebbe a PQ = c'f = eo.
L'impresa marginale e quelle, in genere, che si trovino sul tratto della curva dei costi c'c vengono eliminate
dal mercato. Poiché la curva di domanda al nuovo prezzo PQ = eo, che in essa si determina, consente il
consumo di una quantità > od e le imprese nazionali, «pro-tempore», possono offrire la quantità of, alla
mancata offerta di merce nazionale, si sostituisce quella estera. Il dazio che colpisce la quantità di merce e-
stera fQ ha effetto fiscale, perché insufficientemente protettivo, non atto, cioè, a far sostituire «pro rata» la
produzione interna di talune merci alla importazione di merci identiche o similari.
L'area rettangolare tratteggiata sc'Pn rappresenta l'entrata fiscale che ottiene lo Stato, come prodot-
to della quantità fQ che arriva dall'estero sul mercato nazionale, moltiplicata per il dazio ae che la colpisce
unitariamente.
Naturalmente anche quando un dazio sia esattamente protettivo, nel senso teorico, può darsi che
una politica di dumping (o di vendita al disotto del costo di produzione estero) possa far entrare merci nel
mercato protetto, facendo affluire una entrata allo Stato, dando luogo, cioè, ad un effetto fiscale del dazio
protettivo.
L'illustrazione del caso in cui un dazio insufficientemente protettivo, finisca per avere effetti fiscali,
potrebbe dare l'idea di una totale, sistematica incidenza di esso sui consumatori nazionali (ovvero del paese
I, cioè importatore di una parte di merce dall'estero). Invece l'incidenza del dazio, anche se ha effetti fiscali,
può avere luogo in parte a carico del paese E, esportatore .
L'elasticità della domanda e dell'offerta, rispettivamente nei paesi I ed E, le reazioni che hanno luo-
go sui costi di produzione del paese esportatore, sono fra le principali circostanze che influiscono sulla inci-
denza del dazio fiscale nei due mercati.
I) Per rendersene conto; tenendo presente l'influenza della elasticità della domanda soprattutto, si
faccia per primo il caso in oggetto, in cui la merce sia prodotta tanto nel paese importatore quanto in quello
esportatore. Si supponga che, prima della apertura dei mercati e dell'inizio dei rapporti commerciali inter-
nazionali, il paese I ed il paese E provvedano a soddisfare, entro dati limiti,

la domanda interna. In ipotesi, quindi, di mercato chiuso, si avranno le seguenti curve di domanda-
offerta. (Avverto che, secondo la tradizionale rappresentazione, le due curve del paese I risultano rovesciate
simmetricamente). Suppongo nulle, per semplificazione, le spese di trasporto (fig. 56).

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Nel paese E si produrrà e venderà la quantità OQ al prezzo PQ. Nel paese I la quantità OQ' al prez-
zo P'Q'.
Supponiamo che si aprano i mercati. L'equilibrio si stabilirà sulla linea ABLE in cui le parti intercet-
tate dalle curve (che sono le quantità importate ed esportate) risultino eguali: AB = LE.
Per l'apertura dei mercati, in E avviene che il prezzo si eleva, il consumo si riduce, ma in cambio
aumenta la produzione che viene destinata alla esportazione. Nel paese I il prezzo si abbassa e la quantità di
merce che si consuma (in seguito alla importazione) supera quella precedente che si aveva, cioè, in regime
di mercato chiuso.
L'apertura dei mercati arreca un vantaggio ad entrambi i paesi, perché in E ciò che perdono i con-
sumatori guadagnano in eccedenza i produttori; e in I ciò che perdono i produttori guadagnano in eccedenza
i consumatori. Le aree LEP e ABP', segnano il vantaggio rispettivo.
Se nel paese I s'introducesse un dazio dell'altezza dd', esso risulterebbe proibitivo degli scambi. Ma
se si fa l'ipotesi di un dazio inferiore a siffatto ammontare, e che risulti dell'altezza gf avviene che venga di-
strutta una parte del vantaggio anteriore. L'erario del paese importatore ottiene un'entrata rappresentata dal
rettangolo mnrs. Però non tutto il dazio incide sui consumatori del paese I (importatore); una parte, come si
vede nella figura, va a carico del paese esportatore, ed esattamente per l'ammontare zf, esso va a incidere
sugli esportatori di E. La parziale incidenza sui consumatori di I, dipende dalla elasticità della domanda. Se
essa avesse l'andamento della curva tratteggiata a partire da A, una parte minore di gz (cioè g'z) inciderebbe
sui consumatori di I e maggiore a carico degli esportatori di E. Ovviamente HK = H'K', così come mn =
m'n', ad esprimere l'eguaglianza delle quantità rispettivamente importate ed esportate dai due paesi.
II) Facciamo, ora, il caso tipico di un dazio di importazione fiscale per definizione che non abbiso-
gna di prova: e cioè che colpisca merci non prodotte nel paese importatore I (fig. 57).
In tal caso in regime di mercati aperti, l'equilibrio si stabilisce ancora sulla linea ABL che intercetta
le curve di domanda-offerta del paese esportatore e la curva di domanda del paese importatore. La quantità
esportata BL sarà uguale ad Am. Se si introduce un dazio dell'ammontare df, esso incide in parte, per dm, sui
consumatori di I, e in parte sugli esportatori di E (ovvero per mf) come appare dalla figura che si è esposta.
Mancando qualsiasi offerta interna in I, la linea del dazio intercetta in codesto mercato soltanto la curva di
domanda, dando luogo ad una incidenza che è generalmente

maggiore che nel caso precedente. Ciò si può rilevare dalla riprova a tratteggio che se ne da, e dalla
quale risulta una incidenza eguale all'altezza del dazio md' < md, tenendo presente che della quantità td'
domandata in I (paese importatore) la quota vd' è offerta o prodotta in I. Infatti, se la curva d'offerta si in-
nalza, ruotando, sino a coincidere con l'asse delle ordinate, l'area tzkv va a coincidere, a gradi, con l'area
rsfd per la quale, come è supposto, l'incidenza ha luogo maggiormente, annullandosi l'offerta interna mC.

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III) Se il dazio viene introdotto dal paese esportatore E, su merce ad esempio di cui esso abbia il
monopolio e che non sia prodotta in I (ad es. caffè), l'incidenza tende a gravare per lo più sui consumatori di
I e tanto maggiormente quanto meno elastica è in esso la curva di domanda.

Il caso, abbastanza comprensibile, dopo quanto precede, è illustrato dalla figura 58, dalla quale ri-
sulta che il dazio d'esportazione df, incide per dc sui consumatori di I e per cf sui produttori di E.

II.

EFFETTI SPECIALI DELL'IMPOSTA SU TUTTI GLI SCAMBI.

I) Un altro tributo, che da luogo ad effetti particolari, è l'imposta che si denominava impropriamen-
te «tassa» sugli scambi commerciali, e che è stata trasformata nell'imposta sull'«entrata». Fra i vari effetti
economici (275) mi sofferma su uno che ha dato e dà luogo, all'estero ed in Italia, ad importanti riforme legi-
slative. (Per la traslazione relativa rimando al capitolo degli effetti economici).
Intendo riferirmi alla cumulazione dell'imposta, se applicata su tutti gli scambi successivi di un dato
prodotto, mediante una data aliquota, che dico normale. Dato che il legislatore, a mezzo della traslazione
progressiva dai produttori e commercianti verso i consumatori, intende colpire questi ultimi, consideriamo
l'assurdo economico che ne deriva in alcune ipotesi, in conseguenza del quale l'imposta può incidere sui
produttori e commercianti senza raggiungere il fine fiscale per cui la si applica.
Per citare uno degli aspetti più criticabili dell'imposta, ammettiamo, per absurdum, che ogni frazio-
ne d'imposta, pagata in occasione di scambi, fra produttori ed intermediari, vada in definitiva a gravare sul
consumatore. Facciamo ora l'ipotesi, invero reale, di un dato bene di consumo prodotto, contemporanea-
mente nella medesima branca industriale, da imprese unitarie organizzate in senso verticale e da imprese
che rispettivamente facciano oggetto della loro attività produttiva, una fase soltanto di lavorazione (orga-
nizzate in senso orizzontale).
Nel primo caso si abbiano due scambi di materie prime e di prodotti finiti fra produttori e interme-
diari, prima che il bene arrivi al consumatore: nel secondo caso si abbiano 4 scambi intermedi. È evidente

__________
(275) Per cui rimando a E D'ALBERGO: 1) La natura e il fondamento delle imposte sugli scambi; 2) Di alcuni effetti
economici delle imposte sugli scambi; 3) La condensazione dell'aliquota delle imposte sugli scambi: «Giornale degli
Economisti», ott-dic 1931 e aprile 1935.
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che come somma delle quote d'imposta che gravano i vari scambi, sul bene diretto destinato al consumo,
nel secondo caso si avrà una entità, per unità, approssimativamente doppia di quella del primo caso.
Ammesso che i costi nei due casi differiscano solo per la diversa entità d'imposta, che li grava per
effetto della traslazione automatica supposta avvenuta progressivamente nei vari scambi e che l'ultimo ven-
ditore, in entrambi i casi, voglia conseguire un «eguale» profitto (minimo), si arriverebbe al risultato che
merci dello stesso genere e della medesima qualità dovrebbero essere vendute sullo stesso mercato; per ef-
fetto di diverso gravame fiscale, ad un prezzo differente. Ed invero, dalle premesse del legislatore (che vuo-
le per principio la traslazione sul consumo) si dovrebbe arrivare a questo assurdo.
Peraltro, se si tratta di un bene, la cui offerta non può essere aumentata per parte delle imprese che
sono in condizioni più favorevoli rispetto all'imposta (organizzazione verticale) o rispetto a cui un aumento
di prezzo non determina una diminuzione di domanda, allora sul mercato, per la medesima qualità, il prezzo
sarà fissato dal costo delle imprese che (in regime d'organizzazione orizzontale) si trovano in condizioni
meno favorevoli rispetto all'imposta. E in questo caso - sempre ammessa la completa traslazione - il consu-
mo sopporta l'onere globale dell'imposta sugli scambi. Ma le imprese organizzate in senso verticale conse-
guono una «rendita» derivante dall'ordinamento del tributo.
Se si tratta di beni (e invero non sono pochi) per i quali si abbiano tali rapporti tra domanda e prez-
zo, che la concorrenza faccia fissare il prezzo al livello del costo più basso (l'ipotesi può considerarsi nor-
male, nel caso di condizioni dinamiche), le imprese che producono e scambiano in regime d'organizzazione
orizzontale non possono trasferire il maggior gravame di imposta e ne restano in parte incise. Teoricamente
esse ne restano incise per la differenza di onere per imposta su un numero di scambi superiore a quello che
si ha in regime di produzione accentrata e con minor numero di scambi (organizzazione verticale). La pre-
messa assoluta da cui parte il legislatore (di una traslazione automatica) cade nell'assurdo e l'imposta sugli
scambi agisce in parte e per un tempo indeterminato (e fino a che variazioni non si abbiano nelle condizioni
del mercato o nella organizzazione produttiva) come tributo sul volume degli affari dei produttori (indu-
striali, commercianti) incidendone i profitti (276).
Analoghe considerazioni valgono per i casi di diversa organizzazione commerciale per la vendita di
una stessa merce.
Per ovviare a tale inconveniente che crea vantaggi (rendite) per alcuni (organizzazione verticale) e
danni per altri imprenditori (organizzazione orizzontale) nella legislazione di alcuni paesi si è introdotto il
procedimento della condensazione dell'aliquota normale.
Esaminiamo ora gli estremi della riforma che intende ovviare a questa critica e attua quindi la e-
guaglianza dell'imposizione nei rapporti fra contribuenti di diritto277.
Per talune merci o per categorie di merci si può prescrivere che non venga colpito ogni singolo
scambio, ma che si tassino determinati scambi che avvengono in un ciclo normale e in modo da colpire nel
prodotto finito gli elementi che lo costituiscono e da esonerare gli scambi che precedono e che seguono.
L'aliquota sarà determinata, secondo il numero medio degli scambi successivi, conglobati, tenendo conto
dell'ammontare dei vari ricavi come prezzi di vendita, in modo che essa risulti quanto più è possibile uni-
forme per singole categorie di merci.
Trattasi di risolvere il problema: quanto deve essere alta l'aliquota condensata (Q), applicata una
volta tanto ad un dato scambio, affinché possa sostituirsi alla aliquota «normale» che colpisce tutti gli
scambi, a parità di provento per lo Stato?
Indichiamo in sintesi e ricorrendo a simboli, utili per comodità di esposizione, il processo di con-
densazione delle aliquote dell'imposta sugli scambi.
Si conoscano i prezzi p dei singoli semilavorati (I, 2, 3 … n), rispettivamente per le quantità (v1, v2,
v3 … vn) comprese nel prodotto finito. Nelle consecutive fasi di scambio (I, II, III, ecc.) in sede di successive
trasformazioni industriali, il primo semilavorato abbia i valori espressi da:
__________
(276) Agli inconvenienti accennati voleva ovviare in parte il decreto del 14 settembre 1931, che modificava in Italia
l'assetto dell'imposta per i prodotti di cotone. Molti altri provvedimenti successivi avevano lo stesso scopo.
277
Questa condizione in sede di tassazione ad aliquota normale, contrasta spesso con il presupposto economico che,
per merci e prodotti scambiati della medesima qualità, nelle identiche condizioni di tempo e di luogo e «ceteris pari-
bus» vi è un solo prezzo sul mercato. Invero l'ipotesi che esplicitamente o in modo implicito considera il legislatore di
molti paesi, di continua traslazione dell'imposta in avanti, in modo totale, per le imprese, che distintamente scambiano
il prodotto finito, ottenuto attraverso una serie di scambi relativamente superiore (organizzazione orizzontale), può
darsi che non si verifichi in tutto.
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p1v1I, p1v1II, p1v1III

il secondo semilavorato,

p2v2I, p2v2II, p2v2III

e così via. I prezzi del prodotto finito, nelle singole fasi di scambio (commerciali), siano:

pfa, pfb, pfc, … pfm

Se u è l'aliquota uniforme dell'imposta che colpisce tutti gli scambi, i prelievi che complessivamen-
te verranno fatti su ogni unità di prodotto finito ammonteranno a:

u
U= (Σp1v1 + Σp 2 v 2 + Σp3 v3 + ...Σp n v n + Σp f )
100

Tale somma di imposta U può essere ottenuta con un unico prelievo, mediante l'applicazione di una
aliquota Q (condensata), ad esempio, all'ultimo prezzo di vendita (P). Infatti è, percentualmente,
U
Q= 100
P

Per chiarire il processo semplificandolo, sostituiamo ai simboli dei valori aritmetici:


la merce A subisca i seguenti passaggi:

come semilavorato Prezzo Imposta (Aliquota base 2%)


I) dal produttore al commerciante all'ingrosso 100 2
II) dal commerciante all'ingrosso al fabbricante di prodotti finiti
150 3
come prodotto finito
a) dal produttore al commerciante all'ingrosso 400 8
b) dal commerciante all'ingrosso all'esercente 500 10
c) dall'«esercente» al consumatore 800 16
Somma di imposta (U) 39

che riferita al prezzo del prodotto finito (P = 800) acquistato dal consumatore, come soggetto passivo di fat-
to, dà la aliquota condensata del 4,875% .
È ovvio che l'aliquota condensata risulta – come avviene in concreto - relativamente più elevata di
quella normale, perché sintetica, ovvero comprensiva delle aliquote che si sarebbero applicate, in regime di
aliquota normale, ai singoli scambi considerati separatamente.
Qualche studente osservava come, limitando il processo a I) e Il), rispettivamente, (semilavorato);
od a questi primi due scambi, più quello a) del prodotto finito; o a tutti i precedenti più quello b) del prodot-
to finito o, infine, a tutti gli scambi anteriori più quello c) del prodotto finito, non si otteneva una serie di a-
liquote condensate crescente in modo continuo. E invero da 2% (normale) si passa a 3,33 al secondo scam-
bio, a 3,25 al terzo scambio, a 4,60 al quarto scambio, a 4,87 al quinto scambio.
La continuità si interrompe, nell'andamento progressivo, fra il secondo ed il terzo scambio. Ma ciò
è dovuto al fatto che nel procedere alla somma delle imposte, si riferiscono all'ultimo prezzo quantità che
non stanno con esso in proporzione, come sono le somme di imposta relative ad importi anteriori e propor-
zionali a quelli soltanto. Ciò che interessa, per la logica del procedimento, è che l'aliquota condensata risulti
diversa da quella normale e, cioè, più elevata in linea generale.

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Si tratta in sostanza, nel caso dell'imposta sugli scambi, di ovviare alle critiche che suscita l'ordina-
mento ad aliquota normale, dal punto di vista della tassazione del consumo, per avvicinare l'assetto dell'im-
posta in, oggetto, attraverso la condensazione delle aliquote, a quello più razionale dei tributi giuridicamen-
te diversi, ma che perseguono lo stesso scopo fiscale: imposte di fabbricazione (specifiche), dazi, monopoli,
imposte di consumo (ad valorem) propriamente dette, la cui aliquota è determinata definitivamente «a prio-
ri», in funzione di criteri complessi (economici, sociali, fiscali e talora giuridici), che presiedono, per tradi-
zione dottrinaria e per esperienza amministrativa, alla tassazione di questa basilare manifestazione di capa-
cità contributiva.
La trasformazione dell'imposta sugli scambi commerciali, in imposta sull'entrata, con aliquota uni-
forme (del 2%), corrispondente a quella che si è denominata «normale», poteva far temere che il legislatore
italiano, nel 1940, trascurasse di ovviare agli inconvenienti di codesto assetto che soltanto la condensazione
dell'aliquota può, come si è visto, eliminare razionalmente.
Ma mentre si sono formalmente abolite le aliquote preesistenti, condensate quali si avevano in re-
gime di imposta sugli scambi, si è previsto che l'aliquota 'possa essere aumentata sino al triplo, al fine di pa-
rificare il diverso carico tributario (nella ripartizione de jure) nei confronti delle imprese che, rispettivamen-
te, compiano un diverso numero di scambi od atti economici soggetti ad imposta. Ciò discende anche dalla
organizzazione industriale e commerciale esistente e non solo dai casi a cui aveva fatto riferimento il mini-
stro delle finanze, «di eventuale concentrazione di imprese al fine di elidere una parte dell'onere dell'impo-
sta sull'entrata».
Non era possibile per il legislatore italiano non accettare le conclusioni della teoria su questo punto.
Ma non comprendo perché si sia fissato tassativamente l'aumento massimo sino al triplo dell'imposta (tutta-
via elevato), anche se in concreto si abbia un numero di scambi o di introiti, a parità di prodotti finiti portati
sul mercato, che richieda aliquota condensata maggiore.
II) A chi, come chi scrive, ha propugnato in sede di politica legislativa l'estensione dell'aliquota u-
nica ai casi già esistenti di concentrazione verticale dell'industria e del commercio (oltre ai casi di eventuali
formazioni di «strutture aziendali artificiose» a cui accennava i) ministro nella «relazione») qualcuno ha ri-
sposto che è preferibile, per i contribuenti de jure, considerati uti singuli, l'aliquota normale, uniforme. Si
intende far riferimento alla maggior difficoltà che presenta la traslazione dell'aliquota condensata, necessa-
riamente più elevata di quella normale. Inoltre si accenna all'onere dell'anticipazione dell'imposta per conto
dei contribuenti di fatto, che dovrebbero essere, in definitiva, gli acquirenti-consumatori dei beni colpiti.
Obiezioni del genere possono superarsi agevolmente. Per ciò che riguarda il diverso grado di trasfe-
ribilità dell'imposta del 2%, ovvero del 4%, non è logico applicare il ragionamento che la teoria generale ha
avanzato nel rilevare che, a parità di altre condizioni, l'altezza dell'imposta è circostanza che anzitutto in-
fluisce sul fenomeno della traslazione.
L'errore sta nel confrontare le due aliquote («normale» e «condensata») senza commisurarle al
prezzo dei beni, in diverse fasi di scambio. Invero, se ai fini della traslazione, si tiene conto della reazione
della domanda, per il consumatore è indifferente che si commisuri, ad esempio, l'aliquota del 4% al prezzo
di 300 di un prodotto finito, per fargli sopportare l'onere di 12; ovvero che si applichi l'aliquota del 2% al
prezzo di 300, aggiungendo all'imposta di 6 altre 6 lire rimbalzate sul venditore del prodotto finito (suppo-
niamo 2% su 100, prezzo della materia prima, + 2% su 200 prezzo semilavorato). Dato che il prezzo di
vendita del prodotto finito sia unico sul mercato, il venditore del prodotto che debba trasferire l'imposta del
4% (ossia 12 lire) dovrà superare lo stesso ostacolo di colui che si trovi alla fine di una serie di scambi e
debba aggiungere l'importo del 2% (aliquota normale) a quelli che, per ripercussione, si siano aggiunti al
prezzo del bene a titolo fiscale.
L'illusione di sopportare un onere superiore tenendo presente l'aliquota unica del 4%, viene meno
quando l'aliquota del 2% porta allo stesso prezzo del prodotto finito.
Nè è decisiva l'obiezione relativa al costo della anticipazione di una somma più elevata di imposta
da parte del contribuente che si prescelga come unico scambista colpito: si sa che ben elevate somme si an-
ticipano (rispetto al prezzo industriale dei beni) nel caso dei tributi detti di «fabbricazione».
Già, nel 1931, occupandomi degli effetti economici dell'imposta sugli scambi, mi ponevo contro i
sostenitori dell'opinione che l'imposta medesima farebbe aumentare il prezzo dei beni tassati in misura su-
periore all'ammontare del tributo per i «pesi addizionali») derivanti dall'interesse sulla somma che, appun-
to, a titolo fiscale, verrebbe anticipata dal venditore allo Stato. Nel caso particolare del modo di applicazio-
ne dell'imposta sugli scambi, argomentavo nel senso che se la traslazione avviene, poiché la riscossione ha
luogo con «addebito» a carico del compratore, in linea teorica ed anche in concreto con grande approssima-
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zione al caso teorico, coincidono i momenti della percussione e della traslazione (ovvero, dell'anticipo e del
rimborso, dal lato contabile).
Comunque, un ragionamento analogo a quello che ho fatto in tema di traslazione di un'imposta uni-
ca più alta necessariamente (a) in quanto «condensata» di quella «normale» (b) per dimostrare l'indifferenza
delle due ipotesi (a-b) per il consumatore (supposto inciso), si può richiamare attingendo ai «classici» ed ai
continuatori.
Invero, in linea teorica, non si giustificano i cosiddetti «pesi addizionali» che deriverebbero dal fat-
to della anticipazione dell'ammontare dell'imposta da parte del contribuente de jure, prescelto dal legislato-
re (importatore, fabbricante, commerciante all'ingrosso ed al minuto, ecc.) per la riscossione di un'imposta
indiretta sul consumo. E ciò perché, fra il momento (m) in cui il contribuente de iure, predetto, anticipa
l'imposta ed il momento (m') in cui il compratore lo rimborsa per traslazione, quest'ultimo ha conservato la
disponibilità dell'ammontare monetario corrispondente all'imposta. (Aggiungo l'ipotesi che entrambi i sog-
getti, il venditore ed il compratore abbiano la stessa possibilità e capacità di ritrarre interesse dalle somme a
loro disposizione).
In altri termini, per il tempo compreso fra m ed m', il compratore può ritrarre dall'ammontare di
reddito di cui dispone e che destinerà ad acquisto del bene tassato un interesse, pari a quello che il vendito-
re aggiunge, per lo stesso tempo, alla somma anticipata allo Stato.
Talché è, ovviamente, indifferente per il compratore (consumatore da incidere) sostenere l'onere del
tributo (T), nel momento m, ovvero essere gravato per traslazione dell'ammontare T + r (r essendo l'interes-
se), nel momento m'. Non ha quindi senso il termine «peso addizionale» che graverebbe, oltre l'imposta sui
consumatori.
III) Un procedimento, che la esemplificazione positiva estera contempla, è quello che limita la
commisurazione della aliquota dell'imposta generale sul consumo (normalmente applicata al valore pieno
nelle fasi degli scambi o nel momento in cui si ottiene l'introito dalla vendita delle merci) alle differenze di
valore nelle trasformazioni tecniche e spaziali (commercio) cioè al «valore aggiunto».
Ma, tolta qualche diversità di effetti psicologici ed economici secondari o empirici concernenti l'ac-
certamento delle differenze, in definitiva, come incidenza finale, a parità di provento, pare che vi sia equi-
valenza fra il sistema di tassazione del valore pieno delle merci e quello della tassazione del valore diffe-
renziale od «aggiunto».
Supponiamo che un chilo di cotone grezzo trasformato in filato valga (od abbia il prezzo di) lire
1.200; il tessuto 1.800; il candeggio o la stampa conferiscano al tessuto il valore finale di 2.000 lire.
A differenza di quanto avviene per l'aliquota normale commisurata ai valori pieni in tutti gli scambi
e di quanto figura nell'esempio esplicativo della condensazione delle aliquote, sia pure virtualmente, l'impo-
sta nel procedimento che considera come base imponibile il solo valore «aggiunto», non colpirà detti valori
pieni, di cui qui si dà una esemplificazione; ma dopo il valore-base di lire 1.200, soltanto le differenze. Nel-
l'esempio, esse sono di lire 600 nello scambio riguardante il tessuto grezzo che di tanto e poi di lire 200 per
lo stampato aggiungono di valore, in confronto alla fase di trasformazione precedente.
Dato che si ragiona a parità di provento, volendo ottenere ad es. 50 lire di imposta sul valore del
prodotto finito, si può procedere, alternativamente:
1) alla tassazione una volta tanto del prodotto finito del valore di L. 2.000, con aliquota unica di
2,50%;
2) oppure alla tassazione ripetuta: a) con l'1%, ad es. su 1.200 lire (12 lire di provento); b) con l'1%
su 1.800 lire (18 lire); c) con l'1% sulle 2.000 lire (20 lire);
3) ovvero alla tassazione con l'1% del valore pieno-base di L 1.200; poi con il 3% delle 600 lire di
valore aggiunto; infine col 10% delle 200 lire di valore ulteriormente aggiunto per arrivare al valore del
prodotto finito vendibile a L. 2.000. (Questo terzo caso è esposto secondo una variante - che può essere
suggerita da esigenze di tecnica fiscale - di quello più generale, che prevede la tassazione, con aliquota co-
stante, dei valori aggiunti. Nella fattispecie, si avrebbe l'applicazione dell'aliquota del 2,5% al valore pieno-
base di L. 1.200 ed ai valori aggiunti di L. 600 e L. 200 successivamente).
Nei casi 2) e 3) abbiamo prelevato complessivamente L. 50, che commisurate percentualmente al
valore finito di L. 2.000 danno, come nel caso a), una aliquota globale del 2,50:%.
Non si vede, dal lato obiettivo, gran differenza di sistemi nè vero progresso, nel passare alla impo-
sizione del valore aggiunto.
Ma il procedimento semplificativo e perequativo rimane ancora, anche dai punti di vista degli effet-
ti economici di anzi ricordati, quello della condensazione della aliquota, in modo che una volta tanto colpi-
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sca un bene, solo virtualmente riferendosi l'imposta normale a tutti gli scambi, nello spirito dell'imposta «a
cascata», come è stato empiricamente concepito questo tributo, di cui la prevista traslazione fa l'esempio
concreto dell'astratta imposta generale sul consumo di beni e servizi.

III.

IMPOSTE DI FABBRICAZIONE, MONOPOLI FISCALI E LORO ALTERNATIVA.

1) Delle imposte di fabbricazione si è detto che ad esse si applica la teoria degli effetti delle imposte
(traslazione soprattutto) che vale per il caso astratto dell'imposta commisurata alle quantità prodotte.
Quando, invece, si è fatto riferimento all'imposta concreta di fabbricazione, qualche autore ha af-
fermato che nei confronti di essa ha luogo con tale certezza la traslazione automatica in avanti, che non è il
caso di adoperare il termine traslazione, ma quello di rimborso contabile.
Tale, ad es., il parere del De Viti De Marco che non mi è sembrato a suo tempo (1931, nel saggio
sull'imposta sugli scambi, citato) accettabile, nei confronti di tributi analoghi. Nel caso specifico dell'impo-
sta di fabbricazione in teoria si è dimostrato che una imposta di fabbricazione per unità di prodotto determi-
na una nuova posizione di equilibrio in cui l'imposta in parte incide sui consumatori, in parte sugli impren-
ditori; alcune imprese scompaiono: i profitti delle superstiti sono assottigliati. La parte dell'imposta che in-
cide sui consumatori è maggiore o minore secondo l'elasticità minore o maggiore della domanda e secondo
l'inclinazione della curva dell'offerta, secondo cioè che si è più o meno lontani dallo stato di costi costanti
verso cui tende la concorrenza perfetta, ideale e secondo le eventuali ipotesi di concorrenza imperfetta e di
monopolio.
«Ecco dunque, afferma ad esempio il Barone (pagina 312 dei Principii) come nel caso dell'imposta
di fabbricazione in cui si voleva che: l'imprenditore (produttore) fosse, per dire così, un semplice anticipato-
re e collettore, il fatto si complica perché una parte dell'imposta è trasferita sulle imprese». In proposito ri-
mando alla teorica svolta nel caso dell'imposta sulle quantità prodotte e ad un articolo di U. Ricci, sugli ef-
fetti di una «accisa» o imposta di consumo applicata alla quantità prodotta (in «Studi economici e finanziari
corporativi», luglio 1941).
2) Un altro rilievo che deve farsi nei confronti dell'imposta di fabbricazione, riguarda la limitazione
del campo di sua applicazione, dal punto di vista del costo della riscossione .
Questo punto di vista sarà qui sdoppiato.
I) Da un canto si dice, che I 'imposta di fabbricazione è costosa perché la si applica presso il produt-
tore che data l'organizzazione del mercato è, in media lontano dal consumatore. Il fabbricante come si è vi-
sto anticipa la somma per lo Stato e chiede, quindi l'interesse sulla anticipazione, interesse che viene a gra-
vare sul consumatore in aggiunta al tributo.
Alle obiezioni teoriche e pratiche in precedenza esposte (al punto II del II paragrafo), di fronte a ta-
le rilievo il Barone oppone il dubbio che, ricorrendo ad altro sistema di riscossione a parità di riscosso, lo
Stato non richieda eventualmente un sacrificio maggiore. Qualunque forma di riscossione costa, egli scrive.
Per un dato «riscosso» (rappresentato dalla superficie tratteggiata) bisogna salire da m ad n, a-b essendo il
costo di riscossione per unità. Nel caso della riscossione fatta col metodo dell’imposta di fabbricazione, a-b
comprende anche l’interesse sull’anticipazione. Ma un altro metodo di riscossione potrebbe importare, per
unità di riscosso, un costo ancora maggiore di a-b [abst essendo il costo totale di riscossione

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per la quantità oq’, venduta at prezzo nq’ = ro; ed nsbr l’introito netto per lo Stato].
L’essenziale è di cercare di preferire il metodo per cui a-b sia minimo. Si tratta di confrontare tale
elemento per l’imposta di fabbricazione con il costo di riscossione per altri tributi.
Nel caso dell’imposta di fabbricazione, bisogna tener conto appunto del controllo che occorre eser-
citare sulla quantità prodotta dagli imprenditori, quantità alla quale si commisura l’imposta.
Affinché il costo del controllo e, quindi, dell’esazione sia relativamente basso, occorre che la merce
tassata sia prodotta da pochi, grandi stabilimenti, ovvero accentrata, in modo da ridurre al minimo la spesa
di sorveglianza.
Lo Stato si avvale di questa imposta per prelevare somme rilevanti per quantità unitarie prodotte. Si
pensi al caso di un tributo medio di solito elevato per quintale di zucchero prodotto; più ancora si pensi alla
imposta interna di fabbricazione degli spiriti, nella misura media di circa L. 32.000 per ogni ettolitro anidro
(278), e si comprenderà quale sia la spinta all'evasione e come, cioè, sia incoraggiato il contrabbando.

Per questa ragione soprattutto, è probabile che lo Stato non riesca a conseguire l'introito netto mas-
simo che potrebbe raggiungere nel caso in cui non si avvalesse delle imprese produttrici, per quanto accen-
trate e facilmente sorvegliabili, ma istituisse il monopolio fiscale della produzione.
In altri termini, con il metodo dell'imposta di fabbricazione riscossa a mezzo delle imprese produt-
trici, il prezzo che lo Stato fisserà sul mercato, allorché voglia conseguire la somma di provento rappresen-

__________
(278) Queste imposte soggiacciono a frequenti variazioni di aliquote per fini non soltanto fiscali ma anche di politica
sociale.
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tata dall'area bcnm non sarà quello che sia atto a dare, con l'imposta eguale a bc, con il metodo del monopo-
lio fiscale al monopolista (Stato) il massimo introito netto. Tendenzialmente il prezzo di massimo introito,
nel caso dell'imposta di fabbricazione sarà più basso che nel caso del monopolio fiscale, che è una alterna-
tiva dell'imposta di fabbricazione.
II) Quando lo Stato voglia assicurarsi il massimo provento netto, fa ricorso, appunto, al monopolio,
riservandosi la produzione o la vendita di taluni beni di consumo (ad es. tabacchi, sale, banane, ecc.) o l'e-
sercizio del lotto pubblico.
Naturalmente sono pochi i generi che si prestano a far esercitare allo Stato la privativa: occorre che
si tratti di industrie che per la loro organizzazione diano luogo ad un costo non molto elevato rispetto a
quello conseguibile in regime di concorrenza.
Nel capitolo che precede è stato esposto il punto di vista cosiddetto tradizionale - per contrapposi-
zione a quello più recente che può condurre a diverso risultato per la diversità di ipotesi su cui si costruisce
il ragionamento - secondo il quale il monopolio appare, in linea di massima, condannabile, come contrario
al benessere collettivo, perché il guadagno che consegue il monopolista è inferiore al danno che subiscono i
consumatori (in termini, ad es., di rendita del consumatore distrutta), ai quali si impedisce di avvalersi del
più basso prezzo che potrebbero pagare, a parità di beni consumati, se la produzione avesse luogo in regime
di concorrenza.
Poiché in questo caso si tratta di monopoli fiscali, cioè aventi lo scopo di dare il massimo introito
allo Stato, a titolo di imposte su tal uni consumi, si tratta di spostare il calcolo di convenienza ponendolo
dal punto di vista dello Stato, e osservare se questo sistema (privativa) risponda ad uno dei canoni della tas-
sazione: cioè quello della economicità della riscossione .
Infatti può avvenire che, abbandonando il sistema del monopolio fiscale, per ottenere la stessa
somma di imposta sui consumi, lo Stato dia luogo ad un costo di riscossione superiore a quello che incontra
nel caso della privativa.
Nella dimostrazione grafica del Barone, sia ob il costo di produzione del monopolista-Stato; or il
prezzo che esso fa per ricavare, col sistema del monopolio, un'imposta eguale all'area tratteggiata. Se l'indu-
stria lasciata alla libera concorrenza, produce al costo oa, ma la spesa di riscossione con un'altra forma di
imposta diversa dal monopolio è maggiore, e la differenza è maggiore di ab, è evidente che in tal caso lo
Stato non può ricavare dall'imposta un getto

eguale alla superficie tratteggiata, senza sollevare maggiormente or, ed infliggere, quindi, una
maggiore riduzione alla rendita dei consumatori.
Detta rendita sarebbe stata: I) amD, nel caso in cui la produzione fosse avvenuta in regime di con-
correnza; II) btD, nel caso in cui la produzione fosse stata riservata allo Stato, e questo non avesse aggiunto
l'imposta (o il sopraprezzo br a titolo fiscale); III) aggiungendo al costo proprio (ob) detto sopraprezzo a ti-
tolo di imposta (br) la rendita del consumatore distrutta (oltre la somma che incassa lo Stato) diviene l'area
triangolare stn; IV) se lo Stato avesse fatto ricorso alla tassazione presso aziende private a costo più basso

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del suo (costo industriale), ma sostenendo un costo di riscossione più elevato della differenza di costi indu-
striali ab, «la rendita del consumatore» distrutta, a causa della elevazione ulteriore del prezzo nq' = or (ne-
cessaria per ottenere pari provento tributario) sarebbe rappresentata da una area triangolare risultante dal-
l'ingrandimento di stn.
Da questo punto di vista, il monopolio assunto da parte dello Stato può dar luogo ad un effetto fa-
vorevole, cioè alla discriminazione dei prezzi in modo che essi stiano in rapporto alla presunta altezza del
reddito dei consumatori che si ritiene acquistino i beni oggetto della privativa fiscale, dei quali si abbiano
più prezzi, in relazione alle qualità più o meno pregiate, più o meno ritenute di moda (illusione) dei beni
tassati con il sistema del monopolio.
Si pensi alla esistenza di prezzi multipli per le varie qualità di tabacchi (qualità della foglia, concia,
gradi di lavorazione, marche e tipi «lanciati» con pubblicità atta a creare volta a volta la «moda», la «distin-
zione», ecc.) e qualità del sale (gradi di purezza, più o meno raffinati, macinati, ecc.). Se esiste una relazio-
ne fra prezzi e redditi dei consumatori, il sistema della discriminazione dei prezzi dovrebbe dar luogo ad
una perdita di rendita dei consumatori minore di quella che si avrebbe se la vendita del prodotto della priva-
tiva avvenisse a prezzo unico.
Questa è una considerazione che potrebbe non essere presa in esame dal monopolista privato, che, a
parità di somma netta massima introitata potrebbe non preoccuparsi della condizione di massimo benessere
collettivo che è implicita nella linea programmatica dell'imprenditore che ispiri a questo fine la discrimina-
zione dei prezzi. (Si pensi alle argomentazioni che, in base a concetti Marshalliani, furono svolte a proposi-
to del «prezzo pubblico»).
1) Sia (figura 62-I) il caso esaminato attraverso la rappresentazione grafica del Barone, che qui vie-
ne completata, allorché si abbia un prezzo unico, in regime di monopolio fiscale. La rendita del consumato-
re è data dall'area ABMN meno l'area che rappresenta il ricavo a titolo di imposta da parte dello Stato. Cioè
dal triangolo ACN che dà la rendita residua.
2) Se lo Stato, come monopolista, preferisce discriminare il prezzo, presumendo che esistano con-
sumatori appartenenti a diverse classi di redditieri, rispetto al prezzo anteriore ne istituirà due (fig. 62-II)
uno più alto (P) uno più basso (N') in modo però che rimanga immutato l'introito a titolo di tassazione
C'PI'B' +RN'M'I' = CNMB.

Cioè la somma delle due aree tratteggiate (secondo grafico) deve essere eguale all'area tratteggiata
nel primo grafico. Ma l'area A'B'M'N' è maggiore di quella ABMN. Di modo che sottraendo dall'area A-
'B'M'N' l'area tratteggiata che rappresenta la somma versata allo Stato (eguale nei due casi) rimane non di-
strutta una maggior rendita dei consumatori, eguale alla somma dei triangoli A'C'P e PRN', somma di aree
che è maggiore dell'area triangolare ACN (del primo grafico).
Estendendo alla collettività, con le avvertenze che figurano più innanzi in tema di «rendita del con-
sumatore», il concetto medesimo, si può notare quale vantaggio essa ritragga dalla decisione dello Stato di
assumersi, in monopolio, talune produzioni a fine fiscale e di discriminare i prezzi, a differenza di quanto si
è supposto che virtualmente farebbe un monopoli sta privato mirante ad adottare il prezzo unico, al fine di
ottenere il massimo profitto netto e trascurando i riflessi della sua condotta sulla «rendita dei consumatori»,

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ovvero le argomentazioni riguardanti il benessere della collettività, come estranee ai fini di imprenditori
privati.
In altri termini, introducendo il concetto di discriminazione dei prezzi da parte dello Stato, abbiamo
fatto implicitamente l'ipotesi che la classe governante eserciti il potere nell'interesse di tutti gli appartenenti
al gruppo pubblico, ipotesi che corrisponde al tipo di «stato democratico» individuato dal De Viti De Marco
ed al corrispondente caso limite B) di organizzazione politica preso in considerazione dal Fasiani, ma che,
come s'è dimostrato nella Introduzione, per la propria logica obiettiva ha valore in sè, qualunque sia il tipo
di Stato immaginato.
Queste considerazioni valgono per le privative attraverso le quali lo Stato si riserva il monopolio
della produzione o della vendita di dati beni di consumo.
Nel caso del lotto, lo Stato ottiene un'imposta, attuando un giuoco pubblico, non equo. E ciò nel
senso (come è noto dalla matematica finanziaria) che la giocata (posta) è superiore alla vincita moltiplicata
per la probabilità di conseguirla. Nel caso inverso, la vincita è inferiore alla giocata (posta) divisa per la
probabilità di ottenerla.
L'imposta risulta così graduata in funzione dell'ammontare della vincita teorica: infatti essa costitui-
sce il 40% (trattenuta) della vincita nel caso dell'«estratto semplice» e dell'«ambo» il 64% nel caso
dell’estrazione del «terno» e l'88% nel caso della «quaterna», per fare un esempio attinto ad un dato periodo
della organizzazione italiana di questo monopolio.
Si è assai discusso intorno alla moralità del giuoco, contrario al senso del dovere che è nel lavoro e
nel risparmio nonché nella previdenza. Ma fino a quando l'educazione morale e sociale del popolo non fa
venir meno l'atteggiamento (illustrato anche nel capitolo sulla discriminazione degli imponibili) verso la
sopravvenienza attiva (capace di migliorare, senza sforzo, la condizione economica dei singoli, dato che in
assenza di una organizzazione pubblica sorgerebbe il giuoco d'azzardo privato) appare preferibile che lo
Stato ( attraverso il sistema non equo) prelevi una parte delle somme (vincite) a titolo di imposta, e poi la
devolva a fini pubblici, (sottraendo ai privati - che altrimenti organizzerebbero bische e lotti -) somme che
per contro arrivano alla tesoreria pubblica.

IV.

PRESSIONE COMPARATA DI IMPOSTE DIRETTE


ED INDIRETTE, A PARITÀ DI PRELIEVO.

Il termine «pressione» va qui inteso nel senso di somma di sacrifici rappresentati da perdita di utili-
tà: quindi, in senso edonistico e non in senso monetario del quale si terrà conto nella teoria della pressione
fiscale.
Ciò premesso, non si considera in queste pagine un raffronto fra i due tipi di imposizione, per la
perdita in termini di «denaro», come quello che era stato compiuto, ad es., da U. Gobbi, il quale concludeva
che tanto l'imposta diretta quanto l'imposta indiretta danno luogo ad ugual perdita di denaro (o di reddito) a
carico del consumatore.
Ma si prendono le mosse dal noto teorema di Pantaleoni, utilizzando il concetto edonistico di utilità
marginale. Si suppone, inoltre, che si tratti di imposta, rispettivamente diretta e indiretta, che abbia già inci-
so il contribuente, come soggetto di cui non muti il reddito e non mutino i gusti, rispetto al caso teorico che
si esamina.
Traggo dalle parole del Pantaleoni medesimo gli estremi della enunciazione della eguaglianza di
pressione dei due tipi di imposte a parità di prelievo, per affacciare critiche che sono state rivolte alla con-
clusione e per mettere in evidenza i casi, visti da altri autori, nei quali la eguaglianza suddetta possa esiste-
re. Infine metto in evidenza una generalizzazione del teorema medesimo, e le critiche ad essa opposte.

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I) Il Pantaleoni (279) afferma: a) che «non è controverso quale sia la distribuzione del reddito di un
homo oeconomicus tra i vari impieghi che egli può farne. Questa distribuzione, come ognuno sa, sarà tale
che in ogni impiego l'utilità delle dosi marginali sarà ai prezzi delle dosi marginali nella stessa proporzione,
ovvero le utilità marginali in ogni impiego staranno fra loro nei medesimi rapporti che hanno tra loro i
prezzi delle dosi marginali».
b) «Da ciò segue che per un homo oeconomicus, è indifferente che si accresca o diminuisca il prez-
zo di uno o di un altro bene tra quelli che sono da lui consumati. Qualunque sia il bene di cui il prezzo è va-
riato, seguirà una redistribuzione ex novo del suo reddito fra tutti gli impieghi antichi e anche tra i nuovi che
erano soltanto «virtuali» prima della variazione; questa redistribuzione costituirà un processo economico
che non si arresterà; finché non sia realizzata la condizione di equilibrio (suddetta)».
c) «È ovvio che è soltanto un caso particolare degli effetti di una variazione di prezzo l'effetto pro-
dotto dalla incidenza di una imposta o tassa su uno o altro degli oggetti di consumo. È quindi indifferente,
in economia pura, che si tassi un bene di quelli che sogliono dirsi di prima necessità, o invece un cosiddetto
bene di lusso. Tutti i beni marginali sono di lusso. La pressione dell'incidenza in un caso e nell'altro sarà
diffusa su tutti i consumi marginali. È anche indifferente che si tassi una merce consumata dall'homo oeco-
nomicus, oppure si colpisca con imposta personale il suo reddito direttamente: sempre avrà luogo una re-
distribuzione del diminuito suo reddito, redistribuzione che rigetterà il sacrificio su tutti i consumi margi-
nali, qualunque siano i consumi colpiti dall'imposta o tassa. Non esistono quindi, in economia pura, impo-
ste o tasse più gravose di altre, a parità di quantità di reddito assorbito, e tutte quante le imposte vanno a
gravare soltanto su consumi di relativo lusso, cioè vengono trasferite da ciascun individuo là dove gli rie-
scono meno dolorose».
d) «Affinché sia vera la redistribuzione del reddito, in seguito ad un'imposta o ad una variazione di
prezzo, e quindi vera la indifferenza del contribuente o del consumatore, al genere di imposta da cui viene
colpito, occorre che sia rispondente alla realtà l'ipotesi che egli sia padrone del suo bilancio».
«Occorre, inoltre, che sia vera l'ipotesi che il contribuente - od il consumatore - possa prontamente
trasformare alcuni consumi in altri, non impedito in ciò da contratti in corso, o da indivisibilità di beni o
dalla arbitrarietà dei prezzi, e cioè dalla inesistenza per quantitativi minori di quelli finora usati».
Fatte queste avvertenze ed altre che condizionano la deduzione in ordine alla identità di pressione di
qualsiasi imposta a parità di somma prelevata, nel citato saggio il Pantaleoni tenta una verifica semeiologica
della uniformità enunciata in via deduttiva.
Alla uniformità testè enunciata sono state fatte critiche. Alcuni autori (tenendo presente una enun-
ciazione ritraibile da concetti Marshalliani che ho qualificato equivalente a quella del Pantaleoni) hanno in-
dividuato casi in cui il teorema che conclama l'identità di pressione teorica dei due tipi fondamentali di im-
poste, possa verificarsi logicamente. Altri casi-limite saranno indicati in senso convergente al teorema di
Pantaleoni.
2) Comincio dalle critiche sollevate da studiosi italiani.
A) Il Barone ha esposto graficamente la dimostrazione che non si verifica la identità di pressione
teorica, perché, a parità di sacrificio dell'individuo, il fisco percepisce meno con l'imposta indiretta che con
quella diretta; se vuole un riscosso eguale, deve sollevare ancora il prezzo, sicchè il contribuente è costretto
ad una curva di indifferenza più bassa di quella che indicava eguaglianza di sacrificio.
Rifacendo, con qualche chiarimento ulteriore, il ragionamento del Barone, e tenendo sott'occhi la
dimostrazione geometrica, si supponga il caso di un redditiere-consumatore, che disponga di un reddito
rappresentato dalla retta OA, con ogni unità del quale riesca ad acquistare una unità del bene A, rappresenta-
to sulla ascissa medesima. Si supponga che egli abbia possibilità di acquistare anche un altro bene B; e che
la ragione di scambio sia tale che I/2 B=A. (Nella figura, cioè, il segmento OA sia il doppio di OB).
Ciò posto, lungo la retta AB si avranno le combinazioni possibili delle quantità del bene A (scam-
biabili) con quelle del bene B, compatibilmente con le preferenze del soggetto. Fra tutte le combinazioni,
come si desume dal concetto di «curva di indifferenza», ve n'è una che dà la massima soddisfazione. Essa è
rappresentata dal punto che individua le due coordinate delle quantità, quello cioè in cui la retta AB è tan-

__________
(279) Nel noto saggio dal titolo: «L'identità della pressione teorica di qualunque imposta a parità di ammontare e la
sua semiotica», già pubblicato sul «Giornale degli Economisti», marzo 1910, e poi compreso nel volume Studi di fi-
nanza e di statistica, Bologna, Zanichelli, 1938.
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gente alla curva di indifferenza I, di indice maggiore. Nella figura è il punto C, a cui corrispondono le quan-
tità Os di B ed Os' di A.

Supponiamo che allorquando, entro i vincoli precisati, il soggetto abbia raggiunto l'equilibrio, lo
Stato decida di ridurre il suo reddito di una certa quantità, mediante applicazione di un'imposta diretta che,
senza influire sulla ragione di scambio, faccia diminuire da OA ad OE il reddito medesimo (con cui può
ormai acquistare la quantità OE di A). La retta parallela alla AB che trae origine dal punto E al quale l'impo-
sta ha limitato il reddito, va ad incontrare l'asse delle ordinate nel punto E'. Detta retta risulta tangente alla
II «curva di indifferenza» avente indice più -basso, precisamente nel punto D. Il punto di tangenza indivi-
dua un'altra combinazione, nella quale il soggetto acquista Ot di A spendendo Ot, ed Ot' di B spendendo tE.
Supponiamo (al fine del confronto per stabilire la divergenza di pressione delle due imposte, rispet-
tivamente sul reddito o su una merce), che lo Stato decida di prelevare un'imposta non più diretta sul reddi-
to, ma sotto la forma della elevazione del prezzo di una delle due merci (ad es. B), senza recare maggior
sacrificio in termini di utilità. In tal caso la nuova (AP) linea del prezzo (che trae origine dal punto A, es-
sendo il reddito OA) dovrà risultare tangente alla stessa «curva di indifferenza» alla quale era tangente la
retta che partiva da E (dopo il prelievo del reddito EA per imposta diretta).
Il punto di tangenza sarà G, a cui corrisponderà la combinazione di consumo di HG = OQ, della
merce B, spendendo HA di reddito, e la quantità OH della merce A, con una spesa OH di reddito.
A questo punto ci si domanda se il provento per lo Stato, a parità di sacrificio (parità che risulta dal
trovarsi il soggetto sulla stessa curva di indifferenza II), risulti eguale o minore di quello che si otteneva
mediante l'applicazione dell'imposta diretta dell'ammontare, come si è visto, EA. Dato che il prelievo del-
l'imposta indiretta si è supposto avvenuto mediante elevazione del prezzo della merce B, occorre vedere in
qual misura tale aumento abbia avuto luogo. Dalla figura risulta che la somma spesa per ottenere la quantità
GH di B, è HA (del reddito OA). Quale era il prezzo della stessa quantità di B, cioè di HG, nel caso iniziale,
in cui la retta AB determinava i prezzi? Dato che IK è uguale a GH, la quantità di reddito che si sarebbe spe-
sa, prima di elevare (con l'imposta) il prezzo di B, sarebbe stata KA.
Facciamo la differenza fra il reddito speso dopo l'elevazione del prezzo di B, che s'è detto uguale ad
HA, e il reddito che si sarebbe speso in assenza dell'imposta che ha elevato il prezzo, che è KA, e otteniamo
la entità HK, che è la somma che va allo Stato a titolo di imposta indiretta, per la quantità GH di B, consu-
mata.
Dalla immediata osservazione delle quantità indicate nella figura (280), risulta che HK è minore di
EA. Cioè che, a parità di sacrificio di soddisfazione, lo Stato ottiene con l'imposta indiretta (HK) una som-
ma inferiore a quella che otteneva, nell'ipotesi di applicazione di una imposta diretta (EA).

__________
(280 ) Nei triangoli simili rHE ed IKA è HE < KA; quindi sarà HE + EK < KA + EK.
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Se, invertendo il ragionamento, lo Stato volesse conseguire una somma eguale di imposta dovrebbe
elevare ulteriormente il prezzo di B obbligando il redditiere-consumatore a combinazioni meno desiderabili,
cioè lungo una curva di indifferenza di indice inferiore alla II che si è considerata nella figura.
Resta, così, dimostrato quanto si era premesso dal Barone, e cioè che non vi è identità di pressione
(in termini edonistici) fra le due specie di imposizione (diretta sul reddito e indiretta sulle merci) a parità di
somma prelevata dallo Stato.
La dimostrazione che, sullo schema di quella del Barone, qui ho dato, risulta più diffusa e meno
concisa di quella dell'illustre economista. Ma sacrificando la concisione si è sperato di fornire allo studente
una più chiara e facile individuazione degli elementi del ragionamento.
B) A queste argomentazioni si aggiungono quelle critiche del Borgatta, che si riassumono per gran-
di linee dicendo, secondo me dal lato empirico, che: I) i beni in concreto non sono divisibili in infinitesimi
in modo da attuare, dopo la imposta, la rinuncia alle dosi marginali di essi; II) che, dal punto di vista che mi
sembra razionale, i beni di consumo sono interdipendenti e legati da rapporti di complementarietà, surro-
gabilità, di produzione a costi congiunti, ecc.; di modo che, quando un'imposta colpisca uno di essi, varian-
done il prezzo, essendo questo un elemento che influisce sulla distribuzione del reddito fra i consumi, ven-
gono turbati i rapporti fra i prezzi e le proporzioni in cui i beni legati da complementarietà, surrogabilità,
ecc. soddisfano a tali bisogni.
I rapporti fra i prezzi, invece, non sono turbati dall'imposta diretta sul reddito prodotto, che si ritie-
ne distrugga una somma di utilità relativamente minore che non l'imposta indiretta.
Alcuni casi-limite, nei quali la identità di pressione può verificarsi, sono stati individuati da diversi
autori, di cui mi limito a ricordare alcuni.
C) Il Fasiani e M. F. J. Joseph (281) hanno avanzato ipotesi particolari, riguardanti, rispettivamente,
il rapporto di sostituzione delle merci o l'elasticità di sostituzione (fra merce data e reddito), per dimostrare
casi in cui, a parità di somma prelevata con i due tipi di imposta su indicati, si determina parità di sacrificio
in termini edonistici.
In particolare, il caso-limite in cui si verificherebbe identità di pressione si avrebbe nel sistema di
curve di indifferenza, nel punto in cui l'«elasticità di sostituzione» sia zero (forma di curva spezzata con
ramo parallelo all'asse delle x). In tale caso l'aumento del prezzo (dovuto all'imposta indiretta sulla merce
tassata) e la riduzione del reddito iniziale (per imposta diretta sul reddito) hanno lo stesso effetto sulla quan-
tità domandata. In concreto la quota spesa nella merce tassata dovrebbe rappresentare una piccola parte del
reddito. (Per non appesantire di ulteriori sottili dimostrazioni anche grafiche di casi di eccezione, rimando
agli scritti originali, indicati in nota, che nel saggio Sviluppi di un teorema finanziario, ecc., citato, ho posto
a confronto per rilevare analogie di idee fra i due autori prima di presentare una mia visione sul tema).
D) U. Ricci (282) esamina il caso-limite in cui la merce tassata sia a domanda assolutamente inela-
stica. In tale ipotesi, di fronte all'aumento del prezzo determinato dall'imposta, il contribuente-consumatore
non ridurrebbe affatto il consumo di quella merce, e si procurerebbe la somma occorrente a mantenere intat-
to il suo consumo di quella merce riducendo esclusivamente altri consumi. In tal caso, sarebbe indifferente
per l'individuo, sottostare a quell'imposta indiretta o ad un 'imposta diretta.
E) Nello stesso senso ha ragionato U. K. Hicks, riprendendo il ragionamento del Marshall, secondo
il quale quando la curva di domanda sia tendenzialmente rigida, nel prelevare un'imposta sulle merci lo Sta-
to non distrugge la «rendita del consumatore» oltre la somma che esso preleva a titolo di imposta. Avvalen-
dosi dello strumento logico delle curve di indifferenza, pur senza denominarle ma accennando alle combi-
nazioni di merci corrispondenti ai gradi di elasticità della domanda, questa studiosa arriva alla conclusione
che quando una merce è a domanda assolutamente inelastica, un'imposta su di essa è equivalente ad un'im-
posta sul reddito dello stesso ammontare (283).
Infatti, argomentando «a contrariis», essa avverte che se la merce tassata fosse a domanda elastica,
il consumatore ne acquisterebbe di meno; e poiché è premessa che esso debba sottostare ad un dato ammon-
tare di imposta, si deve ammettere che lo stesso soggetto acquisti quantità di altre merci tassate, le quali per

__________
(281) Si vedano le sottili argomentazioni del Fasiani contenute nell'articolo dal titolo Di un particolare aspetto delle
imposte sul consumo, su «La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1930, e le rigorose osservazioni di M. F. J. Joseph,
pubblicate nel volume VI della «Review of economic Studies», 1938-39.
(282) Sul «Giornale degli Economisti», settembre 1938.
(283) The finance of British Government, 1920-1936, Londra 1938, pag. 253-254.
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lo innanzi erano state scartate, come aventi un indice di ofelimità più basso (nel senso di curve di indiffe-
renza a più basso indice o di combinazioni meno desiderabili).
Oppure, per stare alla ipotesi che assume come dato l'ammontare dell'imposta, si può presentare la
alternativa che il contribuente consumatore sostenga l'onere previsto, a carico del solo ridotto consumo o
della merce tassata a domanda elastica. Ma io credo che in ogni caso egli subirà una perdita di soddisfazio-
ne rispetto alle scelte di merci maggiormente ofelime, a prescindere dal rapporto tributario basato sulla tas-
sazione della merce a domanda elastica, laddove non modificherebbe il suo consumo della merce tassata se
essa fosse a domanda inelastica (rigida).
Nella sostanza le argomentazioni della Hicks sono sulla linea logica di quelle del prof. U. Ricci, su
ricordato.
F) Numerosi altri studiosi si sono occupati del tema della pressione comparata di imposte dirette e
indirette, peraltro senza uniformità di conclusioni. Fra gli scritti più recenti, per certi aspetti sui quali non è
qui il caso di soffermarsi, si ricordano quelli di J. R. Hicks (Value and Capital, 1939, cit.), H. P. Wald (in
«The Quarterly Journal of Economics», 1945), G. J. Stigler (Theory of price, 1946), E. D. Allen e O. H.
Brownlee (Economic of public finance, 1947), K. E. Boulding (Economic Analysis, 1948), A. Henderson
(in «The Economic Journal», 1948) ed altri.
È da notare che, di massima, i suddetti pur ben conosciuti autori danno prova di ignorare gli scritti
italiani sul problema in oggetto, ed in particolare il contributo del Barone, fondamentale come visione gene-
rale, citata. Questo si dice, ad esempio, per citare il caso più recente, anche di Milton Friedman284 per più
motivi assai discutibile, fa dipendere l'effetto comparato di income taxes. e di excise taxes, sul benesser,
dalle condizioni iniziali in cui l'imposizione viene introdotta con palese mutamento delle tradizionali ipotesi
del teorema in oggetto.
Per citare, inoltre, uno scritto italiano relativamente recente, ricordo che rilievi avvaloranti casi di
identità di pressione sono contenuti nel saggio di A. SCOTTO285.
G) Una formulazione negativa del teorema della identità di pressione (con conclusione che genera-
lizza, cioè, una divergenza di pressione in termini di sacrificio di soddisfazioni o di utilità) è stata avanzata
con finezza di argomentazioni dal prof H. Hotelling (286). A differenza del Pantaleoni, però, (e dei critici e
continuatori) egli non ha tenuto conto di un data imposta su una voce di spesa, ma di un sistema di imposte
sui consumi o sulle merci, riferendo l'enunciazione, prima ad un singolo soggetto, poi all'intera collettività.
«Se una persona deve pagare una certa somma di denaro a titolo di imposta, la sua soddisfazione
sarà maggiore se il prelievo sarà fatto direttamente nei suoi confronti in un dato ammontare, che non nel
caso in cui sia compiuto attraverso un sistema di imposte sulle merci (accise) che può entro certi limiti evi-
tare riadattando la produzione ed il consumo». Nel riadattamento ci sarebbe una perdita per il singolo, sen-
za corrispondente guadagno per lo Stato.
Non tengo conto in questa sede della generalizzazione alla intera collettività, per non introdurre ul-
teriori elementi di divergenza dal teorema del Pantaleoni.
L'A. ipotizza per n merci, un sistema di iperpiani, in uno spazio ad n dimensioni, in cui le coordina-
te cartesiane siano le quantità delle merci il cui consumo dà all'individuo la stessa soddisfazione comples-
sivamente.
Detti iperpiani sono, pertanto, da considerarsi come luoghi di indifferenza in analogia a quanto si sa
delle curve omonime.
Ciò posto, l'individuo sceglierà la combinazione di merci che renda massimo il valore della funzio-
ne di utilità Q = Q (q1, q2, q3,….qn) delle quantità q1, q2….qn di merci e servizi consumati dall'individuo
stesso, compatibilmente con l'equazione del bilancio Σpi qi = m, in cui P sono i prezzi delle merci e servizi
ed m è il reddito monetario. In altri termini, la combinazione ottima risulterà dal punto di tangenza di un i-
perpiano di indifferenza con quello del bilancio.
Se si fa l'ipotesi che venga prelevata una imposta sul reddito di ammontare t, l'equilibrio si stabilirà
in un punto che giacerà, per ipotesi (essendo M il punto dell'«indifference locus» a più alto indice) su un
__________
284
MILTON FRIEDMAN, The «weltare» effects of an income tax and an excise tax («The Journal of Pol. Ec.», febbraio
1952.
285
SCOTTO A, Sulla pressione comparata dell'imposta sul reddito e dell'imposta sul consumo (Collana della Facoltà
di Ec. e Comm. di Genova, 1947).
(286) H. HOTELLING: The general welfare in relation to problems of taxation and of railway and utility rates, in
«Econometrica», luglio 1938.
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luogo di indifferenza inferiore (M'). Ciò emerge dalla rappresentazione che è del R. Frisch (287) e che pur
essendo convenzionale (in quanto non si tratta di rappresentazione diagrammatica in cui si abbiano coordi-
nate, nel significato Cartesiano) può servire a dare una idea visiva del mutamento che per causa fiscale si
produce nelle condizioni di equilibrio dell'edonista consumatore.
[Sottolineo, per la rappresentazione; la parola «visiva» per mettere in rilievo la convenzionalità pre-
detta. Invero le rappresentazioni grafiche o diagrammatiche non sono possibili quando si tratta di più di tre
variabili. Ma gli studi:osi di matematica applicata alla scienza economica ammettono che è talvolta oppor-
tuno, tuttavia, usare termini geometrici anche nella analisi formale delle funzioni di più variabili. Ma l'uso
dei detti termini è puramente descrittivo e fatto in analogia col caso di tre variabili. Così un gruppo di valori
(x1, x2, x3,….. xn) è detto punto nello spazio n-dimensionale, riferito a n assi, mutuamente perpendicolari e
ogni relazione fra le variabili è descritta come iperpiano. Questo concetto include una linea retta (due di-
mensioni) e un piano (tre dimensioni) come casi particolari concreti].

Come si vede, i due punti sono individuati dove il piano del bilancio del consumatore è tangente al
luogo di indifferenza. Una imposta indiretta di pari ammontare obbligherebbe il consumatore ad una com-
binazione di utilità ancora minore.
Per il R. Frisch, però, dato che la somma t di imposta diretta o indiretta, cioè sul reddito o sulle
merci, sia eguale nei due casi, l'imposta sulle merci, se ipotizzata proporzionale ai prezzi originali (P0), ha
l'identico effetto di un'imposta diretta sul reddito. Il punto di massima soddisfazione sarebbe, cioè, nei due
casi, il punto M' qualunque sia l'altezza della tassazione delle merci (a parità di prelievo), purché vi sia la
proporzionalità predetta (che non turba il rapporto fra i prezzi, condizione razionale che il Borgatta, come
s'è visto, opponeva alla conclusione opposta ricavabile dalla dimostrazione del Pantaleoni). Soltanto ove
non si ipotizzi la tassazione indiretta sulle merci proporzionale ai prezzi originali, si può dimostrare che si
abbia una perdita di soddisfazioni nel sostituire l'imposizione indiretta sulle merci a quella diretta sul reddi-
to.

Sebbene si tratti di impostazione diversa da quella del Pantaleoni, il R. Frisch porta ad una equiva-
lenza fra imposizione diretta ed indiretta come tributi generali ed uniformi. Equivalenza che, invero, la teo-
ria tradizionale aveva intuito nel confrontare un'imposta generale e indiretta «ad valorem» su tutti i consumi
(di merci e servizi) con l'imposta generale sul reddito.
[Nei confronti del teorema del Pantaleoni, ragionando per assurdo, anche il Ricci aveva fatto l'ipo-
tesi che l'identità di pressione fra l'imposta diretta e l'imposta indiretta si potrebbe avere, qualora la prima si
trasformasse in un sistema di imposte indirette, e cioè in un sistema di tante imposte indirette quante sono

__________
(287) R. FRISCH, The Dupuit taxation theorem, in «Econometrica», aprile 1939.
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le merci di cui ogni individuo riduceva il consumo per effetto dell'imposta diretta, e che ogni nuova imposta
indiretta riducesse il consumo parziale esattamente di quanto l'imposta diretta finiva con il fare].
Siamo in un campo in cui il tipo (elemento qualitativo) di imposizione può essere congegnato in
modo da dar luogo ad indifferenza di pressione di distinti sistemi di imposizione.
Sostanzialmente, come dimostro nel saggio sul tema in oggetto, il prof. Hotelling, ammettendo che
una tassazione delle merci, proporzionale ai prezzi, quando questi siano eguali ai costi marginali, (ipotesi
di concorrenza ideale, però, non richiesta, come ho a suo tempo messo in evidenza) non turberebbe i rap-
porti fra i prezzi, così come non li turbi l'imposizione diretta, finiva per contraddire alla enunciazione in
senso negativo della identità di pressione dei due tipi di tassazione, e per accogliere l'impostazione di R.
Frisch che, ci rigore, più che una critica costituisce una revisione delle premesse.

V.

RELAZIONI DEL TEOREMA PRECEDENTE


CON VISIONI DI MASSIMO BENESSERE COLLETTIVO.

Nell'ambito delle premesse iniziali od ampliate, la dimostrazione del teorema di tipo Pantaleoniano
o la sua confutazione recano, bensì, luce soprattutto sulla condizione di massima soddisfazione o di equili-
brio dell'edonista perfetto, enunciata nel senso della eguaglianza delle ofelimità ponderate o della egua-
glianza dei rapporti fra utilità marginali e prezzi rispettivamente.
Ma vi sono anche concezioni di massimo benessere o di optimum collettivo che si avvalgono in via
logicaq e strumentale del fattore tributario, ma considerato dall'aspetto quantitativo («quantum» del prelie-
vo e sua destinazione). Per tali schemi non ha valore di uniformità necessariamente primordiale, la dimo-
strazione della identità di pressione di imposte di diversa specie.
Scopo preminente di quella indagine era: a) di mostrare la necessità di limitare la validità delle
«normae agendi» che si traggono dalla soluzione di un teorema o problema, ottenuta per via deduttiva entro
i limiti che al ragionamento siano stati fissati da determinate ipotesi al cui valore nel campo del razionale
non corrisponde, per giunta, adeguata fenomenica concreta (288); b) in modo particolare, di dimostrare che
l'elemento qualitativo (forma, specie o tipo di imposta: diretta o indiretta). Questo elemento, che ha fatto da
premessa necessaria in rapporto al teorema di tipo Marshalliano o Pantaleoniano, può essere, appunto, tra-
scurato in rapporto al problema del massimo benessere collettivo, nelle enunciazioni che conferiscono im-
portanza strumentale all'elemento tributario dal lato quantitativo.
Avendo accennato alla impostazione di tipo Marshalliano del noto teorema esplicitamente formula-
to dalla Hicks, ho messo in evidenza, nella seconda parte del saggio citato, la mancata convergenza di
«normae agendi», le quali prendano le mosse da soluzioni di distinti problemi di teoria finanziaria, al fine
della soluzione di un problema di massimo benessere.
Invero, nel contenuto di poche e successive pagine dell'aureo trattato Marshalliano, si ha possibilità
di trovare due relazioni fra conclusioni tratte da teoremi finanziari e impostazioni di problemi di massima
soddisfazione, riferiti alla collettività.
a) Prescindendo dalla legge dei costi, il Marshall basandosi sulla conclusione del problema di fi-
nanza pura (secondo il quale, rammento, ipotizzata una «data somma di imposta» che debba essere preleva-
ta, sarà minore la perdita di «rendita del consumatore» se l'imposta è prelevata sulle merci a domanda ten-
denzialmente rigida) passa senz'altro alla «norma agendi» di politica finanziaria, suggerendo la tassazione
delle merci «necessarie». Attraverso la formulazione, citata, della Hicks, che discende logicamente se non
formalmente da quella Marshalliana, si è arrivati, come si è visto, alla generalizzazione della identità di
pressione con il caso dell'imposta diretta sul reddito.
__________
(288) Una integrazione della «norma agendi» del Barone, in ordine alla «risultante» derivante dalla applicazione di
imposte dirette, e indirette, da altro punto di vista avevo compiuto negli «Annali dell'Università di Ferrara», 1937, nel
breve saggio dal titolo La determinazione della risultante del Barone e i dati del problema finanziario, il cui contenuto
è esposto nel prossimo paragrafo.
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b) Si è, peraltro, appena letto con interesse quanto attiene alle premesse della enunciata «norma a-
gendi», quando nei Principii si incontra (pag. 460), in rapporto alla introduzione dell'ipotesi di costi cre-
scenti e decrescenti, la enunciazione di quello che è, per antonomasia, il teorema che utilizza l'elemento tri-
butario nella ricerca di una condizione di massimo benessere o vantaggio collettivo.
Allo scopo, infatti, di indicare il modo di accrescere la soddisfazione totale della collettività attra-
verso la minor distruzione possibile di «rendita del consumatore», il Marshall (vedi paragrafo IX del capito-
lo precedente) suggerisce il «piano semplice» secondo il quale la comunità dovrebbe «mettere un'imposta
sui redditi dei propri membri oppure sulla produzione delle merci che obbediscono alla legge della produt-
tività decrescente, e usare, poi, il prodotto dell'imposta per creare un premio alla produzione di quelle merci
rispetto alle quali la legge della produttività crescente agisce energicamente».
Orbene, due considerazioni suggerisce la istituzione di rapporti fra dati prelievi tributari e destina-
zione di essi al fine di elevare la soddisfazione collettiva: a) da un canto, attraverso la espressione alternati-
va («oppure») si pone implicitamente una identità di pressione fra imposta sul reddito e imposte sulle merci
soggette alla legge dei costi crescenti. Si trascura, però, la circostanza decisiva (elasticità della domanda
delle merci tassate), mancando la quale (rigidità tendenziale) verrebbe meno la identità di pressione a cui
esplicitamente era pervenuta la Hicks sviluppando il pensiero Marshalliano; b) si contrappongono, dal pun-
to di vista della rendita del consumatore distrutta (o accrescibile), imposte rispettivamente su merci soggette
alla legge dei costi crescenti o decrescenti (condizioni dell'offerta) trascurando l'elasticità della domanda ri-
spettiva.
Questa condizione, se considerata in modo simultaneo, potrebbe contraddire al piano della soddi-
sfazione massima. In altre parole, il Marshall affaccia bensì altre circostanze che «in concreto possono in-
fluire sulla introduzione di un'imposta»: ma nell'avanzare il «piano» che potrebbe, come è detto nel teore-
ma, apparire conveniente per l'elevazione della soddisfazione totale, trascura la condizione costituita dal
grado di elasticità della domanda dei beni tassati. E siffatta condizione, come si è visto nelle precedenti pa-
gine alla luce di un altro teorema, suggerirebbe una diversa «norma agendi» in sede di utilizzazione dei tri-
buti nel quadro di una situazione finale di soddisfazione massima della collettività.
Può supporsi bensì, con larghezza di interpretazione del pensiero integrale del Marshall, un caso-
limite in cui le due condizioni (elasticità della domanda e legge dei costi) agiscano simultaneamente in via
ipotetica (e storica) convergendo univocamente al fine identico della minore distruzione di rendita del con-
sumatore ed alle variazioni di codesta entità («rendita») ritenute tipiche di una situazione di massimo benes-
sere o di soddisfazione massima nel senso Marshalliano. Ma questa ipotesi non è stata avanzata nei Princi-
pii. E anche se posta innanzi nella guisa in cui sinteticamente la formulo, non costituisce premessa che logi-
camente legittimi due distinte «normae agendi».
A confermare la relatività delle deduzioni teoriche da particolari problemi di finanza e le limitazioni
di cui occorre circondare la loro applicazione a problemi di ricerca di situazioni astratte (o traducibili in
concreto) di soddisfazione massima collettiva, oppure di massimo benessere generale, ecc., giova una signi-
ficativa coincidenza.
Mi riferisco alla «strumentalità», esattamente, di imposte sui redditi e sulle successioni, rispetto al
fine del conseguimento del massimo «welfare», secondo il piano che emerge dalla nota trattazione del Pi-
gou (289).
La sintesi, necessariamente imperfetta perché troppo ristretta del pensiero del Pigou, si può così
tracciare sommariamente, dal punto di vista del ricorso allo strumento tributario in rapporto ad un piano di
massimo benessere collettivo: 1) il benessere economico, come complesso di soddisfazioni, è concetto co-
ordinato con quello di dividendo nazionale; 2) il benessere è ordinariamente collegato all'uso che si fa del
volume del dividendo nazionale consistente in un certo complesso di beni e servizi che sono creati durante
un dato periodo; 3) purché la parte del dividendo nazionale che tocca alle classi povere non sia diminuita,
ogni aumento nel volume del dividendo nazionale verificandosi senza l'azione contraria di altri fenomeni,
deve significare aumento nel benessere economico; 4) purché il dividendo complessivo non diminuisca,
qualunque aumento nel reddito reale goduto dalle classi più povere a cui corrisponda una eguale diminuzio-
ne di reddito goduto dalle classi più ricche, comporta certamente un aumento del benessere economico; 5)
dato che nelle condizioni odierne i trasferimenti volontari di ricchezza sono molto inferiori in ammontare
alla quantità considerata necessaria dalla collettività, sorge la necessità di introdurre imposte e quasi sempre
__________
(289) Economia del benessere, nella traduzione pubblicata nella recente edizione della U.T.E.T. cit.
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imposte le quali gravino sui proprietari di grandi patrimoni e di grandi redditi; di solito saranno imposte sul
reddito e successorie; 6) accanto ai trasferimenti diretti di redditi vi possono essere trasferimenti indiretti,
fra l'altro, attraverso premi (ottenuti mediante imposte) a favore del consumo di determinate merci acquista-
te prevalentemente dalle classi povere o ristretti a quella parte dell'intero consumo che sia effettivamente
goduto da determinate categorie di poveri; 7) un qualunque determinato trasferimento di mezzi dalle classi
ricche alle classi povere, deve (prescindendo dalle reazioni discusse dal Pigou in numerosi capitoli) accre-
scere di per sè il dividendo nazionale futuro, purché il saggio di rendimento degli investimenti intesi ad au-
mentare la capacità produttiva delle classi povere, non sia inferiore al saggio di rendimento degli investi-
menti in strumenti capitali: non sia all'incirca inferiore al saggio normale dell'interesse.
Sebbene il Pigou, in linea di massima, si muova in un ordine logico di intonazione Marshalliana, il
suo schema di «general welfare» si avvale di argomentazioni che non sono quelle discendenti dalle «idee
madri», su cui si è impostato il teorema della identità di pressione. Pigou, dopo ampia dimostrazione delle
premesse, arriva, fra l'altro, alla enunciazione di «normae agendi» nelle quali entrano, come fattori razio-
nalmente strumentali, le stesse imposte il cui prelievo e la cui destinazione non sono nella stessa linea logi-
ca del ragionamento e meno ancora del tipo di ragionamento di Hotelling e dei suoi critici e precursori.
La indipendenza del problema impostato dal Pigou, da quello avanzato da Hotelling, è assai eviden-
te, sebbene entrambi abbiano di mira la ricerca di una condizione di massimo «general welfare» e contem-
plino il ricorso agli stessi tributi in via strumentale rispetto allo stesso fine. Ma Hotelling vincola la relazio-
ne fra i tributi ricordati e il «general welfare» alla validità del teorema fondamentale con soluzione negativa
in tema di identità di pressione. In ogni caso contrappone, dal lato qualitativo (a parità di prelievo), l'impo-
sta sul reddito e l'imposta sulle successioni (che alla prima in certo senso è stata considerata equivalente) al-
l'imposizione delle merci. In quella di Hotelling e in altre impostazioni del noto teorema, si prospetta un
problema di scelta qualitativa dei tributi contrapposti, alla luce di effetti del prelievo rispettivo sul piano di
bilancio di perfetti edonisti. E, come si è visto, sono assai ristrette e grandemente controverse le basi logi-
che della preferibilità di un'imposta (diretta) all'altra (indiretta), ovvero le premesse della indifferenza nella
scelta alternativa dei due tipi di tributi, affinché si possa fondare sulla verifica della validità del teorema di
tipo Marshalliano (290) o Pantaleoniano o sulla negazione rispettiva, una «norma agendi» molto generaliz-
zante del tipo di quelle che finalisticamente adducono al massimo benessere collettivo.
Pigou non fa alcun riferimento ai teoremi sottolineati in queste considerazioni, quando prospetta la
strumentalità delle due imposte (sui redditi e le successioni) nel suo piano del benessere collettivo. Ma, data
una disuguale distribuzione dei redditi, ritiene desiderabile per la collettività il prelievo di una parte (ele-
mento quantitativo) dei redditi e dei patrimoni, scontando (come effetto) la maggiore produttività (in termi-
ni oggettivi) della destinazione delle somme prelevate, rispetto al fine della elevazione massima del divi-
dendo nazionale, fattore coordinato al benessere collettivo.
La validità logica del «piano» elaborato da questo autore non è quindi vincolata alla validità di as-
sunti teorici in sede di finanza pura. E poiché soltanto il dato «tecnico» quantitativo viene attinto al campo
tributario, la coerenza di esso con lo schema del massimo benessere collettivo riposa su premesse da dimo-
strare, bensì, ma non ristrette e controverse nel grado in cui lo sono le premesse collegate al citato teorema
finanziario, nelle distinte formulazioni.
Da un altro punto di vista sfugge a questo ordine di critiche, parimenti, la istituzione di un rapporto
logicamente strumentale fra l'applicazione concettuale del fattore tributario e: a) la concezione teorica Pare-
tiana del massimo di ofelimità in uno Stato collettivista; b) il tentativo di ricostruzione dell'economia pura
compiuto dal De Finetti, per citare due posizioni mentali astratte in tema di massimo di ofelimità e di «op-
timum».
a) Dal punto di vista logico-astratto (e non naturalistico) cioè come studio ipotetico di possibilità e
di conseguenze virtuali ricavabili da date premesse, il Pareto (291) ha impostato il problema della individua-
zione di una condizione di equilibrio nella quale i membri della collettività conseguano il massimo di ofe-
limità (292) Limitandosi a considerare il problema della produzione, Pareto faceva l'ipotesi del raggiungi-
mento più facile (che in regime di libera concorrenza) della linea delle «trasformazioni complete», come
__________
(290) Mi riferisco a quello sulla pressione dell'imposta sulle merci, la quale si possa ritenere identica a quella di u-
n'imposta sul reddito.
(291) Nel Manuel, pagg. 362-65.
(292) Nell'«Appendice» al Manuel, Pareto nel definire il massimo di ofelimità come il «più gran benessere» possibile
dei membri della collettività, adotta un termine qui alternativamente usato con altri equivalenti.
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punto di equilibrio. Per il raggiungimento di siffatta condizione in una «società non collettivista», questa,
secondo il grande teorico, «dovrebbe farsi pagare dai clienti anzitutto le spese generali e, quindi, vendere le
merci al prezzo di costi, detratte le spese generali».
Detto procedimento gli appare giustamente difficile in pratica, facendo l'ipotesi di una «società pri-
vata»; invece nell'ipotesi di «società collettivista», lo Stato (socialista) «può mettere come imposta sui con-
sumatori delle sue merci, le spese generali della produzione di quelle merci e poi cederle al prezzo di costo;
può, cioè seguire la linea delle trasformazioni complete» (293).
A prima vista pare di trovarsi di fronte ad una enunciazione simile a quella del prof. Hotelling, il
quale (294) formulava la «norma agendi»: che l'imposta sul reddito (e sulle successioni) potrebbe essere de-
stinata a coprire i costi fissi delle industrie, aventi per i loro impianti vaste spese generali, in modo da far ri-
durre; al livello del costo marginale i prezzi per i servizi e prodotti delle rispettive industrie.
Ma è da avvertire, anzitutto, che il Pateto non precisa formalmente se trattisi di imposizione com-
misurata al prezzo o alla quantità delle merci oppure al reddito (ripartito in aderenza a «certi principii etico-
sociali»), anche se siffatta qualifica del vincolo tributario dell'equilibrio può indursi indirettamente. Inoltre
e soprattutto, non contrappone l'imposta sul reddito ad un'imposta sulle merci (anche se le spese generali, ad
es. considerate come incremento uniforme del costo marginale, possono essere fatte equivalenti ad un 'im-
posta sulle merci).
Se si vuole, con uno sforzo logico e con un certo grado di arbitrio, si può condurre sulla linea delle
argomentazioni di Hotelling la «norma agendi» Paretiana: sostituzione di un'imposta (ipotizzata sul reddito)
alle spese generali che occorrerebbe, altrimenti, pro-rata pagare attraverso il prezzo di vendita delle merci.
Ma Hotelling enuncia e dimostra il teorema della convenienza «per ogni persona di uno Stato, della aboli-
zione di imposte sulle merci e della rispettiva sostituzione con imposta diretta sul reddito, a parità di prelie-
vo». Teorema che - ripeto - nega l'identità di pressione, basato sulle caratteristiche tecnico-qualitative dei
contrapposti tributi, e che non entra nello schema Paretiano neanche in modo implicito.
Nella preoccupazione di enunciare la condizione di massimo di ofelimità in una società collettivi-
stica come atta alla integrale realizzazione del regime delle «trasformazioni complete», il Pareto considera-
va il fattore tributario, dal lato quantitativo, in via del tutto incidentale o logicamente strumentale (come per
chiarire il concetto, ho scritto qui) e in modo schematico. Su questo tema, dal punto di vista che si conside-
ra, ulteriori chiarimenti sarebbero stati utili da parte del grande pensatore che lasciava al lettore la determi-
nazione dei dettagli. Ma l'interpretazione non può andare oltre i limiti di una traduzione in termini espliciti
di ciò che l'impostazione Paretiana, su questo punto, contiene di implicito. Svincolata da deduzioni discen-
denti da teoremi finanziari da altri autori postulati, la enunciazione qui considerata è coerente anche nella
scelta dello strumento tributario la cui influenza quantitativa deve, per la tesi, risolversi in un aumento fina-
le di ofelimità, tale da condurre i singoli membri della società ipotizzata ad un massimo di ofelimità.
b) Considerazioni in parte analoghe valgono per ciò che riguarda la posizione logico-strumentale
del fattore tributario nel tentativo schematico di B. De Finetti, rivolto al superamento della impostazione
della economia classica.
Rimando il lettore al suggestivo saggio (295), limitandomi a ricordare che la rielaborazione di questo
autore insiste sull'oggetto della scienza economica come studio del problema della «possibilità» di soddi-
sfacimento di desideri e bisogni, indipendentemente da ogni ipotesi particolare sulle istituzioni giuridiche,
economiche, politiche, organizzative, caratteristiche di una determinata epoca.
De Finetti fa l'ipotesi, fra l"altro, che la produzione avvenga ad opera di privati, i quali abbiano a
sostenere le spese e godere del ricavato sulla base dei prezzi i quali abbiano il significato di «parametri vin-
colari», cioè di concetti aventi senso non riguardo al problema economico considerato intrinsecamente, ma
solo rispetto a determinati sistemi di organizzazione economica (296). Ciò posto ed avanzate altre condizio-
ni, che per brevità si omettono, appare possibile ottenere una generica situazione di «optimum», qualora si
provveda ad un adeguato conguaglio delle situazioni iniziali, in modo da sottrarre al giudizio di convenien-

__________
(293) Si tenga presente che nell'ipotesi Paretiana i «prezzi» non sono entità reali ma contabili, necessari alla organiz-
zazione della produzione.
(294) Nel primo articolo, citato, apparso su «Econometrica», 1938.
(295) Esso si intitola: La crisi dei principii e l'economia matematica, ed è inserito negli «Acta Seminarii» dell'Istituto
di Economia L. Bocconi, di Milano, 1943.
(296) Vedasi l'analoga ipotesi Paretiana dianzi citata in nota.
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za dell'ipotetico imprenditore, tutti quegli elementi che non concorrono a formare i costi marginali. Occor-
re, secondo l'a., depurare tutte le funzioni lineari dei termini costanti e provvedere ad equilibrare tutte le si-
tuazioni individuali in corrispondenza del punto di «optimum», con la redistribuzione consistente nell'in-
camerare tutte le eccedenze e rifondere tutti gli ammanchi che la ipotetica contabilità dei costi e dei ricavi
presenterebbe rispetto alle costanti proprio nel punto di optimum considerato.
Evitando che l'«optimum» debba necessariamente conciliarsi con il pareggio dei bilanci, si può an-
che fare l'ipotesi che il prezzo non diverga dal costo marginale, dato che verrebbe risarcita ai produttori la
perdita derivante dalla mancata imputazione delle spese fisse, nel prezzo. Tutto ciò implica un «piano» re-
golatore unitario in cui ciascuno goda del complesso dei beni, così da approssimarsi alla condizione di «op-
timum». Volendo restare nell'ambito dei concetti attuali, il De Finetti per la realizzazione del piano pensa,
fra l'altro, ad una politica di redistribuzione realizzabile, ad esempio, attraverso il meccanismo tributario
(297), per coprire le apparenti perdite dei produttori costretti (per le equazioni dell'«optimum») a vendere
sottocosto (o al costo marginale) e prelevare i contrapposti profitti .
Secondo una inedita chiarificazione ulteriore del suo pensiero, l'a. non vedrebbe incompatibile con
la sua concezione dell'«optimum», il ricorso ad un'imposta diretta generale sui redditi (ammesso che sia sta-
to risolto il problema della determinazione di ciò che debba intendersi per reddito nel caso degli imprendi-
tori a cui si rifondano le perdite, nel significato predetto). Il provento di siffatta imposta potrebbe essere de-
stinato alla rifusione delle perdite dei produttori nel senso sopra ricordato. I consumatori acquisterebbero
beni e servizi a prezzo eguale al costo marginale. Dato il diverso «peso» delle «spese generali» nelle diver-
se produzioni di merci e servizi, si avrebbe la diffusione, a vantaggio dei consumatori, degli effetti della
legge dei costi decrescenti, con aumento della utilità dei beni (o della «rendita dei consumatori», aggiungo
io).
Dopo quanto ho precisato - come conferma della mia tesi, che domina questo paragrafo V (e il mio
saggio citato a cui attingo), e la cui necessità logica non era stata, per lo innanzi, avvertita nella teoria - nei
confronti della posizione logica del Pareto, dalla quale, pur nel suo schema autonomo, per l'aspetto partico-
lare che qui considero, non si allontana di molto quella del De Finetti, non insisto nel mettere in luce il mio
assunto. Cioè la indipendenza della disamina degli effetti (sul benessere in senso edonistico) della redistri-
buzione di ricchezza per qualsiasi (qualitativamente) via tributaria, dal teorema della identità di pressione
discendente dalle «due idee madri» che hanno orientato i citati scritti di finanza pura, imperniati, appunto,
sul modo o sulla qualità dell'imposizione.
Invero, in rapporto agli schemi o piani di benessere collettivo o di «optimum» dianzi richiamati,
tanto la riconferma logica della validità del noto teorema quanto la tentata negazione di esso non costitui-
scono in linea di massima premessa necessaria. L'aspetto quantitativo dei processi di redistribuzione di
reddito o potere di acquisto mediante l'ausilio del fattore tributario (prelievo, destinazione e relativi effetti a
vantaggio dei componenti la collettività), ripeto, prevale (298) sull'aspetto qualitativo dell'elemento fiscale
(imposta diretta o indiretta) nei casi in cui lo si assuma fra gli strumenti supposti idonei e coerenti al fine
del conseguimento di una situazione di massimo benessere o di «optimum» collettivo.
Cosicché, da un lato, risulta dimostrato che gli sviluppi del teorema Marshalliano e Pantaleoniano
ne hanno confermato od esteso la validità nell'ambito delle premesse iniziali o modificate nel senso a cui
hanno aderito incidentalmente U. Ricci e, sistematicamente, Hotelling e Frisch.
Ma, d'altro canto, gli schemi di massimo benessere collettivo o di «optimum» posti innanzi in via
esemplificativa e tipicamente significativa; con l'annullamento della contrapposizione dei fattori qualitativi,
hanno fatto vedere come il teorema fondamentale - anche nella generalizzazione Hotelling-Frisch - non fac-
cia necessariamente in via logica da premessa per la soluzione di un problema, variamente impostato, di
benessere collettivo (massimo).
La conclusione che emerge sembra sminuire o limitare la fecondità del teorema fondamentale basa-
to sulla contrapposizione qualitativa degli strumenti tributari. Invero, nell'ambito delle premesse iniziali ed
ampliate, la dimostrazione del teorema di tipo Pantaleoniano o la sua confutazione recano, bensì, luce so-
__________
(297) Questo tipo di redistribuzione, nell'ambito dell'ipotesi del massimo di ofelimità nella società collettivista, non
appare arbitraria al Pareto che la introduce come condizione logicamente strumentale per un modo di conseguimento
virtuale del massimo di ofelimità.
(298) In questo senso, da altro punto di vista, il fattore tributario contribuisce a vincolare l'equilibrio economico gene-
rale, nei tentativi di macrodinamica considerati nel saggio di E. D'ALBERGO, Il problema finanziario e le nuove teorie
economiche («Giornale degli Economisti», marzo 1939).
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prattutto sulla condizione di massima soddisfazione, nel senso della eguaglianza delle ofelimità ponderate o
della eguaglianza dei rapporti fra utilità marginali e prezzi rispettivamente.
Ma, come si è visto, vi sono concezioni di massimo benessere o di optimum, che si avvalgono in via
logico-strumentale del fattore tributario, non configurato necessariamente dal lato qualitativo, ma conside-
rato dall'aspetto quantitativo. E per tali schemi non ha valore di uniformità necessariamente primordiale, la
dimostrazione della identità di pressione di imposte di diversa specie o forma (elemento qualitativo).

VI.

IL «PRINCIPIO ECONOMICO» DI BARONE E L'INTEGRAZIONE


FRA IMPOSTE DIRETTE E INDIRETTE.

Un altro problema teorico riguardante i rapporti fra imposte dirette ed indirette è il seguente, avan-
zato dal Barone.
Il principio economico di Barone consiste nell’assumere come preferibile, tra i sistemi di ripartizio-
ne dell’imposta, quello che, per un determinato fabbisogno dello Stato, meno ostacoli lo sviluppo del reddi-
to medio. Il presupposto che conduce a questo effetto è che se il reddito cresce più della popolazione, si ele-
va il reddito minimo e si ha una minore «convergenza» dei redditi. (Ma, come si è già ricordato, se aumenta
il reddito medio, la disuguaglianza aumenta, e questo è il contrario di quanto presupposto da Barone).
Barone, comunque, suggerisce la seguente «azione riformatrice» del legislatore, a cui particolar-
mente si riferiscono le mie osservazioni. Si consideri il grafico (fig. 65) in cui: 1) sull'asse delle ascisse, so-
no rapportati i redditi; 2) la AC rappresenta l'imposta sui consumi; 3) la BR l'imposta sui redditi; 4) la AMG
è la«risultante» delle prime due ed indica la ripartizione del prelievo del fabbisogno dello Stato fra i vari
redditi.
Ciò posto occorre che vi sia un minimo OA, non gravato da tributi sui consumi necessari; che il
minimo OB non gravato da tributi sul reddito, sia alquanto sollevato. Allora potrà aversi la correzione di ciò
che la AC conserva di progressività a rovescio. (Con questa termine di progressività a rovescio, come ho
già detto, si intende che, non essendo le somme spese nei singoli beni di consumo tassati proporzionali al-
l'altezza dei redditi individuali, i meno abbienti sopportano un onere relativamente più elevato dei più ab-
bienti).
In un saggio (299) su tale argomento ho dimostrato, però, che il Barone prescinde dagli effetti che
l'impiego del provento fiscale, da parte dello Stato, esercita, simultaneamente, sulle condizioni economiche
dei contribuenti reddituari, per le classi contrapposte. Ho tenuto conto del fatto che la discriminazione delle
spese pubbliche avvantaggia diversamente le varie classi di contribuenti influendo sull'altezza dei redditi
reali e sulle spese private (per sostituzione ad esse nei bilanci familiari, di spese pubbliche sociali), con la
particolare strumentalità della funzione statale nei confronti dei fatti di produzione e di applicazione delle
energie di lavoro.
Ne deriva - riferendomi alle componenti del Barone -: 1) che l'inclinazione della BR, e quindi l'al-
tezza dell'imposta sul reddito, è funzione anche della discriminazione della spesa pubblica a favore delle
classi di contribuenti che ne sopportano il prelievo; 2) che si può discendere al disotto del reddito OA, no-
minale, come reddito minimo che si vorrebbe esentato da imposte sui consumi, se i redditi reali (300) delle
classi corrispondenti ad OA, in quanto favorite dalla spesa pubblica, si possono ritenere equivalenti a quelli
(nominali) che sono compresi fra OA e OB; 3) che le imposte sul reddito possono scendere al disotto di OB
(a prescindere da questioni amministrative) in funzione delle ragioni indicate nel precedente n. 2 e ampia-
mente illustrate nel capitolo concernente la capacità contributiva relativa; 4) che il minimo OB nominale
possa non venire elevato, per gli stessi motivi; 5) anziché affidare necessariamente alla inclinazione della
__________
(299) Dal titolo: La determinazione della «risultante» del Barone e i dati del problema finanziario, Annali dell'Univ.
di Ferrara, 1937.
(300) Nel senso in cui ne ho trattato nello studio: Sulla discriminazione delle spese pubbliche, ecc., cit., e ulterior-
mente affermato e chiarito nel capitolo di questo corso, in cui si tratta della capacità contributiva relativa.
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BR (influenzata anche da imposte differenziali basate sulla capacità contributiva relativa), la correzione del-
la inclinazione della AC, ci si può basare anche sulla «manovra» della spesa pubblica a favore dei meno ab-
bienti, per correggere la progressività a rovescio delle imposte sui consumi.

Tenendo presente quanto precede, invero, è facile dimostrare che si può arrivare ad una deviazione
sostanziale dal criterio obbiettivo o ad una politica di classe, allorché: elevando il minimo non gravato da
taluni tributi indiretti (OA) o il minimo (OB) non gravato da tributi sul reddito, si orienti la spesa pubblica a
favore delle classi più basse di redditi (politica democratica). Parimenti ad una deviazione (politica aristo-
cratica) dal «principio economico» si può pervenire, allorché, pur ammesse le tendenze suggerite dal Baro-
ne, indicate, di OA e OB, le spese pubbliche si risolvano in vantaggi prevalenti delle classi più alte di reddi-
tieri.
In conclusione, per poter dare un giudizio sulla ripartizione «economica» del carico tributario, oc-
corre considerare simultaneamente, in teoria ed in concreto (assieme ad altre circostanze determinanti), la
pressione delle imposte su classi distinte di redditieri e gli effetti della spesa pubblica nei confronti di esse
(301). Un giudizio corretto sui limiti in cui si può far ricorso a imposte dirette sul reddito o a imposte indiret-
te sui consumi secondari o primari, senza ostacolare lo sviluppo del reddito medio, può darsi soltanto allor-
ché si considerino gli effetti della spesa pubblica: 1) come causa (previsione) di maggiore reddito e rispar-
mio, a sua volta produttivo di altro reddito, delle classi gravate di imposta: 2) o causa di minore spesa nei
bilanci familiari, per sostituzione di una spesa pubblica - più o meno efficiente (302) - a quella privata.
Se si tengono presenti tali avvertenze, si possono avere, in teoria e in concreto, scostamenti dell'in-
clinazione delle componenti AC e BR da quella ottima, aderente al «principio economico» del Barone che si
limita al prelievo dei due tipi di tributi, contrapposti. In conseguenza, la forma della «risultante» che si ot-
tiene introducendo il fattore spesa pubblica nel senso qui indicato, può essere diversa da quella relativa ai
dati considerati dal Barone. Ma alla divergenza formale può corrispondere tuttavia l'aderenza sostanziale
delle due inclinazioni della «risultante» al criterio «economico» od oggettivo per la ripartizione delle impo-
ste, che si è corretto nel cap. V, parag. I, e a cui si fa riferimento, più che in sè, come a circostanza che fa
esaminare punti di vista dai quali si integrano i due tipi di imposte, ipotizzata la politica della spesa.

__________
(301) Una ulteriore approssimazione al caso concreto, in via puramente logica, per quanto concerne l’effettiva riparti-
zione del carico tributario (da imposte dirette contrapposte a quelle indirette, e da imposte sui consumi discriminate) è
stata da me compiuta nel saggio: L'analisi Pareto-Slutzky della domanda, ecc. (Giornale degli Economisti, 1949), il
cui contenuto è ampiamente riportato nel paragrafo seguente.
(302) Si vedano le osservazioni di Hobson a pag. 69 dell'opera citata nel mio saggio.
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VII.

LA «MULTIDIREZIONALITÀ» DELLA DOMANDA E LA TEORIA DELLE IMPOSTE SUI


CONSUMI.

A) In un mio saggio303 ho posto in luce, dal lato razionale, effetti possibili delle discriminazioni in-
trodotte nel sistema delle imposte sui consumi, (di generi di «prima necessità» contrapposti a quelli di gene-
ri «voluttuari») per mettere in chiaro non avvertite contraddizioni ed illusioni di governanti e governati, e
modificare o integrare uniformità e giudizi teorici e politici, nei confronti delle imposte di cui si manovri
con «fini sociali» la gamma delle aliquote (esenzioni comprese, in quanto ovviamente equivalenti a diffe-
renze di oneri). A ciò ho proceduto:
I) in prima approssimazione ed alla luce dell'analisi Pareto-Slutzky della domanda dei consumatori;
Il) in seconda approssimazione, avendo inteso far vivere ipoteticamente l'imposizione indiretta nel
quadro dell'intero fenomeno(304). E ciò nello spirito e con le finalità, anche, del «full employment» Keyne-
siano, per il trasferimento del potere d'acquisto nelle mani dei meno abbienti che hanno preminente «pro-
pensione» al consumo del reddito.
Questa visione più ampia è logicamente necessaria. Da Edgeworth a Marshall, da Wicksell ad Hob-
son, da Barone a De Viti, da Stamp ad Einaudi, da Borgatta a Black, c'è un riconoscimento ormai pacifico
della legittimità logica e della necessità di ampliare gli schemi per evitare la fallacia e la unilateralità dei ra-
gionamenti. Detta necessità è assoluta quando, come ad es. è occorso a Borgatta e Fanno, si suggeriscano
norme di politica fiscale.
B) Per riesaminare criticamente gli effetti di provvedimenti ipotetici o concreti in tema, di introdu-
zione di trattamento differenziale a favore dei generi di largo consumo o di consumo «popolare», avente lo
scopo di ovviare alla regressività di questo tipo di imposizione (ed alla sua qualifica di «anti-sociale»), oc-
corre avvalersi della luce che reca quello che può dirsi un perfezionamento della teoria della domanda, co-
me è stato avvertito nel par. X del capitolo X.
Intendo procedere sul solco fecondo aperto da Pareto, facendo riferimento alla «multidirezionalità»
delle curve di domanda, data dalla individuazione di «effetti di reddito» ed «effetti di sostituzione» nella
traduzione italiana di concetti particolarmente in codesti termini concepiti dal Dominedò ed enunciati da
Hicks («income» e «substitution» effects).
Occorre avanzare alcune precisazioni:
a) Che quanto si richiama e si applica in tema di teoria della domanda, si riferisce a consumatori ti-
pici (medi), rappresentativi di gruppi o di classi omogenee alquanto: ipotesi approssimata, che non sfugge
alla critica che Dominedò305 avanza sulla continuità dei gusti, quando si considerino classi diverse di reddi-
tieri che, per brevità, empiricamente si distinguono in ricche (R), medie (M), povere (P).
b) Che per spiegare ed applicare il concetto di «effetti di reddito» e «di sostituzione», occorre avere
la nozione di «beni inferiori». Il Pareto, nell'istituire una relazione fra entrata (reddito) e domanda di beni
(complementari), asseriva che con il crescere dell'entrata «la qualità superiore toglie il luogo alla qualità in-
feriore». E continuava: quindi per questo la domanda prima cresce (nel paragrafo 48 precisava «può cresce-
re»), poi scema fino a diventare insignificante e anche zero. Gli esempi addotti per spiegare la «gerarchia»
delle merci fanno figurare la serie: polenta-pane-carne di seconda qualità-carne di prima qualità (306).
__________
303
D’ALBERGO E., L'analisi Pareto-Slutzky della domanda e la teoria delle imposte sui consumi, pubblicato nel
«Giornale degli Economisti», 1949 (celebrativo del centenario della nascita di Pareto).
(304) O datori di lavoro, in genere.
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Si vegga: DOMINEDÒ, Quantità economiche oggettive e moventi edonistici, «Rendiconti del Seminario Matemati-
co e Fisico di Milano», 1935. Dello stesso autore si vedano gli scritti che vanno dal 1933 al 1943 coordinati logica-
mente e indicati negli Acta Seminarii della Università Bocconi, Milano, 1943.
(306) «Chi è misero molto, mangia molta polenta, poco pane, pochissima carne. Crescendo in agiatezza, mangia pa-
ne, carne di II qualità e solo ogni tanto un poco di polenta; crescendo ancora l'agiatezza mangia carne di I qualità ed
altri alimenti di buona qualità, pochissima polenta, poco pane e quel poco di qualità superiore a quella che usava pri-
ma» (Manuale, IV, n. 19). Più oltre (n. 51) generalizza con l'uniformità: «man mano che l'entrata cresce la qualità su-
periore toglie il poto della qualità inferiore, quindi per questa la domanda prima cresce coI crescere dell'entrata e poi
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Hicks (307), dopo aver accennato al caso della margarina, asserisce che «la maggior parte delle più
povere qualità delle merci offerte in vendita sono, in questo senso, inferior goods». Demaria, nell'illustrare
l'effetto di reddito, contrappone alla seta naturale la seta artificiale (308). Lo stesso Knight contrappone, alla
carne, il pane come inferior good. Altre e numerose contrapposizioni esemplificative sono ovviamente pen-
sabili.
Siamo ricondotti al paradosso di Giffen, che Knight considera «spurio» e che invece è tornato all'o-
nore della critica e della considerazione, a giudicare dalla frequenza di precisazioni e di illustrazioni che fra
gli studiosi solleva. In queste pagine interessa non nel senso in cui G. J. Stigler lo ha individuato negli scrit-
ti di Marshall ed Edgeworth (309), ossia nel senso dell'aumento del consumo (ad es. di pane) al crescere del
prezzo di esso, considerato come il meno caro prodotto rispetto alla carne ed a farinacei più fini di cui di-
minuirebbe il consumo; ma nel senso opposto. Per questo faccio riferimento ad una più recente polemica fra
Stigler e A. R. Prest (310) la quale ha il merito di fornire ai lettori il testo del Giffen, che, fra l'altro, asseriva:
la gente consuma minor quantità di cereali, perché, con il crescere del reddito consuma più carne che, pro-
tanto, sostituisce i cereali, di cui diminuisce il prezzo. Ma il Prest, che ciò ricorda, cita anche indagini stati-
stiche che, a suo criterio discutibile, escludono l'ammissibilità di una curva di domanda inclinata positiva-
mente per una sezione della collettività. Nella replica Stigler documenta come Giffen si sia rifiutato di con-
fermare il paradosso (nel 1894) che meriterebbe di essere intestato, quindi, a Marshall. [Ma è ben altra la
ragione per la quale il Marshall, come rilevo più avanti, si può ritenere che sia, non solo nell'ordine logico
di Giffen, ma in quello di Pareto-Slutzky].
Lo spirito di detta uniformità empirica ritenuta non adeguatamente suffragata dalle statistiche, tut-
tavia, conserva una forte verosimiglianza, la quale è da tener presente in quest'ordine di ragionamenti.
Diversa è la terminologia di Slutzky, nella versione italiana - non felice - di beni indispensabili, che
sarebbero i beni «superiori» di Pareto (Manuel, pag. 573) e beni dispensabili, che si possono far corrispon-
dere a «inferiori» di tipo Paretiano. Sulla scia di Pareto, l'economista russo (311) enuncia la nota uniformità
empirica (dopo aver correlato un aumento di consumo di beni indispensabili con il crescere del reddito e
d'altra parte una relativa diminuzione di quello dei beni dispensabili), nel senso seguente: «Con il crescere
del reddito una famiglia povera consuma più carne, più zucchero e più tè; meno pane e meno patate».
Ciò aiuta a rendersi conto della contrapposizione fra beni o merci «superiori» e «inferiori». Ma del-
la correlazione con variazioni di reddito monetario, si dirà più oltre.
C) Intanto, per interpretare la portata dei casi concreti e di quello ipotetico o astratto che interessa,
costituito dalla esenzione accordata ai beni «inferiori» o dalla riduzione di aliquote nell'ipotesi di imposte
particolari nell'ambito dell'imposta generale sui consumi (di tutte le merci e dei servizi) occorre rifarsi a
Slutzky (che ha rielaborato l'idea di Pareto) per tener conto della relazione fra variazione del prezzo delle
merci e quantità consumata o domandata.
a) La domanda di un bene relativamente indispensabile è necessariamente sempre «normale»: di-
minuisce, cioè, se il prezzo di esso aumenta ed aumenta se il prezzo decresce.
b) La domanda di un bene relativamente «dispensabile» può essere in certi casi «anormale»: cioè
aumentare col crescere del prezzo e diminuire col suo decrescere.
Poiché tanto l'esenzione dall'imposta, nell'istante in cui viene concessa, quanto la discriminazione a
favore dei beni inferiori (quali alcuni generi alimentari che entrano nei bilanci delle classi più basse e nume-
rose di redditieri), possono considerarsi equivalenti a diminuzioni di prezzi nella politica della tassazione
dei consumi, si può esprimere come segue i valori delle derivate:
__________
scema sino a diventare insignificante ed anche zero». Per le espressioni analitiche, v. Appendice, paragrafo 52 del Ma-
nuel.
(307) Capital and value, ed. 1939, pag. 28.
(308) Principii generali di logica economica, pagg. 272-73.
(309) «The Journal of polit. economy», aprile 1947. In questo senso, per l'esperienza italiana (Curva di domanda di
consumi alimentari) si ha una conferma da parte di Francesco Brambilla, indagine promossa dall'Istituto Studi Eco-
nomici (I.S.E.), 1948. Da essa risulta: a) l'aumento del prezzo della farina… provoca un aumento del consumo, anzi-
ché una diminuzione; b) il consumo di farina al migliorare delle condizioni economiche diminuisce. Questa seconda
uniformità empirica potrebbe interpretarsi nel secondo significato del paradosso (vedi nel testo il pensiero di Stigler ed
altri).
(310) «The Journal of pol. economy», febbraio 1948, con nota di Prest e replica di Stigler.
(311) Nel «Giornale degli Economisti», luglio 1915 sotto il titolo: Sulla teoria del bilancio del consumatore.
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∂xi ∂x j
<0 >0
∂pi ∂p j
(i = beni «indispensabili») (j = beni «dispensabili»)

Per dare rilievo - come dice il Boulding - con il metodo «vivido geometrico che dà la forma delle
relazioni fra quantità» di cui, nel caso, Slutzky ha definito le suddette proprietà, mi avvalgo della rappresen-
tazione di Hicks (312) trasferendo in unico adattato o, qui, più complicato grafico le tendenze (curve) che
aveva separatamente rappresentato. Le curve di cui egli si serve per porre in evidenza l'«effetto di reddito»
e quello di «sostituzione» dovuti ad una variazione (nell'ipotesi: diminuzione di prezzo) non sono curve di
indifferenza (313) ma curve di valutazione marginale dei beni in termini di,moneta come le Marshalliane,
marginal valuation essendo il prezzo che separa quelli elevati ai quali il soggetto non acquista da quelli
bassi ai quali si decide a comperare. Hicks intende porre in evidenza «effetti di reddito» eliminando ogni ri-
ferimento ad utilità misurabile, ma supponendo che, per piccole variazioni di prezzo, le curve di valutazione
marginale godano delle stesse proprietà delle curve di indifferenza, anzi siano preferibili per, analisi parzia-
li.
Sia un edonista dotato di un dato reddito, siano dati i prezzi di N - I merci (di consumo). Per la en-
nesima si rappresentino sull'asse delle y i prezzi e su quello delle x le quantità. Sia AV la «curva di valuta-
zione marginale».
Caso a): si supponga una discesa del prezzo da OH ad Oh. Se non agisse l'«income effect», ma
quello di sostituzione soltanto, noto tradizionalmente in base alla legge di domanda univoca, il soggetto do-
vrebbe acquistare la quantità hQ > HP. Ma nello schema logico Pareto-Slutzky-Hicks, la discesa del prezzo
influenza la domanda in due modi: 1) migliorando la condizione dell'edonista, elevando il reddito reale,
«come se» il reddito monetario fosse aumentato; 2) suggerendo di sostituire la merce di cui il prezzo sia
diminuito ad altre merci di cui il prezzo sia rimasto costante. È il «substitution effect», che è preminente e
positivo nel caso in cui la merce di cui sia diminuito il prezzo non sia «inferiore». Nel caso ipotizzato agi-
sce nello stesso senso dell'«income effect», in funzione del quale la curva di valutazione marginale si è in-
nalzata, divenendo la Av.
La quantità acquistata sarà eguale ad hp > hQ, la quantità Qp essendo dovuta all'«income effect» e
la quantità Q'Q essendo in relazione con l'«effetto di sostituzione» per la discesa del prezzo da OH ad Oh.

__________
(312) The four consumer's surpluses, in «The Review of economic studies», n. I, 1943.
(313) E. H. Knight considera «really» curva di indifferenza quella tracciata sotto la condizione che il soggetto effetti-
vamente acquista ogni successiva piccola unità di merce (x) indicata sull'ascissa al massimo prezzo che egli è disposto
a pagare, dopo aver acquistato le precedenti unità in questi termini. In quest'ordine logico ragiona sostanzialmente
Hicks, le cui curve si possono, quindi, ritenere equivalenti a quella che adotta Knight.
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Il caso b), che ci interessa in questa prima impostazione del problema tributario (discriminazione o
personalizzazione dell'imposta sui consumi per renderla meno «antisociale»), è l'inverso.
Graficamente, per le merci inferiori, data la relazione di Slutzky che (caso b) è espressa dalla dise-
guaglianza, in termini di valore, positiva della derivata per i beni «dispensabili», fatti equivalenti a «inferio-
ri», si avrà, per la discesa del prezzo, lo spostamento nel senso della Av', cioè a sinistra della curva iniziale
AV (di valutazione marginale). Anche la curva di domanda passerà per i punti P e p', a prima vista contra-
stando con le teoria tradizionale della domanda, eminentemente basata sull'«effetto di sostituzione» (o sul
suo prevalere implicito).
Ma è il particolare «effetto di reddito» che va notato ed è ricco di significato per la teoria finanzia-
ria (e per la politica fiscale, nei limiti in cui sia generalizzabile un ragionamento deduttivo e sia confermato
da verifiche statistiche). Nell'esempio geometrico, l'edonista è indotto ad acquistare una minor quantità di
bene «inferiore», quando se ne abbassi il prezzo da OH ad Oh: la quantità acquistata scende da hQ ad hp'. Il
consumatore che disponga di un aumentato potere d'acquisto, si orienterà verso consumi «superiori» che
sostituiranno in parte quello della merce classificata «inferiore».
Naturalmente non è inverosimile l'ipotesi di una contrazione della domanda del bene «inferiore», ad
hQ' = HP, cioè alla quantità che si acquistava al prezzo iniziale OH o addirittura ad hp" se la curva di valu-
tazione marginale diviene ipoteticamente Av". È una individuazione più manifesta dell'«effetto di reddito»
per i beni «inferiori». Del resto è suffragata non solo dalle asserzioni di Giffen e di quanti ne hanno condi-
viso l'opinione, ma dalla visione, di solito fondata sui fatti, fornita dal Marshall, il quale si può ben dire che,
«in nuce», abbia in via indipendente enunciato la legge della «multidirezionalità» della domanda, sia pure
senza sussidio di espressione concettuale delle curve di indifferenza ma nei termini che qui cito.
Invero oltre a confermare l'effetto di sostituzione, anche l'altro significato possono avere («effetto di
reddito») le seguenti considerazioni esposte a titolo di manifeste uniformità. «I bisogni e desideri umani so-
no innumerevoli e svariatissimi, ma sono generalmente limitati e suscettibili d'essere soddisfatti. L'uomo
non civilizzato, è vero, non ne ha molti più che l'animale bruto, ma ogni passo nel suo progresso ascendente
accresce la varietà dei suoi bisogni e insieme la varietà dei suoi metodi di soddisfarli. Egli non desidera
semplicemente quantità maggiori delle cose che è abituato a consumare, ma qualità migliori (il corsivo è
del Marshall); egli desidera cose più scelte, e cose che soddisferanno nuovi bisogni che si svilupperanno in
lui», (il che è quanto dire, nuovi beni, ritèngo io) (Principii di Economia, par. 79, libro III, cap. II).

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Ebbene, come «progresso ascendente» occorre ammettere, nel campo del benessere materiale, quel-
lo dovuto ad una elevazione del reddito o del potere d'acquisto. Per questo non occorre procedere ad arbitra-
ria interpretazione del pensiero del Marshall, perché dopo che nel secondo capoverso del citato paragrafo ha
allargato il citato concetto, nel terzo esplicitamente dice: «Col crescere della ricchezza di una persona, il
suo cibo e le sue bevande diventano più svariati e costosi», ecc. Si può, dunque, non porre questo modo di
vedere che precede l'analisi della domanda, nell'ordine logico di Pareto-Slutzky ed altri anche se il Marshall
non si avvaleva delle curve di indifferenza? E si è autorizzati a ritenere enunciato l'«income effect» nella
sostanza della concezione logica e al di sopra delle secondarie questioni terminologiche? Questa interpreta-
zione del pensiero Marshalliano, che a me pare «generosa» per le equivalenze concettuali che stabilisco, po-
trebbe da altri ritenersi naturale o logica. E ciò anche se il Marshall si è limitato ad enunciare, senza ulterio-
ri deduzioni, questo modo di variare della domanda dei beni al variare del reddito, dato che egli ha succes-
sivamente ragionato normalmente nell'ipotesi della costanza del reddito.
D) Codesto «effetto» (di reddito) va considerato, per le influenze che la introduzione di esso eserci-
ta sulle proposizioni acquisite in tema di incidenza delle imposte indirette, assieme a quelli che, nello stesso
senso e in modo «aggiuntivo», determina l'introduzione di ipotetiche variazioni nel reddito monetario di al-
cune classi (ad es.: P e M) per i processi di redistribuzione a cui di seguito si accenna.
Ma conviene, frattanto, isolare l'influenza dell'«income effect»: 1) per ipotetica esenzione, decisa in
un dato istante, delle merci cosiddette «necessarie» da imposte sui consumi, particolari, o da imposta gene-
rale (ad esempio, l'impôt sur le chiffre d'affaires. francese, l'imposta sull'entrata italiana, ecc.); 2) nell'ipote-
si, su indicata di massima, di discriminazione «a favore» di detti consumi, con simultanea introduzione di
aliquota differenziante «contro» generi che qui possiamo considerare, relativamente, «superior goods».
È chiaro che: si procede per approssimazioni, supponendo, fra l'altro, che vi sia una certa omoge-
neità e continuità di gusti nelle tipiche categorie di redditieri (classi: povera, media e ricca rispettivamente
contrassegnate con le iniziali già uscite). Si suppone una certa omogeneità nelle quantità dì «inferior» e
«superior goods» o nelle classi di beni (servizi e merci) in cui sia consumabile il reddito.
Orbene, sono concepibili osservazioni, nel senso che risulta dai seguenti paragrafi, per la causa fi-
scale qui considerata (esenzioni, discriminazioni o personalizzazioni tendenziali di imposte generali sui
consumi). S'intende: causa posta in relazione logica con l'operare dell'«income effect» che è da ritenersi ov-
viamente diffuso, date le gerarchie di beni che, a seconda di mercati o paesi ideali a diverso reddito medio,
esistono, e consentono la individuazione di beni che siano relativamente «inferior goods»:
a) Contrazione tendenziale, in prima approssimazione, della domanda di beni «inferiori» o necessa-
ri o di consumo «popolare» (per usare espressione sociologica), contrariamente alla presunzione ed alla a-
spettativa del legislatore, che abbia inteso veder estendere i consumi - per usare i termini odierni adottati da
Neumark - aventi «importanza sociale» o «fisiologicamente» più importanti.
L'«effetto di reddito» (considerando questa categoria di beni alquanto omogenea ed «inferiore» ri-
spetto a quella dei beni voluttuari, o anche entro certi limiti considerando le qualità «inferiori» degli stessi
beni in contrapposizione con le qualità «superiori» o raffinate solitamente richieste dai maggiori redditieri)
determina contraddizioni e illusioni pei provvedimenti legislativi discriminanti a favore dei beni «inferiori»,
nelle forme tipiche ipotizzate.
Se si intendono perseguire gli scopi «sociali» (estensione di dati consumi) correlati con date classi
di redditieri, l'attuazione di detti scopi attraverso discriminazione (riduzione di alcune aliquote ferme rima-
nendo altre o elevando queste ultime su beni relativamente di lusso) o personalizzazione dell'imposizione
indiretta, deve indurre a meditare. Invero, in questa prima approssimazione, si intravedono «effetti di reddi-
to» che spostano la domanda delle classi da favorire, verso i beni tassati, grazie alla contrazione della do-
manda dei beni che, invece, il legislatore vorrebbe che si allargasse. A questo risultato adduce la creazione
artificiosa di divarii fra i prezzi delle categorie di beni «gerarchicamente» contrapposte. Invero l'«income
effect» risulta eccitato oltre la misura che potrebbe aversi, in assenza della manovra del vincolo tributario,
nel libero processo di formazione dei prezzi.
Intanto veniamo a modificare la visione del Fanno (314), il quale, come già si è visto, trattando dei
beni succedanei posti in relazione con un bene di lusso (principale) colpito d'imposta, riteneva che la esen-
zione fiscale concessa ai beni «di consumo generale», «non ne impedisce il rincaro». E continuava - ram-

__________
(314) Contributo alla teoria dei beni succedanei (negli «Annali di economia» dell'Università Bocconi, 1927, pagg.
398-99), di cui è stata fatta esposizione nel capitolo XI, paragrafo X-3.
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mento - «Donde una seconda conseguenza e cioè che è in parte illusoria la pretesa di evitare agli strati umili
della popolazione gli effetti di una forte pressione tributaria esentando i beni di consumo generale per con-
centrare tutto l'onere fiscale sui beni di lusso. Certamente il rialzo dei prezzi dei primi è per lo più minore di
quello dei secondi ed è tanto minore quanto più la massa dei beni di generale consumo esenti, è cospicua in
confronto di quella dei beni di lusso gravati. E così, attraverso il giuoco dei rapporti di correlazione interce-
denti fra i prezzi dei succedanei, i buoni propositi del legislatore restano in parte frustrati».
Ebbene, quanto precede ci autorizza a ritenere che i buoni propositi (di evitare agli strati umili della
popolazione gli effetti di una forte pressione tributaria) vengono frustrati nell'ambito della impostazione no-
stra, per ragioni diverse da quelle che tiene presenti il Fanno, ragionando in termini di univocità di modo di
variazione della domanda al diminuire del prezzo (per esenzione fiscale). Invero non è soltanto il trasferi-
mento della domanda (supposta non rigida) dei beni di lusso tassati a quelli di consumo generale (non tassa-
ti) che provoca l'aumento di prezzo dei secondi, determinando indiretta pressione fiscale (sui beni «inferio-
ri» esenti) dell'imposizione dei beni di lusso. Ma proprio, al momento in cui viene concessa, l'esenzione fi-
scale, essendo essa equivalente ad elevazione del reddito reale, in proporzione, spinge per l'illustrato «effet-
to di reddito», le classi più basse di redditieri-consumatori, verso la domanda di beni superiori (relativamen-
te di lusso) che il legislatore abbia tassati. Il contrasto fra fini ed effetti della ipotetica mens legis consiste
nel fatto che il legislatore, esentando i beni di consumo generale (che riteniamo «inferiori»), rimediando
cioè a quello che ritenga un errore del passato (tassazione regressiva), pensa che agisca l'effetto di sostitu-
zione, e che aumenti la domanda od il consumo di detti beni solitamente acquistati dalle classi umili. Per
contro, il trattamento di «favore» può risolversi, in parte, in volontaria sottoposizione delle classi favorite
alla imposizione indiretta discriminante, appunto, per le preferenze che il miglioramento di situazione o
l'aumento del potere d'acquisto (per esenzione tributaria) fa sorgere nei consumatori, per i beni «superiori»,
che il legislatore abbia deciso unicamente o soprattutto di tassare.
b) Inoltre, per questa via, vengono create artificiosamente le cosiddette «soprarendite» dei consu-
matori, presso le classi M e P, classi che verosimilmente si intenderebbe sottrarre a differenziale pressione
tributaria da coloro che, come ad es. di recente Griziotti (315), suggeriscono come razionali (e non soltanto
per senso della socialità) normae agendi tributarie, nel senso dell'assorbimento (a mezzo di imposte reali
sui consumi di beni di lusso o voluttuari o su quelli «meno necessari») appunto di «soprarendite» del genere
che si suppongono normalmente correlate con i bilanci della classe R e di parte della classe M di redditieri.
Il Neumark, a cui mi riferisco per l'aggiornamento del problema fiscale (sintesi di idee dominanti
nel 1948), contrappone a: (I) generi di prima necessità (quali zucchero, carne, sale); (II) beni di consumo
relativamente «superiori» economicamente e non in senso fisiologico [quali bevande alcooliche, tabacco,
vino (per i nordici), birra, spettacoli (cinema, ecc.), uso di benzina per locomozione, ecc.] a cui «ai nostri,
giorni le masse annettono grande importanza». E argomenta dicendo che l'elasticità di domanda di questi
beni e servizi (II) è inferiore a quella dei beni fisiologicamente più importanti (I) verosimilmente e in modo
implicito istituendo una correlazione fra variazioni di redditi monetari e orientamenti dei consumi.
Ma se, allo scopo di far estendere il consumo dei beni «socialmente più importanti» si aboliscono,
come egli suggerisce interpretando più vaste correnti di opinioni, le imposte sulla serie (I) di consumi di
prima necessità e di alcuni di quelli (II) che le «masse» mostrano di preferire (anche se non obiettivamente
o fisiologicamente «necessari»), l'«effetto di reddito» (reale aumento di potere d'acquisto) spinge, parzial-
mente, la domanda verso i beni relativamente «superiori» che si intenderebbe far assoggettare generalmente
a tassazione reale, estendendo il sistema ad valorem. La creazione di «soprarendite» di consumatori porte-
rebbe, almeno in parte, ad assorbimento di esse secondo la visione prossima a quella verosimile in concreto
individuata tipicamente in questi rilievi. C'è conferma, da questo punto di vista, della probabilità di con-
traddizioni a cui adduce l'aver trascurato la multidirezionalità della domanda, di cui si considera partico-
larmente un senso (income effect per i beni «inferiori») per illuminare il fenomeno tributario.
E) Se introduciamo i concetti di complementarietà e succedaneità dei beni, sempre rimanendo nel-
l'ipotesi di «imposta-grandine», abbiamo i due casi, che si illustrano nei seguenti punti I) e II).
I) a) Nel caso di complementarietà (che non suddistinguo in «alta» e «media» come fa Hicks, trat-
tandosi di gradi di variazione che non modificano il senso fondamentale), se si pone mente alla discrimina-
zione «a favore» delle merci «inferiori» relativamente, poiché l'«income effect» aumenta la domanda dei

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(315) Nel volume V (Finanza), Appendice alla Relazione della Commissione economica Ministero per la Costituente.
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beni complementari della serie superiore, ne risulta modificato il legame di dipendenza fra le due categorie,
con incidenza dell'imposta sui beni superiori, in parte a carico delle categorie M e P.
Il che indurrebbe a integrare le proposizioni, importanti nell'ambito delle ipotesi da cui discendono,
come quelle, ad es. di Borgatta o dell'Edgeworth, di cui si è discusso nel precedente cap. X, paragrafo X-A).
b) Infatti, ragionando dei beni perfettamente complementari, il Borgatta, come si è visto, ritiene
possibile che un'imposta su uno dei beni complementari riduca il consumo del bene tassato, ma contempo-
raneamente quello dell'altro bene, scendendo il soggetto ad una combinazione con più basso indice e con
perdita di utilità (per riduzione della rendita del consumatore) (316).
Introduciamo, ora, l'ipotesi che simultaneamente da un regime di eguale tassazione delle merci a-
venti un certo grado di complementarietà (che comunque non è da intendersi perfetta, assoluta), si passi a
riduzione di aliquote od esenzione per un bene B ed aumento per l'altro A. Se B è «inferiore» e A «superio-
re», non si dovrebbe verificare per lo meno in: modo sensibile e tendenziale una contrazione di domanda
del bene tassato in via differenziale (completamente superiore «contro cui si discrimini») nella misura pre-
vista della teoria tradizionale. E ciò perché la contrazione della domanda del bene B diverrebbe determinan-
te la maggior domanda del bene A, anziché essere effetto di riduzione della domanda del bene A dovuta alla
tassazione differenziale od esclusiva di esso (superiore), come si è asserito nelle visioni di autori che non
hanno tenuto conto, anche in sede di complementarietà, della gerarchia delle merci e del correlativo «effetto
di reddito». La nuova combinazione di consumi non sarebbe caratterizzata da perdita di utilità e comunque
non lo sarebbe nella misura prevista da altri autori per la contrazione di consumo del bene B non (più) tassa-
to o meno tassato.
c) L'Edgeworth, come si è detto a suo tempo, parte dal rapporto di complementarietà per arrivare al-
la conclusione: «l'imposta su una delle due merci complementari innalzerà il prezzo di quella colpita e ab-
basserà il prezzo di quella che non è colpita» (317). E più oltre prosegue: «Si può concepire che quest'ultimo
effetto superi tanto il primo (aumento del prezzo della merce colpita) che in definitiva ne risulti un guada-
gno per i consumatori» (verosimilmente in termini di elevazione della rendita degli stessi). Supponiamo che
la diversità di trattamento fiscale sia il risultato di ragionamenti e di decisioni del legislatore sul tipo della
discriminazione o personalizzazione di imposte, ipotizzate anteriormente esistenti in misura uniforme. In tal
caso «il guadagno per i consumatori,», se il bene (B) meno tassato o esentato è «inferiore», non consiste
nell'acquisto di esso a prezzo inferiore (e tendenzialmente in quantità maggiore), ma nella possibilità di
spostare la domanda verso il bene superiore A, anche se tassato in misura differenziale, pervenendo il sog-
getto tipico ad una nuova combinazione in cui entri una quantità maggiore del bene tassato di più o esclusi-
vamente.
II) a) Se si fa l'ipotesi di succedaneità o di sostituzione in generale, contrapponendo soprattutto nel
senso della qualità, oltre che della diversa natura, beni, accordandosi provvedimenti tributari «a favore» dei
beni «inferiori» (meno costosi e più comuni o meno pregiati) non agisce l'effetto di sostituzione in modo
preminente, quale sarebbe da attendersi dalla unidirezionalità, supposta esclusivamente operante, della do-
manda. Ma si avrà contrazione di questo consumo (beni «inferiori») per orientare la richiesta verso surroga-
ti «più fini» o verso il bene principale in maggior misura. I consumatori relativamente «più poveri» o delle
classi indicate con p e M (in parte) si orienterebbero verso i «surrogati più fini e costosi» o verso i corri-
spondenti beni principali, spontaneamente e senza sacrificio. Questo, a differenza di quanto era previsto
(logicamente nell'ambito delle sue ipotesi) dal Borgatta, nella sua sottile analisi (in conseguenza, appunto,
di tassazione del bene meno costoso), non sarebbe più tale quando - contrariamente alla normale supposi-
zione dei legislatori - una riduzione di imposta o una esenzione agisse a favore dei beni meno costosi. Inve-
ro, l'orientamento dei consumatori (normalmente di beni meno costosi o «inferior goods») li porterebbe al
consumo di «surrogati più fini» e «costosi», compatibilmente con un aumento di ofelimità o di utilità sub-
biettiva (in parte, in tutto o fisiologicamente obiettiva), pur soggiacendo a imposte discriminanti «contro» i
generi più fini colpiti, cioè, da imposte proporzionalmente superiori.
L'uniformità formulata dal Borgatta, quindi; che un'imposta (introdotta od aumentata) su un bene
«meno costoso», che qui faccio equivalente a «inferiore» (verosimilmente senza arbitrio), nel senso ormai
noto, ne farebbe ridurre il consumo, spostandosi esso più o meno verso quello più fine e costoso («superio-
re»), va riferita anche alla ipotesi opposta. Cioè di riduzione o abolizione, appunto, di imposta sui beni «in-

__________
(316) La rendita del consumatore e le sue applicazioni finanziarie, nel «Giornale degli Economisti», luglio 1921.
(317) Teoria pura dell'imposta, nella «Bibl. dell'Econ.», vol. XVI, pag. 292.
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feriori»: provvedimento fiscale a cui seguirebbe lo spostamento del consumo verso i beni superiori, fra cui i
surrogati più fini e costosi, compatibilmente con un aumento di soddisfazione per gli edonisti-consumatori
considerati.
b) In generale, al trasferimento della domanda da parte dei redditieri (R) consumatori del bene prin-
cipale o di lusso che si tassi, verso i beni «inferiori» o succedanei (flusso discendente), sta di fronte un tra-
sferimento in senso inverso, dovuto alla esenzione (flusso ascendente), nel momento in cui sia concessa, ed
al conseguente vantaggio per le classi M e P beneficiarie, le quali, considerandola come incremento di red-
dito reale, mirano ad acquistare beni «superiori» anche se tassati. Donde due differenziali conseguenze:
1) diminuzione del grado di elasticità della domanda dei beni tassati;
2) aumento nel prezzo dei beni non tassati - succedanei - (o esentati) inferiore a quello ipotizzato
dal Fanno. L'illustre studioso, ragionando in base al solo effetto di sostituzione, sommava alla domanda,
supposta costante dei beni qui detti «inferiori», da parte delle classi «umili» (che almeno in parte dovrebbe-
ro corrispondere a quelle M e P qui ipotizzate), o crescente (nel pensiero del legislatore) per effetto della
concessa esenzione, la domanda proveniente da migrazione dei consumatori della classe R dal mercato della
merce di lusso, tassata, verso quello della merce o delle merci inferiori esentate.
L'altezza degli addendi, in base a quanto si è detto, risulta, quindi, inferiore a quella prevista dal
Fanno, nei confronti delle domande dei beni esentati. E il provento fiscale potrebbe risultare relativamente
maggiore di quello che sarebbe da attendersi in base alle argomentazioni, tuttavia acute e coerenti del citato
autore, svolte nell'ambito di più limitate ipotesi sulla domanda del consumatore.
Ne risulta anche la possibilità di non tassare i beni di consumo generale simultaneamente alla tassa-
zione dei beni principali o di lusso, dato un prefissato provento fiscale che uno Stato abbia previsto. Perché,
appunto, anche se si ha spostamento della domanda verso i beni inferiori da parte della classe R (che di di-
ritto o formalmente per dichiarazioni programmatiche o pre-giuridiche il legislatore abbia inteso ritenere in-
cisa dalla tassazione), nei limiti in cui l'effetto della esenzione fiscale a favore di M e P superi la variazione
del prezzo (e della spesa individuale) di beni «inferiori» dovuta alla presunta maggior domanda dei beni di
consumo generale da parte di R, l'«income effect» differenziale rende possibile ad M e P acquisto di beni
«superiori» tassati. Donde l'assicurazione di un dato provento fiscale attinto ai soli beni principali, senza
necessaria tassazione dei beni «inferiori», quale - dal suo punto di vista - suggeriva il Fanno.
L'esenzione dei beni di consumo generale potrebbe essere il fattore determinante, appunto, «la
maggiore materia imponibile» di A (bene di lusso) che il Fanno avrebbe suggerito di creare con la tassazio-
ne simultanea dei succedanei o beni relativamente «inferiori». E la perturbazione del mercato, che in base a
questa supposta multidirezionalità della domanda sarebbe inevitabile (per «effetto di reddito»), darebbe
luogo a redistribuzione dei consumi: però senza effetto dannoso, ma compatibilmente con il miglioramento
dei bilanci di cui discorrono Giffen, Marshall e, in modo specifico e secondo la nota logica, Pareto, Slutzky
e gli altri autori citati.
Tutto ciò si dice in prima approssimazione, perché critiche e suggerimenti di normae agendi in que-
sta materia possono avanzarsi tenendo l'occhio sulla fenomenica concreta, quando simultaneamente si con-
sideri la politica della spesa e della redistribuzione dei redditi e dei tributi nel residuo sistema tributario, a
cui, naturalmente, deve attingersi per concedere esenzione, come ipotesi che si introduca di fronte a quella
della modificazione dell'esistente equilibrio economico, appunto a mezzo della esenzione a favore di con-
sumi di classe (M in parte e P).
F) Richiamo in questa sede quanto era stato avanzato individuando la possibilità di procedere ad
una seconda approssimazione, nel punto A) di questo paragrafo.
Avevo già sottolineato la necessità logica di questa approssimazione che, nel caso specifico della
considerazione dell'incidenza tendenziale delle imposte indirette sui consumi, era un'intuizione ad es. del
Borgatta, allorché avanzava le affermazioni seguenti che sono entro certi limiti correlate: a) «L'imposta mu-
ta la distribuzione del reddito fra i vari gruppi di consumi; quindi per valutarne esattamente gli effetti, oc-
correrebbe conoscere il nuovo sistema di equazioni in cui questo si traduce e il nuovo sistema delle curve di
domanda»; b) «i redditi procurati dall'imposta si spendono per vie che tornano ad influenzare l'equilibrio
economico».
Non si tratta, cioè, di rilevare il noto hiatus che esiste fra schema teorico e complessa realtà storica,
ma soprattutto è da sottolineare l'inadeguata formulazione delle ipotesi, quando i procedimenti deduttivi ar-
rivino a conclusioni aventi il fine indiretto o l'effetto di illuminare la condotta del legislatore, o comunque
lo scopo di recare luce sul contenuto razionale di positive leggi per la distribuzione dei tributi indiretti sui
consumi.
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Invero non si conosce il più probabile, ipotetico andamento della domanda sia pure considerata per
gruppi tipici di consumatori, detti di classi ricche (R), medie (M) o povere (P), se non si tiene conto per ne-
cessità logica da altri avvertita - ma non seguita negli sviluppi teorici - della destinazione del provento della
stessa imposizione dei consumi.
E non basta. Chè trattando di comparazione di imposte dirette e indirette, sui redditi e sui consumi,
per la loro relazione con i redditi globali (proporzionalità, regressività o progressività), o dal punto di vista
della distruzione di rendite del consumatore o dell'abbassamento delle combinazioni dei beni in schemi in
cui figuri l'equilibrio dell'edonista, rappresentato a mezzo di curve di indifferenza, ecc., occorre tener conto
anche delle grandi tendenze nella redistribuzione del provento di tutti o dei rappresentativi tipi di tributi. La
disamina complessa deve comprendere gli effetti della politica dei «benefici speciali» di De Viti De Marco
(318), delle «rendite di protezione» dello scrivente (319), della «transfer expenditure» di Pigou, i «distributio-
nal effects» di Hicks, «the expenditure of the tax proceeds» sistematicamente tenuta presente dal Black,
ecc. per ricordare alcuni casi di razionale introduzione di questo fattore. E di «tax proceeds» nel sistema tri-
butario si può parlare facendo riferimento all' intero sistema. Nel mio citato saggio (320) figuravano (vedi
paragrafo V di questo capitolo) prelievi di imposte sui redditi dei più abbienti e sulle successioni, da desti-
nare a favore dei meno abbienti, nell'orientamento di Pigou o di Hotelling, e le ipotesi di Pareto e di De Fi-
netti per il rimborso delle spese «costanti» ai produttori, per far beneficiare la collettività, composta premi-
nentemente di bassi redditieri, P e M, della possibilità di acquistare i beni ai prezzi eguali ai costi marginali
e, quindi, del massimo benessere.
Non si può trascurare l'effetto sulla domanda di talune merci sottoposta ad analisi, quando si deter-
minino modificazioni nei redditi monetari a favore delle classi M e P. Si accenna ad incrementi di pensioni,
stipendi, salari, assegni familiari, premi, o a sostanziali elevazioni di redditi reali, per sostituzione di spese
pubbliche a quelle individuali nel campo della assistenza medica; di prezzi politici di beni e servizi copren-
done il costo a carico dei più elevati strati della classe M e della classe R. In generale, Black prende in con-
siderazione non soltanto le variazioni quantitative dei consumi (domanda) determinate dalla discriminazio-
ne della spesa pubblica; ma le variazioni qualitative, nel senso del progresso di grado (o qualità) di consumi
alimentari, di abiti, case, ecc. che, ad es. si consenta di consumare, elevandosi il tenor di vita di classi P e in
parte M, in base alla erogazione del provento di tributi incidenti preminentemente sulla classe R e su parte
della M.
È ovvio che le variazioni monetarie ed equivalenti, qui esemplificate, di redditi, modificano le con-
clusioni della teoria finanziaria in tema di incidenza delle imposte sui consumi.
Per esse, nel punto A), in seconda approssimazione, si accennava all'introduzione del vincolo costi-
tuito dalla politica salariale. Si è arrivati, in base all'ipotesi di automatica elevazione dei salari in funzione
di variazioni del costo della vita (comprensive dell'onere dei tributi sulle merci), alla enunciazione ottimi-
stica, nel senso che la regressività delle singole imposte indirette sui consumi non avrebbe luogo. Esse sono
«pagate dai datori di lavoro» attraverso il gioco di «scale mobili» (in Italia indennità di contingenza) o for-
me simili di adeguamento delle remunerazioni del lavoro a variazioni del costo della vita, influenzato, an-
che, da incrementi di imposte sulle merci (ad valorem specialmente).
Devesi osservare: a) che non immediatamente hanno luogo detti adeguamenti; b) che non hanno
luogo in modo eguale, cioè per «lavoratori» di tutte le categorie come esempi concreti possono dimostrare,
determinando regressività delle imposte e, in generale, diminuzione di redditi reali per le classi M e P; c)
che non tutte le merci e i servizi gravati da tributi entrano o entrano con eguale peso nei calcoli empirici del
costo della vita; d) che l'incidenza a carico dei datori di lavoro non è indefinita, perché il reddito totale a cui
si possa attingere per elevare redditi di lavoro al variare del costo della vita (fra l'altro al variare delle impo-
ste sui consumi) non è illimitato o non varia per tutti gli imprenditori e i datori di lavoro in genere, in pro-
porzione all'elevarsi del costo della vita. Ond'è che, anche comprimendo le quote di compensi che in sede di
distribuzione vanno al capitale ed all'imprenditore, l'adeguamento del rapporto salari-costo della vita ha
luogo in modo uniforme, riducendo la quota di reddito, totale, destinabile a compensare, in modo discrimi-
nato a seconda del rendimento (produttività), i redditieri «lavoratori». Donde il livellamento o

__________
(318) Principii, cit., parag. 98.
(319) Si veda: E. D’ALBERGO, Discriminazione delle spese pubbliche indivisibili ed elisione dalle «rendite di prote-
zione», cit.
(320) E. D’ALBERGO, Sviluppi di un teorema ecc., cit.
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l'«appiattimento») che si lamenta in taluni paesi (321). Nei limiti in cui non abbiano luogo le «rivalutazioni»
salariali (ristabilimento di rapporto fra remunerazioni e rendimenti) l'imposizione indiretta agisce - quale
fattore di elevazione del costo della vita - in senso regressivo per numerose categorie che percepiscano red-
diti di lavoro, di cui è relativamente sempre più composto il reddito sociale.
Oltre ad essere regressive nell'ipotesi di «imposta-grandine» per i redditieri-salariati, le singole im-
poste sui consumi, per la parte che incida sui datori di lavoro in modo automatico, divengono equivalenti ad
un'imposizione diretta, bensì: ma non sui profitti o sui redditi di industrie, commerci, agricoltura, ecc. ecc.
Bensì su una quota del costo di produzione (salario), la quale non è statisticamente in relazione diretta con il
variare del reddito netto dei datori di lavoro. Diseguaglianza di tassazione delle imprese, quindi, a parità di
reddito netto rispettivo.
Tutto ciò ci dice che non è ammissibile logicamente l'ottimismo di coloro che ritengono prive di ef-
fetti criticabili le imposte sui consumi in quanto ripercosse sui datori di lavoro. Ma del fatto occorre tener
conto, in questo saggio, specialmente se l'«appiattimento» dei salari ha luogo a vantaggio della classe P e di
parte della classe M, di cui occorre considerare le modificazioni della domanda di merci soggette a tassa-
zione, quando varii contemporaneamente il reddito monetario.
G) L'influenza della variazione del reddito monetario (o in termini reali equivalenti), in questa se-
conda approssimazione, non viene esaminata in rapporto alla ipotesi di una diminuzione del prezzo di una
merce o di un gruppo tipico di merci. In precedenza si è accennato agli effetti aggiuntivi di una variazione
del reddito nominale o monetario, quando la riduzione di detto prezzo abbia luogo anche per riduzione di
onere tributario. Accenno alle esenzioni od alla tassazione discriminata a favore delle merci o dei beni che
storicamente ed in astratto costituiscano classi o gruppi gerarchicamente «inferiori» nel bilancio dei consu-
matori tipici. Invero è facile associare nella considerazione simultanea i casi di aumento di redditi rispetti-
vamente monetario e reale: quest'ultimo per diminuzione del prezzo di merci e, nel caso nostro, per esen-
zione fiscale o per discriminazione di aliquote di imposte sui consumi. Ne risultano modificate, soprattutto
in termini di «grado», le conclusioni dianzi enunciate.
Ma ora interessano gli sviluppi della teoria della domanda, nell'ipotesi di aumento di prezzi di beni
o merci, posto in relazione con aumento del reddito monetario (od equivalente in termini reali) per redistri-
buzioni di flussi di ricchezza dei tipi ipotizzati.
In questa seconda approssimazione si può ragionare 1) anche dell'ipotesi di aliquote che colpiscano
i beni uniformemente o in misura proporzionale (e senza le discriminazioni in precedenza contemplate); 2)
e anche di imposte particolari o speciali sui consumi non coordinate in sistema razionale, e quindi solita-
mente regressive per molti redditieri, se considerate separatamente dalla variazione ipotetica, in aumento,
del reddito monetario od equivalente e, in genere, in ipotesi di «imposta-grandine».
Isoliamo, quindi, per comodità di illustrazione teorica, il caso della relazione fra variazione del red-
dito e modificazione della domanda, secondo la visione Pareto-Slutiky. Adottando l'espressione simbolica
di quest'ultimo autore, si ha:
∂xi ∂x j
>0 ; >0
∂s ∂s

Cioè: a) per i beni indispensabili (simbolo i) o «superiori» ad un aumento di reddito (s) corrisponde
una elevazione del consumo; b) per i beni «dispensabili» (simbolo j) «inferiori» con l'aumentare del reddito
diminuisce il consumo. In entrambi i casi consumo è fatto eguale a domanda, concetto più astratto e meno
legato al fenomeno concreto. Hicks denomina più esattamente curva di consumo del reddito (income-
consumption curve) quella di domanda collegata con variazioni di reddito.
Volendo tradurre in espressione geometrica il senso della variazione indicata dai simboli analitici
ovvero dalle diseguaglianze qui esposte, avvalendoci delle curve di indifferenza (per tener conto della va-
riabile reddito che influenza la domanda e abbandonando l'ipotesi Marshalliana della costanza dell'utilità
della moneta) abbiamo il grafico n. 67.

__________
(321) Se tutti i redditieri vengono compensati con quote commisurate al variare del costo della vita e con assenza di
discriminazione adeguata alla produttività, si perviene alla attuazione od alla enunciazione di una moderna «legge
bronzea» di gravitazione verso il «minimo reddito vitale».
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La curva del consumo Syy' che si avvicina all'asse delle Y (su cui si misura il reddito monetario) al
crescere del reddito, mette in evidenza la diminuzione delle merci «inferiori» (che debbono leggersi come
quantità rappresentante in ascissa), con preminenza quindi di effetto di reddito.
[L'andamento della SS'S" riguarda la domanda dei beni «superiori» (a loro volta, in questa ipotesi,
rappresentati sull'asse delle ascisse): al crescere del reddito da OR verso OR" la loro domanda aumenta, con
prevalenza di «effetto di sostituzione» nei confronti di essi].
Anche supponendo che il prezzo sia elevato da un'imposta sui consumi, che abbia per oggetto pre-
valentemente beni «inferiori» in senso relativo (o «dispensabili» secondo Slutzky), un simultaneo aumento
di reddito monetario può avere l'effetto (anche in questa ipotesi con prevalenza di income-effect) di ridurre
il consumo della merce tassata appartenente alla categoria dei beni «inferiori» facendo riversare la domanda
residua verso altri beni («superiori»).
Naturalmente si parte dal caso, che qui è limite, in cui vi sia un aumento del reddito (ds) in misura
esattamente eguale ad xj dpj, che Slutzky denomina «disavanzo apparente» nel bilancio del consumatore,
dovuto, appunto, all'aumento dp, del prezzo della merce xj. In altri termini, l'incremento di reddito (ds) può
corrispondere a quello che detto autore ha definito «variazione del prezzo».

Pur avendo possibilità di serbare immutato il suo bilancio, l'individuo non continuerà a ritenerlo
preferibile ad ogni altro. Ma nel caso di «variazione compensata» (di cui Dominedò e Hicks, specialmente,
hanno analizzato l'influenza sulla domanda), facendo l'esempio dell'aumento del prezzo del pane, se i salari
crescono soltanto in misura eguale al «disavanzo apparente» la domanda dei salariati non potrà mantenersi
al primitivo livello: anzi si abbasserà. Quest'uniformità di Slutzky è giustificata dalla precedente espressio-
ne di questo autore: data la variazione compensata del prezzo «avranno luogo alcune variazioni residue del-
la domanda».
I) Si può intuire quale possa essere la direzione della domanda quando detto incremento dpj sia do-
vuto a variazione del fattore tributario (imposta sulle merci), e la variazione ds sia dovuta a destinazione del
provento della stessa imposta a favore preminente delle classi M e P. II) Ma il fenomeno concreto autorizza,
secondo quanto precede, l'ipotesi in cui almeno per alcuni (in tutto o in parte M e in tutto P) la modificazio-
ne del reddito non sia soltanto «compensating»; ma si chiuda con avanzo nel bilancio dei predetti gruppi,
con incidenza (disavanzo) a carico di parte del gruppo M e del gruppo R. Cosicché per i primi si abbia un
«benefit» netto, tendenzialmente espresso da ds > xi pi.
È questa seconda ipotesi specialmente che autorizza a rivedere le prevalenti conclusioni della teo-
ria finanziaria in tema di incidenza di imposte indirette sui consumi.
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Intanto rileviamo che la domanda dei consumatori della classe tipica P e di M, per i beni in-
feriori in modo relativo, secondo la gerarchia Paretiana (nei limiti in cui non si affermi l'imperati-
vo fisiologico), tenderà ad accentuare il suo allontanamento dai beni stessi. Se si potesse avanzare
l'ipotesi di omogeneità delle predette classi (e della R) si dovrebbe estendere la conclusione alle
curve collettive di domanda. Inoltre, per semplificare si trascurano le ripercussioni delle variazio-
ni della domanda sui costi e, quindi, sui prezzi: e ciò in quanto la variazione dei prezzi definitiva,
per causa tributaria, si suppone più che compensata da variazione di reddito attraverso i procedi-
menti ipotizzati di politica finanziaria, correlata anche con i vincoli contrattuali che modificano i
redditi delle classi di consumatori qui presi in esame.
Volendo sintetizzare in unica rappresentazione grafica quest'ordine d'argomentazioni, specie nell'i-
potesi di una variazione del prezzo del bene superiore dpxi - avvertendo che in essa sull'asse delle ascisse
sono indicate le quantità di «beni inferiori» (xj) e sull'asse delle ordinate le quantità di «beni superiori» (xj)
si può fare riferimento al seguente diagramma (vedi fig. 68).
In esso si legge:
A) qq' = curva di consumo del reddito, in funzione del reddito stesso, posto il rapporto di scambio
Oa Ob
fra beni dispensabili ed indispensabili = ; aa' e bb' sono linee di redditi reali, in quanto rappresen-
Oa ' Ob '
tano le scelte possibili a due ipotetiche ma definite classi di redditieri;
B) pp' p" p"' = curva di consumo del reddito, modificata dall'aumento del prezzo dei beni indispen-
sabili, nell'ipotesi che i gusti del consumatore non siano mutati (substitution effect). Il rapporto di scambio,
Oa Ob
conseguente a variazione differenziale di prezzi per causa tributaria, diventa "
= ; quindi i punti di
Oa Ob"
tangenza per cui passa la pp'p"p"' sono determinati dalla aa" (e corrispondenti parallele) sulla stessa fami-
glia di curve di indifferenza (contrassegnate con α);

C) rr'r"i" = curva di consumo del reddito nel caso che una compensating variation (o più che com-
pensating) di reddito produca prevalente income-effect. In tal caso, detto effetto è rappresentato da uno spo-
stamento delle curve di indifferenza nel senso di indicare una maggiore appetibilità di beni di I qualità. La
nuova famiglia di curve di indifferenza è la β.
D) Le frecce indicano il modo di variare delle scelte di un redditiere. Dalla primitiva posizione q' in
seguito all'aumento del prezzo dei beni di I qualità, egli passerebbe alla combinazione p'. Nel verificarsi di
una compensating variation, la combinazione ottima (astraendo dall'income-effect) tende a p". Tenendo in-
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vece conto di dato effetto di reddito, la scelta del redditiere edonista può essere indicata verso la combina-
zione r".
Il senso delle variazioni delle combinazioni appare evidente:
I) Aumenta il prezzo dei beni indispensabili: ne diminuisce il consumo, mentre aumenta il consumo
di beni dispensabili (II qualità). Si passa, ad es., da q' a p'. Non si tiene conto dell'income effect, per ipotesi.
II) Compensating o più che compensating variation (senza income effect, pure per ipotesi): la dimi-
nuzione dei beni il cui prezzo è aumentato è contenuta in limiti minori; aumenta il consumo dei beni di-
spensabili (qualità inferiore). Il consumatore passa da q' a combinazioni che si trovano sulla curva p'p", a
seconda dell'ammontare della compensazione.
III) Tenendo conto del preminente income effect, si vede il consumo dei beni dispensabili (II quali-
tà) diminuire, mentre aumenta (sensibilmente, per convenzione grafica, atta a far porre in evidenza il senso
delle variazioni che ci occupano) quello dei beni indispensabili. Le combinazioni, a seconda dell'ammonta-
re della compensazione, che potrebbe corrispondere a dr ≥ xidPi, sono disposte nel tratto r'r".
Compiuta in forma geometrica la rappresentazione dei vari ragionamenti basati sulle premesse ipo-
tetiche che precedono, in linea di massima si avranno le seguenti ripercussioni, in sede di ripartizione for-
male o giuridica e in quella di fatto delle imposte indirette sui consumi:
a) concentrazione tendenziale del provento fiscale sulle categorie relativamente «superiori» di beni
o merci e servizi: in generale, modificazione dell'apporto delle «voci» tassate con regresso di quello delle
«inferiori», come entrata per l'ente che prelevi tributi separati o coordinati o generali (su tutti i servizi e be-
ni);
b) incidenza sostanziale (e tendenziale) a debito della classe R e di parte della M, a cui carico, per i
processi di redistribuzione ipotizzati, abbia luogo l'attivo nel bilancio (monetario) dei consumatori P ed M,
o la «compensating variation» del prezzo (ipotesi-limite);
c) sostanziale trasformazione di imposte regressive (che siano tali prescindendo dall'«effetto di red-
dito»), almeno in via tendenziale, in imposte proporzionali ai redditi delle classi M e P, man mano che i lo-
ro bilanci si elevino [ nello spirito delle osservazioni empiriche di Giffen o delle indicazioni di Marshall,
Pareto e del Pantaleoni (nel teorema sulla identità di pressione)], orientandosi, rispettivamente, verso i ca-
ratteri dei bilanci delle classi M (strati superiori) ed R;
d) trasformazione dell'imposta generale o proporzionale su tutti i servizi e tutte le merci, in imposta
tendenzialmente progressiva con sostanziale incidenza sulle classi M (strati superiori) e R, anche senza pro-
cedere a discriminazione o personalizzazione di detto tributo (322);
e) logicamente, accentuazione di detta progressività nel caso in cui la discriminazione coesista con
l'«effetto di reddito) a favore delle classi M e P, nelle ipotesi qui avanzate.
Queste osservazioni servono ad illuminare studiosi e politici anche sui limiti della pressione tributa-
ria e spiegano anche come essa sia tollerabile quando il numeratore della nota frazione che la esprime in
simboli, sia costituito (t) prevalentemente nella composizione ponderata, da imposte indirette sui consumi,
la cui incidenza, di fatto, sia avvenuta - per procedimenti di redistribuzione di potere d'acquisto - nel senso
che qui si indica.
H) Nell'avvalersi di questo tipo di rappresentazione, valida per il caso di due merci (X ed Y), si as-
sume che analoga argomentazione (Hicks) abbia valore logico quando il reddito sia distribuito fra parecchie
merci. Qui le abbiamo contrapposte tipicamente come «inferiori» e «superiori» o di più alta qualità. Oppure
si potrebbe contrapporre nelle curve di indifferenza, come intende Hicks, una merce fisica (che può essere
tipica per i ragionamenti) a tutte le altre insieme considerate.
Se si prendono in considerazione i rapporti di complementarietà e succedaneità, tenendo conto si-
multaneamente di una variazione del reddito monetario (nel senso dell'aumento a favore delle classi M e P)
e di una variazione di prezzi, per causa tributaria, è conveniente far riferimento [pur rimandando alle criti-
che del Demaria, ma per stare nell'ordine logico delle (ricordate anche graficamente) uniformità in tema di
direzioni della domanda] alla definizione di Slutzky, che individua rispettivamente beni complementari, in-
dipendenti e succedanei a seconda che

__________
(322) Possiamo collocare in M i salariati ed i redditieri, in genere, sostanzialmente sacrificati, come si è spiegato, dal-
le «scale mobili».
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∂xi ∂x ∂x ∂x <
+ x j i = j + xi j 0
∂p j ∂r ∂pi ∂r >
avendo ipotizzato, in generale, r = reddito, x = f(p, r) ed r =φ(p) e nel caso particolare, ammesse le
ipotesi:

I) ∂r = xi∂pi ∂r
xi =
∂pi
donde:
II) ∂r = xj∂pj ∂r
xj =
∂p j

Ammesse variazioni di reddito atte a compensare l'aumento del prezzo dei rispettivi beni, con le di-
seguaglianze s'esprime la variabilità residua del bene xi quando sia compensata la variazione del prezzo del
bene xj e viceversa, per un procedimento di derivazione. Si insiste su questa formulazione, ammesso che le
statistiche aiutino a conoscere le correlazioni fra variazioni del reddito di edonisti tipici o rappresentativi di
classi come quelle (R, P ed M), empiricamente individuate, e variazioni di domanda.
Dalle diseguaglianze si può desumere il senso della variazione della domanda delle contrapposte (i
ed j) merci tipiche, in dipendenza del variare dei prezzi e del reddito di individui esponenti (nel nostro as-
sunto) di classi supposte alquanto omogenee di consumatori-redditieri.
Orbene, in linea di massima, il senso delle considerazioni svolte per il caso ipotetico della discrimi-
nazione della tassazione a favore delle merci (e dei servizi) relativamente «inferiori», vale per il caso, che
possiamo dire equivalente, della tassazione particolare o uniforme anche di dette merci, quando simultane-
amente si formuli l'ipotesi di una «compensating variation» del reddito e, soprattutto, di un vantaggio diffe-
renziale monetario (od equivalente) a favore delle classi M e P (dr > xjdpj).
I) In aggiunta, questa seconda proposizione ipotetica può enunciarsi per il rapporto di complemen-
tarietà e cioè: per le classi di redditieri consumatori M e P, all'aumento del prezzo dei beni comparativa-
mente «inferiori» dovuto alla introduzione di imposta ad valorem sulle merci medesime, non seguirà una
contrazione del prezzo di «tutte le altre merci» che siano con quelle (inferiori) in rapporto di complementa-
rietà «sensibile» (Hicks). E ciò per la ragione che alla contrazione probabile della domanda di queste ultime
(parimenti tassate) da parte della classe R (e degli strati superiori della M), si sostituirà in tutto o in parte (e
comunque in misura eccedente la contrazione attesa in base alla univocità della legge della domanda che
qui si supera) la domanda delle classi M e P potenziata dall'aumento differenziale del reddito.
Inoltre si può generalizzare questa conclusione: l'introduzione di imposta non generale od uniforme
o di aliquote discriminanti «contro» beni «superiori» che si trovino in rapporto di complementarietà con
beni «inferiori», non avrà come conseguenza una contrazione della domanda di detti beni complementari
(degli «inferiori») ed una discesa (o comunque una discesa sensibile) nel prezzo degli stessi. Ciò nell'ipotesi
di variazione del reddito di P ed M nella misura: dr > xidpi, tendenzialmente.
L) Per il caso di succedaneità, con argomentazione parallela alla precedente, si può dire che un au-
mento (per imposta) del prezzo del bene principale non determina in proporzione un'elevazione del prezzo
dei succedanei, perché detta tendenziale variazione sarà neutralizzata in tutto o in parte dalla contrazione
della domanda di succedanei da parte dei consumatori delle classi M e P con potere d'acquisto potenziato
fiscalmente per «distributional effects» o «transfer expenditure» con saldo (o net benefit) a favore delle me-
desime.
E si possono trascurare, anche da questo punto di vista, o per lo meno si possono introdurre in mi-
sura inferiore a quella prevista tendenzialmente dagli autori (che non hanno complicato nei presenti termini
il problema) imposte differenziali sui succedanei, senza intaccare la progressività della tassazione o il pro-
vento per l'ente tassatore.
Alla luce di queste considerazioni non può reggersi l'uniformità (Borgatta, saggio cit.) valida in ipo-
tesi d'«imposta-grandine», secondo la quale un'imposta differenziale su un bene o su un gruppo di beni a-
vente più succedanei agisce come dazio protettivo o come un premio alla produzione per gli altri. In senso

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contrastante col contenuto di detta uniformità, invero, agisce per le cause qui ipotizzate (prossime mag-
giormente almeno in parte al caso concreto) lo spostamento nella domanda verso qualità relativamente «su-
periori», in funzione cioè, delle variazioni di reddito dirette e indirette, reali e monetarie che si sono pro-
spettate.
M) In generale, prescindendo dagli specifici; rapporti, intesi in senso ampio, di complementarietà, si
può allargare il quadro delle nozioni finora pacifiche. Invero, le variazioni della domanda dei beni soggetti
ad imposte specifiche o ad valorem su tutti i beni, non sono funzione soltanto della differenziazione dei
prezzi per l'imposizione indiretta, ma anche del modo di ripartizione delle imposte sui patrimoni o sui tra-
sferimenti di ricchezza o delle imposte sui redditi specialmente progressive, nonché dei «benefici speciali»
Devitiani (o politica della spesa) e del protezionismo amministrativo in genere.
Inoltre, a neutralizzare non volute (per fini fiscali, sociali o di altro genere) variazioni della doman-
da di beni (supponiamo fisiologicamente necessari), non si rivelano sufficienti e necessarie, in via teorica (e
in concreto verosimilmente), correlate variazioni di oneri o tributi sulle merci, quando si prescinda dalle
«compensating variations» e da quelle eccedenti la compensazione e creatrici di «net benefits» per le classi
M e P, che il legislatore intenda «favorire» in sola sede di tassazione indiretta.
L'attenuazione sostanziale della pressione tributaria esercitata dalle imposte indirette sui consumi,
per le ragioni qui addotte, fa sì che esse non gravino sulle classi M e P in relazione alla ripartizione giuridi-
ca di siffatti tributi, anche tassando beni di consumo generale. Così che la esistenza di essi nei sistemi tribu-
tari può coerentemente spiegarsi come compatibile con l'elevazione «sociale» delle classi M e P, se le im-
poste indirette sono, d'altra parte, richieste da considerazioni di carattere psicologico, amministrativo come
mezzo per la mobilitazione di potere d'acquisto, quando esso sia simultaneamente redistribuito, cioè, attra-
verso altri aspetti della politica fiscale.
L'illusione della azione dell'«effetto di sostituzione», per accrescere o non far contrarre la domanda
di beni essenziali fisiologicamente, era stata fugata dalle preferenze che i consumatori, (quando si sia attua-
to un regime fiscale favorevole a detti beni) verosimilmente rivelano per beni «superiori» tassati, in cui ri-
versino l'incremento di reddito reale creato da siffatta politica tributaria. L'illusione che si è contribuito a di-
radare è anche l'altra: che, cioè, le enormi imposte sui consumi effettivamente incidano sulle classi di reddi-
tieri che consumino i beni tassati, cioè secondo la ripartizione giuridica a cui corrispondono presunte rela-
zioni dirette con bilanci dei consumatori. Per contro la realtà, qui rischiarata ipoteticamente alla luce dell'ef-
fetto di reddito, fa individuare tendenzialmente incidenze a carico: a) di coloro che soggiacciono all'imposta
reale, non generale sui consumi (R e parte di M) e che non vedano la spesa o erogazione di detto provento
specifico discriminare in loro favore; b) di coloro che, contribuenti per altro titolo (imposte sui redditi, sui
patrimoni), appartengono alle classi R e agli strati superiori di M, attraverso la politica fiscale e la manovra
della spesa e di altri vincoli protezionistici ed atti di politica sociale affiancati da forze contrattuali a favore
delle classi M (parte) e P della collettività, che lo Stato lasci liberamente operare a danno esclusivo delle
classi R e strati superiori di M.

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CAPITOLO XII.

EFFETTI DEGLI «SGRAVI» FISCALI

I.

L'IRREVERSIBILITÀ DELLE MODIFICAZIONI PRODOTTE DAL “FACTUM PRINCIPIS”


SULLE CONDIZIONI DI EQUILIBRIO ECONOMICO GENERALE ?

Si fa riferimento, in scritti generali di teoria finanziaria, alla mia trattazione di questo tema (nel
1936), che era stato trascurato nella letteratura finanziaria.
Se si prescinde dall'impiego del prelievo dei tributi ovvero dal fenomeno della spesa pubblica, qua-
le evento favorevole, si può considerare l'imposta all'atto del prelievo come uno degli elementi sfavorevoli,
che costituiscono il «rischio» nel significato che la parola riveste nella scienza economica (323).
Fra tutti i fatti che riguardano il prelievo delle imposte: introduzioni, prelievi, perequazioni, ecc., il
fatto tributario come evento favorevole non è logicamente considerato dalla teoria (sempre prescindendo
dalla spesa) (324).
Alla base della quasi generale mancata considerazione, in precedenza, dell'ipotesi teorica dello
sgravio d'imposta, sta forse la confusa idea del «ritorno alle condizioni storiche preesistenti di equilibrio».
Da altri autori, di sfuggita, si pensa che la rinuncia statale al prelievo di imposta, riproduca una precedente
condizione virtuale d'equilibrio economico: quella, cioè, od una assai simile a quella, che si sarebbe deter-
minata senza il prelievo e la spesa di una quota di reddito sociale da parte dello Stato, o senza il «factum
principis», come taluno sinteticamente si è espresso.
A me sembra che meriti una particolare trattazione l'effetto della abolizione o della riduzione di im-
poste esistenti, per chiarire alcune modificazioni dell'equilibrio economico che impediscono il realizzarsi, in
un momento successivo al «factum principis», delle condizioni che storicamente o virtualmente si sarebbe-
ro determinate senza di esso: e ciò anche se il nuovo provvedimento (diminuzione dell'onere) avvenga at-
traverso modificazione legislativa, che costituisca l'inverso - in termini di qualità e quantità - di quella che
determinò il prelievo tributario(325).
Fra le considerazioni che possono avere fatto ritenere, per lo più, ovvia la successione di taluni ef-
fetti degli sgravi tributari, saranno state forse le seguenti:
I) potersi ritenere i minori prelievi di imposta in seguito a riforme di tributi generali, proporzionali,
equivalenti a) ad aumento di reddito delle categorie di contribuenti «preesistenti», su cui i tributi «successi-
vamente» aboliti o ridotti si prelevavano in un tempo anteriore; b) ad aumento di risparmio delle stesse ca-
tegorie di contribuenti; c) a riduzione proporzionale delle «spese generali»; d) ad aumento della produttività
media dei capitali;.
2) essere, negli effetti, un’abolizione o riduzione di imposte particolari (non generali), equivalente
al caso degli effetti del permanere sul mercato dell'imposta parziale (su alcuni redditi, scambi, consumi,
ecc.). Tali effetti sarebbero, invero, stati esaminati dalla teoria nello studio degli effetti dell'introduzione di
un'imposta parziale o speciale in senso ampio.
Le argomentazioni che seguono porranno in evidenza alcune ragioni per le quali il caso teorico del-
lo sgravio tributario (generale o parziale) non può riportarsi, per analogia, a quelli di altri effetti delle impo-
ste, già esaminati dalla teoria finanziaria, per il variare, precisamente, delle circostanze determinanti.
Ciò posto, prospetterò l'ipotesi dello sgravio fiscale, rispettivamente attraverso abolizione o ridu-
zione di imposte generali e proporzionali, oppure di imposte particolari o speciali.

__________
(323) M FASIANI, Imposta e rischio, estratto dal volume: «Studi in onore del prof. S. Ortu-Carboni», Roma, Tipogr.
del Senato, 1935.
(324) Riproduco qui le considerazioni da me svolte nel saggio citato dal titolo: Politica tributaria Hitleriana e teoria
degli sgravi fiscali.
(325) Si vegga in questo senso: Da Empoli A. (1941), Lineamenti teorici dell’economia corporativa finanziaria, p. 80
ss.
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II.

EFFETTI DELLO "SGRAVIO" DI IMPOSTE GENERALI


E PROPORZIONALI SUL REDDITO.

Consideriamo il caso della abolizione o riduzione di imposte generali e proporzionali sul reddito.
Supponiamo che in un tempo T vi fosse un flusso di reddito annuo di 100 (monetario) a disposizio-
ne della collettività, e che nel tempo T' successivo una quota (cinque) del flusso annuale di reddito moneta-
rio (326) della collettività sia passata a disposizione dello Stato per soddisfare i bisogni pubblici. Nel tempo
T'' si decida di lasciare la stessa quota di reddito «a disposizione» della collettività, complessivamente con-
siderata, mediante riduzione di imposta sul reddito generale, proporzionale. Si determineranno, in conse-
guenza, nuove condizioni dell'equilibrio economico che saranno necessariamente diverse da quelle che si
verificavano, non soltanto nel tempo T', ma anche nel tempo T, pur ammesse: eguale la quota di reddito
(5%) che torna alla collettività; ed eguali le circostanze distinte da quelle che di seguito considererò. Il
«vecchio equilibrio» del tempo T fu rotto da eventi sfavorevoli (prelievo) e favorevoli (spesa), avvenuti nel
tempo T'; sicché nel tempo T'' non può riprodursi lo stato d'equilibrio di T o quello virtuale che si sarebbe,
cioè, determinato in T' se il «factum principis» (prelievo e spesa del 5% di reddito) non fosse avvenuto, e
«tutto» il reddito (327) fosse rimasto a disposizione della collettività328 .
Fra le principali cause di modificazione dell'equilibrio economico rispetto ai due tempi anteriori, in
seguito all'abolizione o riduzione dì imposta generale e proporzionale, possiamo annoverare le seguenti cir-
costanze:
1) Nella sostituzione della domanda dei privati a quella dello Stato, ammesso che tutto il 5% del
reddito non più prelevato venga impiegato o consumato, si avranno curve individuali di domanda offerta
non soltanto diverse dalla curva complessiva statale preesistente (T'), ma anche da quelle individuali virtuali
che nel tempo T' si sarebbero avute senza il «factum principis». E ciò perché, anche considerando identici
gli individui (prima del prelievo e dopo l'abolizione dell'imposta), identici i gusti degli individui (contri-
buenti), agisce il fenomeno di interdipendenza dei bisogni. E la soddisfazione di bisogni pubblici del tempo
T' è appunto premessa per il sorgere di altri bisogni privati (nuovi rispetto al tempo T). Questi possono pre-
sentare una «maggiore» intensità, per causa della soddisfazione di bisogni pubblici o possono essere «inde-
boliti» dalla stessa causa, a seconda che l'offerta pubblica, intervenuta nel tempo T', abbia posto a disposi-
zione dei contribuenti beni durevoli (strumentali) rispettivamente, complementari o «rivali» rispetto ai beni
a cui si rivolgerà la domanda privata nell'impiegare o consumare il reddito divenuto disponibile per effetto
dell'abolizione o riduzione dell'imposta generale e proporzionale.
2) I casi si complicano se, aderendo al fenomeno concreto, consideriamo diversi gli individui com-
ponenti la collettività e i loro gusti, nei diversi momenti considerati, accentuando la divergenza fra le diver-
se direzioni delle curve di domanda e dell'offerta privata dopo l'abolizione dell'imposta. In dipendenza dei
casi 1) e 2) può variare la distribuzione del reddito, fra consumo e risparmio, sia da parte degli stessi indi-
vidui sia da parte di individui diversi rispetto al tempo T e, per premessa, rispetto al tempo T' nel quale tutto
il reddito prelevato dava luogo a domanda pubblica o ad offerta conseguente e prevalente di beni strumenta-
li.
3) Se della quota di reddito corrispondente allo sgravio fiscale, viene consumata, dopo tale evento,
una frazione maggiore, mediante acquisto di beni diretti, che nel tempo T (prima del prelievo) o nel tempo
T', può aversi l'effetto di limitare maggiormente l'offerta esistente, supposta eccedente (329) di beni strumen-
tali. La sostituzione della nuova domanda privata a quella pubblica può accelerare quindi la utilizzazione
__________
(326) Supposto costante.
(327) S’intende tutto il reddito rimanente dopo il prelievo di altre quote preesistenti di tributi; infatti il prelievo del
5% è qui considerato come incremento di imposizione nel tempo T' rispetto al tempo T.

(329) Indice della situazione può essere la disoccupazione, la diminuita produzione industriale, ecc.
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delle dimensioni «ottime» delle imprese produttrici di beni diretti e solo indirettamente, in una fase succes-
siva, stimolare l'impiego di «nuovi» beni strumentali privati necessari per la produzione dei primi o dei co-
efficienti di produzione dei primi (diretti).
4) Sostituendo la domanda di beni di consumo (diretti) alla domanda pubblica avvenuta nel tempo
T' di beni strumentali (strade, ponti, foreste, parchi, bonifiche, palazzi pubblici, ecc.) si sostituisce un ciclo
più breve di ricostituzione dei beni diretti o beni strumentali privati, a quello supposto più lungo dell'impie-
go statale in beni strumentali pubblici. Agli effetti dell'aumento di capitali immediatamente disponibili (in
seguito ad abolizione di imposte) si aggiungono quelli del ritmo più celere di ricostituzione dei capitali
nuovamente impiegati: la somma di effetti è, quindi; durevole sul saggio d'interesse.
5) Se, in seguito all'abolizione delle imposte il capitale disponibile conseguente viene tutto o quasi
risparmiato o non immediatamente reimpiegato o (peggio ancora) viene tesaurizzato dai privati, nel tempo
T'' può aversi una divergenza fra offerta e domanda di beni strumentali e di consumo, maggiore che nel
tempo T (prima del prelievo) essendosi aggiunta, nel tempo T' l'offerta nuova di beni supposti prevalente-
mente strumentali (da parte dello Stato).
6) L'abolizione di imposte generali e proporzionali sul reddito, aumenta la disponibilità di rispar-
mio e accresce il capitale disponibile sia di produttori (industriali) sia di lavoratori (consumatori): la loro
condotta economica di fronte all'offerta pubblica di beni strumentali avvenuta nel tempo T, è diversa da
quella che, rispettivamente, avrebbero seguita senza il prelievo antecedente. Taluni produttori potranno au-
mentare l'offerta di beni strumentali privati nuovi, in funzione della maggiore utilità di questi, dipendente
dalla utilizzazione probabile dei beni strumentali pubblici offerti nel tempo T' dallo Stato. Altri produttori
potranno astenersi dal produrre quei beni che risultino «rivali» di quelli offerti dallo Stato nel tempo T'. Nel
caso dei lavoratori-consumatori, può determinarsi una condizione di «indifferenza» nei limiti in cui la quota
di imposta abolita o ridotta aumenta la loro disponibilità di reddito o risparmio nella stessa misura in cui
l'avrebbe incrementata o la faceva aumentare di fatto una domanda addizionale di lavoro da parte dello Sta-
to (tempo T'), attraverso un aumento nel saggio medio dei salari. Peraltro, sulla distribuzione dei maggiori
redditi fra consumo e risparmio, nei tempi contrapposti, influirà il livello dei prezzi, dei salari e dei redditi
reali conseguenti, che sarà di massima, diverso nei tre casi.
7) La produttività media degli impieghi privati di capitali aumenta o diminuisce, se l'abolizione di
imposte modifica le curve private e pubbliche (domanda-offerta) in modo da sollecitare o allontanare la
combinazione ottima fra strumentalità della spesa pubblica e produzione di beni economici privati.
8) Gli effetti della sostituzione delle curve di domanda-offerta private a quelle statali saranno diver-
si a seconda che il ciclo economico verta nella fase ascendente, discendente o stazionaria. In genere, nella
fase discendente, effetti nel senso dell'aumento di produzione (di beni strumentali o indirettamente di con-
sumo immediato), si hanno quando la domanda statale è «aggiuntiva» e utilizza capitali e beni non impiega-
ti o non consumati da privati (330) Gli effetti possono considerarsi analoghi, come tendenza, ma non eguali,
allorché l'abolizione delle imposte ha luogo al limite, quando cioè si sia esaurita la domanda addizionale
statale e a questa si sostituisce quella privata nella previsione della fase ascendente del ciclo. (E ciò anche
per le ragioni addotte al N. 4).
9) Gli effetti conseguenti all'abolizione o riduzione di imposta generale proporzionale, fanno sì che
l'evento favorevole, per sè stesso considerato (restituzione o mancato prelievo), si diffonda, per premessa,
uniformemente, nelle proporzioni corrispondenti alle scale dl reddito esistenti nel tempo T; ma i benefici e
gli svantaggi di secondo grado, che derivano dalle ripercussioni sopra indicate, vengono variamente risentiti
dai singoli appartenenti alle predette scale di redditi, dopo l'abolizione dell'imposta.
In media, quindi, le modificazioni delle cause di domanda offerta, privata e pubblica, nei tempi T' e
T" e gli effetti conseguenti, impediscono che in linea di principio si possa considerare la condizione dell'e-
quilibrio economico determinata da riduzione od abolizione di imposte (generali e proporzionali) eguale a
quelle dei tempi T e T', caratterizzate rispettivamente: a) dall'esistenza di una somma di risparmio o reddito
a disposizione della collettività dei privati come tale, maggiore che nel tempo T'; b) da virtuali cause di do-
manda-offerta privata, in T' erroneamente presumibili eguali (stessa direzione) a quelle del tempo T".

__________
(330) Si veda il paragrafo 6 del citato articolo su La funzione della banca, ecc.
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III.

EFFETTI DELLO "SGRAVIO" DI IMPOSTE NON GENERALI.


.
Facciamo il caso di una riduzione o della abolizione di una imposta particolare (non generale). Es-
so può considerarsi analogo al caso della esenzione di redditi o impieghi, nell'ipotesi dell'introduzione di u-
n'imposta parziale. La teoria classica avrebbe visto in tale caso un movimento di capitali dagli impieghi tut-
tora colpiti da altre imposte, verso quello che beneficia della abolizione del tributo corrispondente. Per con-
tro, rilevo:
1) Poiché riducendosi la domanda complessiva dello Stato, viene meno anche la domanda di una
parte dei beni offerti dai produttori ora esenti da imposta, il vantaggio dell'abolizione dell'imposta parziale è
subordinato (neutralizzato in tutto o in parte nel suo ammontare) alle ripercussioni che la cessata domanda
statale esercita sulle condizioni nelle quali ha luogo la nuova offerta (tempo T") dei beni prodotti dalle im-
prese che beneficiano dell'abolizione o riduzione del tributo.
2) Ma se le imprese esistenti «possono» considerare lo sgravio come riduzione delle spese generali,
la diminuzione dei prezzi potrà eccitare nuove domande (rispetto al tempo T') dei privati, e quindi accentua-
re il vantaggio dello sgravio, superandolo nell'ammontare monetario della mancata (abolita) imposta, specie
se le imprese producono in regime di costi decrescenti. Il regime opposto (costi crescenti) o quello di costi
costanti, le condizioni di libera concorrenza o di monopolio, ed altre circostanze, possono modificare il pro-
cesso qui indicato.
3) Se l'abolizione di imposta parziale, non rende possibile l'impiego ulteriore della somma così di-
sponibile negli stessi impieghi da cui prima si prelevava, il beneficio può diffondersi variamente nel merca-
to (se risparmiano per l'ammontare dell'imposta abolita) attraverso incremento nell'offerta di risparmio, per
impieghi più brevi di quelli che compiva lo Stato, e, quindi, attraverso una riduzione del tasso di interesse.
Lo stesso può accadere attraverso un aumento nella domanda di altri beni, prodotti anche da imprese che
non beneficino del provvedimento giuridico di favore, cioè dell'abolizione o della riduzione dell'imposta
parziale. E poiché possiamo ritenere modificata l'altezza relativa dei redditi individuali (e quindi la specie
dei beni domandati) dopo l'abolizione dell'imposta parziale, la sostituzione della domanda privata a quella
pubblica avrà per effetto una maggiore produzione di beni diretti al posto di beni strumentali; di beni diretti
di qualità pregiate (a domanda relativamente rigida).
4) Se l'importo di capitale corrispondente alla imposta ridotta o abolita viene tesaurizzato da coloro
che beneficiano dello sgravio, si avranno le ripercussioni generali imputabili ad una contrazione nell'offerta
di risparmio o nella domanda di beni diretti e strumentali. E come la tesaurizzazione è caratteristica dei pe-
riodi in cui le previsioni di utili sono sfavorevoli per i produttori, e poiché i governi procedono, spesso, a ri-
duzioni di imposte (magari ricorrendo a prestiti) durante la fase discendente del ciclo, caratterizzata anche
da perturbazioni monetarie, dei prezzi, ecc., non bisogna considerare come eccezionale l'ipotesi che, contra-
riamente alle aspettative del governo, si tesaurizzi l'importo della imposta ridotta o abolita. In questa ipote-
si, alla domanda-offerta dello Stato e dei privati non si sostituirebbe nessuna domanda sul mercato. In tal
caso la mancata riduzione dell'onere tributario sarebbe auspicabile ed equivalente ad una domanda addizio-
nale dello Stato che utilizzi capitali disponibili i quali, altrimenti, (cioè con abolizione d'imposta) sarebbero
tesaurizzati ovvero sottratti al mercato. È una condizione, questa, che ai fini produttivistici su indicati, può
far ritenere preferibile il prelievo e la spesa di un tributo, allo sgravio fiscale totale o parziale .
Le circostanze relative all'abolizione dell'imposta parziale si possono considerare complicabili, isti-
tuendo il confronto con quelle esistenti prima dell'introduzione dell'imposta parziale abolita o ridotta e ri-
chiamando taluni dei casi esaminati nel precedente par. II, in cui ho considerato l'ipotesi dell'abolizione di
un'imposta generale ed uniforme sul reddito. Non considero, infine, l'ipotesi di abolizione dell'imposta pro-
gressiva, che si può risolvere nel caso della imposta parziale.

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CAPITOLO XIII.

RAGIONAMENTI DEDUTTIVI E MISURAZIONE


DEGLI EFFETTI ECONOMICI DELLE IMPOSTE.

I.

INATTENDIBILITÀ LOGICA DELLA DETERMINAZIONE STATISTICA


DELL’ELASTICITA’ DELLA DOMANDA E OFFERTA,
IN SEGUITO A VARIAZIONI FISCALI

Le argomentazioni che sono state svolte in tema di effetti economici delle imposte, sono state con-
dotte su base logica e con metodo deduttivo.
Ma non sono mancati coloro che hanno ritenuto auspicabile che gli studi futuri sulla traslazione del-
le imposte vengano indirizzati alla determinazione statistica dell'elasticità dell'offerta e della domanda delle
merci (colpite d'imposta), ed alla determinazione statistica dell'effetto, sui prezzi, di concrete specifiche im-
poste prelevate in passato su merci concrete, in mercati reali. Così ha ragionato, ad es., il prof. E. D. Fagan
dell'università americana di Stanford, il quale, nel patrocinare l'utile ausilio della statistica economica ai fini
degli studi concernenti la traslazione delle imposte, si è riferito al Pigou. Questo autore affermava che se si
vuol pervenire a risultati quantitativi, e precisamente accertare di quanto il prezzo di una merce sia aumen-
tato dopo l'imposizione, si debbono conoscere i valori numerici dell'elasticità della domanda e dell'offerta
delle merci prodotte in dati intervalli di tempo.
In un mio saggio(331) ho accennato al giudizio espresso da W. F. Ferger (del dipartimento dell'agri-
coltura degli Stati Uniti), il quale si è fatto portavoce di più diffuse opinioni in proposito. Nonostante questo
studioso si faccia forte del giudizio consacrato nella «Enciclopedia delle scienze sociali» dal prof. Haig (il
quale sottolinea l'assenza di informazioni attendibili, basate su osservazioni oggettive e indipendenti, in ma-
teria di misurazione concreta degli effetti delle imposte) non credo tuttavia che trovi in tale constatazione
un logico supposto la seguente illazione: che gli economisti «da poltrona» hanno preferito il metodo dedut-
tivo, anziché «penare per i dati e affrontare la laboriosa analisi di essi.
Se l'economica, nel campo della traslazione, vuole riuscire utile ed avere anche il diritto di essere
una scienza, deve affrontare il compito della misurazione degli effetti» (332).
Questo autore riflette anche il senso di insoddisfazione che la Corte suprema degli Stati Uniti aveva
espresso (di fronte alla difficoltà di risolvere un caso concreto, al quale accennerò più oltre) per «l'incapaci-
tà» degli economisti di determinare quantitativamente entro quali limiti la traslazione di una certa imposta
avesse avuto luogo.
Ritengo che bastino queste citazioni a far comprendere come vada diffondendosi l'esaltazione dei
pregi della statistica, sia pure illuminata dalla più moderna teoria economica, anche negli studi di econome-
tria. Ciò avviene a danno della acquisita scienza deduttiva a cui hanno dato corpo le acute indagini che, fra
l'altro, hanno avuto per oggetto lo studio degli effetti dell'imposizione nei paesi che maggiormente hanno
contribuito allo sviluppo della teoria finanziaria.
Ma, come era da attendersi, non è mancata la reazione dei cultori della finanza pubblica, che si sono
basati sul metodo deduttivo.
Non sembrano molto feconde, d’altra parte, posizioni come quelle assunte, ad esempio, dal Dalton,
allorché afferma troppo assolutamente che quasi tutte le argomentazioni di carattere statistico sull'incidenza

__________
(331) E. D'ALBERGO - Sulla misurazione degli effetti economici delle imposte, «Giornale degli Economisti e Annali di
Economia» nov.-dic. 1941, genn.-febb. 1942. Stralcio da detto saggio alcuni rilievi, rimandando alla fonte per una
compiuta disamina del problema.
(332) The measurement of tax shifting: economics and law in «Quarterly Journal of economics», maggio 1940.
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delle imposte sono prive di valore (worthless). Egli, a sostegno di ciò, allega la facile intuizione che «u-
n'imposta è soltanto uno dei molteplici fattori che determinano il prezzo di una merce tassata». Nè è più
convincente questo autore quando oppone una ragione più sottile ma ovvia; scrivendo che «gli effetti della
variazione di un'imposta sul prezzo della merce tassata possono essere e per lo più sono piccoli (small) ri-
spetto all'effetto di variazioni di altri fattori»(333).
Con tali obiezioni il Dalton ha sostanzialmente ripetuto quanto aveva premesso, fra i più recenti au-
tori di trattati di lingua inglese, anche F. Shirras, sostenendo che l'imposta costituisce uno dei «minori» fat-
tori che influenzano il prezzo delle merci.
L'affermazione non è del tutto aprioristica. Ma basata sulla, peraltro parziale, constatazione relativa
all'esperienza indiana (334). Questo autore avanzava ovvie avvertenze intorno alla cautela che si impone nel
trarre illazioni teoriche sull'incidenza delle imposte, avvalendosi di statistiche dei prezzi, confrontandoli in
due tempi diversi (prima e dopo l'introduzione dell'imposta) nello stesso o in diversi mercati o paesi.
Non mi soffermo su questo ordine logico di obiezioni generiche rivolte anche dal Mering (335) a co-
loro che propugnano l'utilizzazione dello strumento statistico ai fini dello studio, su base induttiva, del pro-
blema notevole della teoria finanziaria. Invero codesti autori sottolineano, a questo proposito, la difficoltà
che in generale si incontra nel campo dell'economia, in cui il compito dello studioso consiste essenzialmen-
te, secondo le parole del Marshall, ben note, nel «distrigare gli effetti intrecciati di cause complesse».
Mi sembra, però, che debbano orientarsi in altro senso indagini specifiche e approfondite, miranti a
trovare le ragioni che possono limitare la funzione delle indagini induttive, allorché esse vogliano verificare
od integrare le conclusioni note a cui siano pervenuti quanti hanno recato contributi rilevantissimi allo stu-
dio degli effetti economici dell'imposizione. Allorché si siano fatte applicazioni sia pure notevoli, col sussi-
dio della statistica, e si sia studiato il fenomeno concreto, occorre che le leggi empiriche e necessariamente
di portata limitata nel tempo e nello spazio, siano poste in relazione con i principii generali, patrimonio del-
la teoria pura.
Talvolta, questo procedimento accresce lo scetticismo nei confronti delle applicazioni aventi la pre-
tesa di verificare proposizioni deduttive. L'esemplificazione numerica addotta dal Coates. per sostenere la
propria tesi sulla trasferibilità dell'imposta generale sul reddito o sulla influenza di questo tributo sul livello
generale dei prezzi, ha notoriamente sollevato varie critiche, su cui tornerò più oltre.
Ma mi sembra evidentemente eccessiva la illazione che, dal caso specifico, trae ad esempio un di-
stinto studioso come Duncan Black M. A. (336). Egli generalizza i pericoli da cui sono circondati gli econo-
misti, quando trattano una parte complicata della teoria che comporta un certo numero di variabili, e debbo-
no fare affidamento sulla dimostrazione basata su serie statistiche.
Ma a prescindere da posizioni mentali soggettive e da propensioni individuali, credo che oggetti-
vamente si possano mettere al vaglio le uniformità tratte da procedimenti statistici applicati allo studio degli
effetti delle imposte, coordinando le leggi empiriche con quelle razionali. Lo studio delle ragioni delle di-
vergenze fra i due ordini di leggi mi sembra atto a recar luce sulla bontà del metodo seguito dai cultori di
statistica economica e di econometrica: a) nel tentativo di verifica logico-sperimentale di teorie acquisite at-
traverso il procedimento deduttivo; b) nel tentativo di scoprire per via autonoma nuove relazioni fra le
quantità variate del fenomeno tributario. Indirettamente i principii acquisiti alle più famose indagini sulla
traslazione e l'incidenza dei tributi, attraverso ragionamenti ipotetici o «a priori», da un canto fanno da pie-
tre miliari del pensiero teorico in questo campo, dall'altro, quasi per un processo di simbiosi logica (o come
ha scritto il Vinci di «compenetrazione» dei due generi di studio) possono ricevere nuova luce dalle appros-
simazioni alla realtà che sono caratteristiche degli studi che appartengono alla dinamica economica come
modo di concepire l'econometrica e la statistica economica.

__________
(333) Public Finance, ed. 1936.
(334) Riferendosi, nell'ediz. del 1925 del suo trattato, al raddoppiamento dell'imposta sul sale che ebbe luogo nel
marzo 1923, l'autore ha riscontrato che il prezzo del sale nell'agosto dello stesso anno era salito di più dell'ammontare
dell'imposta in varie località, mentre in altre si trovava ad un livello inferiore a quello che si era accertato in altri centri
nell'agosto dell'anno precedente. Tale contrasto alimentava il suo scetticismo sulla utilità del sussidio della statistica
per la riprova sperimentale della teoria su base deduttiva.
(335) Alle pagg. 9-15 dell'indagine del 1928 su Die Steueruberwälzung.
(336) The incidence of income taxes, Macmillan, Londra, 1939, pag. 29.
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II.

LIMITI DEL SIGNIFICATO DI INDAGINI EMPIRICO-STATISTICHE


PER LA MISURAZIONE DEGLI EFFETTI DELLE IMPOSTE.

I metodi statistici per la misurazione degli effetti delle imposte si possono classificare come empiri-
co-statistici, nel senso che (senza determinare alla luce della teoria dei prezzi, la legge statistica della do-
manda e dell'offerta) hanno proceduto, attraverso un confronto diretto di prezzi reali, a misurare le: varia-
zioni dei prezzi determinate preventivamente dal fattore fiscale.
Nelle indagini di Laspeyres. (Germania), Jannaccone (Italia) e Coates (Inghilterra), si è osservata la
variazione dei prezzi di merci, servizi o dei redditi, confrontando il prezzo di merci, servizi o i redditi colpiti
dall'imposta, in un dato tempo, con il prezzo della stessa merce o servizio (o il reddito), senza l'imposta, per
lo più in un tempo diverso e in luogo diverso.
I procedimenti elementari (specialmente nel caso dell'imposta sui redditi) si sono rivelati di scarsa
attendibilità. Ed hanno richiesto l'ausilio della teoria pura deduttiva per la loro interpretazione che spesso è
stata non univoca, come nel caso delle illazioni che si sono tratte riguardo all'imposta (income-tax) di cui si
era voluta verificare l'influenza sui prezzi, attraverso la disamina delle variazioni dei redditi per effetto del-
l'imposta. (Per maggiori ragguagli rimando al citato saggio).
Tengo ora presenti procedimenti più raffinati di statistica economica, quali la correlazione multipla
o l’andamento differenziale dei prezzi (price margin o price spread).
Poiché i critici della teoria deduttiva della traslazione hanno tenuto presente soprattutto il sistema
dell'andamento differenziale dei prezzi, preciso che esso, considerato più realistico e fecondo di risultati
pratici, consiste in questo. Date due serie di prezzi (storiche), occorre esaminarne il comportamento, par-
tendo della premessa che esse presentino un alto grado di interdipendenza.
Può darsi che una delle due serie risponda esattamente agli stessi fattori che influenzino la seconda,
più un gruppo di fattori (causati) speciali. Anche se la reazione ai fattori comuni non è identica nelle due se-
rie, tuttavia le differenze fra i prezzi possono prestarsi molto ai fini degli studi tendenti a determinare la leg-
ge che regola le variazioni di essi. Ciò che sembra essenziale è che il comportamento differenziale sia de-
terminato da fattori che, nelle serie singolarmente considerate, sono oscurati da più potenti fattori causali.
Naturalmente, come più diffusamente ho dimostrato nel saggio citato, l'arbitrio sta nella selezione dei fattori
causali non comuni alle due serie considerato (337). Inoltre, ben poco si sa intorno a quello che sarebbe stato
l'andamento della serie dei prezzi senza l'imposta, nel periodo di applicazione di essa.
Di tale metodo si è fatta applicazione negli Stati Uniti, per la misurazione degli effetti dell'imposta
specifica sulle merci, nel quadro della politica finanziaria dell'epoca.
Nel 1933 era stata introdotta dal governo degli Stati Uniti una imposta (processing tax) a carico de-
gli intermediari che si occupavano della trasformazione dei prodotti agricoli; di essa era prevista la trasla-
zione a carico dei consumatori. Il provento dell'imposta doveva essere distribuito fra gli agricoltori a condi-
zione che essi riducessero la produzione per cooperare alla politica dei prezzi. L'imposta fu dichiarata inco-
stituzionale nel 1936 e doveva essere rimborsata ai contribuenti che l'avevano pagata (de jure). Ma questi
potevano averla trasferita sui consumatori, sui produttori o su altri intermediari. E in tale ipotesi (parziale o
totale traslazione) si sarebbe avuto un indebito arricchimento corrispondente, nel caso in cui, ciononostante,
si fosse proceduto al rimborso dell'imposta pagata in attuazione del rapporto giuridico fra «processors» e
Stato.
Ad ovviare a tale inconveniente si disponeva per legge il rimborso della «processing tax», a condi-
zione che si desse la prova dell'incidenza dell'imposta sui contribuenti «de jure». Il procedimento che a-
vrebbe dovuto dare la prova della traslazione o del mancato processo traslativo, era quello dell'andamento
differenziale dei prezzi.
In uno dei casi da me considerati or scopo critico, cioè quello della tassazione del grano, il margine
era costituito dalla differenza.
__________
(337) Arbitrio, come ho rilevato nella ricordata indagine, non dissimile da quello che è insito nella separazione degli
elementi determinanti nella correlazione multipla.
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fra il prezzo all'ingrosso dei prodotti della macinazione e il prezzo unitario del grano maggiorato
dell'imposta (fig. 69).
Dopo aver descritto tale andamento differenziale, ne avevo vagliato la funzione ed il significato lo-
gico ai fini della soluzione del problema della misurazione degli effetti dell'imposta.
Per sintesi ricordo le seguenti fra le critiche già avanzate nel citato articolo, nei confronti dei risulta-
ti dell'indagine statistica:
a) La variazione del margine, poteva avere qualche valore indicativo o di tendenza per l'intero mer-
cato, e non per i singoli soggetti, a cui la legge dava il diritto di provare tutte le variazioni dei costi e di altre
circostanze aziendali, particolari, simultaneamente agenti.
b) A togliere significato alla variazione differenziale dei prezzi, come semplice lettura del grafico
risultante dalla rilevazione statistica contribuisce l'ipotesi (tutt'altro che raramente riscontrabile in concreto)
secondo la quale è pensabile una variazione dei costi durante il processo traslativo o durante il periodo che
si prenda in esame per la misurazione di esso. I costi possono diminuire se i produttori della merce tassata,
in seguito alla diminuzione della domanda di beni similari (a causa della diminuzione del reddito dei con-
sumatori determinata dal prelievo dell'imposta) riescono ad acquistare ad un minor prezzo i fattori che con-
corrono alla produzione della merce tassata. Nella terminologia del Barone, si può trattare dei servizi pro-
duttori, che «costino meno» durante e per effetto del processo traslativo. (Rimando alla traslazione regres-
siva).

Orbene, tale variazione di costi non è avvertibile direttamente in sede di rilevazione statistica se non
interviene la deduzione per via ipotetica a prospettare l'eventualità del processo predetto.
c) Nessuna variazione del «margine» può aver luogo a causa dell'imposta che colpisca una data
merce se il contribuente (ad esempio dettagliante) che veda colpita d'imposta (accisa) una delle sue merci,
fa variare il prezzo di merci non colpite d'imposta. Questo caso di traslazione obliqua non apparirebbe dalla
variazione del margine differenziale dei prezzi relativi alla merce colpita d'imposta di cui si voglia misurare
la traslazione. Nella situazione concreta americana, un rimborso dell'imposta corrisposta da un contribuente
«de jure», basato su una mancata variazione del «margine», avrebbe dato luogo ad indebito arricchimento a
causa dell'avvenuta traslazione obliqua non manifestata statisticamente dalla variazione del «margine».
Parimenti, se la prova individuale della variazione del «margine» si basa sul controllo del «margi-
ne» anteriore all'imposta (ad es., differenza fra il prezzo all'ingrosso, unitario, del prodotto della macina-
zione e il prezzo unitario del grano) se non si tien conto della eventuale traslazione regressiva, attraverso
riduzione successiva del prezzo del grano, può non interpretarsi adeguatamente la variazione del «margine»
successiva all'imposta. Vi è da tener conto, cioè, della compensazione nella fattispecie fra diminuzione del
prezzo del grano (traslazione all'indietro) e variazione del prezzo dei prodotti della macinazione in seguito
all'applicazione dell'imposta specifica su questi prodotti.
d) Nè si può trascurare l'influenza della elasticità della domanda, dalla quale dipende anche la ri-
partizione economica dell'imposta.
Attraverso l'esempio avanzato nel saggio citato, si rileva che i gradi di elasticità della domanda (e
dell'offerta) possono agire in modo che rimanga invariato il «margine» fra prezzi all'ingrosso e prezzi al
minuto di dati prodotti, prima e dopo l'imposta. E che ciò nonostante essa non sia stata trasferita bensì, sui
consumatori, ma sui commercianti al minuto che non sono i soggetti passivi «de jure», ma intermediari in-
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cisi. Orbene, la reazione della domanda dei consumatori formalmente (statisticamente) fa presumere che
non abbia avuto luogo traslazione fra contribuenti percossi (commercianti all'ingrosso) e consumatori; men-
tre la categoria dei commercianti al dettaglio può avere sopportato, in parte, l'imposta. Analisi analoga deve
farsi per l'elasticità dell'offerta.
Se si lascia l'ipotesi di concorrenza (non perfetta ma caratterizzata dalle forze che determinano la
domanda e l'offerta in un mercato reale) e si considera il caso di monopolio, è probabile che l'introduzione
dell'imposta dia luogo ad una piccola variazione di prezzo del prodotto come apparirà dalla variazione del
margine differenziale.
Ma la sola variazione del margine o della differenza fra i prezzi non è atta a misurare la ripercus-
sione dell'imposta sull'utile netto del contribuente percosso, incidenza che interessa conoscere in casi come
quello considerato per gli Stati Uniti. Non emerge dal metodo statistico il comportamento dei costi e la ri-
percussione di tale variazione sull'utile netto.
È ben noto che, al variare del prezzo, (nel caso, del «margine») per l'illustrazione che l'Edgeworth
ha fatto del ragionamento del Cournot, al variare del prezzo (della merce colpita d'imposta) non variano
nella stessa misura la perdita ed il guadagno del monopolista.
Secondo la generalizzazione ipotetica dell'Edgeworth, relativa ad un tipo di imposta equivalente a
quello qui considerato, la perdita di profitto netto (derivante dall'aumento del prezzo oltre quello relativo al
punto di massimo utile) è proporzionale al quadrato dell'incremento del prezzo.
A prescindere dal caso studiato dal Cournot, il quale supponeva che l'imposta fosse «piccola», sco-
standoci dalla rigida relazione matematica fra variazione del prezzo e ripercussione sul profitto, che ne ha
derivato l'Edgeworth, possiamo dire che, in linea di massima, quanto più aumenta il prezzo (oltre quello che
aveva condotto al punto di massimo utile netto) relativamente di più aumenta la perdita dell'utile netto. Ciò
si desume, ragionando «a contrariis», se lo studente ricorda una delle premesse che figuravano allorché si
indicavano le proprietà della curva dell'utile netto, a proposito dello studio della traslazione di un'imposta
sulle quantità prodotte in regime di monopolio.
Fra tali proprietà risultava quella relativa al saggio decrescente di incremento dell'utile netto a sini-
stra del punto di massimo, cioè mentre vigevano prezzi decrescenti. È facile intuire come il saggio della
perdita sia crescente, nel caso inverso della elevazione dei prezzi; mentre il guadagno è semplicemente
proporzionale all'aumento del prezzo. Intendasi il guadagno derivante dalla diminuzione dell'imposta,
commisurata alla quantità prodotta ed offerta, la quale diminuisce direttamente all'aumentare del prezzo.
Infine, si tenga conto che si è trattato, qui, di effetti diretti od immediati dell'imposizione, senza
considerare gli effetti indiretti o dell'incidenza definitiva. Invero ciò che in ultima analisi occorre accertare
è la variazione della condizione economica «relativa» dei singoli soggetti i cui rapporti di scambio siano
stati turbati dall'imposta.
Il metodo del margine non fa superare, se non con approssimazione larga, la grave difficoltà dell'i-
solamento del fattore causale tributario. La stessa difficoltà (forse in grado più elevato) sussiste nel caso in
cui non si voglia accertare una variazione differenziale di prezzi, ma la modificazione della condizione eco-
nomica relativa rappresentata dal reddito, che i soggetti dell'attività produttiva colpita conseguono dai rap-
porti di scambio particolarmente influenzati dall'imposta.
Ma a parità di difficoltà, e anche ammessa la maggiore difficoltà di questo secondo accertamento
statistico, è più razionale il criterio che voglia raffrontare non serie di prezzi, ma distribuzioni di redditi nel
tempo. Nel caso specifico, si tratterebbe di indurre intorno alle modificazioni di tipici rapporti di scambio e
di singoli redditi netti relativi a forme di attività necessariamente collegate, al fine di appurare l'influenza
presunta di uno dei tanti fattori causali (prelievo di imposte) che influiscono sulla condizione economica
«relativa» dei soggetti operanti sul mercato, considerati come percettori di date categorie di redditi, la cui
grandezza sia influenzata dal fatto fiscale, nel tempo (338).

__________
(338) Per maggiori ragguagli rimando all’articolo pubblicato nei fascicoli di novembre-dicembre 1941 e gennaio-
febbraio 1942 del «Giornale degli Economisti».
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CAPITOLO XIV.

GLI EFFETTI DELLE FLUTTUAZIONI ECONOMICHE SULLE IMPOSTE.

I.

SULLA “ELASTICITÀ PASSIVA O SENSIBILITÀ” DELLE IMPOSTE


ALLE VARIAZIONI DELLA CONGIUNTURA.

Continuando nella trattazione riguardante le relazioni fra fenomeno finanziario ed equilibrio eco-
nomico dei mercati, accenno brevemente al problema della «sensibilità delle imposte» in rapporto alle flut-
tuazioni economiche.
Di fronte alla ricca, se pur non sempre pregevole, letteratura straniera sul tema delle relazioni fra
fluttuazioni economiche e variazioni del getto delle imposte di diversa specie, data l'inesistenza di studi del
genere in Italia, mi ero occupato, a suo tempo, in due saggi (339), di tale problema.
Consideravo codeste indagini come appartenenti al campo della dinamica finanziaria, in quanto
concernenti le variazioni, attraverso il tempo, di quantità economiche e di quantità politico-finanziarie, po-
ste in relazione.
Le conclusioni generali a cui ero pervenuto - in contrasto con la teoria estera dominante - escluden-
do, cioè, la possibilità di determinare una «scala con gradi costanti ed assoluti di sensibilità congiunturale» -
potevano, forse, sembrare improntate a scetticismo scientifico. Ma se si tiene conto delle condizioni che
vincolano le conclusioni, si può convenire che esse, allo stato attuale dell'analisi economico-statistica, siano
le più razionali.
Quella che avevo definito «sensibilità congiunturale» delle imposte (cioè suscettibilità di variare
del getto al variare di «circostanze», che, in sintesi e con le dovute avvertenze, denominavo «fluttuazioni
economiche») era considerata equivalente ad «elasticità passiva», termine ricorrente presso autori esteri.
Taluno, infatti, istituendo un rapporto di dipendenza funzionale fra sensibilità delle imposte e fluttuazioni
economiche, denominava «elasticità passiva» gli effetti del variare della congiuntura, sul getto dei tributi.
Sembra assai rappresentativa all'uopo la limitazione dello studio della sensibilità congiunturale, al
caso delle seguenti imposte:
a) imposte sugli scambi commerciali (340) commisurate al valore di merci, oggetto di transazioni
successive, in un mercato qualsiasi;
b) imposte dirette sul reddito, personali o reali (fra queste considerando quelle rappresentative, che
colpiscono, cioè, senza remore catastali o amministrative, redditi di natura mobiliare), categorie teoriche
che si possono far coincidere con la media dei caratteri rispettivamente della surtax inglese o della «com-
plementare» italiana, o con quelli dell'imposta di ricchezza mobile e dell'income-tax con la limitazione pre-
detta;
c) imposte sui consumi, facilmente identificabili nei sistemi positivi correnti in vari paesi, a pre-
scindere da formali regolamenti riguardanti l'accertamento, la riscossione, ecc.
Le conclusioni ricavate per via deduttiva, senza rilevante contrasto con quelle che sono poste in e-
videnza da quasi-uniformità statistiche derivanti da ricerche induttive, hanno portato altri a stabilire la se-
guente scala di sensibilità, avvertendo che tale scala graduale, in prima approssimazione, vale anche per il
processo della «velocità di sensibilità».
__________
(339) Il primo dal titolo: Della sensibilità delle imposte in rapporto alle fluttuazioni economiche apparve sulla «Ri-
forma sociale», ottobre 1934. Il secondo, nel quale si faceva la critica dei metodi ed espedienti per neutralizzare la
«sensibilità congiunturale» delle imposte, si intitola, appunto: Sulla neutralizzazione della sensibilità congiunturale
delle imposte e fu pubblicato nella «Rivista intern. di Scienze Soc.», Milano, 1935 (luglio).
(340) Nel significato che si dà all’espressione nella media delle legislazioni e quale appare, fra l’altro, dall’articolo
dello scrivente: La natura e il fondamento delle imposte sugli scambi, apparso sul «Giornale degli economisti», otto-
bre 1931.
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1) Sarebbe più sensibile, fra le tre categorie di imposte, quella sugli scambi;
2) una minore sensibilità, ovvero una maggiore «resistenza», presenterebbero le imposte dirette, di-
stinguendo in imposte personali relativamente più sensibili, e imposte reali comparativamente meno;
3) un grado comparativamente minore di sensibilità congiunturale si riscontrerebbe nelle imposte
che colpiscono i consumi. Ciò in via generale e confrontando questa categoria con quelle di cui ai preceden-
ti numeri, e salva la ulteriore graduazione relativa alla specie dei beni colpiti e alla natura dei bisogni che
essi soddisfano;
4) nell'occasione della riforma fiscale italiana del 1939, si era adottato fra l'altro, il patrimonio co-
me base imponibile (preferibile al reddito), in quanto codesta base consentirebbe, dal punto di vista del rela-
tivo gettito fiscale, una maggiore stabilità per lo Stato. Si tratta anche in questo caso del problema in ogget-
to della sensibilità (del provento) delle imposte in rapporto alle fluttuazioni economiche.
Assimilabile all'imposta sul patrimonio, in certo senso, è l’imposta di registro, compresa nella cate-
goria delle imposte sugli affari. Sulla base, peraltro ristretta e discutibile delle statistiche disponibili, la ca-
tegoria delle imposte sugli affari appariva come riflettente nel modo relativamente più immediato le fluttua-
zioni economiche.
Nella «premessa» ministeriale alla riforma del 1939, a cui fece eco il relatore al Senato, leggesi che
«l'imposta sul patrimonio ha il pregio di una maggiore stabilità nel gettito conseguibile» (rispetto all'impo-
sta sul reddito). E ciò perché in fasi di crisi, si abbassa bensì il livello dei redditi, ma anche il tasso di capi-
talizzazione relativo.
Non credo che si possa prospettare in termini così assoluti la relazione in oggetto (341). Anzitutto
non è univocamente provato che nella fase di depressione, a prescindere da interventi del fattore pubblico,
si abbassi sempre il tasso di capitalizzazione dei redditi. Ma, soprattutto, allorché sia in atto una fase di de-
pressione, cioè una tendenza dei redditi verso la diminuzione, non si capitalizza il livello attuale, per la de-
terminazione dei valori dei beni, ma quello futuro che soggettivamente chi li valuta può prevedere inferiore,
per un certo tempo, a quello attuale. In tal caso il valore patrimoniale può oscillare più che il reddito, in sen-
so negativo, senza che lo scostamento possa essere neutralizzato dalla variazione del tasso di capitalizza-
zione.
Non sempre le statistiche si prestano alla verifica di codesta deduzione logica. Tuttavia, fatte molte
avvertenze sulla loro capacità probativa, così come ne ho discorso in precedente capitolo, mi pare che quan-
to dico si possa riscontrare, ad esempio, nella tabella compresa nel fascicolo di dicembre 1939 della «Rivi-
sta di storia economica», che riproduce le tabelle di L. N. Bloomberg.
La ricerca storico-statistica ha altri fini. Ma è certamente impressionante, dal punto di vista della
sensibilità congiunturale delle imposte, il fatto che un gruppo di valori mobiliari, rappresentativo di inve-
stimenti in beni reali, abbia visto contrarsi negli Stati Uniti il proprio valore capitale (indice) dal 1929 al
1932 (fondo della crisi) relativamente di più di quanto si abbassava il reddito netto attuale.
In generale, può dirsi che il valore capitale, in fasi di crisi, discenda al di sotto del livello a cui do-
vrebbe determinarsi, in base alla capitalizzazione del reddito attuale, pur ammesso che si abbassi in qualche
misura il tasso corrente per la capitalizzazione.
A riprendere, nel 1934, con nuove ricerche analitiche, critiche e ricostruttive, le approssimate e pur
notevoli conclusioni di dinamica finanziaria relative alle categorie di imposte che precedono, fui indotto: a)
dal fatto che la scala corrente di sensibilità comparata, già prospettata, è per lo più riferita alle ripercussioni
economiche delle caratteristiche dei tributi rispettivi, dal punto di vista dell'ordinamento legislativo e della
tecnica fiscale, senza considerare a fondo l'azione delle fluttuazioni economiche; b) dalla circostanza che;
con larghissima approssimazione, i gradi relativi di sensibilità congiunturale, così differenziati, possono va-
lere con l'avvertenza predetta (a) per lunghi periodi; c) dalla insufficienza della semiotica economica, ovve-
ro della spiegazione dei rapporti di causalità o di interdipendenza funzionale, che si riscontra nelle poche
trattazioni dell'argomento. Altri autori hanno tentato una, verifica sperimentale della sensibilità congiuntu-
rale delle imposte in paesi come la Francia, l'Inghilterra e la Germania, senza preoccuparsi troppo di avver-
tire intorno alla grande difficoltà di isolare la causa già molto complessa (fluttuazione economica), da altre
numerose concause, fra cui molte (variazioni di aliquote, di durata dell'imponibile accertato, esenzioni, eva-

__________
(341) Così ho affermato nell'articolo: Aspetti della recente riforma fiscale, nel «Giornale degli Economisti e Annali di
Economia», gennaio-febbraio, 1940.
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sioni, disposizioni di politica fiscale, ecc.), agiscono nel campo tributario, indipendentemente dall'azione
della congiuntura o contemporaneamente.
Quale possa essere l'utilizzazione delle statistiche ai fini della conferma sperimentale delle conclu-
sioni teoriche, si può notare considerando le numerose eccezioni, limitazioni e circostanze che non le fanno
apparire rappresentative della relazione di causalità o di pendenza funzionale fra fluttuazioni economiche e
variazioni del getto delle imposte.
Ma ammessa anche la inesistenza di elementi perturbatori del rapporto, i quali agiscono da concau-
se non facilmente isolabili negli effetti (variazioni di aliquote, esenzioni, interpretazioni restrittive o ampli-
ficative dell'oggetto imponibile, ecc.), l'indagine statistica porta a taluni risultati che possono coincidere con
quelli intuiti per via deduttiva, ma senza spiegare attraverso quali vie (modificazioni nel volume della pro-
duzione di beni, nel reddito prodotto, nei consumi, nei prezzi, nell'ampiezza di cicli o fasi della congiuntura,
ecc.) si sia pervenuti ad essi (342).
Forse per ciò si spiega l'avversione di quasi tutti gli autori, che se ne sono occupati, per l'indagine
statistica in questa materia: ma altra cosa è avvertire che i dati concreti possono valere entro certi limiti, at-
traverso la interpretazione per via teorica, di rapporti di dipendenza o di interdipendenza funzionale.
Un errore, non solo di metodo, che rende impropria la impostazione corrente di questo ordine di
problemi, consiste nel considerare comunemente gradi assoluti e costanti di sensibilità congiunturale di
singole imposte, tali che la differenza fra ognuno e il successivo, al variare di una medesima causa (343), ri-
manga costante.
La scala di sensibilità comparata che si è offerta nei precedenti paragrafi, può valere in prima ap-
prossimazione, per indicare alcuni fattori per lo più relativi alla struttura tecnica dei tributi (ad valorem,
proporzionali, sulla quantità, sugli scambi, sul reddito, sui consumi, ecc.), che, ceteris paribus, possono
conferire diversa capacità di gettito, entro dati limiti di tempo, alle imposte. Il procedimento può riuscire
corretto, se si esamina il grado di elasticità del gettito, al variare dell'ordinamento legislativo (aliquote, e-
senzioni, ecc.) ferme rimanendo o supposte le condizioni dell'economia privata.
Ma quando si introduce, come causa primaria, comune, di ordine sintetico, la fluttuazione economi-
ca, che a sua volta si scinde in un complesso di sintomi i quali fanno da concause o cause secondarie, occor-
re considerare gli effetti variabili nell'ordine cronologico e nel peso relativo, che sui rapporti produzione-
scambio-consumo, esercita la medesima causa complessa.
In altri termini, una tendenza all'aumento nel reddito privato globale (come un esempio di movi-
mento congiunturale), distribuito in date proporzioni fra le categorie sociali, dà luogo ad una variabilità ri-
spettiva di gettito delle imposte sul reddito prodotto, sugli scambi e sui consumi, diversa da quella che può
determinarsi in periodi di stasi (reddito costante) o di depressione (reddito decrescente); sia a parità di di-
stribuzione, sia ammettendo variazioni concomitanti nella distribuzione del reddito privato.
È chiaro che non è concepibile una scala di sensibilità congiunturale i cui gradi, riferiti a singole
imposte, abbiano una grandezza assoluta e presentino uno scarto differenziale costante, nei confronti reci-
proci.
Allo stesso modo in cui, per contro, una variazione congiunturale imprime movimenti di solito a-
sincroni e di intensità diversa alle fasi che vanno dalla produzione allo scambio, al consumo, così la capaci-
tà di gettito delle imposte che si riferiscono alle manifestazioni di capacità contributiva corrispondenti,
nell’alternarsi delle fasi della congiuntura, varia di grandezza e di velocità per lo più in relazione diretta, ce-
teris paribus, al variare della capacità contributiva suddetta.
In questo senso, la struttura tecnica del tributo [quota del reddito, del valore o delle quantità scam-
biate, dei beni (quantità o valori) consumati] non è una variabile indipendente che decida del grado di sen-
__________
(342) Nel saggio citato, del 1934, ho appunto confrontato un indice della congiuntura con le variazioni del gettito di
alcuni tributi, i più significativi rispetto allo scopo, singolarmente considerati, relativamente ad un lungo periodo con
inizio dal 1885.
I risultati a cui l'indagine induttiva ha dato luogo concordano pienamente con quelli già ottenuti in via logico-
deduttiva.
La stessa cosa può dirsi del recente lavoro della dott. C. Costantino (Imposte e Congiuntura, Giappichelli edit.,
1951, Torino), che ha calcolato il coefficiente di correlazione, l'indice dei ranghi ed il coefficiente di dipendenza per
ciascuna imposta del sistema tributario italiano, in rapporto alle variazioni di un indice congiunturale, per il periodo
1920-1941.
(343) Fluttuazione economica, come causa complessa.
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sibilità; ma questo va posto a sua volta in relazione con il rapporto che corre fra fluttuazione economica e
variazione conseguente nella entità dell'oggetto imponibile, agli effetti di imposte diverse.
La variabilità di tali rapporti si può intuire, quando si pensi che la fluttuazione economica può esse-
re caratterizzata, ad es.: 1) da aumento di reddito globale privato (344), a parità di prezzi, cambiando le quan-
tità prodotte; 2) da reddIto costante, variando i prezzi e ferme le quantità prodotte; 3) da diminuzione di
reddito, ferme rimanendo alternativamente le altre due circostanze, alle quali altre numerose possono ag-
giungersi (produzione di beni strumentali, diretti, rapporti fra consumo e risparmio, ecc.) per complicare il
problema. Basti, inoltre, all'uopo accennare alla «successione» e alla «combinazione» dei sintomi che si ri-
scontrano nelle fasi alterne o successive della congiuntura.
Può quindi affermarsi, a differenza di quanto è noto comunemente, che il grado comparato di sensi-
bilità congiunturale delle tre categorie di imposte esaminate è relativo al rapporto rispettivamente fra flut-
tuazione economica e modificazione, per questa causa, dell'oggetto imponibile delle imposte medesime,
fermo restando l'ordinamento legislativo di esse, e considerando, contemporaneamente o successivamente, i
fattori quantità, prezzi, tempo, produzione, consumo, distribuzione, ecc. Si tratta di una casistica talmente
analitica e legata al fattore tempo, che sfugge a confronti statistici complessivi e in genere di lunghi periodi.
Una corretta indagine teorica, che potrebbe essere confermata dal fenomeno concreto, ove fosse
possibile l'isolamento reale delle cause e le statistiche si prestassero all'uopo, deve tener conto in via astratta
della impostazione metodologica e sostanziale del problema che ho posto in evidenza nel mio studio, per
giudicare delle circostanze che in varia misura, con lo svolgersi nel tempo delle fluttuazioni economiche,
influenzano il grado relativo di sensibilità congiunturale delle categorie di imposte che si esaminano.
Prescindendo da questi punti di vista, non si comprende in qual modo possa risolversi razionalmen-
te, con pretesa inoltre di dar norme di politica finanziaria, il problema conseguente dell'adattamento dell'e-
conomia pubblica alle modificazioni dell'economia privata.
Alla luce di queste considerazioni, passiamo a considerare la casistica relativa alle imposte in og-
getto.
A) L'imposta sugli scambi, la quale per propria struttura o per l'ordinamento formale (ad valorem,
percuote in più passaggi nella circolazione le merci, ecc.) ha un alto grado di elasticità passiva, ha tendenza
a presentare maggiore o minore sensibilità congiunturale, quanto più (o quanto meno): 1) la fluttuazione
economica è caratterizzata da variazione di prezzi (ad es. aumento), il quale sia dovuto anche a traslazione
automatica in avanti dell'imposta medesima; 2) il valore delle merci scambiate vari in misura superiore al
volume degli stessi (fattore questo di alto grado di velocità di sensibilità); 3) sia alto il rapporto fra volume
e valore degli scambi e reddito industriale e commerciale relativo; 4) variando il reddito complessivo priva-
to, si mantenga alta (rigida) la domanda di beni soggetti all'imposta sullo scambio; 5) fermo rimanendo il
reddito privato, la produzione e lo scambio di merci in talune fasi della congiuntura siano alimentati da ca-
pitali monetari, destinati immediatamente al consumo (spese pubbliche o private per utilizzazione dei pre-
stiti, ovvero per via,della politica del credito, che crei il così detto risparmio coattivo); 6) l'imposta, nelle
alterne fasi o in quelle successive, colpisca in vario rapporto scambi di beni strumentali o di consumo e il
rapporto fra i prezzi corrispondenti varii in senso analogo od opposto; 7) nelle alterne o successive fasi di
espansione o di depressione, in ordine cronologico, vengano influenzati, prima o dopo, rami di produzione
le cui merci per quantità e valore siano variamente colpite d'imposta; 8) il consumo forzato (attraverso con-
sumo obbligatorio di servizi pubblici, specie in fasi di depressione) abbia per oggetto più o meno merci col-
pite da imposta, rispetto a quelle acquistate e consumate con reddito lasciato all'uso libero dell'individuo; 9)
sia notevole (o meno) l'asincronismo fra variazioni nel movimento dei prezzi e nelle qualità prodotte; 10)
sia maggiore o minore il ritmo dello smercio rispetto alla durata delle operazioni di trasformazione; 11)
tendenzialmente le organizzazioni industriale e commerciale si orientino in senso verticale od orizzontale;
12) prevalgano imprese di grandi, di medie o di piccole dimensioni, a parità di quantità complessive prodot-
te e di livello di prezzi, variando queste condizioni.

__________
(344) Il Papi ha ripreso il problema, introducendo la categoria logica del reddito reale. In sostanza, accennando alle
quantità prodotte, implicitamente ne ho tenuto conto nei ricordati saggi. Tuttavia il Papi ha tratto altre deduzioni ai fini
dello studio delle relazioni fra imposte e congiuntura nel quale prevalgono, peraltro, variazioni nominali e monetarie.
(Si veda l'articolo dell'autore pubblicato sul «Giornale degli Economisti», novembre-dicembre 1940).
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Queste ed altre circostanze, a prescindere da modificazioni nell'ordinamento legislativo: a) possono


influenzare variamente la sensibilità congiunturale dell'imposta sugli scambi, per brevi e per lunghi periodi
rispettivamente; b) possono far variare la velocità di sensibilità.

B) Al secondo grado, nella scala di sensibilità, la teoria corrente pone, nel quadro delle imposte che
si considerano, quella che colpisce il reddito prodotto, distinta a sua volta in: I) imposta personale, progres-
siva, relativamente più sensibile; II) imposta diretta reale, proporzionale con grado comparativamente mi-
nore di sensibilità.
I) A questa sotto-gradazione la teoria corrente è principalmente indotta dalle seguenti ragioni: a) la
progressività, quanto più alta, delle aliquote, dà rendimenti decrescenti (o crescenti) più che proporzionali
in fasi di depressione (o di espansione) degli affari, e precisamente, nell'ipotesi negativa, perché la crisi dà
luogo al declassamento dei redditi; b) la tendenza verso la «personalità» del rapporto tributario, conferisce
maggiore sensibilità all'imposta in senso tendenzialmente crescente, rispetto all'imposizione reale; c) l'ab-
bandono dei segni esteriori, come base di accertamento (avvenuto in sede di imposte reali), accentua tale
grado di sensibilità.
Queste condizioni vanno, peraltro, rivedute ed ulteriormente condizionate ed ampliate, anche per-
ché, secondo si è avvertito più sopra, gli autori che sono giunti alle predette conclusioni considerano quasi
esclusivamente le differenze strutturali od intrinseche (tecnica fiscale) senza tener conto, quando e quanto
occorrerebbe, delle fluttuazioni economiche, come causa determinante. Infatti occorre considerare: 1) la
«crisi» non lascia immutato quasi mai l'ammontare dei redditi ed il numero dei contribuenti, ma influisce
sui due fattori oltre che sulla scala che rappresenta la distribuzione dei redditi; 2) questo processo (declas-
samento) in tanto influisce sensibilmente sulle variazioni del getto, in quanto la progressività dell'imposta
personale sia continua per incrementi infinitesimi, e con aliquota massima relativamente alta; 3) data la ten-
denza all'accentuarsi degli imponibili intorno alla zona media, se quelli provengono da classi per le quali le
aliquote oltre il massimo siano proporzionali, l'effetto «sensibilità» è minore di quello previsto dalla teoria
corrente; 4) durante la depressione, la formazione di nuovi redditi, fra quelli in ispecie che sono dovuti in
tale fase alle spese statali, non si verifica soltanto fra quelli compresi nelle classi basse; 5) la tendenza alla
personalità, se si prescinde dalla progressività, nei rapporti tributari non ha effetti esclusivi e proprii, perché
storicamente fa allontanare dalla condizione che effettivamente ha peso in questo campo: colpire le imposte
l'oggetto imponibile quanto più è possibile vicino al reddito netto effettivo, caratteristica delle imposte reali,
mentre nelle imposte personali, globali, l'accertamento del coacervo dei redditi è difettoso, e l'evasione fre-
quente ed alta dà luogo a formazione di rendite positive dei contribuenti, nel significato Devitiano e in quel-
lo più ampio Marshalliano; fattore questo (rendita) che attenua la sensibilità dell'imposta personale al varia-
re della congiuntura, specie nelle fasi di depressione; 6) l'abbandono dei «segni esteriori», per l'accertamen-
to del reddito imponibile, con procedimenti che si approssimino alla percussione di quello effettivo, è fatto-
re il quale accentua la sensibilità delle imposte dirette reali, laddove l'introduzione del sistema indiziario,
per la ricostruzione dell'imponibile delle imposte personali, accentua la sensibilità congiunturale delle im-
poste medesime, in funzione della variabile distribuzione dei redditi fra le varie spese che fanno da segni e-
steriori o indici di reddito disponibile, nelle alterne o successive fasi di depressione, stasi o espansione degli
affari; 7) l'alto grado di evasione, per singole fonti di reddito addendi del coacervo, facendo accentrare i
redditi imponibili verso le classi vicine al minimo esente, come altro fattore che fa crescere la «rendita dei
contribuenti», attenua la sensibilità dell'imposta personale, specie in fasi di depressione; 8) essendo etero-
genei i redditi che concorrono alla formazione del coacervo, nell'alternarsi delle fasi predette o col variare
dei sintomi, la sensibilità congiunturale è funzione delle variazioni che avvengono nei redditi delle catego-
rie singole di redditi, a seconda che esse prevalgano rispettivamente sulle altre di diversa natura, nel coa-
cervo individuale o nazionale. È questo un fattore che ha importanza anche agli effetti dell'imposta reale
(income-tax, Ricchezza Mobile, in Italia), in misura relativa alla proporzionalità delle aliquote, il cui reddito
imponibile consti di categorie diversamente influenzabili dalla congiuntura.
La casistica che precede potrebbe essere ampliata ulteriormente sia per combinazione, in diversi
momenti delle circostanze accennate, che per introduzione di altre meno appariscenti, come peso determi-
nante gradi diversi di sensibilità. Di esse occorre tener conto per poter limitare correttamente le conclusioni
teoriche, prima di affermare che la personalità conferisce ai tributi un più alto grado di sensibilità e di velo-
cità di sensibilità, che non la realtà, il che corrisponde ad una prima grossolana approssimazione.
II) La indicazione corrente del grado di sensibilità dell'imposta reale diretta sul reddito viene fatta
dicendo che questo tipo di tributo «resiste molto bene» alla fluttuazione economica, al punto che il gettito di
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essa, anche per le categorie più sensibili di imponibili, resta stazionario o diminuisce «poco» in periodi di
depressione. È evidente, per questo aspetto, la mancata considerazione del fattore tempo, anche nella gros-
solana diversificazione fra i periodi «brevi» o «lunghi». Invero da molti autori si accenna alla resistenza o
scarsa sensibilità dell'imposta reale sul reddito, basandosi sulla «durata» dell'accertamento dell'imponibile
come tale, cioè sul periodo di tempo che corre fra la determinazione dell'imponibile e l'accertamento suc-
cessivo, ovvero fra quella e la revisione, secondo l'ordinamento tributario dei vari paesi. E soltanto vaga-
mente si accenna alla composizione dell'imponibile corrispondente alle diverse categorie delle imposte
complesse (income-tax ed equivalenti) come fattore causale discriminante.
Ma è evidente che, in lunghi periodi, si viene a cancellare l'effetto della cosiddetta resistenza inizia-
le, se ha luogo in una depressione caratterizzata da diminuzione del reddito privato globale. Occorre, infatti,
porre la «resistenza», ovvero la variabilità del grado di sensibilità congiunturale, in rapporto: 1) con le af-
fermazioni predette; 2) con l'ampiezza della fluttuazione; 3) con gli effetti specifici esercitati sulla produ-
zione delle singole categorie di redditi (industriali, commerciali, agricoli), di puro lavoro e di capitali mobi-
liari o fondiari (caso dell'income-tax); 4) con il variare delle percentuali di reddito totale, prodotto rispetti-
vamente da enti collettivi, per lo più tassati annualmente in base al bilancio (il che fa seguire più immedia-
tamente la congiuntura) e quota prodotta da imprenditori per cui sia in vigore, in concreto, la durata plu-
riennale dell'accertamento; 5) con il mutare del regime vincolistico o di tipo corporativo o di sindacati libe-
ri, specie per redditi di lavoro, che può variamente influenzare l'altezza relativa del reddito che si distribui-
sce fra le categorie tassate, per cui vigano diverse aliquote; 6) con la formazione di nuovi redditi per effetto
della spesa statale straordinaria in periodi di depressione; talora i redditi di lavoro prevalgono sui profitti
industriali, come è stato dimostrato a proposito dei rapporti fra aumento della occupazione operaia e della
produzione da un canto, e l'aumento rispettivo di salari, stipendi e profitti dall'altro; 7) con la costituzione
economica (statica) dei vari paesi o con le variazioni di essa, secondo la sintetica differenziazione del Wa-
gemann in non capitalistica, neo-capitalistica, semi-capitalistica, di alto capitalismo e con gli effetti che
questo fattore esercita sull'entità delle categorie distinte di imponibile; 8) con i diversi effetti che, ammessa
la spesa pubblica, essa esercita sulla formazione di nuovi redditi privati, quando l'intervento statale in pe-
riodi di depressione avvenga per via rispettivamente di sussidi ai disoccupati, di lavori pubblici, o di prose-
guimento della produzione di beni strumentali o diretti, con i diversi effetti che determina il ricorso; all'uo-
po, a prestiti o ad imposte; 9) con gli effetti che la pressione relativa alle aliquote, da un canto, e le varia-
zioni della domanda dei beni o servizi prodotti, dall'altro, esercita sulla distribuzione di capitale e lavoro fra
i vari rami di produzione; 10) con l'ordine cronologico, oltre che con la durata e la misura in cui nelle suc-
cessive od alterne fasi di espansione, o di depressione, degli affari, vengono influenzate le varie categorie di
redditi colpite (industriale, agricolo, commerciale), diversamente sensibili per struttura ovvero per le carat-
teristiche intrinseche degli imponibili.
Per amore di brevità, si limita a questo punto la rilevazione di condizioni e circostanze che succes-
sivamente o in concomitanza, fermo rimanendo il fattore tecnico fiscale, possono influenzare il grado com-
parato di sensibilità dell'imposta reale diretta sul reddito. È ovvio che l'inverso di tali condizioni e le mede-
sime debbono considerarsi nelle alterne fasi di depressione o di prosperità. Inoltre, a prescindere da fattori
di tecnica fiscale (durata di accertamenti, frequenza di revisioni, interpretazione mutevole di oggetto impo-
nibile, ecc.), occorre considerare: l'ampiezza e la frequenza delle fluttuazioni economiche, l'altezza delle
imposte, la durata e la intensità dei fenomeni di traslazione, rimozione e diffusione dei tributi, processi che
modificano anche in funzione delle oscillazioni della congiuntura il rispettivo oggetto imponibile delle im-
poste considerate; questo elemento (effetti economici nel senso classico e limitato) ha peso reale, in brevi
periodi principalmente.
C) Vi è il caso, infine, delle imposte sui consumi, che la teoria pone in fondo alla scala di sensibilità
congiunturale, rispetto agli altri tributi indicati, limitandosi i vari autori a rilevarne la «rigidità» e a discri-
minare fra imposte che colpiscano beni di lusso e secondari e i relativi gradi di elasticità della domanda.
Per ciò che riguarda le imposte sui consumi ad valorem, possono valere in gran parte le considera-
zioni svolte per l'imposta sugli scambi, ammesso che si trasferiscano in modo automatico in avanti, senza
pluralità di passaggi delle merci.
Per la parte costituita da tassazione per quantità prodotte (caso tipico delle imposte di fabbricazio-
ne), non si può parlare correttamente di rigidità generica, ovvero estendere i gradi di sensibilità congiuntu-
rale a interi gruppi di imposte, a seconda della grossolana diversificazione dell'oggetto colpito (beni di lus-
so, secondari), poiché nell'ambito dello stesso gruppo stanno beni tassati che seguono i più diversi orienta-
menti della domanda individuale, in rapporto ad effetti vari, diretti ed indiretti della fluttuazione economica.
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Pertanto, generalizzando, si può mettere in relazione funzionale la sensibilità comparata delle impo-
ste sui consumi, con ì seguenti fatti e rapporti di dinamica economica: 1) con le variazioni dell'ammontare
assoluto del reddito privato globale e con le modificazioni nella distribuzione di esso fra i componenti la
collettività; 2) con il variare del rapporto fra: a) reddito destinato a libero consumo individuale di beni e b) a
risparmio libero; 3) con gli effetti che le circostanze di cui ai numeri 2, 4, 5 e 8, esercitano sulla distribuzio-
ne dei redditi fra i vari consumi; 4) col modificarsi della specie dei beni consumati, per via di variazione dei
gusti, in rapporto alla prevalenza, in momenti diversi, di redditi agricoli, industriali, o di lavoro puro, nel-
l'ambito del volume complessivo del reddito privato e col modificarsi della composizione delle classi socia-
li e dei gusti (per questa causa) in seguito a notevoli fluttuazioni economiche; 5) col diverso ritmo secondo
il quale si seguono o si sostituiscono vicendevolmente la produzione di beni strumentali o di beni di con-
sumo diretto; 6) con l'accentuarsi del «declassamento» dei redditi, o con l'affermarsi della concentrazione di
essi; 7) con l'orientamento del consumo dovuto a spese statali (consumo collettivo); 8) con l'effetto che
l'annullarsi delle rendite dei contribuenti, per cause fiscali e congiunturali, esercita sulla entità e sulla natura
della spesa individuale, nonché con le ripercussioni del modificarsi della rendita dei consumatori e del va-
riare del potere d'acquisto delle varie categorie di reddito, in rapporto a variazioni congiunturali (moneta,
altezza di salari, prezzi, ecc.); 9) col diverso concorso dei nuovi redditi e di quelli preesistenti influenzati
dalla congiuntura, sulla formazione delle classi di redditi; 10) col rapporto mutevole fra produzione di nuo-
vo reddito complessivo e specie e natura: di beni diretti prodotti, per influenze che: a) la produzione accen-
trata in imprese sindacate (produzione o commercio), ovvero b) l'azione dei costi variabili sui prezzi (regi-
me di concorrenza particolarmente) esercitano sull'orientamento della spesa individuale e collettiva; 11) col
regime fiscale di beni di consumo principali e dei succedanei, e con lo spostarsi del consumo verso i beni
non ancora o relativamente meno tassati (ovvero con effetto opposto, come ho dimostrato in sede di appli-
cazione finanziaria dell'analisi Pareto-Slutzky della domanda, nel saggio citato e largamente riprodotto nel
paragrafo VII del precedente capitolo XI); 12) con le diverse proporzioni e con i diversi momenti in cui la
spesa, individuale e collettiva, è influenzata da (a) capitali monetari in rapporto al (b) reddito, il caso (a) de-
terminando più intensi scambi e variazioni di prezzi e diversità di spese; 13) con l'oscillare delle rimanenze
di beni tassati o meno, siano essi costituiti da beni alimentari o strumentali; 14) col variare del numero di
contribuenti a parità di reddito e ammesse variazioni congiunturali di questo fattore; 15) con lo spostamen-
to, in periodi di depressione o di prosperità, dei «lavoratori», con i diversi gusti, dall'agricoltura all'industria
e al commercio e viceversa, specie attraverso le spese pubbliche; 16) a parità di gusti, col variare di «modi»
(beni, strumenti) di soddisfazione dei bisogni; 17) con la velocità d'aumento o diminuzione dei redditi, spe-
cie di lavoro, e dei mezzi di sussistenza rispettivamente; 18) con le variazioni comparate nel livello dei
prezzi di merci di specie e qualità diverse, in relazione al variare della elasticità della domanda ed al modi-
ficarsi contemporaneo del potere d'acquisto.
Anche per queste imposte, oltre alle «combinazioni» in momenti diversi e di diversa «classe» (nel
significato matematico del termine) dei casi prospettati, le ipotesi possono complicarsi specialmente se si
considerano altri fattori, quali: variazioni di costumi per influenza di educazione politica, stabilità della co-
stituzione politica, per le influenze sul consumo e sul risparmio individuale, modificazioni delle leggi su li-
cenze di vendita di beni tassati, fattori, questi, che indirettamente, con l'andare del tempo, influenzano i
rapporti economici.
Ma soprattutto la sensibilità delle imposte sui consumi è dipendente, tendenzialmente, dalle reazio-
ni che le fluttuazioni economiche determinano sulla produzione e sulla distribuzione dei redditi, secondo la
minuta e mutevole casistica prospettata più sopra.
Dopo avere sviluppato questa casistica, si può affermare che la scala comparata di sensibilità con-
giunturale, quale viene accertata dalla teorica corrente, non è assoluta e costante, nella successione dei gradi
di sensibilità, per le seguenti ragioni sintetiche: a) perché gli autori, come si è già detto, studiando il pro-
blema, sebbene accennino formalmente alle fluttuazioni economiche, praticamente conferiscono peso pre-
valente ai caratteri intrinseci, tecnici e giuridici dei tributi rispettivi, celando dietro impliciti «ceteris pari-
bus» le oscillazioni congiunturali; b) per il fatto che le statistiche, anche quando sembrano confermare for-
malmente, con larga approssimazione, i gradi comparati di sensibilità ipotetica, corrispondenti alle imposte
considerate, non danno la prova corretta e manifesta del senso e della grandezza tendenziale della dipen-
denza funzionale della sensibilità rispettiva dalla causa (fluttuazione) che non è possibile isolare dall'azione
simultanea di altri distinti fattori.
Una scala assoluta di sensibilità, con gradi costanti nel tempo e nello spazio, può con approssima-
zione istituirsi riguardo ai caratteri tecnico-giuridici delle imposte, ammettendo largamente per il resto il ce-
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teris paribus. Ma istituendo un rapporto di dipendenza funzionale dei gradi di sensibilità dalle fluttuazioni
economiche, la scala comparata tende ad allontanarsi da quella precedentemente indicata, nei limiti di tem-
po e nella misura a cui tendono a realizzarsi, successivamente, in ordine cronologico, contemporaneamente
per combinazioni di varie classi, le ipotesi avanzate rispettivamente nelle lettere A), B), C).

II.

IL PROBLEMA DELLA NEUTRALIZZAZIONE DELLA SENSIBILITÀ


CONGIUNTURALE DELLE IMPOSTE.

In generale, gli autori che si sono intrattenuti sulla sensibilità congiunturale delle imposte hanno
avuto di mira un ordine di problemi assai dibattuto di politica finanziaria, e precisamente quello della neu-
tralizzazione della sensibilità suddetta, in rapporto alla stabilità delle entrate fiscali nel tempo.
Non è necessario rammentare come sia del tutto estraneo e logicamente respinto dalla visione che
illumina l'impostazione di quello Corso, l'assunto di ricavare pretese normae agendi di politica finanziaria
dalle indagini razionali che formano l'oggetto della economia della finanza pubblica, quale ho a suo tempo
definito.
Ritengo opportuno, però, soffermarmi sul problema di detta neutralizzazione utilizzando largamen-
te il mio saggio citato del 1935, anche per dimostrare, ancora una volta, agli studenti, le manchevolezze in-
site in quelle conclusioni che troppo frettolosamente, e comunque irrazionalmente, vengono prospettate,
appunto, in veste di concrete normae agendi per la classe governante per la collettività.
La questione dà origine al seguente ordine di problemi: a) si può ritenere logica e possibile una ri-
forma dell'ordinamento dei singoli tributi o della «composizione» dei sistemi tributari, sulla base soltanto di
una ipotetica costante sensibilità congiunturale delle imposte?; b) è da considerarsi razionale l'adozione dei
provvedimenti di politica finanziaria tendenti a neutralizzare «a priori» le variazioni delle entrate fiscali nel
loro complesso, dovute presumibilmente alle fluttuazioni economiche?
Avverto subito che il problema di cui alla lettera a) non è suscettibile di soluzione teorica per via
deduttiva, perché indeterminato, e ciò per la dimostrata inesistenza di gradi differenziali, costanti di sensibi-
lità congiunturale per distinte imposte.
Ne deriva: 1) che gli effetti previsti delle riforme possono risultare diversi e talora contrastanti con
quelli che vorrebbero conseguirsi, mediante attuazione di imposte tendenti a risolvere i due problemi enun-
ciati; 2) l'errore di metodo di coloro che, dai risultati discutibili dell'esame dei predetti rapporti di dipenden-
za funzionale, passano al suggerimento, come «normae agendi», di riforme legislative informate alle con-
clusioni logiche discendenti da un solo punto di vista o riflettenti un solo fine od effetto fiscale previsto.
Le riforme fiscali immaginate possono agire in due distinti settori: 1) nell'ambito dell'ordinamento
dei singoli tributi considerati separatamente; 2) nei confronti dei sistemi tributari considerati nel loro com-
plesso; e riguardare quindi variazioni nella composizione dei sistemi medesimi.
Occorrerà accennare alla stabilizzazione del getto delle imposte, nel duplice senso: a) di adottare
imposte dal getto annuo costante e indipendente dalle fluttuazioni economiche; b) di compensare, durante
un periodo di più anni, gli effetti che si presuppongono dovuti alle fluttuazioni economiche, fermo rima-
nendo l'ordinamento tributario, in modo da rendere costante nel tempo per mezzo di vari espedienti, il getto
medio di uno o più tributi.
Supponiamo che o per estensione del ceteris paribus o per ammissione ipotetica della preminenza
del fine di neutralizzare l'influenza delle fluttuazioni economiche sul getto delle imposte, rispetto ad altri fi-
ni (di natura politica, giuridica, economica, demografica), si possano ritenere, in tutto o in parte, realizzabili
riforme come quelle che qui si esaminano, intese a modificare l'ordinamento dei singoli tributi.
Fra le modificazioni principali dell'assetto dei tributi si propongono: a) la trasformazione delle ali-
quote da progressive a proporzionali; b) variazioni alterne del livello minimo di esenzione delle imposte di-
rette; c) la manovra delle aliquote in ragione inversa del succedersi di alterne fasi di espansione o di depres-
sione economica; d) la condensazione delle aliquote (dell'imposta sugli scambi) ed altre riforme concernenti
l'ordinamento dei tributi.

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Le ragioni per le quali non si può teoricamente stabilire una relazione causale fra gli atti (come cau-
se) e gli scopi (come effetti) di neutralizzare la sensibilità congiunturale di singole imposte, possono intuirsi
richiamandosi alla analisi sviluppata nel precedente paragrafo. Precisamente basta rifarsi alle osservazioni
contenute nell'esame dei rapporti ipotetici di correlazione logica fra caratteristiche tecnico-giuridiche di im-
poste (reali e personali) sul reddito prodotto, nonché di quelle sul consumo e sui trasferimenti della ricchez-
za, da un canto, e fluttuazioni economiche, dall'altro.
Se passiamo a considerare talune proposte variazioni della «composizione» dei sistemi tributari nel
loro complesso, troviamo fra le principali riforme suggerite: a) l'estensione del numero e del «peso» relati-
vo delle imposte indirette; b) l'introduzione di imposte «neutre» o quasi (di capitazione o sul patrimonio).
Orbene, tali riforme od altre opinabili non consentono di risolvere razionalmente il problema della
neutralizzazione della sensibilità congiunturale delle imposte, perché anche ammessa per assurdo la premi-
nenza assoluta del fine in oggetto, su tutte le riforme fiscali, ci si trova di fronte ad una «entità variabile»
(sensibilità) nei confronti di singole imposte, in momenti e circostanze diverse, la quale richiederebbe ri-
forme continue, talora anche in senso opposto ed a breve distanza di tempo. Inoltre possono sorgere nuovi
problemi di ordine diverso.
Intanto nel caso a), ammessa pure la convenienza di riforme in tal senso (dal punto di vista ammini-
strativo, del costo economico, psicologico, politico, ecc.) dovrebbe supporsi fra le due categorie di imposte
(dirette ed indirette) una differenza costante di grado di sensibilità congiunturale, ipotesi questa arbitraria,
come ho dimostrato.
Inoltre con una più analitica distinzione nell'ambito della categoria delle imposte indirette, troviamo
fra esse quelle ad valorem (sugli scambi, sui trasferimenti, dazi doganali) le quali - anche aderendo alle opi-
nioni correnti, da noi criticate, intorno alla scala graduale di sensibilità - avrebbero una variabilità di getto
ed una «velocità» di sensibilità superiore a quella delle imposte dirette, che si vorrebbero da taluni far dimi-
nuire di numero e di peso relativo, nei sistemi fiscali.
Ma ammesso per assurdo che le imposte indirette, come categoria complessa, presentino in media
un minor grado relativo di sensibilità di getto, in rapporto alle fluttuazioni economiche, vi sono dei limiti
nella sostituzione di esse alle imposte dirette, come peso, per ciò che riguarda il getto, dal punto di vista sta-
tico della elasticità al variare della aliquota, supposte ferme le altre circostanze. Tali limiti accertabili in
concreto con approssimazione, non possono essere arbitrariamente superati, senza sortire effetti contrari al
fine in oggetto.
Infine, non si tiene conto dei «compensi» di reazioni di senso opposto che avvengono nell'ambito
del sistema complesso (imposte dirette ed indirette) col variare di circostanze indicate nel precedente para-
grafo, per distinti tributi, in un dato momento o per l'influenza del fattore tempo. Il processo (compenso di
reazioni) prescinde dalle pretese riforme legislative le quali potrebbero anche non avere, in date circostanze,
fondamento logico, in rapporto al fine, anche per queste ragioni.
Nel caso b), si riconosce che le imposte «di capitazione» non sarebbero «neutre» nei confronti delle
fluttuazioni economiche, perché se prescindono dalla situazione economica dei soggetti passivi, sono peral-
tro vincolate per il loro getto al fattore demografico (natalità, mortalità). Per quanto riguarda l'imposta sul
patrimonio, già si è fatta qualche osservazione sulle cause che si oppongono alla sua neutralità dalle fluttua-
zioni economiche. Ciò vale soprattutto per l'imposta sul patrimonio ordinaria, sul tipo di quella introdotta
in Italia nel 1939 e soppressa nel 1947 in Italia.
Consideriamo ora l'imposta sul patrimonio, come tributo che si applichi in via straordinaria e cioè
come istituto che consenta la realizzazione di un principio di «assicurazione» a favore dello Stato, contro
variazioni di una quota dei provvedimenti fiscali. Sia data una aliquota, supposta proporzionale. In questa
ipotesi l'imposta sul patrimonio, se esatta, come è avvenuto spesso, secondo un piano di rateazione in dato
periodo, potrebbe considerarsi come una serie di annualità costanti di credito tributario a favore dell'ente
pubblico.
In primissima approssimazione, quindi, il problema di assicurare allo Stato un'entrata fiscale indi-
pendente dalle fluttuazioni economiche, potrebbe ritenersi risolto. Infatti la valutazione dell'imponibile si
suppone avvenuta in un dato momento con esclusione del fattore «tempo», di dimensioni qualsiasi, nel qua-
le possano avvenire variazioni di valore negli elementi componenti, per influsso di fluttuazioni economiche.
Ma il raggiungimento di questo fine urta la generale riserva avverso alla premessa per cui la neutra-
lizzazione della sensibilità congiunturale delle imposte non dovrebbe risolversi in concreto nella stabilità
del getto annuo o corrente dei tributi, anche di fronte al variare delle condizioni economiche generali.

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In generale gli autori che hanno avanzato questa ipotesi, non si sono scostati da questo aspetto del
problema.
Peraltro, il costo misurato in aumento di pressione fiscale, potrebbe considerarsi nullo, nel caso in
cui la rateazione avvenisse durante un periodo caratterizzato da scostamenti di prezzi eguali e di segno con-
trario, sia per ampiezza (quantità) che per durata (tempo), rispetto al livello vigente nel «momento» della
stima del valore del patrimonio. È evidente che questa perfezione di movimenti simmetrici, ammissibile in
teoria, non è sempre provata storicamente e non si può quindi ritenere normale, rispetto ai periodi in cui si
ratea nella realtà il pagamento dell'imposta sul patrimonio.
Parlando di costo per la collettività o settori di essa, implicitamente si assume l'ipotesi della fase di
depressione economica. Ma ammesso che varii la pressione dell'imposta in ragione inversa al movimento
dei prezzi (qui assunti provvisoriamente anche ad indici delle fluttuazioni economiche), se nella fase di e-
spansione, ferme rimanendo le ipotesi sin qui esaminate, da un canto al costo per la collettività (o per un
settore) si sostituisce un caso di rendita fiscale in senso Devitiano, viene meno dall'altra parte il raggiungi-
mento dei fini ultimi dello Stato, dal punto di vista dei problemi che si esaminano. E cioè esso ottiene in-
troiti costanti, laddove le spese pubbliche correlative ai prezzi di mercato, nella fase di espansione, richiede-
rebbero, per ipotesi verosimile, entrate variabili nel senso dei prezzi o di altri indici delle fluttuazioni eco-
nomiche.
Quanto qui si è esposto, nei confronti dell'imposta sul patrimonio considerata nell'aspetto statico
(non quindi sui trasferimenti di ricchezza), vale in gran parte rispetto al sistema dei contingenti, ovvero del-
la fissazione a priori del getto che si intende ricavare da alcune o da tutte le imposte, allorché si introduce il
fattore «tempo», mantenendo relativamente costante la cifra del contingente al variare delle condizioni eco-
nomiche; ovvero non stabilendo una correlazione tendenziale approssimata al caso concreto, fra i due ele-
menti.
Infine, non ha significato logico la riforma legislativa, suggerita da taluno, nel senso della abolizio-
ne delle imposte aventi sensibilità superiore a quella media, e della sostituzione ad esse di tributi di grado
inferiore di sensibilità congiunturale. Ammesso che nella «gerarchia» dei fini della attività finanziaria, quel-
lo in oggetto sia prevalente, il problema della riforma secondo tali vincoli sarebbe indeterminato, in quanto
il raffronto, per la scelta dei tributi rispondenti al fine, avverrebbe in base ad un termine di significato incer-
to (media), nel tempo.
Tale media sarebbe, in concreto, la risultante di elementi che, in base alla trattazione svolta nel pre-
cedente e in questo paragrafo, costituiscono altrettante incognite (gradi relativi di sensibilità di singole im-
poste), i cui valori praticamente variano con l'alternarsi delle cause e degli «aspetti» delle fluttuazioni eco-
nomiche.

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CAPITOLO XV

TEORIA DELLA PRESSIONE TRIBUTARIA E FISCALE,


E DEGLI EFFETTI DELLA SPESA PUBBLICA

I.

LA TEORIA DELLA PRESSIONE NELL'AMBITO IPOTETICO DI UNO STATO.

I) Analisi dei termini dei rapporti con cui si esprimono


i concetti di pressione «tributaria» e «fiscale».

Si è fatta precedere l'analisi degli effetti delle imposte, sia considerando la loro tecnica (modi di ri-
partizione tributaria), sia gli effetti economici sui rapporti di scambio di beni e servizi.
Nei capitoli X e XI si sono individuati i limiti in cui si può progredire negli studi teorici finanziari,
prendendo in considerazione fenomeni di massa e quantità globali (reddito e spesa statale), anche dal punto
di vista che le odierne teorie prendono in esame, nel trattare del pieno impiego di risorse produttive, correla-
tivamente all'aumento od alla stabilizzazione del reddito collettivo, avvalendosi anche della manovra delle
entrate e soprattutto delle spese pubbliche.
Quanto precede, soprattutto in sede di analisi, e in tema di visione razionale dell'intero fatto finan-
ziario consistente nel prelievo e nella spesa pubblica, consente di affrontare con cognizione di causa la teo-
ria eminentemente sintetica della pressione fiscale.
Dal lato analitico-atomistico di pressione dei singoli vincoli tributari, si è discorso, soprattutto nel
senso della pressione della percussione, come momento che può orientare il contribuente (che finalistica-
mente miri alla conservazione di condizioni di massima soddisfazione preesistente al fatto tributario) verso
tentativi di trasferire, rimuovere, ecc. l'onere tributario medesimo.
Dal lato sintetico, di pressione o «burden» degli anglosassoni si è trattato sinteticamente, prendendo
in considerazione l'intero fenomeno o ragionando per masse di fatti. Ma non si è pervenuti ad un significato
univoco del concetto e dei fenomeni corrispondenti.
Si è accennato, con questa espressione, all'onere globale risentito dai membri della collettività o al
costo per essa del prelievo di una parte della ricchezza, considerata in sè oppure rapportata a quella a dispo-
sizione di collettività e singoli, prescindendone o prima dell'intervento statale (ottenimento coattivo o costo-
so di entrate e spese pubbliche). All'idea fornita dalla altezza oggettiva della quantità prelevata e spesa, si è
affiancata l'illusione o la sensazione dell'onere psichico arrecato dal fatto del prelievo, specialmente se si
tratti di pagamento cosciente (e non mascherato, come nelle imposte indirette confuse con i prezzi di merca-
to), ma non posto in relazione con i vantaggi della spesa pubblica, il cui apprezzamento sfugge spesso ai
singoli, trovando, per il problema di massa, la sede adatta nel calcolo della classe governante Questa, di
fronte agli elementi subbiettivi ed oggettivi della pressione esercitata dai modi e dal quantum
dell’ottenimento di entrate diverse da quelle per cui si esercita la libera scelta dei componenti la collettività
come domanda dei servizi, ed a quelli parimenti soggettivi ed oggettivi concernenti gli effetti, più o meno
vantaggiosi ed utili per la collettività, della erogazione del provento così ottenuto, procede in definitiva a
raffrontare gli elementi del calcolo della pressione fiscale, i quali non vertono, come vediamo tosto, soltanto
nel campo delle quantità monetarie e delle loro variazioni.
A questa soluzione del problema della interpretazione della pressione fiscale si finisce per perveni-
re, infatti, anche quando si parta dalle concezioni che diremo obiettive del concetto sintetico.
Ad es., Pantaleoni, autore di un celebre saggio omonimo, chiama pressione tributaria (termine meno
comprensivo di fiscale) «la constatazione del rapporto fra le entrate pubbliche (in quanto sono prelevate so-
pra i contribuenti), la ricchezza dei cittadini e l'importanza delle restituzioni che i medesimi ricevono dalla
attività dello Stato». Ovvero fa riferimento ai segni che rivelino le «variazioni» in quel rapporto.

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Ma anche in questa obiettiva visione di rapporto fra quantità monetarie, si inserisce l'elemento sog-
gettivo, dovendosi tener conto della importanza, anche in termini di utilità subbiettiva, delle restituzioni
statali ovvero della spesa pubblica, specialmente per i così detti servizi o beni immateriali offerti dallo Sta-
to.
Altri (ad es. il Borgatta, che si è occupato più volte ed anche con studi statistici del problema) indi-
vidua la pressione fiscale come concetto relativo, interpretato e calcolato nelle seguenti forme più comuni:
a) rapporto fra la somma netta delle contribuzioni pubbliche pagate da una collettività in un dato
periodo di tempo (anno solare od anno finanziario) allo Stato ed agli altri enti coattivi e l'ammontare del
reddito privato nello stesso periodo;
b) rapporto fra la somma netta di cui sopra e la popolazione contribuente (onere fiscale medio per
abitante, per individuo produttivo, per gruppo familiare), ecc.;
c) rapporto - che tiene conto contemporaneamente del dato «ricchezza privata» e del dato popola-
zione - fra l'onere tributario medio per abitante ed il reddito medio per abitante.
Altri modi di complicare o perfezionare l'espressione del concetto riguardano il riferimento alla di-
stribuzione dei redditi, alla esclusione di un minimo, individuale, necessario a vivere o a far tener conto di
un minimo comune e dato tenor di vita, specialmente per poter procedere a confronti internazionali; inoltre
sia per detti confronti nello spazio che in quelli concernenti lo stesso Stato, in diversi momenti, nel tempo, è
elemento differenziatore per la pressione tributaria e fiscale la diversa composizione delle entrate tributarie,
a seconda che essa sia costituita dal provento di imposte indirette sulla ricchezza trasferita e consumata o da
tributi diretti e progressivi sui redditi e patrimoni, ecc.
Anche a rimanere nell'ambito di rapporti fra quantità espresse monetariamente, non vi è accordo
circa la composizione dei termini del rapporto, sia per quanto riguarda il numeratore, sia per quanto riguar-
da il denominatore del rapporto.
A) In senso stretto, cioè riferendosi al concetto di pressione tributaria, occorrerebbe far entrare nel
termine i prelievi effettuati a mezzo di tributi nel significato in cui si è compiuta la classificazione in queste
lezioni, sia che essi vengano prelevati dallo Stato, sia che entrino nei bilanci di enti pubblici minori, territo-
riali ed istituzionali, dotati del potere di prelievo coattivo (compresi, quindi contributi di consorzi, di istituti
previdenziali ed assicurativi, ecc.) e costi di riscossione (aggi). Si aggiungano gli obblighi accessori imposti
ai contribuenti nelle modalità di applicazione dei vincoli tributari.
Poiché, abbiamo considerato i proventi dei monopoli fiscali una alternativa rispetto alla tassazione
dei consumi (con imposte sulle quantità prodotte, e vendute), occorre far figurare fra le entrate tributarie
anche i proventi delle privative, detratta la parte che fronteggia il costo industriale di produzione e quello
commerciale di distribuzione dei generi di monopolio fiscale.
B) α) Allargando il concetto di pressione col qualificarla fiscale, si può far rientrare nel numeratore
del rapporto anche il maggior costo per la collettività della gestione di imprese per cui vigano i prezzi qua-
si-privato e pubblico (costo pubblico superiore a quello che sarebbe il costo di eguale impresa condotta da
privati con libero impiego di fattori produttivi).
β) Così dicasi del costo per la collettività del ricorso ai prestiti; e ciò non per l'interesse più o meno
elevato (o coattivamente imposto o variato), interesse a cui corrisponde l'imposizione tributaria per il servi-
zio dei prestiti, quanto per la ragione che ho posto in evidenza nel 1933, nei citati saggi sull'ammortamento
del debito pubblico. Mi riferisco al fatto che il capitale disponibile, a cui attinge l'ente pubblico quando e-
mette prestiti sul mercato, è una quantità che dipende dal tasso di interesse che esso adotta. E detto tasso
può risultare vincolato od elevato in misura tale da dar luogo ad una redistribuzione dei capitali fra i vari
impieghi, atta a modificare negativamente l'altro termine del rapporto, costituito dalla variabile dipendente
reddito o ricchezza privata.
In questo senso ho prospettato la pressione del prestiti pubblici sulla Rivista Bancaria (1946).
γ) Inoltre, occorre far riferimento alla pressione od al costo del ricorso alla emissione di moneta per
anticipazioni di essa da parte della banca di emissione a favore dello Stato, allorché non si crei, attraverso la
attività statale, una contropartita che neutralizzi gli effetti inflazionistici.
Non si tratta dell'onere o sacrificio costituito dal «risparmio forzato», soltanto, che viene imposto
per brevi periodi dalla distribuzione del potere d'acquisto monetario, che è solitamente tale da risultare ri-
dotto nelle mani di alcune categorie e crescente nelle mani di altre. Ma dell'effetto finale di lungo periodo,
che si traduce in vero e proprio prelievo tributario in termini di riduzione di redditi reali e di valori capitali a
causa di svalutazione di redditi e crediti privati per fatto monetario. A rigore, almeno per la parte di crediti
che si svalutano in termini di titoli di Stato (obbligazioni), che la inflazione polverizza, occorrerebbe far fi-
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gurare, in congruo periodo di tempo, quantitativamente l'onere a carico dei portatori di titoli, come pressio-
ne fiscale. Il problema è rilevante, considerando diversi gruppi della collettività. Addirittura taluno, che pe-
rò ben teme di essere catalogato fra gli eretici dell'economia, seguendo il noto Gesell, ha sostenuto (BRIEN,
Vers la suppression des impôts par l'inflation dirigée, Bruxelles, E. Bruylant, 1949) l'alternativa fra imposte
e inflazione manovrata. (Non pare che nell'artificioso, epperò a prima vista affascinante studio, si faccia po-
sto ai problemi della eguaglianza dell'imposizione a mezzo dell'inflazione e della deflazione, se si preserva-
no sostanzialmente, come sembra, i salari e si abbandona al mercato il funzionamento del sistema totalita-
riamente monetaristico, agente volutamente ed entro i limiti del prelievo di un'imposta unica per questa via
«a detrimento dell'insieme dei contribuenti», sola espressione genericamente fiscale, in una intera monogra-
fia di centinaia di pagine).
Qui si allude al ricorso, inevitabile speso o attuato con voluti bilanci in disavanzo (deficit spending)
alla emissione di moneta per fronteggiare spese soprattutto straordinarie e talora ordinarie, quando si tratti
di dar luogo all'intervento atto ad elevare tendenzialmente il reddito di tutta la collettività, attraverso l'au-
mento della occupazione di risorse produttive, in date fasi del ciclo economico, nello spirito del Keynesiano
«full employment», a cui si è fatto riferimento in precedenza e di cui si farà cenno più oltre.
In queste precisazioni, si è tenuto presente implicitamente una economia più o meno vincolata, per
individuare i termini del rapporto che esprime la pressione fiscale, come vedremo, grossolanamente e in
modo approssimativo.
δ) Ma anche in una economia totalmente vincolata, in parte potrebbero ricorrere gli elementi del
rapporto che, a giusta ragione, come altri studiosi, F. Vinci, quale definizione della pressione «tributaria»,
ritiene «infido» (nelle citate Istituzioni, pag. 71). Dico «in parte» perché occorre tener conto delle entrate
che si procurano le «unità pubbliche» agenti nel campo della produzione per fronteggiare i costi, come dirò,
distinte dai tributi in senso tradizionale nei sistemi eclettici. In un ordinamento economico collettivistico, ad
es. secondo Vinci (Gli ordinamenti economici, vol. II, Giuffrè, 1945, pag. 26), «il calcolo della pressione fi-
scale avrebbe interesse se limitato al rapporto fra il gettito delle imposte nell'anno e il corrispondente valore
dei redditi familiari diretti o il loro complesso, cioè le spese familiari totali». Ed aggiunge: «Certamente a-
vrebbe ancora significato il rapporto fra gli incassi lordi delle imprese statali e il valore del reddito della
collettività, ma è chiaro che tale rapporto non darebbe una misura del grado di intervento dello Stato nella
attività produttiva, il qual grado sarebbe di già un massimo; ma risentirebbe l'influenza della natura dei pro-
dotti in relazione alla tecnica produttiva». Col dire che «ciò pone in miglior luce la complessità di tale rap-
porto anche nell'ordinamento economico liberista e mette in guardia contro le semplicistiche interpretazioni
di esso», sembra che il Vinci intenda anche far riferimento alle differenze di produttività delle combinazioni
produttive statali (rispetto alle private) a cui, come elemento di costosa attività finanziaria, si è fatto richia-
mo più sopra.
Per mettere in evidenza come, pure a giudizio di altri autori, anche in una economia totalmente vin-
colata, in cui lo Stato si assuma la produzione totale, sussista la pressione fiscale nel senso in cui se ne di-
scorre in queste pagine (denominandola tributaria per la parte che concerne il prelievo delle entrate che
hanno tale natura) cito un passo di U. Ricci (La pressione fiscale, «Rev. d'Ec. Pol.» N. 2, 1937).
Egli denomina pressione finanziaria, convenzionalmente, per distinguerla da quella fiscale, il coef-
ficiente di statizzazione della economia (ad es. della produzione). «Noi riflettiamo che i fatti finanziari sono
le spese pubbliche e le entrate pubbliche, e che, se la produzione si statizza le spese e le entrate debbono
aumentare... Ma un'entrata pubblica non è un'entrata fiscale: noi consideriamo come fiscali soltanto le en-
trate che sono richieste per i servizi pubblici indivisibili, cioè a dire l'entrata fiscale è l'imposta (tutt'al più vi
si può aggiungere le tasse)». Così dovrebbe dirsi, continuando il discorso di Ricci, nel caso di un collettivi-
smo economico integrale, con statizzazione di tutte le imprese che diano entrate, che la pressione finanzia-
ria (coefficiente di statizzazione) è del 100/100: ma se in modi varii, con tributi formalmente prelevati (di-
retti e indiretti) o con una politica di prezzi si ottiene un'entrata fiscale, supponiamo del 30% del reddito na-
zionale, la pressione fiscale si limita a questa quota. Il che dimostra che anche in questa, che è con un mas-
simo di vincoli, fra le concepibili ipotesi in teoria e nel fenomeno concreto, ha motivo di essere il fatto rap-
presentato da un rapporto che indica la pressione fiscale (in senso stretto, la pressione tributaria).
Se si tiene conto della distinzione che ho sopra fatto fra pressione «tributaria» (a cui pensa Ricci
con il suo termine «fiscale») e pressione «fiscale», si può dire che entrambi i concetti siano compatibili con
l'ipotesi di economia totalmente statizzata.
Individuati, di massima, ovvero per la loro natura, gli elementi monetari del numeratore del rappor-
to che grossolanamente esprimerebbe la pressione fiscale (prelievi coattivi e costi per la collettività deter-
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minati dalla attività finanziaria), si è trovato il denominatore nel reddito privato globale «lordo d'imposta»,
ovvero quale risulta prima del pagamento delle imposte. Si è espresso con R = Σ r per dire che il reddito
nazionale è la somma dei singoli redditi, privati e pubblici, senza alcuna detrazione di imposte. (Si fa esclu-
sione della quota di reddito costituito da stipendi di enti pubblici, pensioni e interessi sui debiti, in cui si ri-
solvono le imposte e le entrate tributarie prelevate dagli enti pubblici). Il Griziotti ha posto in evidenza an-
che il patrimonio come termine del rapporto. Ma qui ragioniamo in termini di «flusso» e non di «fondo» di
ricchezza, eminentemente. In prima approssimazione, adottando i simboli rispettivi, T ad indicare la quanti-
tà al numeratore come sopra qualificato (lettera A), ed R per quella al denominatore, si è detto che

T
Ptl = [I]
R

esprime il concetto di pressione tributaria lorda (che, come si è visto, può essere riferito ad una in-
tera collettività o ai singoli componenti avendone in questo secondo caso l'«onere tributario medio»).
Se si esprime non il concetto ristretto di pressione tributaria, ma quello ampio di cui alla lettera B)
cioè fiscale, occorre modificare i simboli aggiungendo S (oneri di cui alle lettere α, β, γ, δ), nel numeratore
(ed adottando, poi, s per l'incremento):

T +S
Pfl = [III]
R
Per la introduzione di altri fattori, allo scopo di semplificare, teniamo presente la [I].
Il termine di pressione tributaria netta è stato espresso dalla modificazione del rapporto, togliendo
dal numeratore il valore monetario dei «vantaggi», i «ricavi», le «restituzioni», ecc. che, con la spesa pub-
blica, determina l'attività finanziaria per la collettività o gruppi e singoli membri di essa. Donde:

T −V
Ptn = [III]
R

Espressione statica o fotografica che, come asseriva Pantaleoni, ha poca importanza pratica se sta a
significare pressione «tollerabile o non tollerabile».
«Per apprezzare una situazione finanziaria di uno Stato, è fondamentale il saper dire se ciò che lo
Stato costa ai contribuenti di un determinato paese, in un determinate momento, si un peso crescente o de-
crescente». «Ora la questione del movimento della pressione tributaria - continua Pantaleoni - si decompone
evidentemente in due quesiti coordinati, cioè da un lato occorre sapere: 1) se la ricchezza che lo Stato as-
sorbe in un dato momento e per i suoi fini una quota eguale, maggiore o minore dell'avere dei cittadini per
rapporto a prima; e 2) se, d'altra paste, l'impiego dei mezzi. che nel momento preso in esame sono a dispo-
sizione dello Stato, sia tale da rendere, a parità di quota di ricchezza assorbita, il peso per i contribuenti più
o meno gravoso di prima».
Quindi il fattore tempo è essenziale e determinante allorché si voglia interpretare il concetto quale
è, in modo sommario e grossolano, espresso dai simboli del rapporto.
Ad es. il Borgatta, nel prospettare gli effetti della spesa pubblica, distingue due fasi:
a) la prima, che definisce monetaria, che riguarda i fenomeni relativi al potere d'acquisto che tem-
poraneamente lo Stato toglie ai privati con l'imposta (o col prestito). In proposito corregge l'erronea nozione
che con l'imposta venga «sottratta» alla collettività una certa somma di potere d'acquisto, in detta prima fa-
se. «Tutto il potere d'acquisto che momentaneamente i privati trasferiscono allo Stato sotto forma d'imposta.
è rapidamente reimmesso nel mercato privato attraverso la spesa statale»: questo sottolinea l'A., fatta ecce-
zione per il «fondo cassa» e ammesso che non ci siano emissioni supplementari di mezzi di pagamento.
b) La seconda fase, che denomina economica, è «quella che riguarda gli effetti definitivi, sostanzia-
li, della spesa stessa, sull'ammontare del reddito (reale) e del patrimonio nazionale». «Essa in concreto si
connette inscindibilmente a quella monetaria, perché incomincia dal momento dell'acquisto di beni e servizi
reali con la moneta pagata dallo Stato e prosegue con i mutamenti della struttura produttiva derivanti dai so-
stituirsi di domande statali a quelle private. Ma non si esaurisce in queste ripercussioni. Mutamenti delle di-
rezioni dell'investimento dei risparmi, della struttura produttiva, della ripartizione del reddito nazionale so-
no bensì effetti economici imponenti, ma strettamente legati alla redistribuzione del potere d'acquisto opera-
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ta dallo Stato; non consentono ancora di rispondere alla domanda: la spesa dello Stato aumenta o diminui-
sce il reddito reale della nazione ed il patrimonio reale precedenti il prelievo fiscale? ».
«Il punto essenziale è stabilire a quali conseguenze danno luogo, in rapporto al reddito reale e al
capitale reale della nazione, i beni e servizi in cui lo Stato impiega l'imposta, nel particolare uso e destina-
zione che lo Stato dà ai medesimi; in ultima analisi, accertare se l'impiego che ad essi dà lo Stato, aumenta
il flusso attuale e futuro dei beni godibili dalla collettività in misura superiore od inferiore all'impiego dato
dai privati». (Paragrafo 37 de La finanza della guerra, Gazzotti, Alessandria, 1945).
Il Borgatta critica la risposta univoca che si pretende di dare dalla cosiddetta teoria economica della
finanza, per la quale, «a priori» la destinazione di una parte della ricchezza nazionale all’impiego da parte
dello Stato, attraverso l'attività finanziaria, accresce il reddito, come può farlo l'impiego «più utile», che
contribuisce, quindi, alla soddisfazione massima od al massimo di ofelimità. (Vediamo tosto quale visione
debba darsi, come si è preannunciato, del problema introducendo la variabile utilità soggettiva).
Comunque, volendo darne una qualche. idea, con l'espressione non del tutto adeguata, simbolica
che segue, si può dire che la pressione tributaria può aumentare, rispetto ad un dato momento, rimanere co-
stante o decrescente a seconda del segno. che, «a posteriori», sia possibile inserire fra i seguenti rapporti:

(T + t ) − (V + v) < T − V
R+r >
R
(ammesso che r sia incremento di reddito nel tempo).

Se si immagina superabile la difficoltà di dare valore monetario ai servizi utili V e v, ovvero se si


riesce a tradurre in quantità oggettive «l'importanza delle restituzioni», per usare l'espressione di Pantaleoni,
si può non solo concludere che la pressione tributaria sia rimasta immutata o che addirittura non esista, se il
valore degli effetti della spesa statale neutralizza la distrazione di redditi dalla destinazione che avrebbero
avuto nelle mani dei privati, annullando la pressione tributaria medesima.
Ma interpretando adeguatamente i pur inadeguati rapporti simbolici, si può arrivare ad una valore di
(V + v) superiore a quello di (T + t), cioè al sottraendo maggiore del minuendo. Aritmeticamente ciò signifi-
ca che il rapporto assume valore negativo, ovvero che la pressione fiscale diminuisce al punto da annullarsi
e da far divenire l'intervento statale causa di aumento delle combinazioni produttive private, dopo che sia
trascorso un adeguato periodo di tempo e vagliando i termini del rapporto in cui figurano incrementi di pre-
lievi, di effetti di servizi pubblici e di reddito per questa ragione.
Economicamente, quindi, la diminuzione sino a tal punto della pressione fiscale può significare ap-
porto positivo della complessa funzione statale, nel senso dell'espressione dell'americano Hansen (leverage)
cioè del potenziamento della attività dei privati.
Sempre in via di interpretazione dei simboli, si può dire - generalizzando per comprendervi il signi-
ficato economico della [II] - che il reddito privato, globale divenga variabile dipendente,

r = f(t, s, v)

funzione cioè: 1) dei prelievi tributari e di altre forme di attività finanziaria che danno luogo a pres-
sione fiscale in senso ampio, con tutti i fatti di redistribuzione del potere d'acquisto; 2) della diversa produt-
tività della spesa pubblica nel tempo.

II) La dipendenza funzionale del reddito nazionale dalla manovra di quantità monetarie prelevate e
spese ad opera della classe governante per lo Stato.
Un appropriato accostamento fa vedere in questi ragionamenti, così come nella concezione Keyne-
siana, il reddito quale variabile dipendente, nella sua quantità globale, cioè funzione della manovra, nel
tempo, di quantità di potere d'acquisto da parte dello Stato (prelievo e spesa), attraverso quella che nel cap.
X dell'Introduzione si è detta fiscal policy, posta a servizio di una politica ad es. di piena occupazione delle

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risorse produttive345. Cioè la pressione fiscale è vista, come nozione tradizionale e fenomeno, nel quadro dei
problemi di massa che polarizzano verso la variabile «reddito nazionale», a cui si riferisce sistematicamente
l'economia teorica odierna, attraverso lo studio degli effetti della spesa pubblica attinta alle forme su espo-
ste: prelievo di tributi, emissione di prestiti, emissione di moneta per conto dello Stato, etc.
Gli effetti della manovra finanziaria, anche sugli atteggiamenti (propensioni) dei membri e gruppi
della collettività, a cui si sottragga e si conferisca volta a volta il potere d'acquisto, nel tempo, erano stati
considerati, dall'autore di queste lezioni, nel 1933, a proposito del ricorso a imposte e prestiti, già allora nel
significato che poi hanno assunto in Keynes, nel senso odierno, cioè, (come ho ricordato nel cap. X, citato,
dell'Introduzione) di propensioni al consumo ed al risparmio, per indurne le ripercussioni sul reddito come
variabile dipendente, i cui incrementi illuminavano le soluzioni da dare al ricorso ad imposte per annullare
prestiti.
Un complesso di effetti, appropriatamente analizzati, come consente la teoria pura finanziaria, rife-
riti al problema di massa, che si imposta discorrendo di pressione fiscale, può addurre, nel tempo, ad un
aumento o ad una diminuzione od alla costanza del reddito nazionale. La prima possibilità (aumento) può
aversi quando la pressione fiscale inverta il suo segno, nel senso in cui il valore numerico di (T + t + S + s)
sia più che compensato da (V + v), o quando lo stimolo alla produzione sorpassi l'ostacolo che può derivar-
ne dai prelievi tributari e da altri procedimenti fiscali. Questi, considerati isolatamente, possono ridurre la
produzione probabilmente, come la spesa pubblica può elevarla, specialmente se usa disponibilità hoarded
o tesaurizzate in precedenza dai privati.
Ma non può concludersi in senso necessariamente univoco, nel ragionare in termini monetari od o-
biettivi, come pretendono le teorie che fanno applicazione del cosiddetto «moltiplicatore», notoriamente in-
trodotto nella scienza economica dal Kahn, utilizzato da Keynes e dalla letteratura successiva, come ritengo
noto ai lettori di questo corso di finanza.
Occorre, invero, procedere, in un adeguato periodo di tempo, alla analisi, possibilmente separata,
degli effetti specifici esercitati sulla variabile reddito globale, attraverso complessi procedimenti di produ-
zione e di distribuzione, con corrispondenti variazioni di quantità consumate e risparmiate, influenzate dalla
strumentalità diversa della funzione statale, ecc.: effetti che in questo capitolo non si possono analizzare,
ma che per quanto riguarda la scelta degli strumenti fiscali sono stati e verranno ulteriormente illustrati, nel
presente corso. Le congrue conclusioni non sono necessariamente quelle univocamente ed aprioristicamente
tratte dalla applicazione meccanica del cosiddetto «moltiplicatore», che per se stesso non illumina i proble-
mi con la sua automatica azione aritmetica, che prescinde dal diverso senso delle ripercussioni che il fatto
finanziario può provocare sull'intero mercato, in un adeguato periodo di tempo.
Non quindi, come incidentemente annota il Borgatta, la cosiddetta teoria del moltiplicatore o la teo-
ria della utilità dell'aumento delle spese statali ha confuso soltanto i problemi delle due fasi (monetaria ed
economica) degli effetti della spesa pubblica, soffermandosi soprattutto sulla prima; ma, a mio parere, ha
troppo meccanicamente concluso in senso univoco, per l'aumento del reddito collettivo, anche quando si
abbia neutra redistribuzione di potere d'acquisto senza l'effetto voluto sul reddito (aumento), e senza dimo-
strare in quali circostanze e condizioni la variabile dipendente «reddito nazionale» è funzione della attività
finanziaria considerata per gli effetti del procedimenti di prelievo e della redistribuzione del potere d'acqui-
sto anche mediante la spesa pubblica.
Da questo punto di vista, una visione appropriata del problema quale, al di sopra delle piccole for-
mule e dei simboli troppo semplici, è stata offerta dalla teoria che proviene dalle impostazioni di tipo clas-
sico (per contrapporle alle Keynesiane) dei problemi finanziari, non avrebbe dovuto far durare fatica ad e-
scludere la logica economica dalla pretesa affermazione, che è tesi «a priori», infondata, secondo cui una
spesa pubblica, finanziata anche con prelievo tributario, farebbe aumentare il reddito (comprensivo dei ser-
vizi statali) in misura esattamente eguale alla spesa pubblica!
Fra la meccanica utilizzazione di formule e la ragionata visione di possibilità alterne vi è un abisso
logico che induce a non prendere in considerazione tesi come quella predetta, che è stata variamente confu-
tata e discussa (346).
__________
345
Si vegga in questo senso: E. D'ALBERGO, “Les problèmes de l'économie financière traditionnelle et la théorie ke-
ynesienne”, che riassume sulla «Revue de science et de législation financières» una lezione tenuta all'università di Pa-
rigi.
(346) In Italia si veda, fra l'altro, quanto è apparso sulla «Rivista Bancaria», 1950 e 1951 a firma di Villani, Federici,
Parravicini, Gola, Selan.
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Tornando a considerare da questo punto di vista di ragionamenti di tipo Keynesiano, condotti avva-
lendosi delle propensioni al consumo ed al risparmio, nella tecnica o meccanica del «moltiplicatore», del
resto non è dimostrato che la spesa di un dato ammontare di tributi prelevati dal mercato, abbia necessa-
riamente, come effetto, un aumento del reddito globale. Infatti: a) si può dimostrare che la pressione tributa-
ria può rimanere immutata, formulando una delle possibilità su indicate; b) parimenti si può far vedere che
il reddito, prelevando e spendendo tributi, può rimanere immutato in termini monetari, anche introducendo
nel procedimento la «meccanica del moltiplicatore», a cui vengo ad accennare brevemente, supponendo no-
ta questa visione in uso nella spiegazione degli effetti della spesa pubblica, seguendo un orientamento teori-
co di tipo Keynesiano.
Mi limito a ricordare il significato della (PMC) propensione marginale al consumo, come rapporto
fra l'aumento del consumo e l'aumento del reddito a cui il primo è correlato; per noto, logico complemento,
si concepisce la propensione marginale a risparmiare (PMS), essendo infatti PMC + PMS = 1.
Supponiamo la PMC = 2/3 (e che quindi sia la PMS = 1/3). Si faccia l'ipotesi di un investimento di
1.000 unità monetarie; secondo la «teoria del moltiplicatore» si avrà un corrispondente aumento di reddito
monetario nelle mani dei lavoratori impiegati in una data opera che supponiamo «pubblica». Se la loro pro-
pensione marginale al consumo è di 2/3, come supposto, essi spenderanno 666,66 unità in nuovi beni di
consumo, determinando una corrispondente entrata addizionale per i produttori di questi beni. Se essi, a lo-
ro volta, avranno una PMC di 2/3, daranno luogo ad una spesa nella misura di 2/3 di 666,66, ossia di 444,44
e così via, secondo la successione temporale dei «periodi di produzione». Detti periodi, ad es. in un anno,
possono praticamente essere due, tre, quattro, a seconda dei campi produttivi stimolati dalle destinazioni di
potere d'acquisto creato con l'investimento o la spesa primaria.
Soffermandoci sulla azione del «moltiplicatore», possiamo definirlo come il coefficiente numerico
che mostra la grandezza dell'aumento del reddito, dovuto ad un aumento dell'investimento (nel caso spesa
pubblica).
Data la serie di cui sopra, si sono esposti alcuni valori numerici; essa risulta di termini successivi
anche in senso temporale: I + 2/3 + (2/3)2 + (2/3)3 + ..., la cui somma è uguale al rapporto fra il primo ter-
mine della serie e l'eccedenza della unità sulla ragione (2/3) che indica la PMC (nel caso nostro, in cui,
quindi, la PMS = 1/3).
1 1
Perciò diremo moltiplicatore simbolicamente, il rapporto . Numericamente = 3.
1 − PMC 1 − 2/3
Cioè, all'investimento iniziale di 1.000 unità, si aggiunge un consumo secondario. di 2.000 unità.
Quanto più è elevato il valore numerico di PMC, tanto maggiore è la variazione corrispondente del reddito
che ne deriva.
Nella espressione geometrica, se indichiamo sull'asse delle ordinate l'investimento (ed il risparmio)
e sull'asse delle ascisse il reddito, avremo, tracciando la retta che rappresenta la propensione al risparmio
(marginale) (PMS), tenendo conto che essa nell'esempio è di 1/3, l'aumento meccanicamente corrispondente
nel reddito.
Donde si desume che innalzando l'investimento di 10 unità, ovvero la retta II alla retta I'I', che indi-
ca l'investimento da 10 a 20, come ordinata, si ottiene un aumento di 30 come reddito misurato sull'asse del-
le ascisse, mentre il risparmio risulta, in corrispondenza, eguale all'investimento = 20.
Orbene, questa è la meccanica del «moltiplicatore», non considerando l'origine della somma spesa
od investita inizialmente
il che è lo stesso, non considerando quale può essere l'effetto di un prelievo tributario eguale all'in-
cremento del reddito da OR ad OR'.
Per questo, si è ricorso alla rappresentazione alternativa, in cui figurano il consumo, l'investimento
eguale al risparmio, ed il reddito. La retta che descrive l'angolo di 45° indichi l'inclinazione di I. La linea
che rappresenta il consumo sia, cioè, ad inclinazione minore di I e per differenza si abbia la linea che rap-
presenta il risparmio, come inclinazione.
Seguiamo, ad es., il Samuelson, che nella fig. 71 in cui siano in equilibrio il reddito OR, il consumo
RC (C è un punto sulla linea cc del consumo) e l'investimento privato CS (S è sulla linea ss dell'investimen-
to = risparmio), fa intervenire la spesa pubblica nella misura SP (P essendo sulla gg che indica la spesa
pubblica). L'effetto sia quello di far elevare il reddito da OR ad OR', sull'asse delle ascisse (riferendoci alla
figura 70 il reddito aumenti da 170 a 200).

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Supponiamo che un prelievo tributario intervenga, nella misura di 30 unità (delle 200 che corri-
spondono ad OR' nella figura alternativa, come rappresentazione), cioè nella stessa misura in cui la spesa
pubblica, agente come un investimento privato, lo aveva innalzato (da OR = 170 ad OR' = 200).

Quale è l’effetto .dell'imposizione eguale alla spesa pubblica? Secondo quanti si avvalgono, come il
Samuelson, della tecnica del «moltiplicatore», detto effetto si tradurrebbe in un abbassamento della linea
del consumo. Cioè, la simultanea considerazione del prelievo tributario e della spesa statale neutralizza gli
effetti del «moltiplicatore», sul reddito, e fa risultare, in questo esempio, invariato il reddito. Invero, gli «ef-
fetti del moltiplicatore», che potrebbero, in certe condizioni del ciclo, aversi nel caso lo Stato attingesse ad
altre fonti (ad es. prelievo di disponibilità tesaurizzate, incremento di mezzi monetari in via addizionale,
ecc.), nel senso dell'aumento da OR ad OR', si annullano nel caso in cui la spesa abbia di fronte a sè un im-
posta che riduca il potere d'acquisto e spinga il punto di equilibrio, che determina il reddito, a sinistra e in
basso.

Detto abbassamento della curva del consumo, dovuto all'imposta, abbasserebbe il livello del reddito
collettivo di equilibrio in misura eguale a quella di cui la spesa pubblica lo aveva fatto aumentare, per river-
bero meccanico del «moltiplicatore».

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Si rovesci il ragionamento: si consideri quale potrebbe essere stato l'effetto sul reddito collettivo di
un prelievo di imposte e di un'equivalente spesa, pur introducendo la tecnica o meccanica del moltiplicato-
re. E si conclude meccanicamente nel senso che il reddito rimane invariato ad OR, come si poteva conclu-
dere ragionatamente per altra via diversa dalla teoria Keynesiana, ritenendo immutata la pressione tributa-
ria.
Ma questa, dopo quanto precede in questo capitolo, non è conclusione economica necessaria ed u-
nivoca; nè nel senso della soluzione, nè per il quantum della variazione, essendovi, anche, quando agiscono,
numerosissimi «moltiplicatori», con i diversi effetti complessi dell'entrata oltre che della spesa, in rapporto
anche alle numerose ipotesi che possono farsi sui valori numerici corrispondenti alle «propensioni» [(PMS)
e (PMC)].
Naturalmente allo stesso modo in cui una riduzione della pressione tributaria si può tradurre in un
aumento del reddito, considerando nel tempo gli effetti del prelievo sulla produzione (347) e sulla distribu-
zione, come sopra si è detto, può farsi eguale ammissione, quando concorrano condizioni propizie alla «a-
zione stimolatrice» della spesa pubblica, a seconda che essa sia alimentata da prelievo di imposte, da tassa-
zione di disponibilità tesoreggiate, da ricorso a prestiti, nelle distinte fasi del ciclo economico. Esame anali-
tico che qui non si conduce, per abbreviare.
Nelle pagine introduttive, a proposito di funzione che si assegna allo strumento finanziario per
l'aumento della occupazione e del reddito nazionale, ho, fra l'altro, sottolineato la possibilità che la manovra
delle quantità finanziarie possa contribuire a far superare i «punti morti» nella dinamica del sistema econo-
mico, come «motore ausiliario dell'economia» - come lo considera Taylor che segue Hansen - nel conside-
rate l'intervento statale anche con bilancio in deficit (deficit spending) o anche la transitoria immissione di
potere d'acquisto nel mercato (pump-priming) (348). Fra le circostanze propizie, che Bresciani Turroni am-
metteva (nel criticare la meccanica, con effetti paradossali, del moltiplicatore: in «Rivista Bancaria», 1939 a
cui rimando), figuravano le risorse disoccupate che entrano nelle combinazioni produttive e l'azione del fat-
tore psicologico (o «moltiplicatore psicologico»), allorché «il ridestarsi della domanda, dovuto all'impulso
dato dallo Stato mediante le opere pubbliche, la diminuzione degli stocks, un leggero aumento di prezzi,
comincino a diffondere nelle classi degli imprenditori la convinzione che la depressione è ormai finita».
Non è questa la sede per continuare a trattare di un tema che deve ritenersi esaurito o comunque a-
deguatamente abbordato dalla teoria economica che suppongo nota al lettore o studente.
Qui si intende evitare una critica aprioristica e in pari tempo ogni entusiasmo per l'azione meccani-
ca del «moltiplicatore» espressa mediante formulette fallaci nel loro significato, di fronte alla interpretazio-
ne del complesso fenomeno, considerato nel tempo.
II fattore tempo, per giudicare degli effetti definitivi o reali od «economici» (nel significato in cui
Borgatta usa il termine) è talmente determinante, che addirittura il Papi, nel trattare della dinamica della
pressione tributaria (Equilibrio fra attività economica e finanziaria, Giuffrè edit. 1942), ne adotta una unità
abbastanza ampia, dandone un'idea concreta accennando ad esempi di cinque, dieci anni.
Da questo punto di vista anche la conclusione semplicisticamente dedotta dalla dimostrazione gra-
fica di Samuelson potrebbe essere conclusione diversa, nel confrontare (a) il costo della attività dello Stato
«produttore di beni e servizi, promotore di opere di interesse sociale» come lo definisce Papi, nell'ambito
dell'ipotesi di mercato chiuso (costo che si traduca in eventuali perdite), con (b) il rendimento della stessa
azione statale: come può concludersi rilevando un aumento di reddito inferiore o superiore alle perdite o ai
costi determinati dalla azione statale (entrate e spese) e rispettivi effetti.

__________
(347) Di essi il modo di estrinsecarsi è stato indicato nel capitolo VIII dell'Introduzione in cui si tratta anche della
strumentalità della funzione statale; nel capitolo sulla capacità contributiva e, in più parti, nel capitolo sugli effetti e-
conomici dell'imposizione. Rimando anche lo studente, che si occupi di questo problema, ai saggi intitolati: E. D'AL-
BERGO, Reddito e imposte - Saggio critico sui produttivismo nella attività finanziaria, cit. e Discriminazione delle spe-
se pubbliche indivisibili, cit. Per gli effetti di prelievo e spesa di contributi obbligatori previdenziali, si veda nella «Ri-
vista Bancaria» 1940, una mia indagine che può avere importanza, dal punto di vista generale fiscale.
(348) Anche questi metodi e i relativi effetti sull'intero equilibrio di un sistema economico, occorrendo, saranno con-
siderati analiticamente in altra edizione di queste lezioni: in parte s'intravedono nei cenni di cui alle lettere β) e γ) del
presente capitolo, e nelle indicazioni contenute nel capitolo X, dell'Introduzione, in cui si tratta della politica fiscale,
con la strumentalità di tipo Keynesiano, in rapporto a date caratteristiche quantitative dell'equilibrio economico, non-
ché in quanto si dirà nei cenni di finanza straordinaria.
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III) La pressione fiscale in termini soggettivi di utilità e sacrifici edonistici.


Fino a questo punto si è ragionato come se le conseguenze della attività statale finanziaria si
.traducessero sempre e soltanto in variazioni di quantità obiettive (reddito monetario) contrapposte, come
vantaggi, agli oneri o ai costi della stessa attività, espressi soltanto in moneta. Per contro vi sono vantaggi
consistenti, ad esempio, in «orgoglio patriottico» in senso di «protezione», in «nuova soddisfazione», come
se, nel caso della difesa militare, un nuovo «prodotto di consumo» si fosse creato e il reddito nazionale fos-
se aumentato. Ma Ricci che fa l'esempio, lo abbandona (La pressione fiscale, etc.) perché non esiste un me-
todo pratico (intendasi oggettivo) per misurare codesti incrementi.
Ma nel mio citato saggio del 1932 (Sul concetto di costo della attività finanziaria, cit.) mettevo in
evidenza come agli oneri del prelievo dovessero aggiungersi sacrifici, disturbi, ecc. in termini subiettivi.
Del pari, i non vantaggi o le restituzioni che hanno luogo attraverso la spesa statale, non si traducono in via
ipotetica e anche storica sempre e soltanto in termini monetari. Vi sono servizi (di ordine, sicurezza, difesa
militare, istruzione, assistenza, ecc.) che si traducono in ofelimità o utilità.
Così che, volendo rendere. omogenei i termini del rapporto semplice che indica la pressione tributa-
ria o fiscale in senso più ampio, occorrerebbe procedere, come incidentalmente annotava il Sensini (negli
scritti in onore di Martello, 1917) esprimendola con le funzioni individuali di ofelimità od utilità soggettiva
(totale):

Φm
(pressione fiscale lorda) µ= [IV]
Φn

Φm - Φ' m
(pressione fiscale netta) µ = [V]
Φn

A suo giudizio, non si potrebbero estendere alla collettività relazioni del tipo della [IV] e della [V],
dati gli apprezzamenti eterogenei dei singoli in tema di utilità.
Ma la mia visione della spiegazione del fenomeno di massa che si estrinseca nella finanza pubblica
si presta anche alla adeguata spiegazione di ogni formula della pressione fiscale. In tale giudizio possono
essere simultaneamente prese in considerazione le variazioni di quantità oggettive o monetarie (formule [I],
[II] e [III]) e di quantità edonistico-subiettive (formule [IV] e [V]), omogeneamente valutate anche per le
relazioni funzionali che abbiamo visto sussistere fra i termini dei rapporti suddetti.
In altri termini l'insufficienza della rappresentazione e della spiegazione della pressione tributaria e
fiscale, su soli dati oggettivi o su soli dati subiettivi, cessa quando essi siano sottoposti al giudizio che fonde
ed armonizza, completandone il significato, i dati medesimi omogeneamente. Il giudizio può essere tollera-
to, accolto od approvato dai membri e gruppi della collettività per la quale in via interpretativa viene formu-
lato e storicamente tradotto in limiti quantitativi degli aspetti fin qui considerati della attività finanziaria.
Ma il procedimento logico ovvero la genesi del giudizio consente di far tener conto, nel fenomeno
di massa, oltre che dei dati oggettivi e immediatamente espressi in termini monetari, anche del dati subietti-
vi od utilitari (ofelimitari) che esistono, sono collettivamente determinanti, e danno contenuto alle relazioni
che formalmente esprimono la pressione tributaria e fiscale, come risultato degli effetti dell'ottenimento di
entrate e della erogazione di esse, in questo campo della azione statale.
Una visione che vorrebbe essere nuova, e che pretende di portare il ragionamento, nel terreno della
razionalità appropriata allo studio del fenomeno finanziario, è stata espressa dal prof. Lhomme (La notion
de justice fiscale, in «Mélanges économiques» dédiés a Mr: le prof. Gonnard, 1946).
I) Dal punto di vista collettivo, dato che lo Stato eroga le somme prelevate in prestazioni materiali e
servizi, nulla cambia rispetto al reddito nazionale: quanto viene sottratto con l'imposizione viene aggiunto
come somma spesa.
II) Questo, è vero, - egli scrive - per l'insieme del reddito nazionale e non per i singoli redditi, per-
ché le somme sottratte ai contribuenti non sono esattamente rese agli stessi, nella veste di «cittadini», bene-
ficiari dei servizi.
Così in breve si esprime. E facendo il caso del prelievo a carico dei ricchi e della erogazione esclu-
sivamente a favore dei poveri, trova che prima del prelievo tributario (detto RR il reddito dei ricchi e RP il
reddito del poveri) si ha:

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RR + RP = R (reddito nazionale);

prelevando le imposte e utilizzandole nel modo predetto, risulta:

(RR - I) + (RP + I) = R

E conclude che quello che interessa per giudicare dell'onere o pressione (charge) fiscale, non è
l'ammontare assoluto del prelievo, che secondo lui lascerebbe immutato R, ma la sua ripartizione.
A) Quanto è stato esposto finora consente di correggere la prima proposizione di questo autore, af-
fermando che la costanza di R, considerando il fenomeno dell'insieme o dal punto di vista collettivo, si può
ammettere in termini istantanei e monetari. Nel tempo e considerando la diversa produttività dell'impiego
del fabbisogno (ovvero escludendo che vi sia identità fra la strumentalità dei servizi pubblici e la destina-
zione che, in mancanza di prelievo, avrebbero dato i privati alle somme prelevate) si può generalizzare di-
<
cendo che anche per la collettività si prevede ad R' >
R, considerando il problema economico (produttività)
che si cela dietro i trasferimenti monetari di potere d’acquisto.
B) Se si scende nella casistica individuale, e dei ricchi e dei poveri si discorre in termini di sacrifici
e di godimenti in senso edonistico, si rientra, come bilancio di sacrifici e di godimenti arrecati da prelievi e
destinazione di essi, nel concetto di pressione fiscale (lorda e netta) espressa attraverso apprezzamenti utili-
tari o di ofelimità, come ha fatto il Sensini.
La visione di Lhomme, anche così da me estensivamente interpretata, non è nuova. L'impostazione
di questi problemi nel presente corso di lezioni consente di superare le critiche che lo stesso Sensini rivolge
alla traduzione del concetto di pressione fiscale in termini utilitari: invero si è fatta l'ipotesi che la classe
governante possa farsi un'idea dei sacrifici e dei godimenti che l'attività statale, come prelievo e spesa, arre-
ca ai singoli. Con ciò si vuol dire che le obiezioni del Sensini gravitano nel campo dell'accertamento delle
variazioni delle quantità, non della concepibilità teorica delle variazioni anche di quantità edonistiche.
III) Se, poi, come pare voglia esprimere il Lhomme, attraverso simboli indicativi di variazioni di
quantità oggettivamente misurabili, si vuol accennare al bilancio fra prelievi e vantaggi presso gruppi o sin-
goli, la visione sia di Sensini e meglio ancora (dinamica) di Borgatta si presta ad assorbire le osservazioni
dello studioso francese. Invero quanto egli dice dell'onere (charge) è riferibile alla pressione in termini og-
gettivi come negli schemi che precedono. E questi non si riferiscono solo alla collettività, ma anche ai sin-
goli. Inoltre superano la visione strettamente monetaria ed istantanea (costanza di reddito) e introducono ra-
zionalmente la variabilità di R.
Naturalmente con questo si critica, seguendolo necessariamente nel suo ragionamento, il prof.
Lhomme dell'Università di Parigi e quanti nutrano dubbi e pensieri di questo tipo, atomistico, il problema
finanziario essendo soprattutto problema di massa.
Ma poiché egli contrappone ricchi e poveri, proprio come si è fatto in tema di ripartizione dei. tribu-
ti, nella soluzione, appunto, del problema di massa limitatamente al prelievo dei tributi (teoria dell'imposi-
zione proporzionale e progressiva, si vuol affermare che la logica che informa detto problema non viene
meno se si allarga lo schema fino a comprendere nel calcolo edonistico, fatto dalla classe governante, si-
multaneamente sacrifici e godimenti dei contribuenti o di loro gruppi tipici, come sono visti da chi imposta
il calcolo per la collettività.
Il concetto di eguaglianza a cui si sono riferiti i ragionamenti potrebbe in questa sede (pressione)
dirsi di perequazione della pressione in termini di sacrifici e godimenti, nel campo del subiettivo vagliato
dalla classe governante, che consideri prelievi e spese.
Del pari di perequazione della pressione in termini oggettivi si potrebbe dire, considerando questi
ragionamenti riferiti a gruppi e singoli (prelievi e vantaggi delle spese e servizi), nel quadro logico della te-
oria della capacità contributiva relativa, a cui si rimanda e in cui figurano prelievi in funzione di vantaggi
differenziali atti a modificare le quantità che vanno sotto i simboli RR e RP esposti dal Lhomme, il cui bi-
lancio si affidi, nel problema di massa, alla classe governante.
Si suppone che in questa sede (pressione fiscale) e in sede di sola ripartizione del costo dei servizi
pubblici, secondo il significato del concetto di perequazione della pressione, gli elementi subiettivi ed obiet-
tivi del calcolo che compie la classe governante risultino coordinati simultaneamente, senza contraddizione,
secondo le teorie svolte in questo corso.

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II.

LA PRESSIONE TRIBUTARIA NEI CONFRONTI INTERNAZIONALI.

Le definizioni della pressione tributaria mediante rapporti in cui [lettere b) e c) del paragrafo I) di
questo capitolo] entri il fattore popolazione per il calcolo della pressione medesima, si prestano, come si è
detto, alquanto nei casi in cui occorra procedere a confronti fra diversi Stati, da questo punto di vista.
Finora si è ragionato, richiamando anche i ricordati studiosi, in ipotesi di mercato chiuso, escluden-
do anche i prestiti esteri (che considerano alcuni autori nella dinamica della pressione tributaria) e suppo-
nendo avvenuta la incidenza dei tributi e d'altri costosi modi di ottenere le entrate.
I) Si parla spesso di oneri «fiscali» comparati, con riferimento alla pressione che esercitano, in mi-
sura diversa, in differenti Stati i prelievi tributari. Il Seligman, occupandosene ex professo (Oneri fiscali
comparativi, ecc. nel vol. IX della Nuova Collana di Economisti), avvertiva che non basta conoscere il cari-
co tributario per abitante, dato che esso «in un paese povero e in una classe modesta della società, può costi-
tuire un onere molto più grave di un'imposizione media per abitante più alta in un paese più ricco o in una
classe più ricca della collettività». E’ perciò necessario determinare il reddito medio per abitante. Quando si
disponga delle medie per abitante tanto del reddito quanto dei tributi, si raggiunge una maggiore approssi-
mazione nella valutazione dei carichi (o della pressione fiscale) relativi dei diversi paesi confrontando la
tassazione per abitante con il reddito per abitante.
Ma con tale approssimazione non si è risolto ancora correttamente il problema della comparabilità
dell'onere tributario nei rapporti internazionali. Occorre considerare altri fattori, quali ad esempio: a) la
composizione delle entrate tributarie a seconda che esse siano costituite dal provento di imposte indirette,
specialmente su singoli o su pochi consumi delle classi meno abbienti o generali; ovvero da proventi di tri-
buti diretti e progressivi su redditi e anche indiretti sui patrimoni soprattutto dei più abbienti; b) l'ammonta-
re di reddito che nei vari paesi deve destinarsi (come minimo per la sussistenza o per le esigenze normali di
vita) al mantenimento della popolazione, ammontare che non avrebbe capacità contributiva; c) inoltre
l'ammontare del reddito che deve essere destinato al mantenimento della produzione senza intaccare o di-
struggere il capitale nazionale. Elementi difficili da calcolare ma di cui particolarmente il Borgatta ricor-
dando i tentativi di statistici, ha posto criticamente in evidenza l'importanza (349).
Il fattore a) «composizione» delle entrate tributarie, va inteso nel senso che, a parità di rapporto fra
prelievi e reddito, possono determinare maggior sacrificio di utilità le imposte indirette che non siano pro-
porzionali ai redditi ma inversamente proporzionali ad essi. E’ questo il noto difetto delle imposte su singoli
consumi, in cui si spenda, cioè, una percentuale di redditi che è maggiore presso i minori redditieri e minore
presso i possessori di più alti redditi.
Su questo problema mi sono a lungo soffermato nel cap XI paragrafo VII di questo corso, con con-
clusioni che tengono conto, tra l'altro, anche di «effetti di reddito» derivanti da differenziazione di aliquote
delle imposte sui consumi (contrapposizione di beni inferiori o dispensabili a beni superiori o indispensabi-
li), nonché da discriminazione operata dalla spesa pubblica (a vantaggio delle classi povere a confronto di
quelle ricche).
E’ chiaro che se, a parità di rapporto che indichi la pressione tributaria (ad es. lorda), i tributi siano
preminentemente diretti e progressivi, attinti cioè con prelievo a carico dei più alti redditieri o titolari di
grossi patrimoni, il sacrificio che può esprimere la pressione tributaria può risultare inferiore.
II) Ma da un altro punto di vista si vuol considerare, nei confronti internazionali, la pressione dei
diversi sistemi tributari.
Si sa che la casistica storica ha fatto considerare, anche in teoria, gli effetti della unificazione dei
mercati, come complemento e talora premessa per la unificazione politica ovvero di direttive di comune po-
litica internazionale, con riverberi di carattere costituzionale per gli ordinamenti offerti dalle Unioni (come
quella europea) di cui discorrono i politici.
Orbene, per il solo aspetto economico che qui interessa, costituito dalla influenza o pressione dei
diversi sistemi tributari, quando i mercati passino dalla separazione alla unificazione, i teorici esteri ed ita-
__________
(349) Negli Appunti di scienza delle finanze, Giuffrè, 1933.
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liani hanno avanzato proposizioni varie, suggerendo addirittura di «uniformare» i sistemi di tassazione, di
adottare la «medesima base» come aliquote, o la medesima composizione come imposte dirette e indirette,
per «uniformare» od «allineare» i sistemi tributari.
Si è pensato, soprattutto, che una unificazione di mercati avrebbe fatto risentire l'onere della diversa
pressione, a danno dei paesi A, B,….., con preminenti imposte indirette, gravanti sulla produzione e sui co-
sti con riverbero sui prezzi, che fiscalmente maggiorati avrebbero ostacolato le vendite dei prodotti dei
mercati o paesi di provenienza, a tutto vantaggio degli altri paesi M, N,..: cioè di quelli che abbiano il pro-
prio sistema fiscale, come ordinamento giuridico e soprattutto come provento tributario relativo, preminen-
temente basato su imposte dirette sul reddito.
Non voglio sollevare, qui, la vecchia questione della incidenza sui prezzi delle imposte dirette e del-
le imposte indirette. Ma accettando provvisoriamente la proposizione della diversa pressione esercitata, sui
prezzi, dai sistemi preminentemente costituiti da imposte indirette, intendo riaffermare la indifferenza del
fattore costituito dalla diversa composizione degli oneri tributari rispetto alla vendita del prodotti o merci
che ne siano influenzati, quando si passi dai mercati separati al mercato unificato.
E ciò ove non si dimentichi che unificazione di mercati non significa unificazione di monete o pari-
tà di cambio monetario; di modo che si deve considerare che i livelli dei prezzi siano stati già influenzati
dai vari fattori che li determinano compreso quello fiscale.
Occorre dimostrare come sia indifferente per il consumatore di merci eguali, prodotte da mercato in
cui viga la soluzione del problema finanziario (entrate tributarie) prevalentemente attingendo alle imposte
indirette (paese A, che possiamo denominare mercato nazionale) e da mercato estero in cui si sia avuta so-
luzione imperniata preminentemente su imposte dirette (M): l'indifferenza, nell'ambito delle ipotesi che se-
guono, interessa soprattutto dal punto di vista delle imprese del paese (A) che, secondo l'assunto corrente,
sembrerebbero «danneggiate». La pressione fiscale si tradurrebbe in danno delle imprese del paese (A) per
la composizione del sistema fiscale, basato preminentemente su imposte indirette: questo assunto è stato
negato in un mio scritto, di cui richiamo qualche parte (350).
Per dare il senso della soluzione mi sono avvalso di uno schema semplificato e, quindi, ammissibile
solo per comodità di ragionamento, in merito agli effetti od alla pressione comparata di diverso regime fi-
scale (preminentemente: 1) imposte indirette sulle merci, e 2) imposte dirette sui redditi). Il problema è sta-
to da me visto dal lato della capacità, ceteris paribus, delle imprese del paese (A) di resistere alla concor-
renza di imprese .similari del paese (M), ammessa contrapposta soluzione del problema fiscale (secondo il
significato dei numeri 1 e 2 qui indicati).
A parità di ammontare di tributi prelevati con i due sistemi fiscali contrapposti, ho dimostrato il ca-
so-limite d'indifferenza, per le imprese che si suppongono (dalla tesi opposta alla mia) svantaggiate (paese
A), quando dall'ipotesi di «mercato chiuso» si passi a quella di «mercato unificato».
Si supponga, per semplificare ulteriormente - dopo aver prescisso dalla destinazione del provento
tributario nei contrapposti paesi e da circostanze riguardanti l'equilibrio soggettivo del consumatore - che
non operi, pro-tempore, la legge di variazione dei costi in funzione delle quantità prodotte dalle imprese dei
paesi contrapposti.
Si consideri costante il reddito del consumatore, con reddito R, a fronte delle ipotesi istantanee di
prezzi lungo la curva di domanda DD'. (Ed R - t in rapporto alla curva dd', essendo t l'ammontare dell'impo-
sizione diretta.
Si faccia l'ipotesi di un'imposta dell'altezza unitaria, specifica CT, commisurata alla quantità prodot-
ta e venduta OQ.
L'impresa diviene un esattore per conto dello Stato per l'importo TPpC, che aggiunge all'introito
OCpQ, il quale ad essa fornisce il reddito normale compatibile con le condizioni di mercato, che supponia-
mo siano di concorrenza (perfetta). I consumatori, ad es. nazionali, appartengano allo Stato che abbia risolto
il problema, pro-rata, relativamente poggiando di più su imposte indirette, in una prima ipotesi.
Facciamo ora l'ipotesi di un consumatore esistente sul mercato nazionale, e, inoltre, l'altra che lo
Stato abbia risolto il problema tributario poggiando soprattutto sulla applicazione di imposta diretta sul red-
dito.

__________
(350) Si veda per l'intero problema che sorge per il caso storico dell'Unione europea, nel cui quadro si è considerata
quella italo-francese, e per la conoscenza delle opinioni dominanti che qui si confutano, in sede teorica, E. D'ALBERGO
- Il fattore fiscale e le unioni economiche, «Rivista di Politica economica», gennaio 1950.
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La teoria economica, in sede soprattutto di dinamica, ha visto la correlazione funzionale fra altezza
di reddito disponibile e modalità della curva di domanda.

Ha trattato anche di curve statiche bensì, ma riferentisi a tempi diversi. Nel caso nostro, ferma ri-
manendo la psichica degli edonisti, abbiamo diverse curve di domanda, in funzione di diversi redditi.
Se avevamo

OQ = f(R) e OQ = j(PQ)

ipotizzeremo ancora

OQ = f(R - t) e OQ = f(pQ)

t essendo la somma di imposta diretta (pari a quella indiretta) che abbia decurtato il reddito al punto
da abbassare la curva di domanda, nel caso-limite, in modo da far acquistare la stessa quantità OQ con una
spesa che sia esattamente OCpQ, tale cioè che, all'impresa offerente sul mercato, consenta lo stesso proven-
to netto da imposta (con l'imposta pari a CTPp, che nella prima ipotesi l'impresa aveva riscosso per lo Stato
e trasferito sui consumatori) che ad essa permetteva di stare sul mercato ottenendovi il reddito normale.
In altri termini (e se è lecito da questo assai ristretto schema risalire alla spiegazione di ben com-
plessi fatti) all'impresa operante su mercato nazionale è indifferente vendere al contribuente-consumatore
che appartenga politicamente allo Stato, che abbia un sistema fiscale basato in misura precipua su imposte
indirette oppure su imposte dirette. In entrambi i casi il potere d'acquisto, sottratto dallo Stato, consente lo
stesso risultato economico netto in termini di ricavi, alla impresa operante nel mercato nazionale (fatta e-
sclusione della somma che va allo Stato).
Supponiamo, ora, che si pervenga alla unificazione internazionale dei mercati. Seguiamo la condot-
ta ipotetica del consumatore-contribuente che abbia subito, come straniero, la soluzione (M) predetta del
problema fiscale, (così che egli contribuisca, in termini percentuali, nella stessa misura in cui aveva pagato
imposta diretta il contribuente nazionale con potere d'acquisto divenuto corrispondente ad R – t). Se il red-
dito fosse espresso, a parità di ammontare, in moneta nazionale del mercato (supponiamo A) che entra in
regime di unificazione, la quantità OQ verrebbe domandata [in quanto OQ = f(R - t)] al prezzo pQ. E l'im-
presa nazionale (A), offerente anche nel mercato unificato, non riuscirebbe a far sopportare l'imposta indi-
retta (che, per ipotesi, gravi relativamente di più la produzione in A) cioè il prezzo PQ al consumatore stra-

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niero appartenente al paese M. A conclusione simile si perverrebbe se il reddito dello straniero fosse, come
è normalmente, espresso in moneta estera, ed il cambio fosse alla pari.
Ma se si fa l'ipotesi di un rapporto di cambio tendente a I:2, il consumatore-contribuente estero, che
pure abbia subito nel proprio paese (M), per rapporto giuridico-politico ivi vigente, un sistema fiscale pre-
minentemente basato su imposizione diretta, rimane tuttavia, dopo aver pagato detto tipo di tributi, con un
reddito in moneta nazionale, il cui potere d'acquisto dato il rapporto di cambio ipotizzato, è equivalente a
quello del consumatore-contribuente nazionale avente il reddito R. Può, quindi, il consumatore-contribuente
estero, una volta unificato il mercato, subire il prezzo PQ, acquistare la quantità OQ, senza porre in difficol-
tà per lo smercio l'impresa del paese in cui prevalga il sistema dell'imposizione indiretta sulla produzione o
sul consumo.
Per l'impresa del paese a sistema fiscale di tipo A), la quale, ad unificazione avvenuta, debba conti-
nuare a riscuotere la somma CTPp per conto dello Stato a cui appartiene politicamente, è. indifferente ven-
dere al consumatore-contribuente nazionale con reddito quasi intatto da imposizione diretta o al contribuen-
te consumatore estero con reddito già decurtato da preminente imposizione diretta. E ciò perché grazie alla
parificazione dei poteri di acquisto dovuta all'ipotizzato rapporto di cambio, l'impresa offerente la stessa
merce sul mercato unificato, si trova di fronte alla curva di domanda DD' nella rappresentazione geometri-
ca tracciata per ipotesi.
Il ragionamento che qui si è semplificato al massimo come se in concreto fosse lecito introdurre il
ceteris paribus, proprio allorché si deve assumere l'ampiezza di visione dell'equilibrio generale, intende da-
re l'idea grossolana del senso della soluzione del problema della indifferenza di posizioni di consumatori-
contribuenti, indifferenza che è in concreto probabile di fronte a consumatori stranieri (paese M) con reddi-
to medio più alto.
Con questa restrizione, tuttavia, detto ragionamento può valere a chiarire le idee nel caso in cui sia
alquanto uniforme l'influenza media del fattore fiscale (imposizione indiretta), che aggiungendosi ai prezzi
economici, determina il livello generale che, a sua volta, influenza il cambio monetario internazionale, in
proporzione.
E’ chiaro che per le imposte di fabbricazione su prodotti tassati in via differenziale altissima e per i
casi di discriminazione contro i cosiddetti consumi di lusso, discriminazione quale si nota nelle imposte
comunali di consumo o nell’imposta sull’entrata avverso ai beni che danno corpo ai consumi «superiori», si
possono determinare scostamenti dalla condizione, qui semplificata, di indifferenza per compratore e vendi-
tore, allorché si faccia l’ipotesi di mercato unificato. Si pensi che il consumatore straniero non attinge tutti i
prodotti che saturino il proprio bilancio, rivolgendosi a produttori nazionali (paese A). Ne compra, volta a
volta, a seconda dei gusti, alcuni.
Non si può, quindi, sconoscere il caso pure di consumatori stranieri (paese M) i quali, nonostante il
rapporto di cambio a loro favore o con potere di acquisto monetario che livelli sostanzialmente le differenze
dei prezzi medii, si sono trovati di fronte a scarti dalla media di prezzi del paese A, dovuti anche e soprat-
tutto a onere differenziale fiscale, che abbiano reso proibitivi alcuni acquisti ai corrispondenti prezzi.
Diversa è la situazione allorché si abbia a che fare con redditieri di classi elevate per cui non viga la
parità di incidenza di prelievo percentuale a titolo fiscale, che figura in queste ipotesi.

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CAPITOLO XVI.

ALCUNI PROBLEMI DELLA FINANZA STRAORDINARIA

I.

RAZIONALITÀ DELLA DIFFERENZIAZIONE LOGICA E METODOLOGICA


DELLA FINANZA STRAORDINARIA DALLA FINANZA ORDINARIA.

1) Seguendo una tradizione diffusa, dedico anche in questa edizione delle lezioni un capitolo alla
cosiddetta «finanza straordinaria», che non figurerà come gruppo di problemi contrapposto, in via raziona-
le, a quelli che danno corpo a questa disciplina, avente per oggetto l'attività finanziaria mirante a soddisfare
i bisogni pubblici ordinari o ricorrenti.
Dal lato storico soprattutto, è degno di particolare rilievo il fatto straordinario costituito dalla guerra
quale esempio di circostanza che implica l'estensione eccezionale e rilevante, in un dato senso, dell'attività
finanziaria dello Stato che soddisfi al bisogno pubblico che, nella fattispecie, consiste nella difesa militare
degli interessi nazionali. Altri eventi possono dar luogo ad estensione od aumento eccezionale di spese
pubbliche, in dati periodi di tempo. Ma di fronte alla guerra, la quale mobilita tutte le volontà e le energie e,
nel settore materiale, induce alla ricerca dei mezzi di politica economica e finanziaria atti a limitare il sod-
disfacimento dei bisogni civili per provvedere più efficacemente a quelli bellici, è necessario consacrare
(anche negli appunti, che fanno da guida per la preparazione degli studenti) una parte allo studio delle tra-
sformazioni che l'attività finanziaria subisce in relazione a questo evento che qui si ipotizza. E’ un tema che
trova posto anche nei trattati con capitolo sulla «finanza straordinaria» che, soprattutto, in passato, ha avuto
per oggetto i problemi del debito pubblico nelle sue varie forme tecniche e nell'alternativa con l'imposta
straordinaria.
Nel caso dell'ultima guerra alcuni osservatori dei fatti economici, che sono influenzati dall'evento
storico, hanno creduto di trovare dementi nuovi e nelle idee che presiedono alla manovra delle forze eco-
nomiche ai fini del sostegno delle forze militari, e nei mezzi tecnici di cui si avvale la manovra dei fattori
che si pongono a servizio della guerra, sottraendoli al normale sviluppo del movimento economico. Donde
la pretesa «novità» nel senso della autonomia logica, per così dire, dei problemi teorici della finanza straor-
dinaria.
Ne! campo delle idee, se si fa un confronto con quelle che illuminavano i fatti della prima guerra
mondiale, si trova che non solo l'esperienza di quel conflitto, ma anche i rivolgimenti sociali che hanno
avuto luogo presso alcuni paesi hanno fatto progredire la concezione della generale mobilitazione delle for-
ze che alimentano la guerra. Si è enunciato, così, il programma di adattamento all'evento bellico delle ener-
gie di cui dispone un paese in tutti i campi, mediante l'espressione corrente della «economia della guerra to-
tale».
Non direi, come qualche zelante autore, che non si sia avuta da parte di politici e di studiosi, in pre-
cedenza, l'idea della necessità di adattare tutte le forze economiche al caso eccezionale nella vita dei popoli
costituito dalla guerra. I cultori della teoria dell'equilibrio economico e sociologico, certamente, nei loro
schemi, potevano inquadrare il fatto bellico come causa o fattore determinante che trasformi l'orientamento
e il funzionamento delle forze operanti ed efficienti, rispetto al fine di accrescere l'offerta dei beni e servizi
strumentali per la guerra, in modo da adeguarla alla domanda straordinaria che ne fa lo Stato.
Se mai l'idea di solidarietà fra le forze operanti nell'ambito dello Stato ha dato luogo a nuove forme
organizzative e ad atteggiamenti psicologici particolarmente adatti alla mobilitazione delle forze nazionali,
di fronte al caso storico della guerra. Anche la tecnica ha conseguito, presso i contrapposti belligeranti, un
orientamento informato a questo punto di vista. Infatti, nel campo della produzione dei beni strumentali, si
sono adottati procedimenti che hanno consentito quasi di non interrompere la continuità dei piani produttivi,
nel passaggio dalla economia di pace alla economia di guerra.

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Nell'orientare le forze economiche verso le esigenze eccezionali del fatto bellico, con visione unita-
ria, i mezzi di cui si avvale lo Stato vengono fusi tenendo conto delle relazioni di interdipendenza causale e
dei rapporti di concausa rispetto all'effetto (che è il fine) di sostituire ai consumi di pace il consumo di mez-
zi tipicamente strumentali per la guerra. I mezzi e strumenti, con cui si attua la politica «economica» di
guerra, finiscono per comprendere anche quelli della politica «finanziaria» di guerra.
Nel quadro della economia della guerra totale, verrebbe meno, secondo alcuni, l'antitesi fra econo-
mia e finanza, fra economia privata e pubblica. Sarebbe, cioè, conseguenza del progresso che si è consegui-
to nella concezione della economia della guerra totale, l'attenuazione del «dualismo» fra economia privata
ed economia pubblica, fra economia di nazione ed economia di Stato, fra economia di guerra e finanza di
guerra.
Alla luce della teoria e della storia, in verità di «antitesi», anteriormente vigente fra i predetti setto-
ri, non potrebbe parlarsi e nemmeno di dualismo. Considerando la posizione di coloro che hanno sistemati-
camente studiato l'economia finanziaria, si trova che anche quelli, che si potrebbero classificare come «libe-
risti», hanno posto innanzi schemi logici, nei quali il passaggio dalla economia della nazione a quella dello
Stato (che si può dire equivalente al passaggio dal soddisfacimento di bisogni privati a quello di bisogni
pubblici) avveniva sotto la spinta della intensità relativa dei bisogni, secondo naturali scelte dei redditieri.
Lo schema che si usa denominare sociologico si è, poi, avvicinato maggiormente alla realtà: facendo pre-
sente l'esistenza di una classe governante che istituisce i calcoli di massimo utile per la collettività, ma sen-
za dar luogo a contrapposizione logica, che possa giustificare un corrispondente «dualismo» teorico per il
solo confronto fra destinazione di reddito o ricchezza e soddisfacimento di bisogni privati e pubblici, rispet-
tivamente.
Tanto meno mi sembra sostenibile l'esistenza di un dualismo fra economia di guerra e finanza di
guerra, che si sarebbe riscontrata in passato. Ma si aveva anche allora adattamento e della organizzazione
economica e degli istituti finanziari al caso bellico. Altra cosa è dire che codesto adattamento, dal punto di
vista tecnico, o della realizzazione concreta, può essere compiuto più rapidamente e con minori attriti, nei
paesi in cui l'idea di solidarietà nazionale abbia avuto influenza, in tempo di pace, sulla organizzazione del-
le forze operanti sul mercato.
Le stesse considerazioni valgono per ciò che riguarda i modi e i gradi di «fusione» fra politica eco-
nomica e finanza di guerra.
2) Mi preme, in questa sede, affermare che non si ha neanche separazione logica fra finanza «ordi-
naria» (concepita come scienza e come assieme di fatti relativi alla attività dello Stato allorché soddisfi i bi-
sogni ordinari, normali e di pace) e finanza straordinaria o di guerra, per accennare al principale evento non
ricorrente normalmente.
Si tratta anche in questo caso di trasformazione o sostituzione o adattamento dei fini della attività
finanziaria, di fronte al variate dei bisogni per il loro grado o soprattutto nella intensità (elemento quantita-
tivo), anche nel tempo in cui si verificano.
Al fatto quantitativo (entrata straordinaria) corrisponde, poi, una specificazione tecnica dei mezzi,
nel quadro della politica economica e finanziaria. Ma la logica, che presiede ai fatti di trasformazione e so-
stituzione di fini e di bisogni, non fa mutare la metodologia e la visione scientifica, anche se si tiene presen-
te la cosiddetta economia della guerra totale, che mobilita tutte le forze utili ai fini della condotta bellica.
Scorrendo precedenti trattazioni e, in particolare, quella che l'Einaudi351 aveva destinato al tema
particolare, si legge che la finanza di guerra costituisce un aspetto della finanza pubblica. E allorché l'autore
riteneva che essa esigesse una trattazione «diversa» da quella della finanza ordinaria, probabilmente si rife-
riva a concezione teorica come novità od autonomia logica dei problemi scientifici, anziché alla diversità
degli istituti concreti (lato tecnico) che si mettono in atto di fronte al bisogno eccezionale costituito dalla di-
fesa militare nel tempo di guerra.
Ma nel rifondere codesta trattazione particolare nei Principii di scienza della finanza (352), Einaudi
ha ripudiato la suddetta proposizione che poteva far nascere dubbio logico, e fa una questione di grado: nel
senso che i bisogni pubblici (alcuni) divengono intensissimi, richiedendo mezzi maggiori (entrate) di quelli
che bastano a coprire le spese ordinarie o del periodi di pace (se facciamo l'ipotesi contraria, della guerra,
come esempio tipico di bisogno straordinario o non ricorrente).

__________
351
Si vegga: EINAUDI L., La finanza della guerra, 1914.
(352) EINAUDI L., Principii di scienza della finanza, 1940.
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Del pari, il De Viti De Marco contrappone alle spese ordinarie, o al fabbisogno ordinario, il fabbi-
sogno straordinario (elemento quantitativo). E generalizza al punto da prescindere dalla causa o dal fine
della spesa eccezionale, affermando che il problema della finanza straordinaria nasce per la diversa quantità
della spesa (problema di grado).
Che non si abbia sostanziale nuovo problema logico allorché si passa dalla considerazione della fi-
nanza ordinaria a quella straordinaria, è riconosciuto anche da coloro che presentano come nuova, nel cam-
po teorico, la concezione della economia della guerra totale; laddove, se innovazione essa implica, è di ca-
rattere organizzativo o tecnico.
Del resto, anche nel quadro della politica economica di guerra, si riserva un posto all'aspetto finan-
ziario. E si tratta degli strumenti tradizionali attraverso i quali si contribuisce a realizzare le premesse della
economia di guerra, indicando: l'emissione di carta moneta, il prestito e l'imposta. Ciò si fa proprio da parte
di coloro che sostengono l'esistenza del «dualismo» delle precedenti concezioni dei rapporti. fra economia e
finanza.
Si può dire, quindi, che la visione organizzativa o tecnica che più efficacemente che in passato si ri-
tiene si presti a realizzare la solidarietà delle forze economiche a servizio del soddisfacimento di un bisogno
straordinario della collettività organizzata a Stato, non fa mutare la posizione scientifica dello studioso delle
relazioni logiche dei mezzi strumentali rispetto al fine. Dato che si tratta soprattutto di questione di grado o
di limiti quantitativi in cui - nell'istante o nel tempo che è misurato gradualmente - i mezzi che procurano
entrate allo Stato vengono sottratti a normali bisogni privati per provvedere ad eccezionali bisogni pubblici,
non credo che occorra modificare di molto la disposizione della materia nell'insegnamento della scienza
delle finanze.
Dopo aver ragionato, quindi, in una prima parte, della attività finanziaria quale si esplica (spese ed
entrate) per soddisfare bisogni pubblici ordinari, o normalmente ricorrenti, faccio seguire una parte subor-
dinata all'ipotesi di una intensificazione di qualche bisogno pubblico. Nella specie, farò l'ipotesi del bisogno
eccezionale costituito dalla difesa della nazione in guerra, per illustrare le modificazioni che l'ipotesi com-
porta nel settore della ricerca dei mezzi atti a fornire il fabbisogno straordinario allo Stato. Naturalmente te-
nendo presente tutta la trasformazione che ha luogo nel movimento economico in relazione alla guerra, nel
senso soprattutto dell'adattamento temporale, quale è considerato da quanti hanno trattato della economia
della guerra totale.
Risponde, quindi, ad un ordine logico la successione che figura nel corso della trattazione, nel senso
che alla parte che ha per oggetto lo studio della attività finanziaria ordinaria, segue questa parte avente per
oggetto lo studio della attività finanziaria straordinaria.
3) Questo tipo di avvertenze, che figuravano nelle edizioni del 1942 e del 1944 delle lezioni, sono
state riconfermate nel 1945353 : nel senso che la cosiddetta finanza «straordinaria» si differenzia da quella
«ordinaria» eminentemente per ragioni di grado (estensione dei bisogni pubblici, aumento della spesa e del-
le entrate, ecc.). Invero se i problemi che occuparono le menti degli studiosi della passata generazione, os-
servatori dei fatti della prima guerra mondiale, ebbero una «data» soluzione teorica, essa fu legata razio-
nalmente alle ipotesi che esplicitamente o in modo implicito quegli studiosi tennero presenti. Nel caso più
recente del 1939-45, il problema fondamentale dei «modi» di finanziamento della guerra e dei «limiti» in
cui sia conveniente farvi ricorso è stati visto soprattutto alla luce del punto di vista dello Stato, agente in u-
n'economia totalmente (ad es., il caso germanico) regolata o in gran parte controllata fin dal tempo in cui
vigeva la finanza «ordinaria», cioè anteriormente alla guerra. Il passaggio dall'economia di pace a quella di
guerra o non venne avvertito o non presentò il salto, che quasi ovunque caratterizzò gli eventi della guerra
1914-18.
Si è, infatti, letto: «Per il passaggio dall'economia tedesca di pace a quella bellica non ci fu bisogno
di una trasformazione fondamentale, ma soltanto di un ulteriore sviluppo; non ci fu bisogno di battere nuo-
ve vie, ma di seguire quella già sperimentata» (354). E questa asserzione, che seguiva a quella della costru-
zione, negli ultimi anni dell'anteguerra, di un apparato produttivo «mai lontanamente posseduto nel passa-
to», sotto la «guida della direzione statale che sa quel che vuole», la quale subordinava il consumo civile a
quello bellico, contrastava bensì con il «dover essere» che era nell'idea del Possony. (Si sa che questo auto-
__________
353
D’ALBERGO E., Prestiti e imposte nelle nuove teorie e nell'esperienza bellica, «Studi dell'Istituto di scienze eco-
nomiche e statistiche dell'Università degli Studi di Milano».
(354) Così il prof. K. MUHS, il cui articolo, tradotto, è apparso nel fascicolo del 31 marzo 1941 del «Notiziario Eco-
nomico» della Cassa di Risparmio di Milano.
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re «raccomandava», all'epoca in cui scriveva, l'economia libera come presupposto di qualsiasi economia
militare razionale). Ma in sede storica l'economia, non soltanto germanica, si orientava verso il sistema con-
trollato o regolato.
In tale ipotesi, la differenziazione fra finanza ordinaria e straordinaria non poteva che essere di
«grado». I procedimenti del finanziamento agirono in un ambiente economico già modificato fin dai tempi
di pace o in cui, in generale, si verificavano i bisogni pubblici ricorrenti o prevedibili con continuità e con
minimo intervento di fattori probabilistici. Se si pone a raffronto l'impostazione del problema del finanzia-
mento della guerra assumendo implicitamente l'ipotesi di economia più o meno regolata con quella tradi-
zionale di tipo individuale o Ricardiana, ovviamente i procedimenti che ne discendono possono essere tec-
nicamente diversi da quelli illustrati dai nostri antecessori.
Ma la differenziazione è già nei problemi della finanza ordinaria. Ciò ammesso, non ha importanza
se non dal lato quantitativo fare la distinzione fra finanza ordinaria e straordinaria, relativamente alla esten-
sione di bisogni, spese e proventi. I procedimenti di mobilitazione della parte del reddito e dei capitali sot-
tratti ai bisogni ordinari e privati, tecnicamente possono essere quelli tradizionali (prestiti, imposte, credito
monetario e forme equivalenti). Talché ha senso ad es. l'affermazione del Fasiani: «mentre profonde e nu-
merose sono le differenze fra le leggi-tendenze delle finanze ordinarie, assai minori di numero sono le diffe-
renze che si riscontrano nelle rispettive finanze straordinarie».
E quando questo autore - introducendo una qualificazione di cui abbiamo visto la non necessarietà
razionale - nel ritenere limitati (come possibilità di scelta) i mezzi per sopperire alle esigenze anormali, li
riconduce tendenzialmente a quelli che caratterizzano la vita economica-politica dello «stato moderno», si
nota nello studio dell’autore tedesco testè citato, che ha esaltato la struttura dell’economia odierna control-
lata, una asserzione in senso convergente. Ha scritto, invero, il Muhs che «nel corso dei secoli, se si pre-
scinde dall’eliminazione del finanziamento a mezzo del peggioramento della moneta e del tesoro di guerra,
nulla si è mutato nella struttura fondamentale del finanziamento bellico, cosicché anche per la guerra del
presente si hanno a disposizione tre metodi: il finanziamento a mezzo di imposte, di prestiti e di aumento di
denaro».
E continua affermando che «la formulazione del problema in base alla scienza delle finanze, si con-
clude con il ricercare in qual grado quei tre metodi appaiono adatti per coprire i costi della guerra nel modo
più opportuno e ciò sia dal punto di vista della popolazione che da quello dello Stato e dell'economia».
4) Il rilievo che conferisco al mio punto di vista non sta solo nell'avere interpretato in tal senso le
visioni tradizionali (ad es. dei citati Einaudi e De Viti De Marco): ma nel ritenere che quanto ho riconfer-
mato valga anche di fronte alle odierne visioni di economie regolate o vincolate più o meno, specialmente
per la tecnica che richiede la mobilitazione delle quantità con gli strumenti finanziari nella economia che
viene detta «della guerra totale».
Avverso a questa mia convinzione sono venute le seguenti parole del Borgatta (nella prefazione alla
Finanza della guerra e del dopoguerra, ottobre 1945). «Non concordo con il concetto enunciato da uno dei
più valorosi nostri giovani studiosi, il prof. d'Albergo, trattarsi piuttosto che di una diversità di problemi fi-
nanziari, di una differenziazione di grado dei procedimenti di finanza normale delle economie regolate (ipo-
tesi d'altra parte estranea alle condizioni di parecchi belligeranti); nè ritengo sia logicamente costruibile nei
limiti in cui la finanza osserva e rispetta il principio del pareggio del bilancio».
Anzitutto non credo che possa accordarsi valore di principio teorico all'equilibrio del bilancio, che
risponde più alla ovvia visione della correlazione tendenziale o se si vuole alla equivalenza nel tempo, a
lungo andare, delle spese e delle entrate, che interessa in via ipotetica, a prescindere dai limiti pratici della
realizzazione. Inoltre, anche per le condizioni di mercato (economie regolate più o meno) avevo fatto altra
questione di grado. Ciò non può consentire di considerare «estranea», come scrive il Borgatta, l'ipotesi da
me fatta, alle condizioni concrete, perché. la mia dizione («più o meno vincolate») le comprende tutte.
Il lettore veda le pagine di Wagner, ad es. sul «supremo principio» del «pareggio fra l'entrata e l'u-
scita» e vi troverà (Bibl. dell'Econ. serie III vol. 10, lib. I, cap. I, sez. III) norme di arte finanziaria o ammi-
nistrativa, senza significato razionale, quale deve richiedersi in una indagine a carattere quantitativo. Già
questo rilievo pone l'accento al problema di grado che è per me quello della differenziazione fra finanza or-
dinaria e straordinaria.
A prima vista i «nuovi orientamenti» nello studio della finanza straordinaria, illustrati dal Borgatta
nella cospicua trattazione specifica, sembrano andare oltre l'aspetto quantitativo che differenzia soprattutto
l'impostazione dei problemi. Infatti egli intende «considerare i procedimenti tributari e finanziari non solo
in rapporto al mantenimento dell'equilibrio formale fra introiti e pagamenti del bilancio pubblico, ma anche
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in rapporto alla sostanziale unità degli scopi dell'azione statale in un periodo di guerra o di congiuntura cri-
tica». E’ vero, infatti, che «i provvedimenti finanziari hanno una funzione eminentemente strumentale, non
sono fini a se stessi, ma mezzo per conseguire determinati scopi pubblici» e che «durante la guerra i fini del-
lo stato portano ad un generale regolamento di tutta la vita economica». Ciò posto, avanzo due osservazio-
ni:
α) con queste affermazioni, che in parte caratterizzano la finanza ordinaria degli stati moderni ad
economia regolata, si estende il campo di indagini. che una spontanea quanto razionale specializzazione
delle scienze aveva posto in essere. E si passa alla politica economica e finanziaria (355), che è uno dei modi
di considerare ed applicare le conclusioni di studi di scienza delle finanze alla casistica dei fini extra fiscali
posti in rapporto coi fatti finanziari, come si è visto nel cap. X dell'Introduzione. Però in questo modo si an-
nulla o si salta il problema - da me risolto nel senso della omogeneità dei problemi teorici della finanza or-
dinaria e straordinaria - senza affrontarlo.
β) Ma restando anche nel campo della economia della finanza pubblica, ritengo che il mio punto di
vista debba riaffermarsi anche di fronte alle moderne visioni teoriche. Già nella «prefazione» ho mostrato lo
scetticismo nei confronti dell'eccesso di ambizione teorica degli schemi che intendono spiegare i fenomeni
di massa, con semplificazioni del fenomeno concreto, ricorrendo a quantità globali. Le analisi deduttive,
anche riferite ai singoli soggetti ed alle ipotesi di tipo atomistico, sono preliminarmente necessarie nell'or-
dine logico per la impostazione e la comprensione di relazioni quantitative quali figurano nei modelli e nei
sistemi di equazioni che pretendono di abbracciare settori complessi del mercato. Si sono viste nei modelli
del Samuelson, ad es. oltre ai prestiti, le imposte, ridotte, immutate od aumentate, che figurano nella ipotesi
di mercato influenzato dal fattore fiscale. Aumento della pressione fiscale, effetti di sgravi fiscali, effetti di
aumenti di imposte sono fatti e fenomeni che abbiamo visto in generale, nella teoria, in sede logica che è at-
ta a spiegare tutti i fenomeni, qualunque estensione quantitativa si dia al fatto ipotizzato. Nel limite della
pressione tributaria o negli sgravi è implicita l'ipotesi del disavanzo dei bilanci.
Il discredito in cui sempre più sono tenuti i «modelli» che intendano ambiziosamente istituire lega-
mi fra quantità globali, è giustificato dallo scarso valore gnoseologico e logico di essi quando pretendano di
superare le analisi di tipo atomistico.
Del resto, la forza logica di queste mie idee è tale che lo stesso Borgatta, contraddicendosi sistema-
ticamente, vede fatti e problemi della finanza di guerra caratterizzati da differenze di grado, ad ogni passo
della vasta trattazione.
Ne do una semplificazione, nei suoi termini.
- (Durante la guerra) «l'impiego di ricchezza a fini bellici investe gran parte del reddito e parte del
patrimonio dei cittadini» (p. 21).
- «Peculiare della finanza bellica è la più stretta connessione fra azione economica e fiscale e ogni
procedimento che induce a seguire continuamente le alterazioni economiche nei loro rapporti reciproci con
i risultati fiscali» (p. 22).
- «La finanza di guerra dovrebbe costituire l'applicazione più rigorosa della legge dei massimi risul-
tati con i minimi costi» (p. 37).
- «Lo Stato non aumenta in un periodo di guerra tutte le imposte in misura uniforme: limita gene-
ralmente l'aumento a certi tributi e lo applica in proporzioni diseguali» (p. 44) verosimilmente in base al cri-
terio della capacità contributiva relativa che ho illustrato nel capitolo IV.
- «Il problema della scelta fra i vari metodi e della loro conveniente combinazione si pone in condi-
zioni di urgenza e di necessità, quali non si riscontrano in nessun altro periodo della vita nazionale» (p.
125).
- «Lo studioso ha la possibilità di seguire i vari procedimenti che si presentano in grande rilievo e
in dimensioni eccezionali, di studiarne la diversa efficacia in relazione al tempo, comparare i metodi seguiti

__________
(355) Ciò non poteva sfuggire al Borgatta, che, richiamandosi alla «connessione e subordinazione dei procedimenti
finanziari in senso stretto agli scopi economici e politici dello stato di guerra», quali affiorano nella letteratura stranie-
ra, sottolinea il concetto che domina in siffatte impostazioni, nel senso dell'attenuarsi o del venir meno della distinzio-
ne fra economia pubblica e privata, «per cui verrebbe meno la ragion d'essere di una separazione della scienza delle fi-
nanze da quella economica». L'autore che vede la trasformazione della scienza delle finanze, per tal via, in una politica
economica di guerra, non segue la tendenza, la quale quindi non mi pare atta a fare da elemento differenziatore della
finanza straordinaria da quella ordinaria. Cfr. G. BORGATTA, La finanza della guerra (Alessandria, Ed. Gazzotti, 1945).
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in diversi paesi ed i loro risultati...». Per ciò appunto la finanza della guerra offre un modello più di ogni al-
tro completo e fecondo di indagini analitiche dei fenomeni della finanza straordinaria (p. 125).
- «La guerra determina (quindi) una dilatazione dei bisogni attuali della collettività, alla quale cor-
risponde una variazione della massa dei beni attualmente consumati dalla collettività» (p. 131).
- «E’ necessario distinguere l'aumento complessivo dei bisogni della collettività nazionale dalle va-
riazioni del reddito consumato dalla nazione» (p. 129).
- «Il fabbisogno di beni per la guerra non supera o supera il reddito annualmente prodotto» (P.
182).
- «Il principio che deve applicarsi durante la guerra è più semplice di quello del sacrificio minimo, e
si enuncia nel senso che l'imposta deve essere regolata in modo da prelevare tutto il reddito eccedente» la
somma necessaria al mantenimento della popolazione, alla capacità produttiva ecc. (p. 184).
- «Quando la guerra richieda oltre al consumo di reddito eccedente il minimo anche il consumo di
capitale reale, è inevitabile il ricorso ai prestiti e all'inflazione (p. 189).
- «In una prima approssimazione teorica risulta possibile provvedere alle spese di guerra con le sole
imposte, tanto se il costo bellico è contenuto nel limiti del reddito nazionale, quanto se esso richiede il con-
sumo di una quota del capitale» (p. 193).
- «E’ fenomeno constatato nelle guerre, la tendenza della pressione fiscale ad indebolirsi anziché ad
inasprirsi» (p. 234).
- «Una caratteristica della dinamica dei redditi durante la guerra è la rapidità oltre che misura delle
variazioni dei redditi ed entrate. La brevità del tempo impedisce all'organismo fiscale di seguire immedia-
tamente o rapidamente i mutamenti di redditi e valori» (p. 239); come fenomeno di grado per le imposte sui
consumi i veda a p. 249.
- «Fra i problemi finanziari che si presentano per le imposte sui consumi durante la guerra, figura-
no: I) quello dei limiti dei prelievi del reddito eccedente i bisogni della popolazione; II) l'attitudine a far ot-
tenere la riduzione delle quantità consumate, compatibilmente con bisogni bellici; III) gli effetti di dette
imposte sull'ammontare e sulla riduzione del capitale nazionale» (p. 265).
- «La pressione delle imposte sui consumi viene durante la guerra aggravata in misura inferiore a
quella delle imposte dirette» (p. 269).
- «L'aumento delle aliquote delle imposte proporzionali (oltre che della progressività, p. 282) (o
continuative sul patrimonio) è uno dei procedimenti cui più frequentemente lo stato belligerante ricorre per
prelevare una maggior quota del reddito privato e l'eccedenza di esso sulla sussistenza» (p. 286).
- «Sorge la necessità di integrare e rafforzare l'imposta normale proporzionale, con un'imposta
complementare fortemente progressiva per la quota dei redditi non prelevata dalla prima» (p. 311).
- «Nei tempi normali l'imposta progressiva si ricollega alla decrescenza delle utilità marginale del
reddito. Ma nel sistema della tassazione bellica questo principio assume un posto secondario; ed essa ri-
sponde allo scopo economico di limitare il consumo del reddito assorbendo l'eccedenza predetta» (pp. 312-
13). Sarebbe stato meglio dire che si tratta, in tal caso, non del problema del modo di ripartire razionalmen-
te i tributi, ma di applicazione di detti strumenti, comunque spiegati razionalmente, al fine di politica eco-
nomica di guerra.
- «Negli esempi storici le imposte progressive hanno parte assai limitata perché solo in alcuni paesi
esse già esistevano come istituto normale del sistema tributario, che con la guerra si è inasprito» (p. 320).
- «In contrasto con la teoria tradizionale (che, avverto io, è statica) le imposte sui sopraprofitti pos-
sono essere trasferite sui consumatori, per la previsione di successivi spostamenti nella domanda (dinamica)
(p. 353).
- «Le imposte sui sopraprofitti hanno progressività basata sul fatto obbiettivo dell'eccedenza di que-
sti redditi rispetto a quello normale» (p. 383).
- «Esse costituiscono un tentativo dello Stato per ristabilire la generalità e l'eguaglianza» (p. 390). Il
lettore ricorderà che questo esempio risulta accanto ad altri di finanza ordinaria per dar conto del concetto
di capacità contributiva relativa, in queste lezioni.
- «La leva sui capitali ha lo scopo di provvedere a prelievi una tantum per spese e consumi bellici
che superano il prodotto nazionale» (p. 433).
- «Caratteristica del tributo è il concentramento dei versamenti dell'imposta dovuta nel corso di uno
o pochi esercizi, in un periodo in cui il reddito privato è intieramente o in massima parte assorbito già» (p.
437).

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- «In tempi normali, col debito pubblico, lo Stato si mantiene al di sotto dei limiti dati dalle esigen-
ze di sussistenza o della attività produttiva che debbono conciliarsi col servizio per i prestiti. Le speciali
condizioni dell'economia bellica ‘permettono un'eccezionale dilatazione del debito’ con necessità di ‘redi-
stribuzione di una quota maggiore del reddito’ per il servizio del prestito» (p. 578).
- «Il circuito monetario può definirsi una politica economica che, data l'espansione iniziale dei
mezzi di pagamento, ha lo scopo di limitarne il successivo incremento riassorbendo il potere d'acquisto per
provvedere alle ulteriori spese straordinarie (p. 606).
- E riassume che le conclusioni della sua analisi teorica fanno vedere il giudizio finanziario basato
su criteri e scopi diversi da quelli propriamente finanziari valevoli per l'attività ordinaria diretta a produrre
servizi pubblici continuativi, permanenti. La teoria deve individuare questi scopi e giudicare della attitudine
o meno dei procedimenti adottati praticamente a conseguirli tenendo presente la gerarchia dei bisogni (p.
641).
Come si vede dalla esemplificazione concettuale, il Borgatta o conferma le differenze di grado nei
fenomeni finanziari o passa alla politica economica e finanziaria, dando piena ragione al mio punto di vi-
sta logico e metodologico per tutti i problemi della finanza straordinaria contrapposta alla ordinaria.
Ciò premesso, si porranno in evidenza i problemi di tecnica relativa ai procedimenti attraverso i
quali si prelevano i mezzi per fronteggiare i bisogni pubblici straordinari. Anche in questo campo più limi-
tato, è evidente che le «scelte» dei governi non sono arbitrarie ma illuminate dalla logica economica. Ma si
tratta di problemi particolari, rispetto a quello generale a cui sopra si è accennato: e cioè della intensità
maggiore dei bisogni da soddisfare e dello sforzo finanziario che ciò richiede, rispetto al caso del soddisfa-
cimento del bisogni correnti od ordinari. Il problema generale si risolve alla luce della teorica che si è svolta
nei precedenti capitoli.
In modo particolare trovano applicazione, nella spiegazione della attività finanziaria straordinaria,
le teorie generali, con le quali si è tentato di porre in luce la logica o la genesi dell'intero fenomeno finan-
ziario, tenendo presente l'intensità relativa di bisogni pubblici e privati, in rapporto al reddito od alla ric-
chezza in genere, disponibile per il soddisfacimento di essi.

II.

GLI STRUMENTI DELLA FINANZA STRAORDINARIA.

1) Il bisogno eccezionale, discontinuo, che maggiormente turba il normale svolgimento dell'attività


finanziaria, è costituito dalla difesa militare nell'occasione di un conflitto internazionale. Per questa ragione
si identifica spesso la finanza straordinaria con la finanza di guerra, come si è appena visto.
Il quesito che si propone anzitutto e soprattutto è il seguente: dato il manifestarsi di un evento (ad
esempio: una guerra) che richieda un aumento della spesa pubblica in misura rilevante rispetto al caso nor-
male o dei bisogni continui della collettività, con quali procedimenti si provvederà a fronteggiare le spese
straordinarie, compatibilmente con il massimo benessere o con il minor costo?
Dal punto di vista storico, sorpassando sulla utilizzazione di avanzi di cassa o di attivo di bilancio
corrente - fonti troppo esigue - si è fatto ricorso ai seguenti mezzi o alle seguenti fonti di entrata per conse-
guire i mezzi atti a fronteggiare l'eccezionale o straordinario aumento delle spese pubbliche: tesoro di guer-
ra, imposte straordinarie, prestiti pubblici ed emissione di carta moneta.

A) Tesoro di guerra.
Il primo procedimento si può dire in gran parte superato dalla esperienza, perché nei casi in cui, in
passato, è stato usato, si è dimostrato inadeguato alle esigenze reali, dato che le spese nel caso, ad es., di
una guerra, hanno assunto proporzioni grandissime e tali da far considerare come del tutto insufficienti ac-
cantonamenti di mezzi aurei o di titoli, nel periodo di pace, per utilizzarne il valsente nella fase bellica. O,
comunque, di utilità limitata alla iniziale fase di un evento che, come la guerra, richieda ingenti mezzi fi-
nanziari.

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Inoltre, poiché può trattarsi di quote di ricchezza sottratte al movimento economico, si è condannata
come antisociale la «tesaurizzazione» delle somme a questo fine. Se si tratta di titoli di debito, che occorre-
rebbe vendere al momento in cui si presentasse il bisogno eccezionale (titoli pubblici, obbligazioni private)
si compirebbe un'operazione con effetti economici sul mercato non diversi - come si è visto in precedenza
(cap. XIV) - da quelli della emissione di nuovi prestiti, per rastrellare disponibilità da destinare al bisogno
pubblico eccezionale o straordinario.
Tuttavia ho detto che si tratta di procedimento in gran parte superato, perché tanto la teoria quanto
la pratica hanno fatto ritenere conveniente e possibile, in questi anni, l'utilizzazione incidentale ed eventuale
e non predisponendole a questo fine, a titolo di tesoro di guerra, delle riserve auree degli istituti di emissio-
ne o dei «fondi» per i cambi monetari (356).

B) Imposta straordinaria e prestito pubblico.


Importanza più rilevante possono avere le imposte straordinarie, considerate come inasprimento
delle imposte esistenti (ad es. maggiorazione del 50% dell'Einkommensteuer in Germania, o addizionale
dell'imposta complementare in Italia, o ritocco delle aliquote delle categorie A) B) C1) dell'imposta di ric-
chezza mobile, maggiorazione dell'imposta sull'«entrata», ecc. nell'occasione dell'ultima guerra, per accen-
nare ad alcune delle maggiorazioni più evidenti); oppure come introduzione di imposte nuove e sui redditi o
patrimoni che si formino in relazione all'evento bellico, se questo è il caso storico più importante. (S'intende
che non si tratta di fatti di produzione nuovi nel senso di «aggiuntivi», ma di redistribuzione della ricchezza
e dei redditi a cui soprattutto dà luogo la guerra, considerando la collettività nel suo complesso).
L'esperienza storica non ha dato luogo ad uniformità costanti in tema di ricorso alle imposte straor-
dinarie per provvedere alle esigenze eccezionali, ad es. belliche, considerando diversi Stati e gli stessi Stati
nel tempo. Infatti non tutti gli Stati diedero peso rilevante alla fonte costituita dalle imposte nella prima
guerra mondiale e nel caso dell'ultima non tutti vi hanno fatto ricorso nelle stesse proporzioni rispetto ad al-
tre fonti di entrata straordinaria.
Naturalmente, se nella prima guerra l'alternativa dell'imposta straordinaria fu duplice, questa essen-
do stata contrapposta non solo al prestito ma anche alla carta moneta, nel caso storico del 1939-45 all'impo-
sta straordinaria, come nelle tradizionali trattazioni teoriche, si è contrapposto il ricorso al prestito pubblico
soprattutto, appunto per escludere, a priori, il ricorso alla carta moneta.
Invero, relativamente alla spesa pubblica straordinaria, non è sempre stato correlativo l'aumento,
pur sensibile, nella circolazione monetaria dei paesi belligeranti. Ma prima di accennare alle uniformità
spazio-temporali nella soluzione di questi problemi, consideriamo la spiegazione teorica della genesi del
debito.
In generale il debito pubblico sorgerebbe come procedimento che per l'intera collettività risulti più
economico del ricorso all'imposta straordinaria, e data anche l'insufficienza dell'imposta straordinaria a for-
nire i mezzi necessari a fronteggiare la spesa straordinaria, senza far raggiungere limiti intollerabili o so-
cialmente assai pregiudizievoli alla pressione fiscale.
Supponiamo che l'imposta straordinaria sia concepita come imposta sul patrimonio esistente. Si sa
che esso non è costituito di beni omogenei, ma consta di terreni, case, aziende industriali, ecc. ovvero di
ricchezza in forma liquida o mobile: E non solo. Se tutti coloro che posseggono beni patrimoniali dovessero

__________
(356) Nel caso italiano, fin da quando scoppiò la guerra etiopica ed una legge fece venir meno l'obbligo della Banca
d'Italia di convertire i biglietti da essa emessi, in oro (secondo la legge di stabilizzazione del 1927), si pensò che dette
riserve che si sottraevano alla funzione monetaria potevano essere impiegate come tesoro di guerra, cioè impegnate
nell'acquisto di materie prime ed altri beni strumentali, su altri mercati, per rafforzare le possibilità di azione militare.
Anzi, s è criticata la politica che per qualche periodo anche in Italia si è seguita, di cristallizzazione delle riserve au-
ree e di loro difesa dal punto di vista dell'ammontare monetario che rappresentavano; mentre sarebbe stato conveniente
tramutarle in materie prime od altri beni strumentali accantonabili come massa di manovra per l'azione militare.
All'estero (Inghilterra e Stati Uniti) se proprio non si è attuato un orientamento totalitario in questo senso, si è in lar-
ga misura costituito un debito nei rapporti internazionali, pur di procedere ad acquisti su vasta scala di materie prime
essenziali per l'eventuale guerra. Si trattava di acquisti sul mercato internazionale (cotone, gomma, metalli, lane, ecc.)
che furono detti, in quanto informati al fine tipico del tesoro di guerra, «acquisti strategici».
Naturalmente si tratta di uno dei procedimenti incidentali e non sistematici (come il tesoro) che entro limiti ristretti
soltanto possono essere attuati per fronteggiare le esigenze eccezionali od i bisogni straordinari che si sono soprattutto
tipizzati nel caso della difesa militare.
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venderne una parte per sopperire alla richiesta del tributo patrimoniale straordinario, si avrebbero tanti ven-
ditori senza altrettanti compratori.
Ogni proprietario, siccome ha investito il proprio patrimonio in rapporto al proprio «gusto» (valore
soggettivo), può anche non avere alcuna intenzione di liquidarne una parte, che peraltro finirebbe per me-
nomare, in molti casi, il valore del patrimonio residuo come entità produttiva. Se, poi, lo Stato gli richiede
un'imposta straordinaria, lo indurrà a rivolgersi a coloro che il De Viti De Marco (in contrapposto ai «pro-
prietari») denomina «capitalisti», per chiedere a costoro la somma che lo Stato esige a titolo di imposta
straordinaria.
Si pone in essere, cioè, sul mercato, una serie di prestiti privati nei rapporti fra proprietari e capita-
listi, in base ad altrettanti tassi di interesse che possono dare luogo ad un ammontare complessivo, suppo-
niamo di 1 miliardo e 200 milioni, su un totale di somme mutuate di 20 miliardi (al saggio del 6%). For-
malmente tutti restano proprietari del beni che possedevano prima della introduzione dell'imposta straordi-
naria di ammontare rilevante, ma detti patrimoni sono svalutati nella misura della annualità che i singoli
proprietari debbono ai capitalisti che prestano loro la somma da dare allo Stato a titolo di imposta straordi-
naria, esigendo il tasso di interesse del 6%. Cioè tante annualità, pro-rata, che diano luogo alla somma di in-
teressi di 1.200 milioni sull'intero mercato.
Se invece di fare questo ragionamento, lo Stato rinuncia all'imposta straordinaria prelevata sui pro-
prietari e si rivolge direttamente ai «capitalisti» contraendo un prestito pubblico, è assai probabile che il
tasso di interesse al quale ottiene la somma sia inferiore a quello medio che si formava sul mercato allorché
si poneva in essere la serie di rapporti di mutuo fra privati. E’ verosimile, cioè, che i capitalisti siano dispo-
sti a prestare somme allo Stato al tasso di interesse del 5%, con economia dell'1%, di cui beneficia la collet-
tività, a titolo di minore costo finanziario della attività statale che soddisfi un bisogno eccezionale.
Sorge così il debito pubblico, di cui ad es. il De Viti De Marco, in particolare, ha illustrato, con fine
di interpretazione dei fatti, la genesi con semplici, chiari ragionamenti nel senso di quello qui riprodotto.
2) Visti i due strumenti ortodossi della finanza straordinaria (imposte straordinarie e prestiti), rispet-
to ai quali il ricorso alla emissione di carta moneta è considerato, in teoria e in pratica, un mezzo di mobili-
tazione del potere di acquisto e dei valori patrimoniali, metto in evidenza la relatività teorica delle soluzioni
del problema finanziario, in rapporto ad ipotesi legate direttamente alla storia.
Sulla osservazione immediata dei fatti o della esperienza nel campo della finanza straordinaria, pos-
sono basarsi, come ho incidentalmente accennato, uniformità aventi attitudine a spiegare i fatti con limita-
zione della validità della teoria (costituita da leggi empiriche) nel tempo e nello spazio.
In tema di ricorso a prestiti e ad imposte, le leggi teoriche hanno assunto anche forma precettistica
per la loro enunciazione a guisa di normae agendi, o di leggi provvisorie di tendenza o limitate nel tempo in
tema di modi di finanziamento della guerra o di una spesa straordinaria in generale.
E’ facile critica quella che rilevi come una uniformità empirica, sperimentata in una guerra, possa
non avere valore in caso diverso, perché in contraddizione e comunque non in armonia con i fatti nuovi. Lo
stesso rilievo sarà elevabile contro sistemi di finanziamento ritenuti i «migliori possibili» compatibilmente
con le circostanze complesse (economiche e sociologiche) volta a volta «attuali».
Appunto uniformità empiriche, di limitata validità spazio-temporale sono le seguenti, che pongo in-
nanzi a titolo esemplificativo.
Per limitarmi ad alcuni autori, ricordo le seguenti posizioni di pensiero di fronte al problema, citan-
do anzitutto proposizioni che derivano dalla osservazione di fatti congiunturali passati:
A) Si leggeva ad es. in scritti del Flora, tenendo presente ad un tempo e la successione temporale
degli strumenti del finanziamento della guerra e le proporzioni quantitative, il seguente aforisma: «il buono
del tesoro la prepara, il prestito la sostiene e l'imposta la liquida»;
B) Ragionando cd supporre, verosimilmente, il prevalere di azioni logiche economiche e di un mi-
nimo di attriti o di resistenze che per brevità dirò sociologiche, 1'Einaudi così concludeva un mirabile capi-
tolo di storia finanziaria: «Gli Italiani avrebbero dunque potuto condurre la guerra senza strascichi di debiti,
senza inflazioni monetarie, senza aumenti e diminuzioni di prezzi diversi da quelli inevitabili in ogni tra-
passo da uno ad altro indirizzo produttivo e senza turbamento grave di posizioni acquisite, se essi... avesse-
ro deliberato di vivere per 10 anni con un tenore medio di vita superiore soltanto dell'86% a quello osserva-
to alla vigilia della guerra dal contadino dello stesso paese». E per dare l'indicazione dello strumento del fi-
nanziamento asseriva che il fine si sarebbe potuto raggiungere se si fosse ripartito l'onere del conflitto a
mezzo di imposte ordinate in modo da prelevare il fabbisogno secondo i principii della tassazione progres-
siva avente per scopo di realizzare il minimo sacrificio collettivo;
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C) In modo forse eccessivamente generalizzante, nel riferire un'opinione a suo parere pacifica o
prevalente presso gli studiosi, ha creduto di enunciare una uniformità precettiva, sostanzialmente empirica o
tratta dalla osservazione dei fatti della passata guerra, più che dai casi della finanza ordinaria il Gini (357)
scrivendo: «ognuno sa come gli economisti... abbiano proclamato che si deve procedere alle spese pubbli-
che principalmente con i tributi, eccezionalmente con i prestiti e per nessuna ragione con emissione di carta
moneta»;
D) Per limitarmi alla citazione dell'autore di un relativamente recente scritto organico estero di fi-
nanza di guerra, ricordo come nelle pagine di H. Jecht (358) figuri: 1) il prelievo di tributi, come mezzo «i-
deale», a dire anche di altri autori, per il finanziamento della guerra; 2) la possibilità passata (1870) di avva-
lersi soltanto del prestito.
Per aprire una serie di esempi di norme o regolarità empiriche, del caso recente, ricordo come lo
stesso autore germanico, sostenga:
E) Che i limiti in cui si debba far ricorso a prestiti, imposte e ad anticipazioni di mezzi monetari
(indispensabili a dire suo e di altri per la copertura del «primo costo della guerra»), dipenderanno - senza
che «a priori» si possa procedere a determinazione - dalle circostanze concrete, dalla situazione economica
dei paesi coinvolti, rispettivamente, in guerra e dal carattere di questa.
E il florilegio assai significativo per la particolare impostazione di questo breve saggio, si può sinte-
ticamente continuare ricordando anche i seguenti brani nei quali si racchiudono cosiddette leggi di tendenza
storico-statistiche e induzioni da osservazioni riflettenti date circostanze di tempo e di spazio;
F) Lo stesso prof. Flora (359), nell'illustrare le tendenze in atto nell'ultima guerra, nel caso mondiale
asseriva fra l'altro: «prestiti in tutte le loro forme nell'anno iniziale (1940-41) finanziarono il conflitto. La
funzione dei biglietti e dei tributi fu semplicemente complementare». E dopo aver ricordato per il caso ita-
liano, richiamando dichiarazioni ufficiali, che nei primi quindici mesi di guerra la spesa fu fronteggiata «per
i cinque sesti con i prestiti ossia con il risparmio nazionale e per la massima parte con investimenti diretti e
per la quota residua in parti presso che eguali dalla carta moneta e dalle imposte ordinarie e straordinarie»,
enunciava la seguente uniformità: «soltanto i prestiti pubblici assicurando la generale devoluzione del ri-
sparmio ai bisogni bellici, possono con il minimo costo per l'economia nazionale finanziare la guerra, ra-
strellare la carta moneta per essa stampata nel periodo iniziale e contenere l'inasprimento dei tributi. Nè le
imposte che oltre un certo limite divorano se stesse, nè l'emissione di biglietti per conto del tesoro che
sconvolge costi, prezzi, crediti, possono sostituirli. E’ questa ormai la politica finanziaria di tutti gli stati
belligeranti, decisi ad evitare l'inflazione della guerra mondiale...»;
G) Sono note le opinioni del Keynes, in tema di finanziamento della guerra, e le sue preoccupazioni
sociali che lo inducevano a suggerire il tipo di «risparmio forzato», attuato attraverso la tassazione di redditi
delle classi lavoratrici, alle quali alla fine della guerra si sarebbe dovuto rimborsare il maggior contributo fi-
scale del periodo bellico. (Sistema in parte accolto dal legislatore). A prescindere da siffatta restrizione con
cui si è suggerito il ricorso alla tassazione, il Keynes ha insistito sulla funzione primordiale dei prestiti a
breve e a lunga scadenza, ed ha asserito che, allorquando non vi sia ulteriore assorbimento di disponibilità
per questa via, l'equilibrio (fra consumi privati e pubblici) deve essere ottenuto, come ultima risorsa, da una
più alta pressione fiscale che può fare più che un elevato tasso di interesse e non compromette la finanza fu-
tura, e ponendo ostacoli al modo con cui il pubblico compra ciò che esso desidera.
Un «modus agendi» che in parte avrebbe dovuto orientare il procedimento del «circuito dei capita-
li», secondo il Keynes, sarebbe il seguente, come norma per l'emissione dei prestiti statali: in. primo luogo
conviene che le emissioni siano fatte dopo e non prima delle spese che debbono coprire, perché sono quelle
medesime spese che creano il risparmio impiegato nei prestiti: poi occorre adottare la forma di emissione
che riesca più gradita al pubblico;
H) Riferendosi al caso americano caratterizzato da reddito nazionale crescente, il prof. A. Hansen,
nell'esaminare la misura nella quale converrebbe ricorrere al credito bancario, al risparmio privato e alle
imposte per il finanziamento del bilancio, escludeva il credito bancario (tipicamente utile nei periodi di de-
flazione), enunciando il precetto seguente, correlato alle condizioni economiche predette. E cioè, il finan-
ziamento dovrebbe effettuarsi soprattutto con prestiti in cui si investe il risparmio effettuato sul reddito cor-
rente, e con i proventi fiscali. La pressione tributaria dovrebbe crescere in rapporto all'assorbimento nel ci-
__________
(357) Patologia economica, p. 3 dell'edizione del 1935 (Milano, Ed. Giuffrè).
(358) Kriegsfinanzen, p. 56.
(359) Relazione al Senato, N. 2214/A del 1943.
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clo produttivo delle forze di lavoro nazionali, allo scopo di esercitare con le imposte una azione limitatrice
sui consumi.
Questa tesi era avversata dal prof. Galbreith, il quale, affermando che vi può essere inflazione an-
che con il bilancio in pareggio, suggeriva prudenza nel ricorrere alle imposte per combattere l'inflazione,
dati gli effetti deflazionistici che nel dopo guerra potrebbe avere un gravoso sistema di imposte sui consu-
mi. La medesima tesi dell'Hansen era accolta dal prof. A. G. Hart, il quale suggeriva il ricorso a imposte e
prestiti forzosi per assorbire la capacità d'acquisto eccedente l'aumento della produzione;
I) L'Eccles e il prof. Sprague negli Stati Uniti, scartando il ricorso al credito bancario, ponevano in
prima linea il ricorso alle imposte sia per assorbire il potere d'acquisto «eccedente» sia per tener conto del-
l'aumento del debito pubblico previsto in cifre assolute elevatissime. E la norma empirica (dell'Eccles) si
spingeva sino alla precisazione che le imposte (sui redditi e sui sopraprofitti), avrebbero «dovuto» assicura-
re la copertura di non meno di due terzi delle spese per la guerra;
L) La relatività (a circostanze che, tipicamente, si enumereranno più oltre in linea generale) di ana-
loghe norme precettistiche, si nota anche presso gli scrittori tedeschi. Si pensi a proposizioni come le se-
guenti, del citato prof. Muhs: a) «La copertura delle spese a mezzo delle imposte è riconosciuta come la
forma migliore, quasi ideale di finanziamento della guerra; b) «se lo Stato persegue lo scopo di coprire le
spese esclusivamente o prevalentemente con le imposte, il carico fiscale può sorpassare facilmente la misu-
ra del sopportabile»; c) «perciò in generale al finanziamento per mezzo di imposte sono posti dei limiti che
non sono però fissi, ma elastici e che, secondo le condizioni politiche dello Stato, il benessere della popola-
zione e le richieste della guerra, possono essere più o meno allargati, ma che devono in qualche modo esse-
re rispettati, se lo Stato intende attenersi al postulato della massima opportunità nel finanziamento della
guerra»; d) «quando si è raggiunto il limite massimo della tassazione, si deve per il rimanente ricorrere al
finanziamento per mezzo di prestiti»;
M) Altra enunciazione di legge di tendenza storico-statistica, emersa sulla stampa germanica nella
discussione di idee di Benning e Donner, è quella che riguarda la graduatoria in tema di efficacia con cui i
procedimenti possibili contribuiscono all'assorbimento di potere d'acquisto sul mercato. Il primo posto spet-
ta all'uso dell'imposta e di simili provvedimenti; ma questo sistema incontra certi limiti, e perciò diviene i-
nevitabile il ricorso ad altri strumenti, i quali, sempre per il grado di efficacia ai fini suddetti, per la Germa-
nia, apparivano (dopo la tassazione): I) le forme di risparmio bellico (ferreo) per salariati e imprenditori,
vincolato sino alla fine della guerra; II) i prestiti dello Stato a lunga scadenza; III) gli investimenti a breve
termine in buoni del tesoro; IV) i versamenti su conti di risparmio e i depositi bancari;
N) Ai fini della individuazione in questo campo, della divergenza fra i concetti immanenti dell'esse-
re astratto della struttura sociale (di cui tiene conto la scienza deduttiva) e l'intreccio dei rapporti della strut-
tura astratta con la realtà delle cose che domina il tipo di trattazioni a sfondo empirico, non meno edificante
è la discussione accesasi fra economisti tedeschi, intorno ai limiti dell'indebitamento statale.
In proposito è occorso di leggere uniformità di questo genere: a) «Per quanto concerne il credito
dello Stato, si può bensì dimostrare teoricamente che non esiste un limite fisso all'incremento del debito. In
pratica però la quantità dovrebbe gradatamente far peggiorare la qualità, dando luogo a tensioni nella strut-
tura sociale...». «Si deve contenere la quota di incremento del debito dello Stato nella misura assolutamente
necessaria ad evitare pii tardi delle tensioni nella struttura sociale»; b) (da parte del prof. Donner): dal punto
di vista della tecnica creditizia e della necessità di pagare interessi e di rimborsare il capitale, non esistono
limiti all'indebitamento statale. Un limite è segnato dalla quantità di beni prodotti destinabili allo Stato, do-
po avere soddisfatto i bisogni della popolazione civile; c) la tesi che potrebbe sembrare paradossale al pro-
fano è stata spiegata dal Siek, dal lato teorico, dal quale è comprensibile come la possibilità di pagare inte-
ressi sia teoricamente infinita. A questa possibilità teorica egli ha opposto i limiti concreti entro i quali può
aumentare l'onere globale delle imposte e il prelievo di particolari tributi, accennando a influenze economi-
che, sociali varie. Ne deriva un limite indiretto all'indebitamento. Ma quale esso sia, anche per un dato pae-
se invano chiederemmo agli studiosi tedeschi citati ed in genere alla teoria finanziaria, essendo codesta u-
n'indagine sintetica o sociologica che va oltre i compiti di questa disciplina; d) il Terhalle, facendo appello a
criteri psicologico-costituzionali, ritiene inesistenti i limiti dell'indebitamento statale, che tiene distinti dai
limiti di sopportabilità del servizio dei prestiti, asserendo che «per uno stato che domini l'economia» (ipote-
si che investe tutti i vincoli del sistema ipotizzato) non esiste praticamente «alcun limite immediato» alla
possibilità di contrarre prestiti; detto limite dipenderebbe, a lungo andare, dagli effetti della redistribuzione
del reddito o della ricchezza che deriva dal prelievo di imposte per il servizio medesimo dei prestiti.

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Per non allungare la serie di opinioni espresse da studiosi come «giudizi di valore» o come precetti
in cui possono tradursi soprattutto, nei passi citati, leggi od uniformità empiriche, cito analoghe enunciazio-
ni di uomini di governo:
A') Una posizione storicistica alquanto appropriata alla soluzione del problema era stata assunta dal
Thaon di Revel, in Italia, col dire che la finanza di guerra «non può fondarsi sui testi scolastici, ma sorge e
si sviluppa con le necessità stesse della vita di guerra ed è suggerita giorno per giorno dalle circostanze».
Ma egli se ne stacca soggiungendo che il parallelismo riscontrato nei provvedimenti finanziari presi dai vari
governi in tema di obbiettivi e di mezzi adoperati, e la contemporaneità e la successione degli impieghi a-
vrebbero rivelato un «assoluto determinismo a cui è sottoposta la finanza di guerra all'infuori e talvolta a di-
spetto dell'economia classica». Quest'ultima asserzione, di cui chi abbia seguito questo Corso può misurare
la criticabilità da vari punti di vista, finisce per assumere prevalentemente il carattere delle recriminazioni
dei «pratici» contro uniformità teoriche (non peraltro precisate) alle quali si vorrebbe assegnare il potere di
dominare i fatti. E il senso di contraddizione nonché la genericità indeterminata della soluzione del proble-
ma concreto, il quale si riafferma in tutta la sua storicità, si riscontra nelle parole: «la finanza bellica deve
fra l'altro perseguire il riparto armonico (360) dello sforzo finanziario fra imposte e prestiti». Ma degli ele-
menti volta a volta o in generale atti a far realizzare la ricercata armonia, non si dà idea alcuna od adeguata.
B') Una assoluta affermazione, all'inizio della guerra, era stata fatta dal segretario di stato alle fi-
nanze germanico, F. Reinhardt, col dichiarare che: 1) a differenza di quanto avvenne nella passata guerra, il
fabbisogno attuale sarebbe stato fronteggiato essenzialmente con imposte; 2) non si aveva l'intenzione di ri-
correre a prestiti di guerra fino a quando considerazioni economiche non li facessero apparire necessari; 3)
che non si sarebbero prese misure suscettibili di far diminuire il valore della moneta.
E nel 1940 (febbraio) confermava il Ministro Funk che il potere d'acquisto libero deve essere meto-
dicamente assorbito attraverso imposte e prestiti, evitando la svalutazione monetaria e l'allargamento del
credito senza corrispondente incremento della produzione. Lo stesso anno, il prof. Wagemann precisava che
si contava di coprire i 50 miliardi di spesa, per metà attraverso le entrate fiscali e per metà ricorrendo ai pre-
stiti, e quella proporzione, tendenzialmente, si sperava di mantenere, a giudicare anche dai proponimenti
manifestati da Funk nel 1943.
C') In Inghilterra, l'elevazione della pressione fiscale aveva lo scopo di far aggirare attorno al 50%
la quota di spese da coprire mediante il provento delle imposte, il quale (secondo le dichiarazioni dei mini-
stri dei primi anni di guerra) si aggirava intorno al 40% medio.
D') Nel caso degli Stati Uniti si era avuta l'enunciazione del programma del segretario alle finanze,
Morgenthau, nel 1941, nel senso che egli intendeva coprire, con il ricorso ai tributi, il 75% delle spese del
periodo bellico.
A questo punto pongo termine al florilegio esemplificativo. Lo storico della finanza di guerra nel
futuro fornirà trattazioni nelle quali frammenti di idee, come quelle enunciate da teorici e uomini di gover-
no, vengano incastonati nella trama degli eventi. Ma ciò che nelle uniformità desunte dai fatti della prima
guerra mondiale e legate alla seconda si può intravedere di comune, è il tentativo non sempre appropriato e
razionalmente concepito di utilizzare conclusioni di teorie astrattamente basate su ipotesi ben delimitate da-
gli autori citati e da altri, che hanno studiato il problema del finanziamento della guerra o di una spesa stra-
ordinaria in genere.
Le ragioni di brevità già ricordate mi hanno fatto trascurare la citazione delle «normae agendi» trat-
te dalla analisi del funzionamento del cosiddetto «circuito dei capitali», espressione di cui si è esagerato il
significato scientifico e sotto la quale si cela stenograficamente il programma della mobilitazione delle di-
sponibilità monetarie e dei beni reali corrispondenti, ricorrendo a prestiti e ad imposte limitando al massimo
empiricamente possibile (senza alcuna pretesa di precisione matematica) il ricorso ad emissioni aggiuntive
di mezzi di pagamento. Parimenti non richiamo i precetti che discendono dalla disamina dei limiti in cui,
pur non crescendo la quantità delle merci circolanti, può aversi una elevazione dei mezzi di pagamento (as-
sociata a risorse produttive non impiegate) senza dar luogo ad inflazione.
3) Osservando il contrasto fra gli enunciati che precedono, comparati l'un altro e la mancata coinci-
denza delle norme precettistiche che essi contengono coi fatti; più ancora, constatando il contrasto fra le i-
dee programmatiche espresse, ad es. all'inizio del finanziamento della guerra, e la condotta praticamente te-
nuta, non ripeteremo la ormai vieta critica formulata dai profani, secondo la quale la congiuntura bellica -

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(360) Concetto del tutto indeterminato, quantitativamente.
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nonché le crisi economiche - avrebbero consacrato il «fallimento della scienza economica», ovvero le «leg-
gi» dell'economia politica avrebbero «fatto bancarotta». Ponendo fuori causa le leggi della statica, sarà, in-
vece, il caso di avvertire, come sistematicamente si è fatto nelle pagine che precedono, che le norme precet-
tistiche che necessariamente si rivelano inadeguate a spiegare tutti i fatti nel loro fluire mutevole, sono ap-
punto quelle che si traggono dall'osservazione di dati fatti e di limitate esperienze.
E come può gridarsi al fallimento di uniformità che venivano enunciate con la esplicita riserva in-
torno alla limitata loro validità, ovvero come leggi empiriche? Quando, cioè, i costruttori di siffatte «leggi»
o uniformità di natura spazio-temporale, ammettono che un'esperienza più ampia e diversa può venire a ne-
gare la legge medesima, la cui validità dipende dalla conformità delle esperienze possibili alla esperienza
già acquisita?
Si sa che vari autori si sono presa la cura di chiarire le ragioni che avevano fatto conclamare dai
profani la condanna delle leggi economiche e che un intero volume (nel caso del Gini) è stato scritto pren-
dendo spunto da contrasti fra le conclusioni dell'economia teorica da una parte e la condotta effettiva dei
governi e dei singoli in materia economica, dall'altra. Ma non ritengo che giovi affermare che l'economista
intende spesso per leggi economiche «i precetti che derivano dai presupposti da cui le sue teorie partono»,
aggiungendo che essi vogliono dire che «se il mondo avesse osservato tali precetti economici le cose sareb-
bero andate meglio». E invero, i presupposti da cui gli economisti teorici partono non sono proprio o non
sono tutti o soltanto quelli che determinano i problemi concreti, nelle varie epoche e nel distinti paesi.
Le norme precettistiche che ho richiamato alle lettere A-M ed A'-D' non sono certo del tipo delle
leggi universali elaborate su base ipotetica dalla statica. Le prime, in quanto prevalentemente empiriche,
sono caratterizzate da validità relativa, come precisato.
Nel caso particolare di mancata constatazione di uniformità nelle conclusioni di studiosi ed uomini
di governo in merito alla soluzione dei problema della successione e delle proporzioni, rispettivamente, del-
l'impiego di imposte e prestiti per il finanziamento di una spesa straordinaria, nel tentare la spiegazione del-
la divergenza la mente oscilla fra idee vecchie e nuove; potendo ad es. rintracciarsi, in V. Fuoco, il pensiero
che l'economia risolve i problemi secondo principii generali e la scienza dell'amministrazione (come appli-
cazione degli stessi principii alle funzioni di un governo) secondo gli stessi principii «modificati» dalle po-
sizioni speciali in cui si trova un governo (361). Essa è una visione rudimentale ma appropriata all'epoca in
cui fu concepita. Mentre, al polo opposto, stanno le visioni più recenti (della dinamica) che presso autori
nostri assumono posizioni estreme. Talché è dato di leggere in una contraddizione di termini e non di con-
cetti che abbiamo delle uniformità che sono «uniche in sè». Quando esse appaiono come modificate dallo
sviluppo delle circostanze, non è invero l'uniformità (una certa uniformità) che si modifica, ma piuttosto si
ha una «continua costruzione di uniformità di natura» (Demaria).
Nel problema particolare del finanziamento di una spesa straordinaria, come è quella che si incontra
per fronteggiare una guerra, la soluzione non è eguale od uniforme, perché i fattori determinanti e causali
agiscono in combinazioni varie e non presentano uniformità nè qualitativa nè quantitativa anche in com-
plessi istituzionali apparentemente simili, data la intuibile diversità di quelle che (Demaria) sono state dette
«coordinate spazio-temporali»: mi limiterò ad una lista di fattori causali. La relatività delle serie storiche e
delle leggi empiriche, che impedisce la determinazione di una graduatoria generale secondo l'importanza
della influenza rispettiva dei predetti fattori, verrà compensata dalla lunghezza della lista e dal tentativo di
evitare lacune e ripetizioni. Vien lasciata, così, al lettore per una necessità logica e per la rinuncia esplicita
ad una particolareggiata indagine storico-statistica per i paesi di cui si sono considerate leggi di tendenza di
carattere teorico e programmi pratici, la individuazione dei gradi di dipendenza delle serie statistiche o delle
soluzioni concrete, dalle circostanze istituzionali.
4) Ragionando per tipi di circostanze, tratti dalla casistica dell'ultima e della precedente guerra, o
individuati in indagini di altri autori, si può comporre la seguente elencazione significativa, allo scopo di ri-
levare presumibili ragioni del diverso ricorso a prestiti e ad imposte e di dare una conferma della relatività o
della limitata validità delle leggi empiriche che in proposito sono state enunciate.
Soprattutto dal punto di vista dello Stato e, rispettivamente, della collettività (meno appariscente se
non indiretto e, in talune ipotesi, trascurabile essendo il punto di vista individuale) si possono indicare come
fattori vincolanti leggi empiriche di tendenza o di scelte di uomini di governo, le seguenti circostante va-
riamente riscontrabili nel tempo e nello spazio: 1) La corsa agli armamenti, già nell'anteguerra, venne so-
__________
(361) A p. 137 dell'edizione curata dal FASIANI (nel vol. V degli Annali di statistica e di economia dell'Università di
Genova) della Applicazione dell'algebra all'economia politica (Introduzione).
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stenuta dall'aumentato debito pubblico, così che si era creata un'economia di guerra in tempo di pace. 2) Lo
sforzo finanziario straordinario (e tributario in ispecie) ha talora avuto inizio (caso italiano di un quinquen-
nio) prima della guerra. 3) Durante il periodo di pace l'economia è stata dominata dallo spirito bellico
(Germania) modificando all'uopo la legislazione sulla banca di emissione e regolando prezzi, salari, interes-
si, ecc. 4) Il diverso grado di controllo dell'economia influenza la formazione di eccedenze di disponibilità
monetarie, rispetto ai ridotti consumi privati. 5) Nell'assorbire dette eccedenze per il tramite dei tributi esi-
ste un limite, che è in relazione con le condizioni economiche e fisiche dei componenti la collettività e con
la redditività delle imprese, limite, quindi, non eguale per tutti i paesi. 6) Negli stati cosiddetti autoritari, il
ricorso alle nuove imposte non incontra il vincolo o la resistenza dei parlamenti e le relative discussioni che
necessariamente ritardano l'adozione di drastiche misure fiscali. 7) La sensibilità morale delle classi gover-
nanti e la capacità di interpretare il limite di sopportabilità della pressione fiscale così come la reazione e la
quiescenza del contribuenti sono soggettive e variabili. 8) I limiti del ricorso al prestito sono in relazione
con il credito di cui gode lo Stato e con la stabilità del potere d'acquisto della moneta. 9) Le proporzioni in
cui l'aumento di mezzi di pagamento può combinarsi con capitali (beni strumentali) e lavoro «disoccupati»
o non impiegati prima della guerra e della spesa straordinaria senza dar luogo ad inflazione sono relative a
singole situazioni di mercato, nazionali. 10) Il sentimento di solidarietà sociale e la volontà di collaborazio-
ne sono diversi nei vari paesi, nei quali viga in diverso grado, rispettivamente, l'educazione politica o si e-
serciti l'intimidazione o la suggestione di uomini della classe governante. 11) Il costo del debito pubblico è
dipendente dalla possibilità di attuare una politica di denaro a buon mercato e di controllo degli investimen-
ti privati. 12) La diversa liquidità dei mercati influenza l'adozione di titoli a breve o a lunga scadenza e la
qualità del titolo determina diverso successo delle emissioni attraverso il tempo e in distinti paesi. 13) La
stabilità dei governi e dei sistemi politici è in diversa relazione con il tipo dei titoli che possono emettersi e,
indirettamente, con i limiti dell'indebitamento. 14) Le proporzioni di aumento del reddito monetario e dei
prezzi influenzano variamente la formazione di eccedenze monetare che possono essere assorbite attraverso
prestiti volontari o con la coazione tributaria quando si abbassi il reddito reale. 15) La diversa efficacia del-
la politica annonaria influenza la somma di beni privati e di capitali monetari corrispondenti, da sottrarsi ai
soddisfacimento dei bisogni attuali. 16) Il ritardo nella attuazione delle norme restrittive e rispettivamente
l'anticipo della politica annonaria, condizionano il tipo di finanziamento iniziale della guerra. 17) La scarsa
elasticità delle imposte (sensibilità congiunturale) ed il diverso grado di essa influenzano il limite e l'ordine
temporale degli inasprimenti tributari. 18) L'efficienza burocratica consente in diverso grado l'innovazione
fiscale (imposte nuove); e il diverso grado di efficienza creditizia, in rapporto alla liquidità del sistema ban-
cario e del mercato, influenza il riscatto di imposte o la mobilitazione di quote del patrimonio nazionale. 19)
L'autofinanziamento delle imprese, entro limiti variabili secondo una casistica spazio-temporale, influenza
le forme dei pagamenti pubblici; questi possono provocare rapporti di debiti privati verso istituti bancari,
basati sulla garanzia di obbligazioni o altri documenti delle tesorerie che non figurano come debito pubbli-
co. 20) Gli investimenti diretti da parte degli Stati in attrezzature industriali, compiuti in parte in periodi an-
teriori alla guerra e durante il conflitto, influenzano la politica dei prezzi, dei pagamenti oltre che dei finan-
ziamenti che possono essere affini a quelli di aziende private in diversa misura nei vari paesi. 21) Il teso-
reggiamento, come forma di conservazione del potere d'acquisto così sottratto al mercato, influenza varia-
mente il limite del prelievo di prestiti e di imposte. 22) La distruzione, in diverso grado, di beni privati mo-
difica in corrispondenza la tassazione di redditi e patrimoni ordinaria e straordinaria. 23) Il diverso stato di
conservazione e di manutenzione del patrimonio privato e pubblico, alla vigilia del tempo della spesa stra-
ordinaria, influenza i limiti del consumo eccezionale di esso (362), in sostituzione di ricorso pro-rata a presti-
ti e ad imposte. 24) La scelta e l'efficacia economica e psicologica dei procedimenti fiscali con cui si osta-
colano gli investimenti privati del periodo bellico sono determinanti per la formazione di disponibilità o-
rientabili verso gli investimenti pubblici. 25) L'orientamento del sistema bancario ed assicurativo con o
senza il controllo statale verso l'impiego di disponibilità monetarie in titoli pubblici, influenza variamente il
cosiddetto «finanziamento silenzioso», sena rapporti diretti fra Stato e risparmiatori uti singuli. 26) I limiti
in cui sia possibile ricorrere a prestiti esteri o sistemi misti (di tipo americano, attuale) o ad emissioni di
moneta nazionale su mercati esteri, indirettamente modificano le proporzioni del ricorso a prestiti ed a tri-
buti interni. 27) Le varie forme di allettamento dei risparmiatori (premi) o di persuasione (risparmio ferreo)
o infine la tassazione temporanea con restituzione delle somme prelevate coattivamente al cessare della

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(362) Logorio di impianti ed esaurimento di scorte.
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guerra (caso inglese) modificano i limiti del ricorso a prestiti e ad imposte. 28) La diversa composizione
delle maggioranze parlamentari condiziona il ricorso a imposte rispettivamente sui consumi e sui redditi, e
di carattere progressivo o regressivo, anche se esse si prospettino come atte all'assorbimento più rapido del
potere d'acquisto eccedente i bisogni privati, delimitati dalla autorità. 29) Il grado di perequazione esistente
nel modo di ripartizione dei tributi e di accertamento degli imponibili, alla vigilia dell'evento che provoca
una spesa straordinaria, influenza i limiti in cui si possa ricorrere ad un aumento di aliquote vigenti e la
tempestività con cui la scelta possa essere compiuta dai governi senza attuare ulteriori riforme. 30) La va-
rietà dei giudizi soggettivi sulla diversa pressione psichica (sacrificio di ofelimità) e le illusioni che li ac-
compagnano, in merito alla comparazione, da questo punto di vista, di un aumento della pressione tributaria
attuale (imposta straordinaria) con la diffusione dell'onere durante un periodo indefinito o lungo (tributi per
il servizio dei prestiti o il solo versamento di interessi), costituiscono elementi causali di orientamenti di
soggetti, come contribuenti e come possessori di beni capitali di varia natura, e di corrispondenti atteggia-
menti della classe governante.
Le insuperabili limitazioni di spazio facevano sospendere, nel mio saggio citato e in parte riprodot-
to, la lista ancora allungabile di fattori determinanti le soluzioni concrete, fattori che e «uti singuli e uti uni-
versi» e variamente combinati, simultaneamente o nella successione temporale, conferiscono relatività alla
alternativa (prestiti o imposte) considerata nei limiti quantitativi. Il problema sorge per variazioni marginali
della strumentalità dei due istituti fondamentali del finanziamento bellico, i quali solitamente sono stati im-
piegati simultaneamente in vario grado; epperò, il caso-limite dell'impiego di un solo istituto, con esclusio-
ne dell'altro non solo è concepibile ma addirittura verificato storicamente (nell'esempio della guerra germa-
nica del 1870).
La elencazione che precede e che volutamente è stata estesa e resa alquanto comprensiva, non può
ne intende essere quella che in una impostazione deduttiva dei ragionamenti costituisce «l'enumerazione
completa» che figura come quarta regola del metodo Cartesiano. Ma, le trenta circostanze determinanti che
ho esposte ed altre pensabili, le loro combinazioni e le interinfluenze reciproche vogliono far comprendere
come sia estremamente improbabile che tutte esse si verifichino e risultino determinanti in egual grado, in
tempi e luoghi diversi, per la soluzione di uno stesso problema di ricorso a prestiti e ad imposte per il finan-
ziamento di una spesa straordinaria.
La tendenza della mente umana a generalizzare e, più ancora, l'espressione che si usa nell'enunciare
considerazioni indotte dall'osservazione dei fatti, di dati fatti, può far pensare a coloro che incontrino nello
studio affermazioni sul tipo di quelli di cui alle lettere A-N) - A'-D'), sopra elencate, di trovarsi di fronte alle
cosiddette uniformità astratte universali o valide senza limiti di tempo e di spazio, come quelle basate su i-
potesi che prescindano dai rapporti immediati col fenomeno concreto; ipotesi più proprie della teoria pura,
sgombra da legami storico-induttivi. Ma è assai spesso chiaro che si tratta di una contraddizione in termini
dovuta più a chi interpreta il pensiero degli economisti, che non insita nelle cosiddette leggi d'osservazione,
concepite in questo ramo delle scienze sociali con validità implicitamente vincolata alla probabilità del ripe-
tersi nel tempo e nello spazio di circostanze determinanti e loro successioni e combinazioni approssimati-
vamente simili (specie e grado) o addirittura, in tal senso, identiche.

III.

IL PROBLEMA DELLA PRESSIONE COMPARATA DEL PRESTITO


E DELL'IMPOSTA STRAORDINARIA IN TEORIA PURA.

A) Dalle argomentazioni precedenti deriva come una necessità logica l'orientamento metodologico
«antiempiristico» o razionalistico di coloro che impostano problemi di teoria economica, tipicamente dedut-
tivi. Per essi l'esperienza pone al pensiero i problemi particolari e determinati da cui la ricerca scientifica
prende le mosse, attraverso la formulazione di ipotesi. Errano coloro che ritengono che i costruttori di teorie
e i formulatori di uniformità statiche astraggano dall'esperienza nella selezione delle premesse ipotetiche.
Valga, per tutti, il Cartesio, il quale si apprestava alla ricerca razionale come testualmente riferiva «racco-
gliendo buon numero di esperienze per costituirne poi la materia dei miei ragionamenti».

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Nello spirito Aristotelico-Cartesiano si sono mossi, da Ricardo ad oggi, gli studiosi che hanno de-
dotto gli effetti della alternativa (prestiti od imposte), argomentando in via ipotetica e giungendo alle note
conclusioni eminentemente statiche.
Ne è seguita tutta una serie di studi che, preso spunto dalla impostazione di Ricardo con contributi
di Loria, Pantaleoni, De Viti De Marco, Einaudi, Borgatta e Griziotti, soprattutto, hanno «condizionato» il
cosiddetto problema della diversa «pressione» tributaria del prestito e dell'imposta straordinaria, conside-
rando la letteratura italiana.
Nello schema del Ricardo si accennava ad una identità di pressione fra prestito e imposta straordi-
naria, considerando la collettività come unità, ovvero tenendo presente, come faceva quell'economista, una
singola persona.
Ma il grande pensatore non si limitava ad affermare la identità di pressione dei due procedimenti, in
senso oggettivo o per riguardo all'ammontare di ricchezze che, in entrambi i casi, dal settore privato passa a
quello pubblico; ma impostava e risolveva, altresì, il problema soggettivo della incidenza. Contrariamente
all'opinione prevalente ai suoi tempi (ed alle idee che altri economisti hanno sostenuto, in seguito, con scar-
sa fortuna, come Umpfembach, Messedaglia, Leroy Beaulieu, Ricca-Salerno - quest'ultimo con scarsa con-
vinzione - per trascurare i contemporanei, specialmente tedeschi) il Ricardo sosteneva la tesi che la pressio-
ne di un'imposta e di un prestito, oltre ad essere uguale, ricade in ogni caso sulla generazione presente.
Di fronte a questo problema, si è chiamata in causa la visione di Pareto, il quale ha tratto occasione
dalla sollecitazione a pronunciarsi per manifestare i soliti atteggiamenti polemici avverso alla «scienza delle
finanze» quale la professavano alcuni studiosi del tempo suo, ritenendosi egli «eretico» fra quei credenti.
Ma le obiezioni appunto purché polemiche, quali egli ha opposto al Griziotti che ne sollecitava il
pronunciamento in questo ordine di problemi, non sempre paiono rispondenti alla metodologia scientifica.
Scrivere che «non (gli) è mai capitato di trovare nessun contribuente che faccia i calcoli di Ricardo, od altri
simili» (nella lettera al Griziotti del 1917, pubblicata da questi nel 1943 sulla «Rivista di dir. fin. e scienza
delle finanze»), a parte la limitatezza della esperienza personale nel caso in cui si assumesse in senso stret-
tamente letterario la dizione, sarebbe porsi contro la scienza. Questa come si è visto è essenzialmente ipote-
tica, quando vuol essere aderente alla astrazione teorica e non una descrittiva di fatti, così come integral-
mente si riscontrano in concreto. E, di metodo, Pareto è maestro.
Del resto avevo ricordato363 che lo stesso Ricardo, dopo aver dimostrata l'equivalenza fra il paga-
mento del valore capitale (imposta straordinaria) e quella di una annualità (supposta perpetua) di interessi,
concludeva che «il pubblico non apprezza e non regola in conseguenza i propri affari» (a pag. 539 dell'Es-
say on the Sinking-fund system, apparso nei Works editi da McCulloch).
Distinguendo fra condotta razionale supposta operante dell'homo oeconomicus e grossolana condot-
ta dei soggetti concreti, non ha, certo, Ricardo, fatto getto della teoria.
Altra cosa è poi il richiamarsi alla difficoltà del problema della conoscenza di tutte le variazioni
dell'equilibrio economico dovute all'interferenza di prestiti ed imposte. Naturalmente anche in questo caso
occorre distinguere fra ipotesi semplificate e fatti pratici complessi; fra variazioni complessive di quantità
in funzione dell'intervento finanziario e redistribuzioni di esse nell'istante e nel tempo.
La stessa obiezione del Pareto riguardante gli effetti dell'impiego del provento di prestiti od imposte
non è stata accolta dal Borgatta che dal Maestro di Losanna ha derivato proprie visioni anche sociologiche
del problema finanziario, avendo osservato che nel caso della guerra, ad es. a parità di destinazione, occor-
re impostare il problema del modo del prelievo straordinario.
Infine non vanno prese in considerazione in queste lezioni le variabili extra-economiche che pur de-
terminano il problema concreto (come del resto si è visto nelle precedenti pagine) a cui accennava il Pareto
richiamandosi ai sentimenti, alle illusioni ecc. dei governati ed agli interessi particolari di classi governanti:
materia per la sociologia finanziaria che lascio di considerare a coloro che hanno fede scientifica in essa o
nella scienza politica, discipline che mi sembrano atte a far enunciare uniformità empiriche come quelle vi-
ste nel paragrafo che precede.
Ciò premesso, torniamo a Ricardo che metodologicamente era nel tempo della teoria pura quanto
impostava il problema predetto.
La sua tesi, dal punto di vista della incidenza dell'onere sulla generazione presente che lo adduceva
a uniformità universale:
__________
363
Si vegga: E. D'ALBERGO, Sull'utilità di un «rapido» ammortamento del debito pubblico, «Giornale degli Econo-
misti», aprile 1933.
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1) urtava contro le «apparenze» del procedimento tecnico per il quale, mediante il ricorso al prestito
ed il versamento di una annualità, supponiamo perpetua, per interessi, «sembra» che anche la generazione
successiva (o le successive) contribuisca al versamento di tributi a fronte della annualità di interessi per il
prestito contratto dalla generazione presente. Ed invero, in luogo del versamento di una somma elevata at-
tualmente (imposta straordinaria) si ha il versamento durante un lungo periodo di anni, che spesso abbrac-
cia più di una generazione, di un piccolo tributo corrispondente al servizio del pagamento degli interessi da
parte dello Stato, sul prestito contratto in luogo di ricorrere alla imposta straordinaria;
2) Contraddiceva alla ragione di carattere storico-morale, che sarebbe costituita dalla giustificazione
del trasferimento degli oneri, in parte sulle generazioni venture. E infatti, con lo sforzo compiuto dalla ge-
nerazione presente (supponiamo per la conquista di terreni, la difesa del patrimonio nazionale dalla inva-
sione straniera, ecc.) si pongono in essere presupposti per una utilità, anche in senso economico (oltre che
di altro genere: potenza politica, ascensione morale, ecc.) di cui godranno le generazioni venture.
A far cadere il presupposto per i due ordini di argomentazioni, intervenne il ragionamento di Davi-
de Ricardo, il quale esattamente aveva affermato (364): «Sarebbe pur difficile persuadere un uomo che pos-
segga 20 mila sterline o qualsiasi altra somma, che un'imposta perpetua di 50 sterline sia tanto onerosa
quanto una sola imposta di 1.000 sterline. Ci sarebbe in lui non so qual vaga sensazione dicendogli che le
50 lire sterline saranno pagate dalla posterità: e, in effetti, i suoi eredi dovrebbero sopportare quell'onere.
Ma io domanderei, allora: quale differenza vi sarebbe per costoro fra ricevere una successione di 20.000
sterline gravata di un debito annuo di 50 sterline, o una successione di 19.000 sterline netta d'imposte? Que-
ste vedute consolanti intorno all'avvenire sono divenute argomenti correnti presso persone, peraltro, di mol-
to ingegno; ma noi sosteniamo che esse ci sembrano inammissibili».
Il Pantaleoni, che in un breve ed incisivo saggio (365) ha rivendicato al Ricardo la soluzione prima,
ed al Loria la illustrazione di essa in Italia, «vincolava» l'affermazione del Maestro inglese aggiungendo
una condizione che può parere, come molte verità, ovvia, ma che è bene tener presente. E ciò affinché ci sia
identità di pressione fra prestito ed imposta e l'onere in ogni caso gravi sulla generazione attuale (del mo-
mento in cui si fece fronte alla spesa straordinaria), occorre che sia stato trasmesso alla generazione succes-
siva insieme con il carico della annualità (per consentire il pagamento degli interessi sul prestito) anche il
capitale di cui quello è il corrispettivo.
Premetto che, come si vedrà, più densa di sviluppi univoci è la visione di Ricardo, che considera il
problema per l'individuo tipico. Del rapporto di «oneri» fra «generazioni», riferisco a titolo di informazione
o di storia della teoria, non essendo univoche le visioni e del concetto («generazione») e dei fatti di produ-
zione e distribuzione relativi, nel tempo.
Tornando all'esempio di Ricardo, per un erede è indifferente ereditare 20 mila sterline, gravate del-
l'onere annuale di 50 sterline, ovvero 19 mila sterline nette da ogni onere; ma da ciò non segue che sia sem-
pre vero che l'erede, assieme alla somma di L. 50 annue, come debito perpetuo, crediti in ogni caso la
somma di L. 1.000 sterline di capitale, di cui quelle sterline sono, per ipotesi, l'interesse.
In questo esempio è la visione dei casi frequenti storici in cui i debiti assunti dai padri siano pagati
dai figliuoli, non già con un patrimonio da quelli ereditato - e che, se esistesse, sarebbe naturalmente grava-
to a modo d'ipoteca per l'ammontare del debito -; bensì con il frutto del loro lavoro.
«Se la generazione che contrattò il debito aveva un patrimonio maggiore del debito contratto, que-
sto patrimonio è passato alla generazione successiva diminuito del valore capitale del debito (anche se non
havvi che l'onere di un interesse perpetuo, e il pagamento degli interessi, come il riscatto dell'onere che essi
rappresentano, in qualunque epoca avvenga, non può costituire un onere per la generazione successiva.
«Ma se la generazione che contrattò il debito aveva soltanto un patrimonio inferiore al debito as-
sunto o non ne aveva alcuno, potrà essere cagione di meraviglia che essa abbia ottenuto del credito, ma non
può essere dubbio che gli interessi perpetui, di cui saranno gravate le generazioni avvenire, saranno pagati
in parte, o in tutto, con le fatiche di queste stesse, e che un riscatto dall'onere di interessi perpetui, quando
avvenisse all'epoca dei posteri, consisterebbe anche esso nella consegna di un capitale accumulato, in parte
o in tutto, dalle nuove generazioni».
Ho esposto il pensiero del Pantaleoni - che meriterebbe sviluppi relativi all'ipotesi di prestiti esteri,
a cui si attaglia specialmente il ragionamento, e altre precisazioni in parte sul tipo di quelle, che seguono,
del Borgatta - perché la storia finanziaria ha presentato o può presentare situazioni in cui, almeno in parte e
__________
(364) Essai sur le système des dettes. consolidées, in «Oeuvres complètes»
(365) Apparso nel «Giornale degli Economisti», luglio 1891.
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in via marginale, si verifichi la situazione nel senso che parzialmente l'onere di un prestito contratto da una
generazione gravi, con il proprio onere, generazioni successive.
Questa del Pantaleoni, più che una critica, è un complemento della teoria posta in essere dal Ricar-
do, il quale implicitamente, forse, teneva presenti precisazioni sul tipo di quella del nostro economista. Ma
altre «precisazioni», se non critiche, sono state avanzate da altri autori, specialmente italiani, allorché si è
sostituita alla ipotesi di una persona o della collettività come unità, la casistica attinta ai casi reali, tenendo
presente la esistenza di proprietari e redditieri agenti nell'ambito della collettività medesima.
La visione opposta a quella di Ricardo, che dal Borgatta è stata detta dei «pratici» e caratteristica di
qualche studioso, sostiene, per contro che: a) con l'imposta straordinaria l'onere della spesa straordinaria (ad
es. bellica) grava intieramente sulla generazione che paga l'imposta stessa; b) col prestito pubblico si trasfe-
risce una parte dell'onere (o costo bellico) sui redditi prodotti dalle generazioni successive.
La solidarietà fra le generazioni per gli interessi economici e la continuità sono state negate dal Gri-
ziotti, ad es., per il quale, nel caso dei debiti, le imposte necessarie sono pagate dai viventi solo per l'inter-
vallo che intercorre fino alla morte.
Coloro che hanno distinto (come il Borgatta) fra fatti di produzione e di distribuzione, hanno rileva-
to che il pagamento degli interessi relativi da parte dei contribuenti delle generazioni successive rappresenta
semplicemente un mutamento della ripartizione dell'onere fra i componenti della collettività. Finché il pos-
sessore dei prestiti di guerra è vivo, riceve interessi e ammortamenti in grazia di imposte pagate da altri ap-
partenenti alla generazione attuale. Su questi ultimi si sposta parte del costo un primo tempo sopportato in-
tieramente dal compratore di titoli.
Quando la generazione contemporanea è esaurita, la ricchezza della successiva generazione (che è
costituita dalla ricchezza trasmessa dalla precedente più quella ex novo formata dalla seconda generazione),
non diminuisce (366) per il pagamento degli interessi e l'ammortamento dei prestiti anteriori (ad es. di guer-
ra). «Non si ha - afferma Borgatta - rinuncia al godimento della ricchezza nuova per diminuire il sacrificio
della generazione di guerra. Ciò non è possibile e neppure pensabile. Il servizio dei vecchi prestiti implica
semplicemente lo spostamento della ricchezza attuale da certi componenti della seconda generazione a certi
altri della stessa generazione. Quindi dà luogo a redistribuzione del reddito globale della seconda genera-
zione fra i membri di questa; non ad uno spostamento di ricchezza da generazione a generazione».
L'analogia che si è voluta compiere fra fatti relativi ai rapporti individuali (contribuente-proprietario
e suoi eredi) e collettivi (rapporti fra «generazioni», termine non meglio precisato) non sempre si presta a
chiarire il problema. Tanto più che accanto o parallelamente al rapporto contribuente-crede, vi è un rapporto
unico, rispettivo con lo Stato. Trattando di «generazioni» i rapporti si moltiplicano in modo triangolare, do-
vendosi tener conto nell'ambito della generazione anche dei rapporti di distribuzione o trasferimento di red-
diti fra creditori (per interessi) e debitori per imposte. Inoltre, si tratta di «onerosità» di soluzioni, di «gra-
vame», di «costo», di «sacrificio», senza adeguata spiegazione del senso in cui le «generazioni» li subisco-
no.
In questi ragionamenti si è ritenuta implicita la costanza del potere d'acquisto della moneta, come
nelle trattazioni Ricardiane. Ma anche introducendo nel senso di una svalutazione questo fattore, si trova
che, sempre nel campo della distribuzione degli oneri, crescono quelli a carico dei sottoscrittori di titoli e si
attenuano quelli dei contribuenti chiamati a fare il servizio di interessi e ammortamento.
Anche nel rapporto fra generazioni, la ricchezza complessiva della seconda generazione non viene
ridotta pro-tempore dai fatti di distribuzione di potere d'acquisto, in cui entrano i possessori di titoli (eredi
della precedente generazione) e i contribuenti per i ridotti oneri che implica il pagamento del tributi per gli
interessi sui titoli.
Questi ragionamenti valgono a parità di attitudine dei possessori della ricchezza, prima e dopo i fat-
ti distributivi accentuati dal fatto monetario (inflazione e svalutazione), ad avvalersi dei capitali per la pro-
duzione della ricchezza nuova, che può variare.
Ma questa circostanza può essere, come è spesso, indipendente dai fatti di redistribuzione operata
dalla soluzione che si sia data al problema finanziario: prestito o imposta straordinaria.
Inoltre si è ragionato in termini di mercato chiuso senza considerare interferenze di importazioni ed
esportazioni di capitali dal paese in cui si supponga impostato il problema.

__________
(366) Aggiungerei «necessariamente».
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B) Lasciando da parte il terreno infido, non saldo e poco chiaro, dei rapporti fra le «generazioni» o
del contribuenti attuali con la «posterità» torniamo, ora, al problema dell'identità di pressione fra prestito e
imposta straordinaria considerando il problema nell'ambito della generazione presente.
Ho rovesciato l'ordine solito della esposizione, perché farò seguire lo stesso problema, che Ricardo
impostava in termini obiettivi o di quantità monetarie assorbite con i due procedimenti, trattato in termini
edonistici. E’ una visione del Borgatta a cui ho contrapposto, come più oltre espongo, mie dimostrazioni di
diverse soluzioni del problema.
a) Si è detto, dunque, che per «un uomo» che possegga 20 mila sterline è indifferente corrispondere
allo Stato 50 sterline in perpetuo (a titolo di imposta per il servizio di interessi su un mutuo o prestito che
venga contratto dall'ente pubblico) oppure 1.000 sterline una volta tanto, a titolo di imposta straordinaria,
quando si ragioni in base ad un tasso di capitalizzazione del 5%.
A questa proposizione Ricardiana si è opposto che essa può valere o per la collettività considerata
come un tutto o per un soggetto economico («un uomo») che disponga della somma nella forma monetaria
o liquida, al quale si rivolga il dilemma finanziario. Se il soggetto è disposto ad investire le proprie disponi-
bilità allo stesso saggio di interesse che offre lo Stato, risulta indifferente per esso l'adozione dell'imposta
straordinaria o del prestito per fronteggiare la spesa eccezionale o non normale, pubblica. E’ stata ritenuta
implicita nei ragionamenti del Ricardo questa contrapposizione di soluzioni riferita al capitalista puro che
disponga di mezzi monetari impiegabili.
Se i soggetti possono ottenere rendimenti maggiori (dividendi od interessi) dai loro capitali impie-
gabili, in quanto monetariamente disponibili, preferiranno che lo Stato si rivolga ad altri per il prestito. Nel
caso in cui conseguano rendimenti minori, preferiranno il ricorso all'imposta straordinaria.
b) La stessa variabile (tasso di interesse) influisce sulla scelta (ammesso che sia possibile) fra pre-
stito ed imposta, per ciò che riguarda i proprietari di ricchezza immobiliare o mobiliare. Se nei rapporti di
mutuo fra privati (per poter pagare l'imposta straordinaria) il tasso di interesse medio risulta minore sul
mercato, si preferisce l'imposta straordinaria, però nella gran parte dei casi storici è da ritenere che lo Stato
riesca a conseguire denaro (prestito) ad un tasso di interesse inferiore a quello medio a cui lo conseguireb-
bero i privati nel senso sopra ricordato (genesi del debito pubblico in senso Devitiano).
c) Per il lavoratore, che sia sprovvisto di beni capitali, si ha una duplice ragione della preferenza
per il prestito: 1) certamente, senza garanzie reali, egli di fronte all'obbligo di pagare una somma una volta
tanto, se ricorresse al prestito, dovrebbe subire un tasso di interesse in media superiore a quello a cui ottiene
capitali in prestito lo Stato; 2) ha interesse a che egli venga obbligato a versare l'imposta necessaria al servi-
zio degli interessi sul debito pubblico; perché (Griziotti) il suo debito fiscale è vincolato, nel tempo, alla du-
rata della sua vita (meglio ancora, alla condizione di lavoratore e di percettore del reddito).
d) Considerando la relazione fra prestito e imposta in una «economia dinamica», il Cabiati367 , dopo
avere verificato l'identità di pressione alla luce degli effetti immediati dei sistemi (prestito o imposta), esa-
mina gli effetti mediati.
Per questi avanza ipotesi, fra l'altro, sul «modo» con cui lo Stato ripartirà l'imposta successiva, ne-
cessaria per corrispondere al privato (al quale si sia rivolto per prendere a mutuo la somma da destinare a
spese straordinarie) a titolo di interessi.
Se su L. 5.000 di interessi, ad esempio, l'imposta con cui essi vengono pagati grava soltanto per L.
1.000 sul risparmiatore-mutuante e per 4.000 su altri contribuenti, quegli preferisce il prestito all'imposta
straordinaria.
Altrove (pag. 165) il Cabiati continua: «L'imposta che toglie 100.000 all'individuo, lo incide imme-
diatamente. Il prestito a cui egli sottoscrive per uguale somma rappresenta invece in quell'istante una vera
evasione agli oneri di guerra, in quanto che l'individuo era già da prima deciso di trovare un impiego a quel
risparmio. Se quindi da una parte il prestito reca minore disturbo all'economia privata, dall'altra però crea
dei pericoli sotto l'aspetto distributivo. Poniamo che lo Stato, avendo bisogno immediato di 200 milioni, ne
ottenga la metà mediante un prestito volontario e l'altra metà mediante l'imposta. L'effetto del sistema sulla
distribuzione della ricchezza sarà diverso a seconda della natura del tributo e di altre circostanze. Se il tribu-
to colpisse le classi che non hanno concorso al prestito, porrebbe le due categorie di cittadini sotto un trat-
tamento immediatamente diverso, favorevole ai sottoscrittori e sfavorevole agli altri».
Ulteriori considerazioni lo studente può trovare presso i citati autori.

__________
367
CABIATI, Il finanziamento di una grande guerra, Einaudi editore, 1941, pagg. 160-162.
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C) Per seguire il Ricardo e coloro che ne hanno più che criticato, ampliato la visione, con una casi-
stica che si allontana dal caso più semplice di indifferenza, nella adozione di diversi e contrapposti proce-
dimenti, si è rimasti in una visione atomistica, nel senso in cui se ne è discorso nelle altre parti di queste le-
zioni.
Ma il problema della spesa straordinaria, specialmente nell'ipotesi della difesa militare in caso di
guerra, si presenta nelle dimensioni che lo caratterizzano «di massa». Non si può risolvere un problema
come quello del prelievo di una quota rilevante del patrimonio di un paese, senza avvalersi di nuovi mezzi
di pagamento che consentano di tradurre in moneta i valori patrimoniali di mercato od equivalenti. E ciò
che molti autori hanno scritto, complica il problema che finora si è visto dal punto di vista di individui o
soggetti tipici.
Il fenomeno della inflazione e della svalutazione monetaria, con i complicati ed aggiuntivi oneri e
vantaggi che arreca, si aggiungerebbe al fattore finanziario come fatto di redistribuzione della ricchezza. E’
questa la ragione per la quale anche in concreto si è concepita la linea programmatica del finanziamento
della guerra senza incorrere nella inflazione.
Di ciò si dirà nella visione del problema di massa e non atomistico, nel paragrafo sul «circuito dei
capitali», come procedimento tendente, in teoria, ad eliminare il fatto patologico della inflazione monetaria.
D) Intanto rimanendo nel campo delle ipotesi di tipo atomistico, mi soffermo su un aspetto fonda-
mentale sotto il quale è stato presentato il problema della alternativa fra prestito ed imposta, del quale mi
sono occupato in apposito saggio a cui già ho fatto riferimento in questo capitolo (368).
Si tratta di far intervenire il fattore tempo in ragionamenti in cui si considerino non soltanto quantità
obiettive (redditi monetari, imposte; interessi, ecc.), ma soprattutto quantità edonistiche (ofelimità o utilità
soggettiva).
Limitandomi a prendere in esame il punto di vista dell'individuo, intendo contribuire a formulare
alcune ipotesi, diverse da quelle tenute presenti dal Borgatta nell'originale apporto con il quale, appunto, ha
impostato su base edonistica il problema di tipo Ricardiano che qui è tenuto presente, e cioè ha considerato
la «pressione» del prestito e dell'imposta in termini di «sacrificio di utilità» soggettiva. Si è visto che nel
passato il problema della diversa o identica pressione del prestito o dell'imposta era stato acutamente af-
frontato, con sottili analisi dovute anche ad egregi studiosi nostri, esprimendo il concetto (pressione) in ter-
mini di capitali o redditi, rispettivamente prelevati ricorrendo a imposte «una tantum» od a prestiti per la so-
luzione di un problema di finanza straordinaria.
Nella interessante indagine il Borgatta dimostra la convenienza per l'individuo del sistema del pre-
stito (preferibile all'imposta straordinaria) perché codesta soluzione darebbe luogo ad un minor sacrificio di
utilità. In breve, l'autore dimostra la diseguaglianza fra (A) l'utilità distrutta dall'imposta straordinaria (sup-
posta sul reddito) e (B) il valore attuale della somma annua, perpetua di utilità distrutta dell'imposta perpe-
tua prelevata annualmente per il pagamento dell'interesse a persone (diverse dall'individuo considerato) che
abbiano sottoscritto il prestito. Nell'ambito delle ipotesi risulta A > B.
(Si suppone anzitutto che lo Stato nell'adottare il sistema del prestito e nel lasciare ai singoli la di-
sponibilità formale del reddito al netto dalle imposte normali prebelliche, consenta ad essi altresì di soddi-
sfare i bisogni ai quali provvedevano in passato senza restrizioni di consumi, nè blocco di redditi distribui-
bili o spendibili, divieti od ostacoli ad investimenti del reddito risparmiato).
Ammesso che le imposte necessarie al pagamento degli interessi sul prestito si ripartiscano a carico
dei singoli redditi nella stessa proporzione dell'imposta straordinaria, per assumere uno schema che svilup-
però nelle pagine successive, considero comparativamente i calcoli edonistici di un solo individuo il quale
compia previsioni nel tempo. Trascuro, così, l'ipotesi non necessaria (e, secondo lo stesso Borgatta d'impor-
tanza secondaria) che la curva di utilità del reddito sia uguale per tutti i contribuenti, quali persone fisiche.
Per richiamare sinteticamente il ragionamento dell'autore, tengo presente, sempre per un solo indi-
viduo, il diagramma nel quale sull'asse delle ascisse si rappresentano le somme di reddito e sull'asse delle
ordinate l'utilità marginale del reddito.
Sia Rm il reddito che l'imposta straordinaria, attuale, sottragga ad un soggetto, il cui reddito mini-
mo, dichiarato non tassabile per premesse sociologiche, figuri uguale ad OM. L'area mRNs misuri l'utilità
distrutta (nell'ipotesi della cosiddetta «imposta-grandine») dal prelievo tributario, per la rinuncia del sogget-
to al soddisfacimento di bisogni privati, determinata da siffatta tassazione.
__________
(368) E. D'ALBERGO: Prestiti e Imposte nelle nuove teorie e nell'esperienza bellica («Studi dell'Istituto di scienze eco-
nomiche e statistiche» dell'Università di Milano, 1945).
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Se lo Stato si attenesse all'altra alternativa dell'emissione di un prestito supposto perpetuo e non sot-
toscritto dal soggetto ipotizzato, a carico di questi avrebbe luogo in perpetuo il prelievo d'imposta diretta sul
reddito che si suppone derivante da fonte parimenti durevole, allo scopo di consentire allo Stato medesimo i
mezzi per corrispondere l'interesse ad altro soggetto che gli abbia mutuato la somma eguale alla somma
straordinaria non prelevata.
Immaginando che il soggetto calcoli il valore attuale della somma perpetua di utilità RNnr corri-
spondente alla serie di pagamenti necessari per la predetta corresponsione di interessi rappresentata, pro-
rata, da rR, il Borgatta ha scritto la seguente diseguaglianza:

RrnN .100
< MrnS
5

Da questo ragionamento risulta indubbia la convenienza, dal punto di vista del soggetto considera-
to, della soluzione del problema del finanziamento di una spesa straordinaria, ricorrendo al prestito anziché
all'imposta.

Fra le premesse che mi sembra logico ritenere implicite nel ragionamento che conduce a siffatta no-
tevole conclusione generale, a mio parere. occorre considerare le seguenti, al variare delle quali si può otte-
nere soluzione opposta e comunque diversa da quella trovata dall'autore nell'impostare il problema della al-
ternativa fra prestito ed imposta:
α) Il reddito, in moneta, si mantenga ad altezza immutata (durante il periodo di tempo al quale si e-
stende il calcolo comparativo su esposto) per il soggetto e per la collettività.
β) Durante il periodo di tempo al quale si estendono i ragionamenti, il soggetto rimanga immutato
per i suoi caratteri fisio-psichici. Cioè «l'uomo sia al principio come è alla fine del periodo» (secondo l'e-
spressione Marshalliana); ovvero l'individuo «si mantenga identicamente il medesimo» per usare i termini
del Pareto, allorché egli istituiva confronti fra ofelimità nel tempo, alias fra le sensazioni presenti e la sen-
sazione che procura un evento lontano. Infine, in una parola, si può dire con U. Ricci che si supponga la
«costanza» dell'individuo o soggetto, da questo punto di vista.
γ) Come conseguenza discendente da questa ipotesi, si suppone che il soggetto non preveda: 1) il
sorgere di nuovi bisogni nel futuro, in sè e in persone già esistenti o in persone «nuove» a lui «collegate»;
2) l'intensificarsi dei bisogni preesistenti.
δ) Non intervenga il saggio subiettivo di sconto dei piaceri o dell'utilità; e se esso abbia già provo-
cato i suoi effetti (sulla curva dell'utilità presente del reddito futuro) si mantenga costante nel tempo.
ε) Il livello generale dei prezzi (nel senso di tutti i prezzi) si mantenga costante. Questa ipotesi si fa
perché considero i calcoli edonistici di un soggetto, il cui reddito monetario individuale può variare, indi-
pendentemente dall'andamento dei prezzi sul mercato.

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Se facciamo intervenire in un dato senso variazioni del presupposti ipotetici qui avanzati come ve-
rosimilmente impliciti nella impostazione del problema da parte del Borgatta, perveniamo a soluzione che
può essere diversa da quella generale e importantissima trovata dall'autore.
I) Supponiamo la «costanza» del soggetto dal lato fisio-psichico e dei bisogni suoi o da esso imper-
sonati, e facciamo intervenire, a parità di saggio psichico di sconto, la variazione di circostanze ipotetiche,
costituita dalla previsione di una diminuzione del reddito futuro. (L'ipotesi non è antistorica e si riscontra
fra quelle ammesse dall'autore - a pag. 217 dell'op. cit. - nel discutere gli effetti della leva sui capitali, allor-
ché il Borgatta scrive che si ignorano le vicende dei redditi futuri e si ha ragione di temere riduzioni per il
probabile cadere dei prezzi nel dopoguerra. In questo caso si tiene presente la probabile variazione del red-
dito monetario collettivo, mentre, per il momento, tengo conto di una variazione del reddito del solo sogget-
to, nel senso della diminuzione).
Codesta previsione del soggetto si può supporre riferita al momento in cui il problema della alterna-
tiva fra prestito e imposta venga sollevato (to) o alla fine di un primo periodo di tempo (t1) trascorso il quale
abbia luogo la ipotizzata variazione del reddito in diminuzione.
Si faccia anche l'ipotesi di tassazione proporzionale, straordinaria, che è «più frequente», proprio
secondo il Borgatta, nella finanza di guerra.
La diminuzione del reddito futuro sia prevista anche computando come reddito disponibile la quota
di frutto eventuale di risparmio che il soggetto riesca a compiere per il fatto del mancato prelievo dell'im-
posta straordinaria, allorché lo Stato ricorra alla emissione del prestito.
Si ammetta che il soggetto sia dotato di un «periodo economico» illimitato, ovvero «pensi ad un
tempo indefinito ma così lungo da potere essere considerato pari all’eternità» nel ripartire la ricchezza nel
tempo che entra comunque nel suo «piano» (369).
Tutto ciò premesso, se oltre alla supposizione specialmente della «costanza» del soggetto, dei biso-
gni propri e delle persone

ad esso «collegate» e di invarianza del saggio psichico di sconto, si avanza l'ipotesi di prezzi futuri
uguali ai prezzi presenti, si può presumere senza arbitrio che la curva di utilità presente (del reddito presen-
te) e quella di utilità futura del reddito futuro, coincidano per forma ed altezza sull'asse delle ascisse (ved.
fig. 74).
Per la dimostrazione che segue costituisce ipotesi necessaria una riduzione del reddito imponibile,
monetario futuro del soggetto, ad esempio da MR ad MV, prevista dallo stesso a partire dalla fine di un pri-
mo periodo (t1) e successivamente al momento in cui sorga il problema della discussa alternativa. (L'am-

__________
(369) Codesta finzione ipotetica è stata tenuta presente dal Fasiani nell'esaminare alcuni presupposti della discrimina-
zione delle aliquote e degli imponibili, negli Annali di statistica e di economia (Genova 1936).
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montare MV, previsto a partire dalla fine del periodo (t1) e per un tempo indefinito, approssimandosi ulte-
riormente alla casistica concreta, risulterebbe una media di variazioni di redditi nel futuro. Qui si semplifica
per comodità di raffronti e brevità di esposizione, supponendo che il soggetto si faccia l'«idea» di una con-
trazione del reddito monetario proprio, a partire dalla fine del periodo t1, e immagini il permanere ulteriore
del reddito così abbassato, per un tempo indefinito).
Fatte queste ipotesi e ammesso il prelievo dell'imposta proporzionale (5% = rR), per il primo perio-
do t1 in cui il reddito imponibile sia MR; e della stessa aliquota a cui corrisponda sull'asse delle ascisse la
quantità iV rapportata al minor reddito imponibile MV previsto in tale ammontare a partire dal secondo pe-
riodo t2 e per un tempo indefinito per il pagamento degli interessi sul prestito perpetuo, può aversi una solu-
zione del problema, dal punto di vista del soggetto, diversa da quella generale trovata dal Borgatta. La
somma di utilità distrutta dal prelievo annuo, perpetuo del 5% sul reddito per il servizio degli interessi sul
prestito, può risultare maggiore dell'utilità che sarebbe stata sottratta al soggetto, nel caso in cui lo Stato a-
vesse deciso di far ricorso all'imposta straordinaria, una tantum, commisurata al reddito del periodo t1, al-
lorché il soggetto disponeva dell'ammontare imponibile monetario MR.
Ovviamente, la contrazione del reddito futuro può essere di tali proporzioni che, nel ragionare sulle
somme di utilità sacrificate per il pagamento dell'imposta supposta costante (5%) a carico del soggetto, si
possa arrivare al caso-limite di indifferenza ovvero di eguaglianza delle quantità di utilità distrutte dal pre-
stito e dall'imposta. Del pari, la prevista riduzione del reddito monetario, individuale può essere tale da ri-
confermare la diseguaglianza esposta dal Borgatta, dalla quale risultava la preferibilità del prestito all'im-
posta, da parte del singolo.
Al fine di semplificare il raffronto fra le quantità di utilità distrutte nei due casi, nell'ipotesi di pre-
stito perpetuo fatta dal Borgatta, esprimo generalizzando, in simboli, le ipotesi rappresentate geometrica-
mente, sintetizzando le soluzioni alternative:

R R V
<

m
f ( x)dx
> ∫r
f ( x)dx + z ∫ f ( x)dx
i
[I]

Il coefficiente che moltiplica l'integrale, nella espressione che precede, è z < k, perché k sarebbe sta-
to, nell'esempio del Borgatta, la costante (100/5) per la quale si sarebbe moltiplicata l'area RNnr, prescin-
dendo dalla variazione del reddito del soggetto durante il tempo. Invece, supponendo che il prelievo del-
l'imposta sul reddito abbia luogo sul minore imponibile MV a partire dal secondo periodo t2 indefinitamen-
te, la tassazione perpetua risulta differita di un periodo. Essa si aggiunge alla tassazione del primo. periodo
t1, sino alla fine del quale il reddito imponibile era immutato e figurava nella quantità MR, da cui si prele-
vava, per ipotesi, rR.
Ad arbitrio si è esposto nel diagramma n. 74, il caso di una contrazione del reddito imponibile a
partire dalla fine del primo periodo di tempo, pan al 50% di MR ovvero eguale ad MV. Ciò ammesso, avva-
lendosi anche del «metodo dei trapezi» per la misura delle aree sopra rappresentate e trascurando l'errore
per difetto (dovuto all'andamento della curva con la convessità verso l'asse positivo delle γ), si può desume-
re, geometricamente, la diseguaglianza, nel senso che la somma di utilità sacrificata dal ricorso al prestito
sia maggiore della somma di utilità che avrebbe distrutto, nel caso supposto, il prelievo di un'imposta stra-
ordinaria, proporzionale, sul reddito imponibile MR. La soluzione predetta dipende anche della forma della
curva di utilità del reddito che si tracciata nella figura.
Volendo generalizzare, si deve dire che la soluzione del problema dipende dal modo di decrescere
della utilità marginale del reddito al variare di esso, o, in una parola, dalla elasticità nei successivi tratti del-
la curva dell'utilità marginale e dalle proporzioni della ipotizzata contrazione prevista del reddito futuro im-
ponibile.
II) Secondo l'ipotesi affacciata alla lettera α accanto a quello che si è tenuto presente finora, faccia-
mo il caso in cui il soggetto considerato preveda non soltanto la riduzione del proprio reddito monetario fu-
turo, ma anche la contrazione del reddito monetario dell'intera collettività. Ciò posto, lo Stato si trovi nella
necessità (ceteris paribus) di fronteggiare un onere fisso a titolo di interessi essendo esclusa l'ipotesi di una
conversione della rendita (ad esempio del 5%) nel senso della riduzione. In tal caso lo Stato dovrà ripartire,
pro-rata, l'onere costante per il servizio dell'interesse sul prestito, elevando il prelievo di imposta sui redditi
individuali, in modo da procurarsi il provento necessario a far fronte alla spesa fissa, globale per la corre-
sponsione dell'interesse medesimo.
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Poiché, nell'esempio fatto, la tassazione dovrà superare il 5% ipotizzato finora, a carico del reddito
del soggetto, l'imposta sarà tV > iV, e, in generale, sarà rappresentata da un segmento maggiore di iV. E’
pensabile allora che, nella espressione simbolica sopra esposta, figuri il seguente segno di diseguaglianza
con maggiore probabilità:

R R V


m
f ( x)dx < ∫ f ( x)dx + z ∫ f ( x)dx
r t
[2]

E cioè, è più probabile che, ceteris paribus, si profili nei calcoli edonistici del soggetto la conve-
nienza, dal suo punto di vista, del ricorso all'impasta straordinaria (anziché al prestito) per il finanziamen-
to della spesa pubblica eccezionale o bellica, nel caso più frequente.
Nella figura, l'ampliamento dell'area da iVV'i' a tVV't', induce a rendersi conto, a fortiori, rispetto ai
ragionamenti del numero I) precedente, della soluzione per la quale si presume che possa optare il soggetto
medesimo. Ma anche in quest'esempio, mutando la percentuale di riduzione del reddito futuro e il saggio di
decrescenza della utilità marginale del reddito monetario ovvero l'elasticità della curva relativa, si può tor-
nare al caso della indifferenza del soggetto per le contrapposte soluzioni od a quello della preferibilità del
prestito all'imposta. In altri termini si può tornare alla espressione simbolica sopra generalizzata [1].
III) Introduco, ora, l'ipotesi contraria a quella della «costanza» del soggetto sin qui supposta, e am-
metto non una modificazione della forma (ciò che è assai probabile anche nella fenomenica concreta) ma
una variazione della altezza della curva dell'utilità marginale del reddito monetario. Ciò per amore di sem-
plificazione delle dimostrazioni che seguono.
Il soggetto, cioè, preveda a partire dalla fine del primo periodo di tempo, a parità di reddito futuro:
1) il profilarsi di nuovi bisogni proprii 2) il sorgere di persone «collegate» al soggetto, delle quali esso in-
terpreti le ofelimità e attui le scelte; 3) 1'intensificarsi dei bisogni del tempo t1, nel futuro. Supponiamo che
siffatta complessa previsione, estesa a partire dal secondo periodo t2 ad un tempo indefinito, abbia l'effetto
di far elevare parallelamente a se stessa la curva di utilità futura del reddito futuro, a parità di ammontare di
esso.
Nella fig. 74, la curva assuma l'altezza della uN'. Ne risulta 1'elevazione della utilità marginale del
reddito imponibile MR, quale è prima della tassazione ad N'R > NR; in conseguenza, l'utilità di strutta dal-
l'imposta del 5% = rR per il servizio del prestito perpetuo, diviene, a partire dalla fine del periodo t1 (per il
quale si era supposta la «costanza» del soggetto) RN'n'r > NRnr. In luogo della diseguaglianza esposta dal
Borgatta, in generale, per l'ipotesi che è qui operante si può avere il caso-limite di indifferenza del soggetto
per il prestito o per l'imposta; o addirittura una diseguaglianza che esprima, come è assai probabile, la pre-
feribilità dell'imposta straordinaria al prestito, come di seguito si scrive, anche per tener conto dell'eviden-
za del caso specifico della altezza della uN', tratteggiata della figura 74:

R R R


m
f ( x)dx < ∫ f ( x)dx + z ∫ f1 ( x)dx
r r
[3]

dove f1 = α f(x), essendo α > I.


La grandezza di α ovvero la conseguente distanza della nuova curva di utilità futura del reddito fu-
turo che nella figura è la uN', dalla UN, ipotizzata sino alla fine del primo periodo, sarà un fattore determi-
nante la soluzione del problema, ferme rimanendo le circostanze già menzionate, compresa l'elasticità della
curva dell'utilità marginale, dal punto di vista dell'individuo che, se tipico, può tener presente nei suoi cal-
coli di convenienza per la collettività, la classe governante.
IV) Faccio intervenire, ora, il fattore fin qui immaginato non agente ovvero immutato: cioè il saggio
psichico o subiettivo di sconto dell'utilità o dei piaceri futuri.
Il soggetto sia tipico di una categoria di persone alquanto previdenti, presso le quali detto saggio sia
relativamente basso. Per far corrispondere l'ipotesi alla rappresentazione grafica (fig. 74), si ammetta un
saggio del 10%, e che in tal misura influenzi i calcoli edonistici del medesimo soggetto, per il quale il «fu-
turo» abbia inizio dal secondo periodo t2. Anche in questo caso (con una finzione analoga a quella fatta per
le variazioni del reddito futuro), supponiamo che rimanga costante indefinitamente il saggio di sconto as-
sunto interpretando l'atteggiamento del soggetto.
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Si ritorni all'ipotesi iniziale di una contrazione del reddito imponibile futuro (prevista a partire dal
secondo periodo), dalla quantità MR alla quantità MV, alla quale si applichi, dal lato edonistico, il tasso su-
biettivo di sconto su indicato. Supponiamo, quindi, che il tratto della curva UN corrispondente al reddito
MV, sotto l'influenza del tasso psichico di sconto del 10%, risulti trasformato in quello (tratteggiato) U', e
rappresenti l'utilità marginale e presente del reddito futuro, previsto nell'ammontare OV.
L'utilità marginale del reddito MV, sarà pV < VV', prima del prelievo, e p'i < i'i, dopo il preliévo
della stessa imposta (5%), che sta a carico del soggetto tanto nel periodo t1 nel quale il reddito figuri OR,
quanto a partire dal secondo periodo t2 dal quale il reddito monetario sia previsto ridotto ad OV, indefinita-
mente.
Tutto ciò premesso, tenendo conto della elasticità della curva dell'utilità marginale e delle propor-
zioni della contrazione del reddito futuro, può dedursi: 1) la conferma della diseguaglianza posta innanzi
dal Borgatta; 2) il caso-limite di indifferenza del soggetto per le due alternative finanziarie qui contrappo-
ste; 3) la diseguaglianza opposta a quella enunciata dall'egregio autore, da cui derivi convenienza per il
soggetto del ricorso al prestito anziché all'imposta straordinaria.
Il ragionamento si può ripetere, facendo l'ipotesi del caso II), di una contrazione del reddito dell'in-
tera collettività e dell'aumento del prelievo dell'imposta (al di sopra del 5%) per fronteggiare un onere glo-
bale fisso per interessi sul prestito perpetuo, a carico dello Stato. Nella figura 2 l'aumento dell'imposta appa-
re ipotizzato. da iV a tv.
Dopo quanto precede, si può scrivere ancora, logicamente:

R R V
<

m
f ( x)dx ∫ f ( x)dx + z ∫ f1 ( x)dx
>r t
[4]

Dove f1 = λf(x), essendo il coefficiente di proporzionalità λ <1. A parità di altre circostanze, la va-
riazione, nel tempo, del saggio psichico di sconto dell'utilità futura, modifica la soluzione del problema per
lo stesso soggetto considerato. In generale, la tendenza all'aumento del saggio medesimo, rende più proba-
bile la diseguaglianza del Borgatta, ceteris paribus.
Generalizzando ancora, a parità di saggio di sconto psichico, è probabile che si verifichi la disegua-
glianza opposta (che cioè il soggetto preferisca l'imposta straordinaria al prestito) od il caso-limite di indif-
ferenza per la soluzione del problema, in funzione della previsione e delle proporzioni dell'aumento della
tassazione futura, nell'ipotesi che l'onere globale per il prestito rimanga nominalmente costante in termini di
tasso di interesse e che il previsto reddito monetario della collettività diminuisca in futuro.
V) Lascio per ultimo il caso in cui, pur essendo uguali, per il singolo, il reddito presente e quello fu-
turo, in termini monetari (a maggior ragione nel caso in cui codesta uguaglianza non sia prevista e il reddito
futuro in moneta diminuisca) i prezzi futuri di beni e di servizi che il nostro soggetto debba pagare sul mer-
cato, si profilino con tendenza all'aumento. Potrebbe essere questo il caso di una svalutazione prospettiva
della moneta, nei periodi di tempo successivi al primo, nel quale si sia impostato il problema che ci occupa.
Se ne potrebbe dedurre una elevazione proporzionale di tutti i prezzi, in linea puramente astratta.
In prima approssimazione si può ritenere che gli aumentati prezzi futuri siano un «modo indiretto di
diminuzione del reddito futuro», come ad es. aveva supposto il Ricci nell'impostare un problema alquanto
affine a quello che qui si considera (cioè nel determinare l'ammontare del risparmio dell'uomo razionale).
Se si ammette che, nel giudizio del nostro soggetto tipico, la previsione di un aumento proporzionale dei
prezzi di beni e servizi appaia equivalente ad una contrazione del reddito futuro (a partire dal periodo t2), si
ricade nella ipotesi I) che si è esaminata nell'iniziare la casistica che precede.
VI) La diseguaglianza esposta in linea generale dal Borgatta, ragionando in base al fattore «utilità»
sacrificata dal soggetto (in relazione ai contrapposti procedimenti per il finanziamento di una spesa straor-
dinaria nel senso che appaia preferibile il prestito all'imposta), ha grande probabilità di sussistere, facendo
ipotesi opposte a quelle che figurano sotto i casi I, II, III, IV e V che precedono o mantenendo il ceteris pa-
ribus, implicito nelle argomentazioni dell'autore.
Del pari, dal punto di vista logico e da quello storico-statistico, rafforzano la sua conclusione di
prima approssimazione, circostanze come le seguenti: a) l'incertezza del godimento dell'utilità del reddito
futuro per ragioni riguardanti il soggetto, pertinenti alla durata della vita, alle condizioni fisiche, ecc.; b) il
fatto che il soggetto sia dotato di «periodo economico» limitato e di durata «incerta» oppure limitato ad un
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determinato numero di periodi di tempo fra i quali nell'istituire il piano del bilancio esso distribuisca il red-
dito o la ricchezza godibile; c) l'estensione dell'incertezza alla fonte del reddito monetario (rischio obietti-
vo), ecc. Con gli argomenti a-c ed altri analoghi pensabili, si richiamano per i riflessi sulle quantità edoni-
stiche (ofelimità, utilità soggettiva) alcuni fattori già presi in esame o simili a quelli che vennero tenuti pre-
senti dagli studiosi specialmente italiani, nel complicare, con una sottile casistica, la enunciazione Ricardia-
na della identità di pressione (in senso obiettivo o in termini di somme monetarie prelevate) fra prestito ed
imposta.
E) Nel chiudere questa parte del breve saggio, suppongo che i calcoli edonistici (in base alla utilità
soggettiva) che si aggiungono a quelli obiettivi (su quantità monetarie) non siano basati su illusioni. Tali
sono in parte quelle che, con amaro pessimismo a cui la storia conferisce, purtroppo, qualche fondamento,
furono richiamate dal Pareto (370) a proposito della delusione sostanziale delle speranze di coloro che affidi-
no allo Stato i propri risparmi accedendo alla sottoscrizione di prestiti e finiscano, poi, per perdere quote ri-
levanti del capitale mutuato specialmente per il sopravvenire di svilimenti monetari. Comunque nei casi i-
potetici che sopra ho considerato nello sviluppare l'impostazione del Borgatta, si è supposto che il soggetto
non sottoscriva personalmente i titoli del prestito di cui preferisca l'emissione alla eventualità di un prelievo
di imposta straordinaria.
Parimenti si esclude che il soggetto ipotizzato e di cui sono state interpretate le argomentazioni ra-
zionali, sia vittima dell'illusione in cui incorre il «contribuente normale» il quale (come precisa il Fasiani
nello spiegare e generalizzare pensieri del Puviani) non si accorge della equivalenza fra il pagare una volta
tanto una certa somma e il pagare in perpetuo il corrispondente frutto annuo (371). Nel caso nostro, suppon-
go che il soggetto sia perfettamente razionale e in grado di profilarsi, valutare e confrontare le quantità edo-
nistiche (ofelimità, piaceri, bisogni, utilità soggettiva, ecc.) nel tempo senza che l'intervento di questo fatto-
re determini casi di daltonismo psichico.
E’ ovvio che i vincoli quali, specialmente in ipotesi di economia regolata, sono posti alle scelte dei
soggetti come edonisti, in modo particolare in certe fasi storiche (guerre, ecc.) in cui sorge il problema del
finanziamento di una spesa straordinaria, limitano o neutralizzano l'influenza del fattore soggettivo (utilità)
considerato nel precedente paragrafo. Tuttavia la disamina su schema ipotetico che introduca considerazioni
di carattere utilitario-marginalistico non perde il proprio valore logico. E le uniformità astratte e tendenziali
che figurano in queste pagine conservano la loro importanza teorica, illuminando indirettamente alterne so-
luzioni del problema concreto della strumentalità del prestito e dell'imposta al fine di fronteggiare una spesa
straordinaria.
F) Dopo la mia critica il Borgatta, apprezzando l'indagine, vi rimandava i lettori, incidentalmente,
in uno scritto apparso sulla «Rivista Bancaria» (marzo-aprile 1946). Egli intendeva insistere sulla soluzione
tentando di modificare i termini del problema da lui impostato, cioè di rifugiarsi nello schema di Ricardo,
nel quale, come si è visto, si raffronta l'imposta straordinaria sul patrimonio o capitale con l'imposta sul
reddito relativa al servizio del prestito pubblico per il pagamento dell'interesse.
Il Borgatta, all'uopo, asseriva che le conclusioni a cui era pervenuto erano valide entro i termini del-
l'ipotesi Ricardiana, secondo la quale, implicitamente ed esplicitamente, l'imposta straordinaria, ancorché
pagabile col reddito, devesi intendere commisurata al capitale.
Inoltre faceva presente che, per la più conveniente scelta del contribuente, occorre che le variazioni
di utilità, prezzi, reddito del capitale («che Ricardo suppone a reddito fisso»), ecc. siano previste nel mo-
mento della scelta stessa. Invero, «se il contribuente (ed il mercato) prevedessero un aumento del reddito
del capitale nelle successive annualità, il valore attuale del capitale sarebbe superiore, e viceversa. Se pre-
vedessero una variazione dei saggi soggettivi d'interesse (e perciò del saggio di mercato, perché non v'è ra-
gione che la previsione si limiti al contribuente) pure muterebbe il valore del capitale e l'ammontare del-
l'imposta. Perciò - continuava - le ipotesi del d'Albergo valgono per i casi in cui l'imposta straordinaria è
commisurata al reddito e nei limiti in cui le variazioni esemplificate sono previste nel momento della scel-
ta».
Orbene, in una postilla a pié di pagina, richiamavo l'attenzione del Borgatta sul fatto che il caso da
lui ipotizzato riguardava, contrariamente alle sue asserzioni, appunto l'imposta straordinaria commisurata
al reddito, distribuita su tutti i redditi (da capitale puro, da lavoro e da combinazione di capitale e lavoro,
__________
(370) Nelle lettere ricordate inedite al prof. B. Griziotti, apparse nel fascicolo 3-4 della Rivista di diritto finanziario e
scienza delle finanze (1943).
(371) Principii di scienza delle finanze (Torino, Giappichelli, 1941) pp. 116-117 del vol. I.
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secondo le sue precisazioni) eccedenti il minimo per la sussistenza e la conservazione del capitale produtti-
vo. Ovvero, il Borgatta aveva istituito non già una contrapposizione di fondo (patrimonio, capitale su cui
incida l'imposta una volta tanto) a flusso (reddito), che venga inciso per il prelievo di imposta da destinarsi
al pagamento dell'interesse sul prestito, come risulta nello schema Ricardiana aveva posto il confronto fra
flusso e flusso, come oggetto imponibile (reddito), nella alternativa dell'imposta straordinaria e del prestito,
come modi di risolvere il problema del finanziamento di una spesa straordinaria. E coerentemente con l'as-
sunto del mio saggio citato, che era appunto quello di dimostrare la parzialità delle conclusioni enunciate
dal Borgatta (pervenendo, come si visto, a soluzioni opposte o di indifferenza), in detto saggio mi sono at-
tenuto alla ipotesi da cui il Borgatta aveva preso le mosse e che mi hanno fatto considerare il problema «di
tipo Ricardiano».
E le conclusioni - come deve aver argomentato anche chi ha analizzato l'opera scientifica del Bor-
gatta ex professo - non possono essere diverse da quelle prospettate da me nel ricordato saggio a cui ho at-
tinto la dimostrazione precedente.

IV.

IMPOSTA STRAORDINARIA SUI PROFITTI DI CONGIUNTURA.

Imposta straordinaria sui profitti di congiuntura (bellica, nel caso più frequente).

Un'imposta straordinaria sulla cui legittimità logica e storica non si discute dal punto di vista della
alternativa con il prestito, è quella che riguarda la tassazione dei profitti che derivano dalla stessa congiun-
tura che da luogo alla spesa straordinaria, e in generale sorgono dagli atti di politica finanziaria di carattere
straordinario (modificazione del regime monetario, del regime doganale, orientamento autarchico, conces-
sioni di monopoli ad imprese produttive, esportatrici, di navigazione, ecc.) (372).
Una. circostanza che, come si è spiegato nel dare il concetto di «capacità contributiva relativa», fa
quasi in tutti i paesi trovare logica l'introduzione di un'imposta straordinaria sui profitti che la spesa pubbli-
ca e tutta la politica economica e sociale determinano, è costituita dalla guerra. L'evento che obbliga lo Sta-
to a fare domanda eccezionale, come ammontare per l'urgenza con cui i beni strumentali bellici vengono ri-
chiesti, è costituito dalla imponenza della spesa straordinaria, con cui si fronteggiano le esigenze della dife-
sa o della azione militare in genere. Vi è una categoria complessa di imprenditori e di soggetti, di solito co-
stituita da industriali, commercianti, intermediari, imprenditori agricoli (fittavoli), che si presume, fondata-
mente, si avvantaggi in modo differenziale dell'evento bellico, per le forniture che lo Stato sollecita alla ca-
tegoria di soggetti economici qui individuata, e per l'aumento di prezzi che ha luogo anche per la domanda
dei privati.
Dal punto di vista economico-razionale, si ammette che la guerra costituisce circostanza che, quasi
al di sopra del «merito» o della capacità di imprenditori (nel senso in cui il Pareto considera gli spécula-
teurs in sociologia, come soggetti particolarmente atti a trarre vantaggi dalle situazioni e combinazioni eco-
nomiche), determina per sè stessa possibilità di guadagni superiori a quelli che i tempi normali consentono
a produttori in senso ampio. Vi è, invero, una utilizzazione particolare e differenziale di circostanze poste in
essere dallo Stato medesimo nel soddisfare taluni bisogni pressanti, in certe fasi della storia. La spesa pub-
blica straordinaria, alla luce della teoria che ho denominato, in capitolo apposito, della capacità contributiva
«relativa» (lo Stamp la denomina «speciale»), ed altri vincoli (limitazione della concorrenza estera per
chiusura del mercato, supposto isolato per lo meno da quelli dei paesi antagonisti), fanno sorgere guadagni
differenziali, sia rispetto a quello del periodo storicamente e convenzionalmente normale, sia rispetto ai
redditi che conseguono coloro che non si avvantaggiano (anzi siano danneggiati) in rapporto all'evento stra-
ordinario che, qui, nell'esempio più importante, si è supposto costituito dalla guerra.
Si ricorderà come la teorica che individua capacità contributiva «relativa o speciale», non giustifi-
chi soltanto l'imposizione differenziale, progressiva, ma anche l'imposta proporzionale, addizionale od ag-
__________
(372) Siffatti eventi giustificano anche imposte straordinarie sul patrimonio o capitale.
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giuntiva in rapporto alla limitazione del concetto di capacità particolare di sopportare oneri tributari. Nel
caso in cui la circostanza di cui si approfitta sia costituita dalla guerra, il carattere congiunturale dell'utile o
profitto differenziale appare talmente evidente, che la progressività della tassazione sembra atta a maggior-
mente corrispondere ai vantaggi differenziali che arreca la guerra (tanto più che vi è contrapposizione con i
danni che altre categorie subiscono per lo stesso evento).
Quest'ultima argomentazione posta fra parentesi, ci avvicina all'aspetto sociale o politico della tas-
sazione straordinaria dei profitti di guerra. Invero, dal punto di vista dei «sentimenti» delle masse, sembra
che una certa «giustizia» distributiva di oneri e vantaggi richieda che per lo meno contribuiscano alle spese
di guerra e soprattutto alla ricostruzione finanziaria post-bellica coloro che dalla guerra abbiano tratto van-
taggi. E il ragionamento, come dicevo, ha buona presa per il contrasto con lucri cessanti e danni emergenti
a carico di altre categorie, sacrificate dalla congiuntura. Taluno ha scritto che sarebbe oltre che «ingiusto»,
«impolitico» non tassare in misura differenziale i profitti derivanti dalla guerra.
La traduzione in atto del concetto di tassazione straordinaria dei redditi di congiuntura non è facile
come l'enunciazione dell'idea che sorge nel campo della logica e in quello della politica finanziaria o della
morale sociale.
Invero si tratta di separare, non soltanto idealmente, ma anche contabilmente il reddito «normale»
dal sopra-reddito o dal reddito o profitto di congiuntura. I termini del rapporto sarebbero costituiti: a) dal
reddito conseguito nel periodo-base (ad esempio in un anno dell'immediato anteguerra) o medio, conseguito
in più anni; b) dal capitale investito in quel periodo. La parte eccedente la percentuale, ritenuta ordinaria, ad
es. determinata nel minimo dell'8%, costituirebbe il reddito sopranormale o il maggiore utile o il soprapro-
fitto di guerra. Definito in questo senso il concetto di reddito di congiuntura [anziché come differenza tra
l'ammontare assoluto ottenuto prima (r) e con la guerra (R)], da assoggettare ad imposta straordinaria, è
chiaro - come è stato osservato soprattutto dal Barone - che, indicando con r il reddito normale e con R il
reddito del periodo di congiuntura, non si viene a tassare l'assoluto maggiore reddito, costituito da R - r, ma
l'eccedenza percentuale del reddito rispetto al capitale, confrontata colla percentuale del periodo-base o
«normale».
Ovvero, oggetto dell'imposta straordinaria e progressiva diviene la percentuale:

R−r
C

dove R, come si è visto, rappresenta il reddito del periodo bellico, r quello del periodo normale e C
il capitale investito nell'impresa (che può diminuire od aumentare, dopo il periodo-base).
Il Barone ha criticato il sistema perché asporta a tassare progressivamente e quindi maggiormente le
imprese che abbiano ottenuto R con un capitale minore; ovvero vengono gravate di più le imprese che rie-
scono, per merito di organizzazione superiore, a conseguire maggiore utile da un dato insieme di valori in-
vestiti nell'azienda; mentre risultano meno gravate le meno efficienti, dato che l'imposta è di solito progres-
siva con il crescere delle eccedenze percentuali.
Le argomentazioni del Barone (373) vengono ad aggravarsi se si pensa che, ad es. nella legislazione
italiana (del 1940), si considera capitale investito nelle imprese organizzate come società anonime (C della
formula) quello sociale sottoscritto e versato, con aggiunta delle riserve ordinarie e straordinarie di ciascun
anno, risultanti dal bilancio (dedotte le perdite portate a nuovo). Non consta dalle statistiche, che esista una
correlazione uniforme fra dimensioni finanziarie (ammontare del capitale sociale) risultanti da documenti
ufficiali e capitale effettivamente investito; inoltre non è provata uniformità di relazione fra ammontare di
capitale sociale ed altezza di profitti corrispondente. (Si pensi per il caso italiano, che dal 1936 al 1939 eb-
bero luogo, favoriti dai legislatore, aumenti di capitale rilevanti per alcune imprese, trascurabili o nulli per
altre le quali, per direttive soggettive di politica aziendale, non credettero di elevare il capitale sociale azio-
nario).
Il Barone, comunque, proponeva che si sdoppiasse l'elemento «profitto», separando quanto è inte-
resse al capitale (che occorrerebbe detrarre da R e da r) da riferire rispettivamente a C ed a c (capitale del
periodo congiunturale e del periodo normale) da quanto si presume sia profitto dell'impresa, da accertare in
via differenziale. Il procedimento non sembra di facile attuazione, benché razionale, data anche la difficoltà
__________
(373) Vedansi i Principii di economia finanziaria, Appendice II.
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di appurare quello che debba ritenersi saggio di interesse corrente, per varii tipi di imprese, eterogenee ri-
spetto al «rischio», all'avviamento, ecc., e per giunta in mercati locali numerosi e differenziati economica-
mente, nei quali si suddivide il mercato nazionale.
Mi è sembrato più razionale (e parimenti più pratico) un altro modo di rendere omogenei i rapporti
e di tener conto con approssimazione al caso concreto, sebbene indirettamente, dell'importanza relativa del
fattore capitale «effettivamente» investito nelle imprese, entità a cui si riferisce l'ammontare del reddito
normale e straordinario; inoltre, implicitamente si tiene conto delle variazioni del capitale impiegato nel pe-
riodo bellico. Per di più si tiene conto del capitale altrui, del credito supplementare, di lavoro aggiuntivo e,
in generale, di tutti i fattori oggettivi e soggettivi (variazioni nella composizione della direzione come
«mente» e capacità di imprenditore, nel tempo).
Intendo riferirmi al rapporto fra profitto «netto» o reddito normale, e introito o provento «lordo»
del periodo pure normale, confrontato con il rapporto fra reddito o profitto netto del periodo congiunturale
rapportato all'introito lordo di quel periodo. Dovrebbe detrarsi, cioè, dal provento lordo bellico, una percen-
tuale o una quota in genere, corrispondente al rapporto fra reddito netto e provento e introito lordo del pe-
riodo normale. La differenza «dovrebbe» ritenersi imputabile (come maggior utile o maggior saggio di pro-
fitti) all'azione della causa congiunturale «guerra», e come reddito differenziale assoggettato a imposizione
particolare, speciale e in ogni caso straordinaria. Il concetto (straordinaria) viene di solito interpretato nel
senso temporale, oltre che nel senso della elevazione dell'onore, cioè posto in relazione con la durata dell'e-
vento favorevole per gli imprenditori e, in genere, i soggetti passivi di questo tributo.
A questo modo di rappresentare e di accertare l'eccedenza di reddito od utile rispetto al normale,
non possono rivolgersi critiche sul tipo di quelle che il Barone ha opposto al criterio su esposto.
Inoltre si ha omogeneità di termini di raffronto quale può mancare allorché si assumano (come an-
che nella legislazione italiana del 1940) come quantità contrapposte l'ammontare di reddito netto assoluto
realizzato per la congiuntura bellica e quello, pure assoluto, del periodo normale. Criterio non esente da cri-
tiche (v. Borgatta, op. cit.).
Ma neanche questo autore segue il mio ragionamento. Per me le circostanze normali ed eccezionali
che, nella complessità delle combinazioni, possono influenzare il reddito delle imprese, emergono in via re-
lativa nel criterio che si pone in evidenza in queste pagine. In sostanza si confrontano utili nel tempo a pari-
tà di coefficienti di produttività, aderendo alle condizioni specifiche che per le singole imprese influenzino
la capacità di ottenere utili dalla complessa attività in cui si riverberino circostanze interne ed esterne: coef-
ficiente costante atto a far accertare gli utili differenziali per cause estranee anche al merito degli imprendi-
tori, quale è una congiuntura bellica, in modo particolare.
Questa relatività di posizioni economiche potrebbe non essere posta in evidenza dal confronto fra
ammontari assoluti di reddito o utile in due momenti diversi. Chi ottenga da 1 miliardo di introiti 100 mi-
lioni di profitto utile o reddito, quando da 5 miliardi di introiti consegue un reddito di 500 milioni non si
può dire che abbia conseguito un reddito sopra-normale o un soprareddito, come apparirebbe dal confronto
fra i valori assoluti togliendo 100 da 500 milioni. Per i 400 milioni pagherà l'aliquota normale. Per ogni ec-
cedenza l'imposta straordinaria di cui si discorre. (E’ superfluo avvertire che l'esempio numerico è presen-
tato in primissima approssimazione, nel senso cioè che sia fatta ammissibile la proporzionalità costante di
introiti e profitti, quale si desume dalle cifre esemplificate).
Al di sopra di presunzioni generiche, l'effettiva divergenza fra quanto le circostanze normali e quan-
to la congiuntura bellica consentano di conseguire sarebbe posta in relazione con la capacità reale di ogni
impresa di comportarsi da «spéculateur» nel senso Paretiano, nel periodo favorevole all'ottenimento di pro-
fitti eccezionali. La posizione relativa di ogni impresa sarebbe individuata, senza diseguaglianza, dal rap-
porto fra introito lordo e reddito netto, nei due periodi, il quale rispettivamente fornisce la misura del saggio
del profitto.
In ogni caso la sposta maniera di accertare l'imponibile consente di ovviare integralmente all'incon-
veniente costituito dalla diversa misura in cui il capitale (come è definito nelle legislazioni, cioè quello so-
ciale con aggiunta di riserve e detrazione di perdite) in senso giuridico, diverga da quello effettivamente in-
vestito nei processi produttivi.
Tutte le imprese verrebbero prese in considerazione in ragione di elementi economici o per le effet-
tive e rispettive «dimensioni» (con esclusione di quelli non omogenei, formali, giuridici che dominano spe-
cialmente per le imprese collettive). Elementi fra i quali esistono certi rapporti che, presso singole imprese
o categorie di imprese, presentano una qualche uniformità obiettiva e sostanziale.

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Per dare un'idea plastica e tendenziale del modo in cui il concetto di reddito differenziale o profitto
di guerra dovrebbe emergere dai fatti, ne espongo la rappresentazione grafica nella figura 75.
Siano rappresentate in ascissa le quantità prodotte e in ordinata i prezzi. Si faccia l'ipotesi della
condizione di libera concorrenza non «ideale», talché l'impresa di cui si esamina il comportamento, in rela-
zione alle variazioni per fatti congiunturali, non si trovi al punto di fuga (F), in cui si ha eguaglianza di
prezzo, costo unitario medio e costo marginale. (nella figura coincidenti in FR). La posizione di equilibrio
dell'impresa, qui ipotizzata, sia invece quella determinata nel punto S dall'eguaglianza del costo marginale
al prezzo, che nei confronti dell'impresa singola, per quanto si è detto a suo tempo (capitolo X, paragrafo
II), è un dato, raffigurabile graficamente con una parallela all'asse delle ascisse. L'impresa, pertanto, produ-
ca la quantità OQ, offerta al prezzo SQ, essendo S il punto d'incontro della curva dei costi marginali Cm con
la linea del prezzo Ps.
Il guadagno dell'impresa è rappresentato. dall'area PSFH, a cui si riconosce il carattere di rendita
Ricardiana (v. AMOROSO, Economia di mercato, cit.),

ottenuto su un introito totale pari a OQSP.


Si facciano ora i due seguenti casi A e B, in ordine al modo di manifestarsi dell'evento congiuntura-
le.

Caso A) - Suppongasi che si abbia elevazione della domanda da parte dello Stato, nel senso dell'in-
cremento delle quantità richieste e del prezzo, che da OP, si porti a OM. Di conseguenza, per l'impresa con-
siderata, la nuova linea del prezzo è la Mt.
Di tale evento favorevole tragga vantaggio l'impresa, in quanto fornitrice dello Stato, impegnato a
soddisfare l'urgente bisogno della difesa militare, nell'esempio che qui si fa. Infatti, producendo la quantità
ON al prezzo TN, l'impresa conseguirà un provento lordo ONTM, con un guadagno MTFH, che supera quel-
lo precedente della quantità MTSP. Questo maggiore guadagno non è da considerarsi per intero avente ca-
rattere di reddito differenziale di congiuntura. Infatti, in base a quanto si è detto in precedenza, occorre te-
ner conto del maggiore impiego di fattori di produzione rispetto al periodo normale: nella figura 75, appare
il costo addizionale QNTS, a cui corrisponde il guadagno STZ, che può considerarsi in certo senso normale.
Invece, la restante parte del maggior utile, rappresentata dal rettangolo MZSP, può presentare in massima
parte elementi di profitto congiunturale, essendo costituito dal maggior prezzo ottenuto sulle medesime
quantità di prodotto offerte prima del verificarsi dell'evento bellico, qui configurato come tipicamente con-
giunturale.

Caso B) - Il carattere di reddito differenziale da congiuntura emerge, per detta quantità MZSP, an-
cor meglio qualora si supponga che la causa di maggior utile sia costituita da elevazione del prezzo della
merce prodotta dall'impresa considerata, a parità di quantità fornita. Ciò vale, ad esempio, in periodo breve,
o allorché esistano vincoli alla produzione, che possono essere di vario genere, giuridici e non (contingen-

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tamento delle materie prime e sussidiarie impiegate, restrizioni al consumo dell'energia motrice, blocco al-
l'impiego di mano d'opera, anche per quanto riguarda l'orario di lavoro, e cosi via).
Invero, in tale caso, l'introito totale è rappresentato dal rettangolo OQZM, con un guadagno pari a
MZSFH, di cui la parte corrispondente al rettangolo MZSP ha il carattere di profitto, in quanto differenza fra
prezzo e costo marginale, per rimanere ancora aderenti alle lezioni dell'Amoroso (Economia di mercato,
cit.). E davvero si può dire che all'ottenimento di tale reddito differenziale l'imprenditore non ha dato alcun
concorso, immutata essendo per ipotesi la struttura del costi rappresentata dalla curva Cm, di cui si è inter-
cettato l'arco sino al punto S (374).
A prescindere dai criteri di determinazione dell'oggetto dell'imposta straordinaria, sui quali si è in-
sistito data l'importanza che in concreto oltre che in teoria presenta il tema, nell'esperienza storico-statistica,
il tributo speciale che è tipico della finanza straordinaria di solito costituisce una quota limitata delle entrate
straordinarie nella finanza di guerra. Per detta quota, come si è premesso, non sorge il problema della al-
ternativa con l'emissione del prestito, alla luce delle argomentazioni che danno contenuto al paragrafo pre-
cedente (sulla identità di pressione delle due fonti di entrate straordinarie).
Per contro, l'elevazione delle aliquote, o l'estensione dell'imponibile dei tributi già esistenti od or-
dinari, costituisce caso tipico di tassazione straordinaria da contrapporre, per i suoi effetti o per la sua
pressione, al ricorso al prestito allo scopo di sopperire alle spese straordinarie. Per questo secondo caso val-
gono, al fine di illustrare e spiegare il caso concreto, i cenni di carattere razionale che si sono esposti nelle
precedenti pagine.
Naturalmente, la classe governante, dal suo punto di vista può attraverso «derivazioni» in senso Pa-
retiano sottolineare, ponendolo obiettivamente in evidenza oppure offuscare creando «illusioni finanziarie»,
il riflesso delle ragioni teoriche.

V.

VARI TIPI DI TITOLI DEL DEBITO PUBBLICO.

Le forme o i tipi che assume il debito dello Stato sono varie, soprattutto in funzione del fattore tem-
po nel quale si compie la restituzione delle somme avute in prestito, mediante il rimborso o l'ammortamento
del prestito medesimo.

__________
(374) Che questi miei ragionamenti non siano lontani dalla realtà o contraddittori con essa può desumersi dal fatto
che, nell'esempio italiano, con l'art. 3 del D. L. 23 giugno 1942 n. 698, le società ed enti tassati in base al bilancio che
dimostravano di avere effettuato contratti di appalto e forniture in misura superiore a quelli effettuati nel biennio an-
tebellico 1937-38, potevano chiedere che il reddito ordinario, fosse determinato con i criteri e coefficienti di profitti
riferiti ai prezzi delle forniture negli anni-base antebellici. Si ha, cioè, ricostruzione del rapporto fra reddito netto e in-
troito lordo nei due periodi per arrivare a conoscere il reddito differenziale eccedente il normale, assunto come saggio
(coefficiente) di utile rispetto al lordo (prezzo o importo delle forniture e degli appalti).
Sembra proprio che il legislatore abbia voluto nettamente distinguere, con le disposizioni che si richiamano a titolo
di esemplificazione, il caso A) dal caso B), quali tipicamente figurano in questo paragrafo. Cioè evitare che il maggior
utile conseguito dalle imprese fornitrici dello Stato, (che nel caso normale sono i soggetti storicamente caratteristici
dell'imposta sui profitti di guerra), figuri ottenuto, ceteris paribus, a parità di costi, ovvero a parità di quantità offerte.
Sarebbe questo il caso B) su indicato, per il quale soltanto l'aumento di prezzi, ottenibile nelle forniture, a causa della
domanda più elevata da parte dello Stato, costituirebbe la fonte del maggiore utile.
Le disposizioni legislative stesse fan riferimento a quello che, per le maggiori quantità fornite, sarebbe stato il coef-
ficiente di utile, rispetto al lordo (o prezzo delle forniture, totale) e sembrano rappresentare il caso A, su indicato: e
cioè tener conto della capacità organizzativa delle imprese, al modificarsi delle condizioni e della domanda e dell'of-
ferta.
In questo modo appare posto nell'ombra il riferimento del reddito normale al capitale sociale investito, nel periodo
normale: ed il reddito ordinario viene riferito al prezzo (totale o introito lordo), attraverso «coefficienti o criteri»,
«normalmente adottati nell'anno o negli anni-base», assunti come termine di riferimento per il computo dell'eccedenza
o del profitto di guerra o dei maggiori utili di congiuntura. Quest'ordine di considerazioni è sfuggito allo Steve che pu-
re, ex professo, ha analizzato gli «effetti delle imposte sui sopraprofitti», negli «Studi dell'Università di Pavia», Gar-
zanti, 1941.
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a) I Buoni del Tesoro costituiscono la forma del prestito di più breve durata. Sono stati considerati
come vera e propria cambiale del Tesoro recante la promessa di pagare la somma indicata nel titolo alla
scadenza. Questa può essere scaglionata fra i dodici mesi dell'anno, dando luogo ai Buoni del Tesoro pluri-
mensili, che interessano le banche soprattutto, le quali investono in essi i fondi di cassa.
Vi sono poi i Buoni annuali del Tesoro, con interesse anticipato o conseguito all'inizio del periodo.
I Buoni del Tesoro plurimensili e annuali nella loro genesi ebbero inizialmente funzione transitoria,
nel quadro dell'esercizio finanziario annuale. Quella, cioè, di compensare gli «sfasamento» o le mancate
coincidenze fra entrate e spese, durante i mesi dell'anno finanziario e di assumere un ammontare «fluttuan-
te» od oscillante nell'ambito dell'esercizio. A rigore, ammesso un bilancio in equilibrio, alla fine della ge-
stione non dovrebbero esistere Buoni del Tesoro di questo tipo, se essi siano stati emessi per provvedere a
transitorie deficienze di cassa della Tesoreria, dovute appunto al fatto che gli introiti non affluiscono alla
cassa pubblica esattamente negli stessi momenti in cui si compiono le spese.
Peraltro, la prima guerra mondiale e soprattutto l'ultima han visto assumere ai Buoni del Tesoro
plurimensili ed annuali una funzione eccezionale, propria dei prestiti a media scadenza, nel senso che pur
susseguendosi gli esercizi finanziari è aumentata la somma assoluta globale dei Buoni, il che si spiega con
il fatto che non soltanto il bilancio è in disavanzo, ma che esso con il crescere della spesa eccezionale ha as-
sunto sempre più vaste proporzioni.
I problemi di carattere soprattutto monetario legati, ad es., a tale aspetto della politica finanziaria
straordinaria, riguardano particolarmente il rimborso definitivo delle somme che affluiscono verso i Buoni
plurimensili e annuali, i quali incontrano le preferenze di singoli risparmiatori, di banche, di industriali e
commercianti che li preferiscono ai conti correnti bancari, perché fruttano un interesse maggiore e presen-
tano almeno teoricamente un alto grado di liquidità come impiego.
Invero, allorché cessi il periodo storico in cui si ritenga conveniente investire nei Buoni le disponi-
bilità, non impiegate nel ciclo economico interrotto dalle vicende eccezionali (ad es. belliche), e si ripresen-
ti la necessità di disporre delle somme transitoriamente prestate, lo Stato può trovarsi nella necessità di un
rimborso di enormi cifre (che farebbero fortemente aumentare la circolazione monetaria nel caso in cui si
procedesse ad una integrale estinzione del credito dei portatori di Buoni).
Di fronte a pericoli del genere che, con l'inflazione, comprometterebbero entro certi limiti le basi
economiche della stessa produzione e inciderebbero, attraverso i fatti di redistribuzione della ricchezza, sul-
le categorie di redditieri che tradizionalmente vengono sacrificati dalla svalutazione della moneta, i governi
sono portati a convertire i Buoni annuali in titoli di prestito a media ed a lunga scadenza, ovvero in titoli
consolidati irredimibili.
L'esperienza italiana annovera il caso del 1926, allorché i Buoni annuali del Tesoro e quelli quin-
quennali e settennali (con scadenza vicina) furono obbligatoriamente convertiti in un nuovo titolo consoli-
dato 5%. Criterio analogo si è seguito in altre emissioni di Buoni novennali, come in quella del 1952.
Un altro tipo di Buoni del Tesoro che non soltanto in Italia da tempo incontra le preferenze degli
investitori, è costituito dai Buoni del Tesoro novennali, a premi. Essi, infatti, oggettivamente fruttano un in-
teresse nominale (5%) a cui deve aggiungersi una frazione di rendimento (0,36%) in quanto sono emessi al
di sotto della pari (ad es. 97,50) e sono rimborsati alla pari dopo 9 anni e danno diritto alla estrazione, per
ogni serie, di premi per un importo che, ragguagliato al valore nominale delle serie di titoli, costituisce un
rendimento medio addizionale di 0,48%. Ma al di sopra della considerazione del rendimento oggettivo così
calcolato, tenendo conto dei premi, questi ultimi conferiscono ai titoli in sede di valore soggettivo una «ap-
petibilità» da parte del singoli per la speranza che ogni portatore concepisce di conseguire le vistose somme
che si estraggono semestralmente durante la «vita» dei Buoni novennali.

b) I prestiti a lunga scadenza, sono di due tipi:


1) ammortizzabili o redimibili, per i quali lo Stato stanzia in bilancio una somma annua (di solito
comprensiva di capitale ed interesse) in modo da estinguere secondo un piano d'ammortamento il debito in
un dato numero di anni.
Si dice che questa forma di prestito risponda alle esigenze delle società di assicurazione ed in gene-
re delle imprese finanziarie che impostano piani e bilanci in base a scadenze distribuite nel tempo. Natu-
ralmente lo Stato può riservarsi il diritto di abbreviare il periodo di tempo nel quale si svolge il piano
d'ammortamento.
2) Infine si ha la forma dei prestiti consolidati per i quali lo Stato si obbliga a pagare in perpetuo un
dato interesse, senza obbligo di rimborsare il capitale.
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Allorquando lo Stato non ha l'obbligo del rimborso del capitale e neanche la facoltà del rimborso, si
ha il caso della rendita perpetua (o non denunciabile); se, invece, lo Stato si riserva la facoltà di rimborsare
il capitale (senza contrarre alcun obbligo in tal senso) si ha una rendita perpetua «denunciabile».
Naturalmente i due tipi di prestito presentano rischi positivi e negativi per i singoli e per lo Stato, a
seconda delle variazioni del tasso di interesse che possono aver luogo sul mercato.
Il periodo di instabilità monetaria che si è attraversato in tutto il mondo, ha fatto perdere di impor-
tanza a questo impiego di capitali a lunga scadenza, facendo preferire ad esso quello costituito dai titoli
(Buoni) a breve e media scadenza.

VI.

LA CONVERSIONE DEI PRESTITI PUBBLICI.

Un'operazione che tende a far ridurre l'onere che il debito pubblico rappresenta per la finanza stata-
le, è la conversione.
1) Di conversioni si è trattato nelle pagine precedenti dal punto di vista del fattore tempo. E cioè nel
senso della sostituzione di titoli a media e lunga scadenza a titoli a breve scadenza.
2) Ma è interessante la conversione dal punto di vista del tasso di interesse, nel senso che qui si
precisa. Anzitutto si tenga presente che si fa riferimento non alle conversioni forzose, con le quali lo Stato
impone ai propri creditori una riduzione del tasso di interesse, rispetto a quello pattuito al momento della
emissione dei titoli pubblici. Trattasi di un caso di ripudio parziale del prestito. Quanto qui si chiarisce fa ri-
ferimento alle conversioni volontarie o facoltative.
Si supponga che lo Stato abbia emesso una serie di titoli obbligazionari a lunga scadenza, ad esem-
pio, recante il tasso nominale di interesse del 5%. Supponiamo che, per un complesso di circostanze favore-
voli, agenti in campo politico, economico e fiscale in un dato momento e per un dato periodo, si noti la ten-
denza del tasso di interesse a diminuire, ad esempio dal 5 al 4% in media per tutti gli impieghi omogenei
(375), sul mercato. In tal caso lo Stato può offrire, ai portatori di titoli 5%, la seguente alternativa: a) il rim-
borso delle somme inscritte nei titoli obbligazionari; b) oppure la corresponsione di un tasso di interesse
non più del 5 ma del 4% come si è postulato nell'esempio.
Per poter fare tale ragionamento, bisogna che il tasso di interesse sul mercato sia tendenzialmente
inferiore al saggio corrisposto già sui titoli da convertire. In tal caso - come si esprime il Flora - il corso dei
titoli raggiunge tosto il «punto di conversione», indicato teoricamente dalle quotazioni corrispondenti alla
capitalizzazione del loro reddito al saggio corrente dell'interesse sul mercato. Quindi risultano convertibili
le sole rendite prossime al «punto di conversione» (FLORA, Manuale, 1917, pag. 772) espresso teoricamente
dalla formula:

100i
p=
r

nella quale i rappresenta l'interesse nominale del titolo da convertirsi ed r il saggio corrente dell'in-
teresse sul mercato. La quotazione dei titoli fa avvertiti del raggiungimento e del superamento del «punto di
conversione».
Naturalmente occorre che si tratti di andamento del tasso di interesse non. transitorio od ecceziona-
le; e soprattutto che si tratti di andamento spontaneo, come «risultante ed indice ad un tempo di tutte le va-
riazioni le quali avvengono nella struttura e nell'assetto economico del paese». Invero occorre che di fronte
all'offerta del rimborso del capitale i portatori di titoli al 5% non possano impiegare la somma che lo Stato
offre di rimborsare, a tassi superiori al 4%, a parità, si intende, di rischio che è connesso con l'investimento
nei titoli di Stato. Le riduzioni controllate o manovrate del tasso di interesse di mercato a lungo andare non
resistono: e la storia anche recente (1934-35) in Italia e di altri paesi, registra effimere fasi di politica di
«denaro a buon mercato».

__________
(375) Dal punto di vista del rischio.
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VII.

L'AMMORTAMENTO DEL DEBITO PUBBLICO.

L’ammortamento del debito pubblico è una delle operazioni che riguardano l'estinzione di esso,
quando non sia stata fissata una scadenza o non esista un piano di rimborso, previsto nel momento della e-
missione a fronte di spesa straordinaria.
In questo campo occorre distinguere l'ammortamento automatico dall'ammortamento giuridico, nel
senso che sotto si precisa.

I) Il De Viti De Marco ha conferito il termine di ammortamento automatico al seguente processo.


Si supponga che lo Stato, dopo avere emesso il prestito, non faccia nulla (giuridicamente) per rimborsarlo.
Cioè non stanzii in bilancio alcuna somma in nessun modo (dato che come vedremo, i procedimenti sono
varii) per l'ammortamento formale, con ritiro e distruzione di titoli del proprio debito. Man mano che pro-
gredisce l'accumulazione del risparmio, questo, fra l'altro, prende la via dell'investimento in titoli di Stato,
specialmente se si considerano i «gusti» degli investitori che cercano per i propri risparmi impieghi modesti
e sicuri.
Partendo da questa premessa, avviene che ogni acquisto di titoli del debito pubblico, quanto più dif-
fusamente fatto dai risparmiatori (produttori e lavoratori in senso ampio), trasforma l'onere che resta a cari-
co del bilancio dello Stato come interesse sul debito pubblico, in una partita di giro: invero il debito d'im-
posta (per il servizio di interessi) si compensa, nel bilancio degli investitori in tali titoli, con il credito per
interessi sui titoli medesimi. Se si pensa al processo di diffusione progressiva dei titoli di Stato nei portafo-
gli dei piccoli e numerosissimi risparmiatori, ha luogo il «democratizzarsi» del debito pubblico, per effetto
del quale ciò che lo Stato riscuote a titolo di imposte e quanto i singoli portatori di titoli riscuotono a titolo
di interessi sui titoli del debito pubblico diventano partite di giro, dando luogo, in questo modo, a reale e-
stinzione del debito pubblico.
«Questa proposizione - afferma il De Viti - nella sua verità astratta e nella sua verità di tendenza
concreta, demolisce la corrente opinione secondo la quale gli Stati moderni, per le enormi spese che pagano
a titolo di interessi, non potranno a lungo sostenerne il peso».
«Invece il peso del prestito sull'economia dei contribuenti è sostenuto per intero nel momento della
sottoscrizione, in cui si è provveduto, con le ordinarie risorse del bilancio, al pagamento dei relativi interes-
si. In seguito, a misura che ci allontaniamo dall'epoca della emissione, la pressione tributaria del prestito va
continuamente scemando».
«Restano le cifre paurose degli originari debiti pubblici e degli interessi, ma il giuoco delle partite
di giro tende gradualmente a svuotarne il contenuto economico».
«Questo fenomeno può considerarsi come un ammortamento automatico dei prestiti pubblici».
Però la visione non spiega l'estinzione del debito, ma la distribuzione della pressione che diviene
uguale per prestito ed imposta presso i singoli. Semprechè essi non riescano ad investire a saggio di interes-
se superiore.
Come onere globale, quello dei prestiti diminuisce col crescere del reddito e del risparmio, se rima-
ne costante l'ammontare nominale degli interessi.

II) Nonostante la verità contenuta in questa intuizione del De Viti De Marco, esiste nella pratica di
molti Stati un atto formale di politica finanziaria, distinto dal processo di spontanea diffusione dei titoli del
debito pubblico fra investitori di risparmio. Si ha, cioè, la destinazione di imposte (non levate a questo sco-
po od istituite all'uopo), per dar luogo ad ammortamento di titoli del debito pubblico. E’ indifferente dal
punto di vista degli effetti sull'economia sociale l'ammontare della spesa che, ceteris paribus, lo Stato com-
pie per la riduzione del debito pubblico in senso formale e giuridico? E’ il quesito che mi ero posto, consi-

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derando la pubblicazione del Rapporto inglese del Colwyn Committee, con il quale nello studio dei pro-
blemi finanziari del dopoguerra si suggeriva un «rapido» ammortamento del debito pubblico (376).
Dopo avere posto da parte le «derivazioni» in senso Paretiano, ovvero i sentimenti e i giudizi mora-
li - attinti al campo dei rapporti fra privati ed erroneamente estesi al campo della finanza pubblica - sulla
condotta che deve tenere lo Stato in tema di ammortamento del debito pubblico, facevo notare - senza aver
trovato eguale rilievo e pari dimostrazione, in precedenza - che si ripresenta, in sostanza, il problema clas-
sico della identità o della diversa pressione del prestito o dell'imposta (di cui si è trattato nel paragr. III).
[Questa mia conclusione, che riporta al teorema di Ricardo, ho visto con soddisfazione fatta propria
dal Borgatta. In quel senso scrivevo nel 1933, prima che Keynes generalizzasse la cosiddetta «economia al
reddito», ovvero le soluzioni dei problemi di massa basate sulle ripercussioni che i procedimenti ideati e-
sercitano, in definitiva, sulla variabile costituita dal reddito di un paese o mercato, globalmente considerato.
Accanto agli esempi che ho fatto presenti (nella lezione che tenni alla facoltà di diritto di Parigi, apparsa
sulla «Revue de science et de législation financières», 1951) trattando dei problemi dell'economia finanzia-
ria tradizionale e della teoria Keynesiana, si può porre questo dell'ammortamento del debito pubblico. L'ho
considerato, appunto fin dal 1933, come problema di massa e non in senso atomistico].
Infatti, se in un dato tempo (t) in teoria ed in concreto, si era ritenuto preferibile ricorrere entro certi
limiti al prestito per far fronte ad una spesa straordinaria (anziché ad un'imposta straordinaria), e se in un
secondo tempo si sollecita una immediata restituzione o un pronto rimborso o ammortamento del prestito
pubblico, si deve supporre che allora esistano (tempo t') condizioni tali da far ritenere meno costoso per la
società nel suo complesso, il prelievo attuale di imposta per il rimborso totale o parziale del «capitale» ri-
spetto al pagamento, supposto perpetuo, di interessi?
In altri termini, suppongasi l'esistenza di un dato ammontare di debito pubblico interno; ciò, cetcris
paribus, significa che in un dato momento (t) per soddisfare ad una spesa straordinaria si credette conve-
niente preferire entro i limiti dell'ammontare del debito considerato, questa forma di entrata straordinaria,
all'imposta straordinaria. Se in un momento successivo (t') che in pratica nel caso tipico cade negli anni del
dopoguerra, sembra più conveniente e meno costoso per la collettività: a) prelevare un'imposta straordinaria
per rimborsare in una volta sola il debito; b) destinare imposte ordinarie al graduale ammortamento del de-
bito pubblico; vuol dire che nel momento (t') il prelievo di quel determinato ammontare di imposta e la de-
stinazione ad ammortamento del debito implicano un costo economico per la collettività minore di quello
del permanere del debito e dell'onere per interessi che questo impone alla collettività stessa. Il che general-
mente - scrivevo - si da per dimostrato (o così almeno deve supporsi) allorché si sollecita l'immediato o ra-
pido ammortamento del debito pubblico, quando siano mutate le circostanze che avevano determinato la
spesa straordinaria iniziale.
Dopo varie precisazioni arrivavo alla conclusione che, dal punto di vista del massimo utile per la
collettività, come unità, vi è convenienza ad attuare l'ammortamento del debito pubblico, nella misura in
cui la trasformazione di capitali e di impieghi che esso determina da luogo ad una produzione di reddito
sociale superiore a quella che si conseguiva mentre perduravano gli effetti. del permanere di un alto debito
pubblico. L'ammortamento potrà essere tanto più rapido, quanto più il costo che esso implica per la collet-
tività attraverso la trasformazione di capitali e di impieghi e l'aumento del tasso di interesse viene superato
dall'utile economico che la collettività consegue, nell'approssimarsi alla posizione di equilibrio nella quale
la distribuzione degli impieghi sia la più produttiva, non in senso assoluto, ma ceteris paribus, in confronto
a quella che vige nel momento in cui si considera l'esistenza di un dato ammontare di debito pubblico che
si vuole appunto rimborsare.
Non conta che sia difficile, nel caso concreto, dato il concorso di circostanze qui supposte immuta-
te, utilizzare queste argomentazioni conclusive: ma nei limiti in cui può farsi valere ai fini pratici una con-
clusione teorica, sembra che la presente impostazione ipotetica renda il problema più determinato di quanto
non lo facessero divenire le «derivazioni» citate nel mio saggio in merito alla opportunità di procedere ad
un ammortamento più o meno «rapido» del debito pubblico, oppure le condizioni poste dal Ricardo e ri-
formulate dal Keynes (destinazione delle somme rimborsate dallo Stato, a fini produttivi), o formulate dal
Seligman e dal Pigou o da altri autori o, infine, le condizioni elencate con scarso rigore scientifico nel
Colwyn Report.

__________
(376) E. D'ALBERGO: Sull'utilità di un «rapido» ammortamento del debito pubblico, «Giornale degli Economisti», a-
prile 1933.
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Nel trattare questo tema, pur tenendo conto della esistenza della concezione del De Viti, a ragion
veduta spiegavo (E. D'ALBERGO: Sull'utilità di un «rapido» ammortamento del debito pubblico, nel «Gior-
nale degli Economisti», cit.) che diverso è il problema della spontanea diffusione dei titoli sul mercato, per
«scelta» indipendente degli investitori di risparmio o di capitale liberato da altri impieghi, dal processo, per
contrapposizione denominato «artificioso», della destinazione coattiva statale di imposte a ritiro di titoli del
debito pubblico.
Invero i singoli soggetti, nel cui bilancio si sia verificata la partita di giro di pagamento di interessi
e di imposte, per ipotesi, hanno provveduto liberamente o spontaneamente alla distribuzione dei propri in-
vestimenti, in modo da ottenere il massimo utile o reddito netto (anche da rischio), considerato dal lato a-
tomistico privato.
Giustamente Einaudi, che da una chiara spiegazione esemplificativa dell'ammortamento automatico
di De Viti, riferendosi ad esempi storici (377) denomina ammortamento privato quello che si compie, di fat-
to, per acquisto privato di titoli pubblici da parte dei debitori dell'imposta necessaria a fare il servizio del
prestiti. Invero detta iniziativa ha luogo nei limiti nei quali i contribuenti hanno la possibilità e la conve-
nienza di provvedere alla estinzione. Se Tizio ha risparmiato (378) o ha disinvestito precedenti risparmi, per
acquistare titoli di debito pubblico, assumendo la «doppia faccia» di contribuente e di creditore dello Stato,
a parità di somma di reddito e tributo, ciò si presume abbia fatto quando il frutto del titolo pubblico costitui-
sce il massimo reddito ottenibile dal suo privato punto di vista.
«Se, risparmiando, non acquista titoli di debito pubblico, bensì azioni industriali o terreni o case,
egli ha a suo giudizio reddito o vantaggio maggiore di quel che avrebbe avuto ammortizzando privatamente
la sua quota di debito pubblico. Ogni giorno, sia all'origine come in seguito, il contribuente compie e conti-
nuamente rinnova la scelta fra i due metodi, secondo la regola della massima sua convenienza».
Cosi l'Einaudi scrive, individuando il punto di vista dell'individuo o ragionando nel campo atomi-
stico in base probabilmente alla nota presunzione che, tutti liberamente comportandosi allo stesso modo più
economico, dovrebbe aversi la prova del massimo reddito globale (reale e monetario) collettivo.
Ma il problema che, prima della visione odierna Keynesiana, avevo impostato come problema di
massa, in funzione della variabile globale costituita dal reddito sociale (netto dal costo collettivo determina-
to dalle redistribuzioni di impieghi e dall'aumento del tasso di interesse) deriva appunto dal fatto che una
forza esterna, coattiva rispetto alle scelte dei singoli, è quella che le classi governanti pongono in essere con
l'ammortamento «artificioso» del debito pubblico. La redistribuzione di impieghi determinata da prelievo di
imposte e destinazione a rimborso di prestito pubblico, forzosa e può non coincidere con quella che sponta-
neamente si sarebbe verificata sul mercato. Non è compito dello studioso chiedersi quali siano i complessi
motivi che possono addurre la classe governante a proporsi di ammortizzare entro certi limiti il debito pub-
blico (ad es. analogia erronea con la condotta dei debitori privati, scopo di elevazione del credito statale in
vista di future emissioni, ecc.). Ma ammessa una data decisione, dal lato strettamente economico, che si tie-
ne solo presente in queste lezioni, il teorico propone come variabile-indice della convenienza di procedere
più o meno, come quantità e tempo, nell'ammortamento, la variazione del dividendo nazionale o reddito so-
ciale.
__________
(377) Annota Einaudi (Principii, ediz. 1940, p. 458):
«Negli Stati di antico regime, innanzi al 1789, i legislatori avevano visto la vanità del gran scrivere e passare carte,
cifre, avvisi e cedolette; ed avevano immaginato un espediente ovvio. Il tesoro consegnava al creditore Caio una spe-
cie di delegazione a farsi pagare le 4.000 (di interessi al 4% su 100.000 lire) da Tizio debitore di altrettanta imposta
fondiaria. Quando Tizio era stanco di pagare, riscattava, pagandola 100.000 lire, la delegazione e pagava 4.000 a se
stesso. Ossia non pagava più. Il tasso (nome dell'imposta fondiaria in Piemonte prima del 1789) era ormai venuto me-
no nei suoi riguardi e il debito pubblico era cancellato, per la quota che a lui toccava.
Quel che nel Piemonte del secolo XVIII era un fatto chiaro e semplice, adesso è una teoria che si intitola al nome di
Antonio De Viti De Marco».
Si sostituisca l'espressione di Einaudi («stanco») con quella che vive nel contesto del resto della trattazione, in cui si
discorre di «convenienza», appunto con quella appropriata («aveva convenienza»), e si ha la base logica della soluzio-
ne spontanea del problema dal punto di vista privato od atomistico.
(378) Si può essere d'accordo col Borgatta, allorché afferma che il nuovo risparmio che si investe nei titoli porta ad
alleggerimento del debito, perché diminuisce - a parità di ammontare di debito pubblico o se questo aumenta meno del
reddito nazionale o sociale - il rapporto fra: a) le imposte necessarie al servizio degli interessi o dell'eventuale ammor-
tamento, e b) il reddito totale dei contribuenti. Si ragiona cioè di pressione nel tempo, più che d'ammortamento auto-
matico del debito.
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Questo studio relativo alla soluzione indipendente (ammortamento pubblico) da quella che pongono
in essere spontaneamente i privati, come ho riconfermato (nell'articolo: E. D'ALBERGO Sulla scelta e sul
contenuto economico dei sistemi giuridici d'ammortamento del debito pubblico, nel «Giornale degli Eco-
nomisti», 1934), si impone come «problema fondato sugli effetti di trasferimenti di ricchezza, fra soggetti
diversi, impliciti nel processo d'ammortamento e sulla convenienza o meno di determinarli» dal punto di vi-
sta del massimo utile economico per la collettività, giudicato dalla classe governante, nel senso in prece-
denza indicato.
La legittimità logica per questo studio è apprestata dallo stesso De Viti De Marco allorché scrive
che col prestito, allorché il bilancio si aggrava della somma per interessi a cui risponde l'entrata per eguale
somma, la «partita di giro» sorge per lo Stato. Essa «non è tale nel bilancio economico della collettività,
come talvolta si è affermato», ammonisce l'egregio autore. Perché la collettività non è un ente omogeneo,
che paga 50 milioni di imposta e riceve 50 milioni di interessi; lo Stato riceve dagli uni 50 milioni di impo-
sta e paga agli altri 50 milioni di interessi (Principii, cap. XXIX, sulla teoria del prestito pubblico. Ma que-
sto scrive a proposito della genesi del debito e non della sua estinzione).
Era per questo motivo che ritenevo la teorica Devitiana «non adeguata alla soluzione di problemi
aventi rispondenza nella casistica concreta» in tema di ammortamento.
Ora il problema potrebbe complicarsi (come avevo fatto scrivendo, nel «Giornale degli Economi-
sti», a proposito di alcuni effetti finanziari dell'ammortamento) tenendo conto delle diverse propensioni al
risparmio ed al consumo di coloro a cui si sottragga potere d'acquisto con l'imposizione e di coloro a cui lo
si restituisca a mezzo di ammortamento di iniziativa statale. Questa ed altre complicazioni non possono tro-
vare posto in questo corso di lezioni ma in analisi più approfondite e monografiche.

III) Altra avvertenza riguarda i procedimenti per l'ammortamento del debito pubblico (379). In pro-
posito i sistemi adottati nei paesi più progrediti si possono ricondurre ai seguenti:
1) Destinazione ad ammortamento del debito pubblico di:
a) una quota fissa o variabile delle entrate complessive del bilancio;
b) avanzi o eccedenze delle entrate sulle spese pubbliche;
c) una combinazione di a) e di b);
d) proventi di una fonte particolare di entrate ovvero di uno o più tributi determinati;
2) Le alternative indicate nelle lettere a-d) senza distribuzione dei titoli e con impiego del loro frut-
to ad interesse composto;
3) Destinazione di una percentuale di talune voci di spesa (ma non del totale delle spese pubbliche);
4) Destinazione in bilancio di una somma corrispondente ad una percentuale dell'ammontare com-
plessivo del debito non estinto;
5) Emissione di nuovi prestiti per estinzione dei precedenti.
Volendo rispondere al quesito: quale è il migliore procedimento per l'ammortamento, la risposta
non può essere univoca, perché oltre agli effetti propri dei diversi sistemi tecnici (qualitativi) o dei proce-
dimenti, vi è la difformità delle condizioni di ambiente economico e sociologico, in cui i sistemi operano, in
vari paesi e momenti. Tali condizioni tipiche sono state considerate in modo particolareggiato nel mio sag-
gio testè citato.
I procedimenti indicati si giustificano come coesistenti con l'ammortamento automatico del De Viti,
come s'è visto. Egli ammette, invero, che lo Stato possa concorrere alla estinzione del debito ricorrendo al
procedimento suggerito dallo Hamilton, di destinare all'uopo avanzi di bilancio. «Procedendo per questa via
- scrive il De Viti - il prestito pubblico sarebbe di fatto annullato ed anche formalmente ridotto di quantità».
Le due soluzioni si integrano, sebbene indipendenti (ammortamento automatico ed ammortamento giuridi-
co).
Riferendomi ai sistemi su indicati, può dirsi che all'ammortamento giuridico corrisponda ammor-
tamento di fatto, non soltanto quando vi sia eccedenza delle entrate sulle spese correnti; ma anche quando le
entrate superino le spese di bilancio diverse da quelle destinate ad acquisto di titoli del debito pubblico.
Cioè si ha ammortamento sostanziale anche quando il bilancio dello Stato sia in pareggio contabile e nel
passivo fra le spese sia iscritta una voce riflettente acquisto di titoli con destinazione di entrate secondo i si-
stemi 1) a e d, 3) e 4).
__________
(379) E. D'ALBERGO: Sulla scelta e sul contenuto economico dei sistemi giuridici di ammortamento del debito pubbli-
co, «Giornale degli Economisti», agosto 1934, cit.
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IV) Una riduzione sostanziale (non formale) del debito pubblico e del suo onere dal punto di vista
dello Stato si attua attraverso la svalutazione monetaria, quando, fra l'altro, la causa della diminuzione di
valore sia dovuta alla circostanza che lo Stato abbia fatto ricorso alla carta moneta per fronteggiare parte
delle spese eccezionali.
Nelle leggi monetarie di vari paesi, è stato previsto che gli istituti di emissione possono fare antici-
pazioni al Tesoro dello Stato, entro limiti cosiddetti statutari, in tempi normali e per le esigenze della Teso-
reria. Allorché, come avvenne nella prima guerra mondiale e in parte si è verificato durante l'ultimo conflit-
to, lo Stato chieda anticipazioni eccedenti quelle statutarie e dia luogo ad una immissione addizionale di bi-
glietti sul mercato, determina un aumento di prezzi ed una simultanea riduzione del potere d'acquisto della
moneta medesima.
In tal modo lo Stato ottiene un prestito senza interessi, ed attraverso la svalutazione della moneta
preleva una quota del patrimonio di coloro che lo abbiano investito in beni a reddito fisso. Fra questi sono i
possessori di titoli del debito pubblico, che vedono svalutato il potere d'acquisto consacrato nel valore no-
minale dei titoli e nel rendimento nominale dei titoli medesimi. In generate se si confrontano le entrate tri-
butarie e l'onere per il servizio degli interessi dell'epoca in cui il debito pubblico era emesso in un dato am-
montare, con le entrate e l'onere di un tempo successivo, quando abbia operato la svalutazione monetaria
col correlativo aumento dei prezzi, si può osservare che - a parità di sistema tributario o legislativo - le en-
trate aumentano mentre l'onere per gli interessi o resta fisso od aumenta meno. Ne deriva che, quasi senza
ulteriori oneri tributari formali (aumento di aliquote o d'imposte), lo Stato compie il servizio di interessi
per un debito anche maggiorato. Come vedesi, la svalutazione monetaria agisce cancellando di fatto gran
parte di debito pubblico, pur se esso formalmente sussiste sul mercato. Considerazioni in parte inverse oc-
corre fare ragionando in ipotesi di rivalutazione monetaria.
Studiosi fra i quali ci si meraviglia di trovare il De Viti De Marco, così come se ne era stupito il
Cabiati (scrivendone sul «Giornale degli Economisti» successivamente alla pubblicazione del mio studio
sull'ammortamento del debito pubblico), hanno sostenuto, come alcuni umanitari e politici in genere, la ne-
cessità di rivalutare la moneta per rendere giustizia ai portatori di titoli. (In generale ai titolari di redditi fissi
o non adeguatisi alla svalutazione monetaria).
Ovviamente, nel tempo, non solo le condizioni dell'equilibrio economico sono mutate (si veda la
logica della mia teorica sugli Sgravi fiscali, che precede), così che, anche volendo, non si riesce a rimettere
i portatori di titoli ed i contribuenti nelle condizioni iniziali.
Ma i processi di redistribuzione di ricchezza che sono impliciti in una rivalutazione (come nella
svalutazione monetaria), secondo la teoria e la generale esperienza, finiscono per danneggiare i produttori
di ricchezza nuova. Così che per neutralizzare le perdite, come squilibri fra costi elevati o rigidi e ricavi ri-
dotti, imposte alla categoria dei produttori (e talvolta dei risparmiatori con salvataggi di banche) si introdu-
cono nuovi tributi anche a carico di coloro che si vorrebbe avvantaggiare con la rivalutazione monetaria
(portatori di titoli).
In generale, si abbassa e teoricamente può abbassarsi il reddito nazionale in via relativa, e questa
variabile ammonisce intorno alla economicità per la collettività delle rivalutazioni monetarie o degli sforzi
che si vorrebbero imporre agli Stati per mantenere le clausole-oro che caratterizzano alcuni prestiti vecchi e
nuovi. Invero per mantenere la promessa verso i portatori di «titoli aurei», occorrerebbe in caso di forte sva-
lutazione monetaria redistribuire gran parte della ricchezza di singoli paesi. Il che spiega come si abolisco-
no, proprio nell'interesse generale, le clausole-oro nei prestiti pubblici, dal lato della economicità per la col-
lettività e non soltanto per il prevalere delle (politiche) forze dei debitori e dei gruppi di contribuenti.

VIII.

IL PROBLEMA DEI «LIMITI» DEL DEBITO PUBBLICO.

E’ un problema che la teoria recente non avrebbe dovuto impostare, dopo che la critica scientifica
aveva vuotato di contenuto quello che è stato detto miraggio, illusione o speranza chimerica. Cioè dopo che
si erano ridotti al ruolo di calcoli aritmetici, privi di contenuto economico realistico, i sogni degli inventori
di casse di ammortamento del debito pubblico.

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Gli italiani, come ricorda il Flora (nel Manuale, capitolo sul debito pubblico), facevano merito della
scoperta al genovese Antonio Grimaldi; i francesi ai fratelli Paris. Come ho ricordato negli scritti citati, il
dr. Price concepì un piano di ammortamento del debito pubblico della massima semplicità e senza apparen-
te grave costo per la collettività o proibitive difficoltà d'attuazione in Inghilterra.
E’ noto il criterio matematico, che si potrebbe dire il giuoco - in questo caso con ironia - dell'inte-
resse composto. Per esso basterebbe dotare una Cassa di ammortamento di una quota annua pur piccola, ad
es. 1 milione, di un dato ammontare di debito, ad es. 100 milioni, corrispondendo l'interesse su detto impor-
to (ad es. 5%) per avere, in base ai dati numerici assunti, al 5%, in circa tre generazioni l'abolizione del de-
bito statale. Basta adattare al calcolo le cifre odierne del debito pubblico ed altre crescenti rapidamente e
concepibili «elevate» (se non proprio tendenti all'infinito come in modo paradossale hanno supposto alcuni
economisti tedeschi citati in questo capitolo) per trovare la facile quanto illusoria soluzione dell'ammorta-
mento di pur astronomiche ed impressionanti cifre di debito pubblico.
La paralisi del funzionamento del Sinking-Fund inglese e delle casse affini di altri paesi dovevano
far cadere le speranze illusorie, alla luce della realistica variabile che può consentire il servizio (interessi) ed
il rimborso (estinzione del debito capitale) dei prestiti pubblici: trattasi del reddito o della ricchezza di un
paese o mercato o Stato in cui sorga il problema.
Se è vero che il «peso del prestito nell'economia dei contribuenti è sostenuto per intero nel momen-
to della sottoscrizione, in cui si è provveduto, con le ordinarie risorse del bilancio, al pagamento dei relativi
interessi» (De Viti De Marco, che in questo senso è esponente di teoria generale pacifica) è già individuato
il limite del debito pubblico nella quantità di reddito che può sottrarsi ai contribuenti componenti la colletti-
vità per il servizio del prestito. Anche quando coincidono parzialmente i debitori per imposte e creditori per
interessi, esiste un limite alla destinazione di risparmio ai titoli e di corrispondente imposta a servizio di in-
teressi; esiste pure un limite alla redistribuzione di reddito per il servizio di interessi attingendo imposte da
alcuni e destinando, nel bilancio statale, spese a interessi, da versare ad altri membri della collettività.
Il problema del limite del debito pubblico, riferito al momento della assunzione, emerge in modo
evidente, immediato ed implicito, se si pensa all'ammortamento, ovvero alla estinzione.
La questione di grado che, come si vede, si riafferma ad ogni passo, nel trattare problemi della fi-
nanza straordinaria sorgenti da disavanzo di bilancio di fronte a spese eccedenti il normale ricorrere di esse
nella economia finanziaria, domina i ragionamenti, come nel caso ad es. della pressione tributaria. Ma molti
autori hanno lasciato indeterminato il problema, allorché all'incirca hanno suggerito la norma agendi, se-
condo la quale sarebbe «utile» per lo Stato non contrarre prestiti sino ad ammontare «eccessivo».
Manca spesso un termine di riferimento in questo campo. E di fronte alle affermazioni di valore in-
determinato, rilevavo nel citato scritto del 1933, che nessuna misura quantitativa può essere «posta a limite
massimo del debito pubblico» se non si fa riferimento alla variabile costituita dal reddito sociale. E poiché
anche mi occupavo dell'estinzione parziale, interessava studiare gli effetti che sull'ammontare del reddito
sociale può determinare un rimborso più o meno «rapido» o rilevante nel tempo, del debito pubblico, rispet-
to al livello di date posizioni di partenza, anteriori all'ammortamento.
Occorre dire a quanti, specialmente fra gli economisti tedeschi, hanno ritenuto di portare argomen-
tazioni nuove e paradossali in questo campo, che il limite dell'indebitamento era già in espressioni che pur
vertendo nel dominio della appropriata visione del problema, parevano indeterminate o vaghe agli studiosi
ed esperti del Colwyn Committee, del 1927. Ne ricordo due che figurano in detto mio citato scritto: «l'am-
montare di ricchezza da destinare ad ammortamento del debito non dovrebbe mai superare l'ammontare del
risparmio della nazione, che rimane dopo aver provveduto alle spese dello Stato, all'incremento dei capitali
per la popolazione crescente, per la sostituzione del capitale perduto in guerra, per fornire capitali alle nuo-
ve imprese, per far elevare il tenor di vita». Altri riteneva «dover ritenersi disponibile per l'ammortamento
la porzione di reddito nazionale che rimane dopo aver pensato ad assicurare lo sviluppo della produzione
nazionale».
Il concetto di capitale disponibile già figura nella mia trattazione dal punto di vista del quantum lo
Stato non trova sul mercato, ma rende tale nei confronti dell'investimento in propri, aggiuntivi titoli di debi-
to, con la manovra del tasso di interesse. Il De Viti De Marco che ha questa visione per il risparmio nuovo,
non la estende alle trasformazioni di capitali esistenti, come impieghi in funzione della altezza del tasso di
interesse.
Riportando detta categoria economica in questo campo, implicitamente si trova un limite all'impor-
to del debito pubblico. Riferendo all'ammontare del reddito sociale i graduali rimborsi di prestiti, si è indi-
viduata altra variabile che fa da limite non solo al servizio di interessi ma anche al rimborso parziale; del
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pari le imposte straordinarie o «leve» sui capitali trovano un limite nella ricchezza sociale anche moneta-
riamente mobilizzabile.
Individuando le altre spese che simultaneamente lo Stato deve compiere per soddisfare bisogni
pubblici nel tempo in cui si ponga questo problema finanziario, si inserisce nei ragionamenti un altro limite
più immediato o basso di quello costituito dall'ammontare del reddito o del patrimonio di un paese. Si fa ri-
ferimento, cioè, all'operare della legge economica che domina, secondo il Pantaleoni, il riparto della pubbli-
ca spesa che richiede la ponderazione dei gradi finali di utilità inerenti a ogni combinazione che può for-
marsi con le spese possibili, nella mente del legislatore, in modo che il grado finale di utilità di ogni capo di
spesa, a parità di ammontare, sia eguale ad ogni altro.
Infine, la variabile reddito sociale massimo ha implicita in sè non solo l'esigenza limitatrice della ri-
costituzione dei capitali per la produzione; ma come reddito sociale, riferito cioè ad una data societas e po-
polazione che la costituisce, contiene il limite astratto (che la storia traduce in valore, volta a volta, assolu-
to) quale il Borgatta ha posto come limite per l'indebitamento: cioè un reddito minimo per la sussistenza.
E poiché si tratta di problemi in cui, oltre al massimo reddito collettivo producibile interessa quello
distribuibile, occorre pensare al limite costituito dal minimo di sussistenza nelle mani dei singoli o gruppi di
contribuenti, dopo che si sia provveduto a loro carico al prelievo di imposte per il servizio di interessi od al
rimborso del prestito.
Questo tipo di argomentazioni, anche per la parte che potrebbe parere implicita, quale figurava nei
miei scritti ricordati, è stato sottolineato dal Villani (380) che ha ricordato anche l'illusorietà della pretesa de-
gli studiosi tedeschi che ho citato sopra in tema di inesistenza di limiti tecnici per l'indebitamento. Anche
quando il fatto monetario (inflazione) sposti i limiti dell'indebitamento, trattandosi di rapporti di debito sta-
tale con i privati in termini di denaro, in definitiva questa modificazione di grado (altra conferma della mia
impostazione logica della finanza straordinaria) non può nascondere sotto il velo monetario la realtà che il
teorico e lo storico individuano a lungo andare. E cioè che in definitiva è sempre il reddito reale che fa da
limite (come flusso) al servizio di interessi e, come traduzione (capitalizzazione) in fondo, all'estinzione del
debito pubblico.
Come gli ideatori del Sinking-Fund fallirono quando dimenticarono che al giuoco mirabolante delle
cifre degli interessi composti deve logicamente corrispondere la produzione di maggior reddito o una corri-
spondente ricchezza da redistribuire, così gli studiosi che non hanno visto alcun limite all'indebitamento,
nel fiorire della letteratura dell'ultima guerra mondiale, hanno trascurato la stessa variabile astratta che de-
termina il problema teorico, con gli adattamenti quantitativi che volta a volta richiede il fenomeno concreto,
nei singoli paesi. Poiché ho ricordato studiosi tedeschi, fra cui lo Jecht, è doveroso annotare questo esempio
di teorico.
Egli, sia pure per sommari cenni (nel capitolo V di Kriegsfinanzen, G. Fischer, Jena 1938), vedeva
la possibilità di indebitamento dipendente dall'ammontare dei capitali di nuova formazione o che divenisse-
ro disponibili sul mercato durante la guerra; dalla necessità di destinazione ad altri scopi economici di una
parte dei capitali monetari; dalla propensione all'investimento in titoli da parte dei possessori di capitali
monetari, dalla compatibilità della destinazione di entrate fiscali agli interessi, con altre destinazioni del
reddito nazionale a investimenti privati e a consumo.

IX.

«IL CIRCUITO DEI CAPITALI» PER UN FINANZIAMENTO


“STRAORDINARIO” SENZA INFLAZIONE.

Mentre questa posizione degli studiosi è stata in via generale accolta e diffusa nei loro scritti di teo-
ria e di storia finanziaria, nell'occasione della passata guerra si è erroneamente formata la convinzione che
alcuni economisti abbiano mutato parere, suggerendo la convenienza di una quota di inflazione nel quadro
di un finanziamento “straordinario”, vale dire di grande entità e per un evento non ripetibile. Nel caso
dell’Italia esso è stato studiato, in relazione al finanziamento della seconda guerra mondiale.

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(380) Nel Saggio sui limiti dell'indebitamento statale, Roma, Istituto Poligrafico, 1947.
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Contro questa opinione si è reagito, ad esempio, in Italia da economisti i quali, specialmente nel ca-
so degli scritti del Borgatta, hanno distinto fra la pretesa ed insussistente idea della opportunità di un par-
ziale allargamento della circolazione monetaria nell'interesse della tesoreria statale, e la spiegazione tecnica
di un fatto generale quale inevitabilmente è accaduto a causa soprattutto di imprevidenza di governi o di fat-
tori politico-psicologici: e cioè il quasi generale ricorso, nella esperienza di questa guerra, in proporzioni
varie alle anticipazioni di mezzi di pagamento a favore delle tesorerie statali, concesse dagli istituti di emis-
sione.
Nella spiegazione si è cercato di individuare, alla luce della teoria acquisita, quali potrebbero essere
i vantaggi del ricorso, almeno inizialmente, alla emissione di nuovi o aggiuntivi mezzi di pagamento,. con-
siderando la questione dal punto di vista dello Stato.
Fra tali presumibili fattori che abbiano potuto rendere consigliabile e, talora, inevitabile il parziale
ricorso alle anticipazioni di mezzi di pagamento da parte delle banche centrali, si sono annoverati i seguenti
(381):
a) Dal lato temporale, dato il presentarsi improvviso del bisogno pubblico da soddisfare (l'esempio
tipico può essere non soltanto quello di una guerra, ma anche di inondazioni, epidemie, sommovimenti tel-
lurici, carestie, crisi economiche, ecc.), la spesa pubblica può assumere proporzioni tali che i mezzi tradi-
zionali per sopperire ad essa possono risultare inadeguati nel periodo di tempo in cui sia necessario affron-
tare la spesa medesima. In tal caso il modo più rapido e tempestivo di ottenere entrate di tesoreria è quello
della anticipazione straordinaria di mezzi di pagamento da parte degli istituti di emissione. Con ciò si evita
di attendere le entrate tributarie che, essendo commisurate ai bisogni ordinari, sono insufficienti al fine del
soddisfacimento di bisogni nuovi e implicanti notevoli spese. Parimenti non si potrebbe attendere lo studio
e l'applicazione di imposte straordinarie, nè, in alcuni casi, l'emissione di prestiti nelle forme tradizionali
della emissione sul mercato di obbligazioni statali. Inoltre con l'emissione di carta moneta si evita l'onere
per interessi.
b) Dal lato unilaterale predetto (punto di vista dello Stato), come si è visto in precedenza (a proposi-
to dell'ammortamento dei debiti pubblici) l'inflazione monetaria attenua l'onere per interessi e capitale del-
le precedenti obbligazioni gravanti per prestiti sul bilancio; lo stesso dicasi della diminuzione della pressio-
ne sul bilancio statale, di annualità differite e contributi statali che si protraggono per l'avvenire, e degli sti-
pendi e delle pensioni che non variino in proporzione al livello dei prezzi.
c) Con il mezzo della inflazione, lo Stato riduce i consumi dei privati allargando il proprio: 1) anzi-
tutto, elevando i prezzi dei beni che lo Stato, dotato di nuovo potere d'acquisto, può acquistare in concor-
renza con i privati sul mercato; 2) in secondo luogo perché, nel caso di coloro i cui redditi non crescano
monetariamente, nelle proporzioni in cui si elevano i prezzi, oltre alla rinuncia al risparmio si ha rinuncia al
consumo reale di taluni beni. E invero le quantità consumate si riducono quando il saggio di incremento del
reddito monetario è inferiore al saggio di aumento del livello dei prezzi dei beni diretti; 3) in terzo luogo il
consumo può ridursi, coattivamente, mediante. divieti di vendita, razionamenti e, in generale, limitazione
delle quantità prodotte e consumabili da parte dei privati, i quali si avvantaggino di elevazioni di redditi
monetari con saggio di incremento superiore a quello del livello dei prezzi o che vedano i propri redditi cre-
scere nelle stesse proporzioni, sempre nominali o monetarie, del livello dei prezzi.
Se le ragioni di cui alle lettere a), b), c), possono, nell'interesse dello Stato, e da un punto di vista
unilaterale, far ritenere conveniente una espansione dei mezzi di pagamento, vi sono influenze sfavorevoli e
nei confronti della stessa finanza statale e nei confronti del benessere della collettività e della efficienza del-
l'economia produttiva, che possono neutralizzare i vantaggi su indicati.
Fra le circostanze sfavorevoli alla inflazione, sia pure parziale, occorre annoverare, come si è scritto
nel citato articolo:
A) il ritardo o la lentezza con cui aumenta il provento del tributi rispetto alla elevazione del livello
dei prezzi e del reddito monetario nazionale. Dalla sproporzione fra entrate e spese, le quali vengono solle-
citate, nel loro elevarsi in cifre nominali, dall'aumento dei prezzi, emerge la necessità di ulteriori emissioni
di mezzi di pagamento quando i prestiti non sopperiscano immediatamente e in modo adeguato alle esigen-
ze di spese statali.
B) La capacità di creare nuovo risparmio monetario risulta menomata anche presso la categoria di
redditieri che risulti avvantaggiata dalla inflazione in un primo tempo, e cioè prima che i prezzi in rapido
__________
(381) Si veda il citato articolo del Borgatta, apparso nel numero di dicembre 1942 del «Notiziario Economico» della
Cassa di risparmio di Milano.
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aumento neutralizzino in tempi successivi il margine differenziale o il vantaggio che in un primo tempo de-
rivi dalla divergenza fra: 1) saggio di elevazione dei prezzi; 2) saggio di elevazione dei redditi monetari nel
periodo iniziale di inflazione.
C) La riduzione dei consumi eccessiva, presso le categorie danneggiate dalla inflazione, a causa
della ricordata divergenza fra saggio di elevazione di prezzi e saggio (inferiore) di aumento dei redditi mo-
netari di alcune categorie di redditieri. Detto abbassamento del tenor di vita può compromettere la capacità
di lavoro di vaste categorie di addetti alla produzione.
D) Quest'ultima, infine, può essere disorganizzata dagli squilibri che hanno luogo a causa del dimi-
nuito risparmio, dal consumo di capitali preesistenti (scorte, macchinario senza adeguati ammortamenti), e
dalle perturbazioni in genere che la crisi inflazionistica determina nei sistemi di produzione, come l'espe-
rienza germanica della prima guerra mondiale dimostrò. Ne fu un indice significativo la riduzione del valo-
re delle azioni che riflettevano la produttività delle aziende industriali, riduzione che poté constatarsi con-
frontando i prezzi in oro nell'anteguerra e nel 1923.
Per queste ragioni che possono individuarsi in parte nell'articolo sintetico del Borgatta e per altre
pensabili, anche se l'esperienza recente ha fatto notare il ricorso entro limiti talora non indifferenti (Germa-
nia, Stati Uniti, Inghilterra, Italia) alla emissione eccezionale di biglietti della banca di emissione, deve
concludersi confermando la dottrina vigente incontrastata. E cioè che il ricorso, sia pure nella prima fase
del soddisfacimento di un bisogno straordinario, alla emissione monetaria, deve considerarsi lo strumento
peggiore o il mezzo da usare con cautela e come «ultima ratio», fra quelli che si sono escogitati per il fi-
nanziamento di una guerra, come esempio più importante di spesa straordinaria.
Per neutralizzare e, meglio ancora, limitare gli effetti della inevitabile emissione di addizionali
mezzi di pagamento, sia pure nella fase iniziale e per frenare l'inflazione monetaria, si è cercato di predi-
sporre un insieme di provvedimenti atti a ridurre l'inflazione medesima. E’ sorta, cioè, la tecnica del cosid-
detto «circuito dei capitali» o del «circuito monetario», di cui largamente hanno scritto gli studiosi dei vari
paesi nell'occasione dell'ultima guerra.
Occupandomene per il caso italiano, nel 1940 (382), allo scopo di farlo rientrare nella teoria tradi-
zionale ovvero nella logica finanziaria consacrata in noti scritti del passato - avente per oggetto il fenomeno
di massa e non l'analisi atomistica - scrivevo che «sotto denominazioni nuove» (circuito dei capitali) si vuol
mettere in atto i risultati attinenti alla recente esperienza (precedente guerra mondiale), adattandoli ai nuovi
fatti storici. Con ciò volevo togliere l'aureola di novità nel campo della logica alla nozione che sintetizza la
politica di finanziamento della guerra senza incorrere negli inconvenienti della inflazione: cioè negare il di-
ritto di cittadinanza come «nuove teorie monetarie» agli scritti che patrocinavano o spiegavano la tecnica
del circuito predetto.
Due anni dopo potevo leggere con interesse, nel citato articolo del Borgatta, il quale teneva presenti
varie opinioni e non soltanto italiane espresse in proposito, che la tecnica del circuito dei capitali non è lon-
tana dai suggerimenti che avanza L. Einaudi nelle note opere commentarie dei fatti della precedente guerra.
E invero, «a posteriori» quell'autore rilevava la possibilità di evitare il ricorso alla emissione di biglietti in
misura rilevante per conto dello Stato, qualora i governi del periodo bellico avessero maggiormente gravato
la mano sulla leva della pressione tributaria oltre a far ricorso parimenti ai prestiti Quindi niente di nuovo
nello spirito del circuito del capitali per quanto riguarda la limitazione o riduzione dei consumi privati e la
destinazione delle disponibilità, che la stessa spesa straordinaria crea o contribuisce ad accentuare, al finan-
ziamento del ricorrente flusso di spese straordinarie.
Ciò premesso, il «circuito» si può definire come procedimento tecnico tendente al fine di assicurare
il riafflusso (circuito di ritorno) alle casse dello Stato, della moneta o dei capitali monetari immessi in circo-
lazione attraverso le rilevanti spese statali, allo scopo di evitare che il rinnovarsi delle spese medesime ren-
da necessarie immissioni ulteriori o addizionali di mezzi di pagamento nel mercato.
Fra le premesse che occorre realizzare per il funzionamento logico del circuito, nel 1940 ponevo in
sintesi le seguenti: a) mantenimento, fin che è possibile, stabile del livello dei prezzi; b) limitazione del
consumi di beni diretti; c) prelievo coattivo con imposte dirette ed indirette di una parte dei redditi appena
prodotti od appena essi si rivolgano al consumo di beni tassati (o tassabili). Il risparmio monetario così
formato o agevolato nella formazione, «potrebbe» affluire, quindi, allo Stato attraverso sottoscrizione di
prestiti è prelievo, come si è detto, di tributi anche maggiorati.

__________
(382) Vedi E. D'ALBERGO, «Rivista Bancaria», novembre 1940.
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Poiché non vi è la certezza dell'afflusso o meglio del flusso di ritorno delle disponibilità - che, at-
traverso le misure di cui alle lettere a), b), c), testè indicate, si formino sul mercato - verso l'impiego spon-
taneo in titoli di Stato, occorre impedire od ostacolare gli impieghi di disponibilità monetarie «libere», in
beni strumentali e in valori capitali mobiliari ed immobiliari diversi dai valori di Stato.
(Una garanzia sufficiente che le disponibilità monetarie assumano nella loro grande maggioranza la
via dell'impiego in titoli di Stato, si ha allorché i medesimi capitali disponibili affluiscono alle banche sotto
forma di depositi; invero le statistiche di molti paesi e quelle italiane in sommo grado fanno risultare una
destinazione delle nuove disponibilità delle banche prevalentemente ad impiego in titoli statali di vario tipo
durante la guerra).
Ad evitare il formarsi nella mente dello studente di dubbi intorno a quanto precede e, soprattutto, ad
eliminare contraddizioni, ricordo che il circuito dei capitali non è procedimento criticabile perché in contrasto
con l'esperienza, nel senso che essa - come si è premesso - ha fatto notare il ricorso da parte di molti governi,
anche alla emissione addizionale di mezzi di pagamento.
Anche ammesso che vi sia una iniziale emissione addizionale di mezzi di pagamento (fatto questo
che si accerta empiricamente), si può dire che in via logica non si possa parlare di funzionamento efficiente
e coerente del circuito del capitale monetario?
A ciò è stato risposto che il «circuito», come problema logico, può concepirsi nel senso della limi-
tazione del margine di nuove o maggiori spese da coprirsi con allargamenti della circolazione monetaria e
creditizia, piuttosto che come problema assoluto di eliminazione delle emissioni già effettuate nella fase i-
niziale della guerra. Mentre, cioè, possono mettersi innanzi ragioni pratiche di difficile funzionamento del
circuito, non esistono ragioni di carattere logico che contrastino al completo funzionamento del circuito.
Fatta, invero, l'ipotesi di un incremento iniziale dei mezzi di pagamento, è evidente (Borgatta) che
anche se nelle unità di tempo successive il circuito funziona perfettamente e riesce a provvedere alle suc-
cessive spese straordinarie, con imposte e prestiti, l'iniziale supplemento di circolazione è immediatamente
reimmesso nel mercato e vi modifica in modo durevole i rapporti fra moneta e beni (inflazione). L'ipotesi
della inflazione iniziale tende a riprodursi nel corso della guerra ogni qual volta le spese statali subiscono
un brusco e sensibile incremento non compensabile con disponibilità precedentemente preordinate. Ogni
volta il circuito (di ritorno) interviene dopo un nuovo allargamento dei mezzi di pagamento per evitare nelle
successive unità di tempo che la maggiore spesa pubblica provochi nuovi allargamenti della circolazione;
ma ogni volta le quote iniziali si aggiungono alla circolazione preesistente e ne accrescono progressivamen-
te l'ammontare globale.
Non basta, cioè, che il circuito faccia rientrare nelle casse dello Stato la maggior moneta a mano a
mano emessa, in modo da coprire le successive spese straordinarie senza ulteriori aumenti di circolazione.
Sarebbe necessario che, dopo il primo incremento della circolazione, e ad ogni successivo aumento della
spesa statale, gli introiti del tesoro superassero i pagamenti nella misura necessaria a coprire tutta la ulte-
riore spesa straordinaria e inoltre a ritirare (o ridurre) la precedente eccedenza di circolazione.
Il funzionamento «normale» non evita, quindi, un graduale incremento della circolazione comples-
siva nel corso della guerra; il funzionamento razionale richiederebbe non solo una progressiva compressio-
ne dei consumi privati ed incremento della quota di reddito risparmiata o impiegata nel pagamento di tribu-
ti; ma in ogni periodo successivo ad un incremento della spesa statale un'eccezionale e supplementare re-
strizione dei consumi ed aumento dei risparmi (investiti in prestiti) che in concreto sembra difficile conse-
guire, per i numerosi attriti concreti.
Il problema essenziale del circuito dopo la fase iniziale è quello di ridurre al minimo il ricorso a
nuove emissioni nei periodi di incremento della spesa bellica e di annullarlo nei periodi di stabilità della
spesa statale.
Ho ricordato estesamente il pensiero del Borgatta, il quale risponde in questo modo alle critiche che
si possono muovere alla logica del circuito.
I rilievi, invero messi innanzi da autori (come il Federici e il Cinquini che hanno posto in simboli i
ragionamenti che partono dalle ipotesi di divergenza concreta fra i momenti in cui l'emissione di moneta
abbia luogo ed i momenti in cui venga recuperata attraverso il circuito) non inficiano la razionalità dell'ide-
a, ma riguardano il funzionamento del circuito. Se si volesse giungere ad un perfetto funzionamento occor-
rerebbe poter prevedere le variazioni future della spesa pubblica e preordinare i mezzi per evitare l'emissio-
ne di moneta aggiuntiva nel momento della elevazione della spesa. Per lo meno occorre ridurre gli interval-
li di tempo che corrono fra pagamenti dello Stato e recuperi delle somme immesse nel mercato.

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Il Federici ha ritenuto il ricorso alle imposte come procedimento maggiormente del prestito atto ad
evitare le aggiunte ulteriori di biglietti di banca, per conto dello Stato, sul mercato. Ma egli ha visto nei tri-
buti un meccanismo funzionante «a scatti»; e ciò verosimilmente - ritengo - perché si è fatto riferimento al-
le imposte dirette che, pure, conferiscono all'entrata statale una regolarità bimensile che non può propria-
mente dirsi caratterizzata da sensibili scatti anche se non vi è la stessa continuità che caratterizza il flusso di
spesa. Ma le imposte dirette sono una parte e la relativamente minore, come fonte di entrate statali, di fronte
.alle imposte indirette sui trasferimenti e specialmente sui consumi, cioè rispetto ad istituti fiscali che hanno
il pregio della continuità del getto, dato che si commisurano e si accertano e riscuotono simultaneamente a
fatti collettivamente continuativi quali sono i trasferimenti di valori immobiliari e mobiliari ed i consumi di
beni diretti soprattutto.
Quanto si riferisce presuppone anche che le premesse a cui sopra si accennato e che riguardano la
politica non soltanto finanziaria, ma anche quella annonaria e dei prezzi, si realizzino perfettamente, al fine
della effettiva limitazione dei consumi e degli investimenti, perché la formazione delle disponibilità moneta-
rie eccedenti e non assorbite da consumi e impieghi privati possa mettersi a disposizione dello Stato attra-
verso tributi e prestiti.
A proposito di impedimenti od ostacoli agli investimenti immobiliari e mobiliari, si è avanzata una
obiezione alla logica delle misure che (come l'imposta italiana speciale di registro sul plusvalore del beni
immobili e quella straordinaria sui titoli azionari, ecc.) mirano ad ostacolare gli impieghi in valori diversi da
titoli di Stato.
Si è detto, cioè, che anche chi ricava il denaro per la vendita di immobili o valori mobiliari dispone
di una somma (ricavo) che, direttamente o attraverso il deposito bancario, può prendere la via dell'impiego
in titoli di Stato. Ma tutto ciò che si pone come casistica successiva alla compravendita, può effettuarsi ben-
sì, ma dopo certo periodo di tempo, nel corso del quale la tesoreria resta priva di disponibilità adeguate, at-
tendendo, appunto, che in definitiva i ricavi derivanti dalla vendita di immobili e mobili eventualmente
prendano la via dell'impiego in titoli di Stato. Durante quel periodo di carenza, supposto che si presenti la
spesa pubblica eccezionale, lo Stato deve far ricorso per quote aggiuntive alla banca di emissione, se man-
cano altre entrate di tesoreria adeguate. Cioè, il fattore tempo (nel quale ha luogo la ipotizzata, definitiva
destinazione di ricavi da vendite di immobili e mobili ad impiego in titoli di Stato) da luogo ad uno squili-
brio quantitativo (fra spesa pubblica e mezzi a disposizione della tesoreria), squilibrio in cui è la genesi del-
la emissione addizionale di biglietti per conto dello Stato da parte dell'istituto di emissione. Inoltre da av-
vertire che quando la tendenza degli impieghi indichi orientamento verso beni capitali privati, non si ha la
«certezza» che ricavi da compravendite prendano in ogni caso la via dell'impiego in titoli di Stato o della
giacenza in depositi bancari, ma è da supporre che, in buona parte, i ricavi assumano destinazione qualitati-
vamente diversa dalla iniziale da cui provengono per disinvestimento (specie di beni immobili: terreni o ca-
se, case vecchie o case nuove, urbane o rurali, ecc.; ovvero tipo di azioni prima possedute e nuovo tipo de-
siderato, ecc.); ma quantitativamente costituita ancora da beni di carattere privato e non da titoli di debito
pubblico.
Da queste argomentazioni deriva la razionalità del tributi che ostacolino gli investimenti nel perio-
do bellico in beni privati, fornendo parimenti entrate allo Stato, se dette imposte siano opportunamente
congegnate. Così si spiegano altri provvedimenti non fiscali, allo stesso fine.
Oltre a questo ostacolo che indirettamente provochi impieghi in titoli di Stato, vi sono norme che
vincolano, nei vari paesi, una parte dei ricavi o del redditi, sia a impieghi diretti in titoli pubblici, sia a ver-
samento in tesoreria, o in banca, con l'impegno della restituzione delle somme, al cessare della guerra come
evento che dia luogo a spesa eccezionale (sono i casi di risparmio forzato e «ferreo»).
Come si vede, le argomentazioni che diffusamente si espongono riguardano discussioni intorno alla
tecnica od alla funzionalità del circuito dei capitali, non alla «logica del sistema», il quale assume dall'espe-
rienza e da dottrine pacifiche la sua ineccepibilità o razionalità.
Questa mia visione, riconfermata nelle lezioni del 1944, ha trovato la piena adesione del Borgatta,
nella più completa opera che si sia avuta finora sulla finanza di guerra (cit. del 1945).
Anche egli ha distinto fra negazione della impossibilità logica della completa chiusura del «circui-
to», dal lato teorico, e «cause pratiche di fallimento del circuito» (pagg. 606-612). Fra queste ha posto an-
che il costo della politica dei prezzi, la distribuzione del nuovo potere d'acquisto fra numerose classi diffi-
cilmente controllabili, spese ed indennità a favore di Stati esteri, ecc. ecc.
Unico punto di dissenso il B. ha trovato nella funzione che incidentalmente assegnavo al credito nel
finanziamento della spesa straordinaria. Egli non lo ha considerato ammissibile fra i procedimenti per la fi-
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nanza così qualificata, in quanto il credito può avere una funzione momentanea, poiché permette di antici-
pare risparmi futuri. «O il credito è rimborsato prima della fine della guerra, ed i mezzi per il rimborso deb-
bono essere tratti da un incremento del reddito prodotto o da una compressione dei consumi privati; o è
rimborsato dopo la guerra, e allora si risolve in un consumo anticipato di redditi futuri» (cit. pag. 147).
Chi legga il mio scritto, vi trova coincidenza anche nella espressione di opinioni: invero scrivevo,
nello spirito della visione Keynesiana, che la cessata tesaurizzazione e la concessione di credito bancario
non costituiscono una alternativa alla formazione del risparmio, ma la necessaria preparazione all'aumento
del risparmio. «Se accenno (al ricorso al credito) è per sottolineare la funzione transitoria che deve asse-
gnarsi al credito affinché si eviti proprio l'inflazione, che è il fatto negativo che con il sistema del circuito
dei capitali si intende bandire dai provvedimenti della finanza di guerra».
Se il saggio di incremento del risparmio fosse uguale a quello delle esigenze di investimenti in rap-
porto al crescere e al presentarsi di bisogni, rispettivamente normali e straordinari della vita privata e pub-
blica, non occorrerebbe la funzione intermediaria che si assegna in via transitoria al credito. Ma questo deve
scontare (anticipandone entro certi limiti l'importo) i flussi di risparmi futuri, nei casi in cui la domanda di
capitali superi, sia pure in via transitoria, l'offerta che può fare unicamente il risparmio già formato. «Prati-
camente, quindi, ed in teoria, accanto all'investimento di risparmio corrente, attinto cioè al reddito attuale,
ed al consumo di capitali preesistenti o di patrimoni già accumulati (di cui spesso non si compie durante la
guerra la manutenzione e l'ammortamento con quote di sostituzione), si ha un terzo mezzo per provvedere a
bisogni discontinui di investimenti: e, cioè, lo sconto della formazione di risparmi futuri, quali margini di
redditi futuri». La divergenza di punti di vista non pare sussista fra le proposizioni dell'egregio studioso e le
mie precedenti, se si confrontano le proposizioni contrapposte ed altre che ho enunciato ragionatamente nel
mio scritto citato del 1940 (383).

__________
(383) In una ragionata esposizione di questi problemi ad opera di V. Marrama (Di un'alternativa all'inflazione nella
economia di guerra, Edizioni Italiane, 1947, pp. 53-54) dopo avere scritto che «un ottimo contributo allo studio della
complessa questione dei risparmi futuri ha dato di recente il d'Albergo», che «giustamente osserva che il ricorso al
credito deve essere transitorio» e dopo aver riportato manifestazioni del mio pensiero in proposito, aggiunge alla mia
opinione il conforto di idee nello stesso senso, successivamente espresse dal Cabiati (op. cit. del 1947) e da C. Arena
(L'economia di guerra, nei Quaderni di cultura politica, 1941).
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APPENDICE

NINO LUCIANI ∗

IL “2° CRITERIO PARETIANO”, E. D’ALBERGO


E LA SCIENZA DELLE FINANZE.

1. - Premessa
2. - Carattere coercitivo dell'attività finanziaria pubblica, secondo d'A.
3. - Pareto e i due teoremi fondamentali dell'economia del benessere
4. - Il "2° criterio" Paretiano e la funzione di utilità pubblica
5. - La successiva letteratura di Bergson, Little, Kaldor e altri sulla funzione del benessere socia-
le, secondo d'A.
6 - Il pensiero odierno verso lo Stato minimo e il permanere di alcuni limiti
7 - Come superare i limiti espressi. La Scuola di Public Choice
8 - Per la dinamizzazione del modello Paretiano

1. - Premessa
In questo studio introdurremo ad alcuni elementi della "maggiore" produzione scientifica di
E.d'Albergo384, quella che fa discendere le norme agendi della finanza pubblica dalle grandi sistemazioni
dell'economia del benessere collettivo, già delineate dai grandi maestri della scienza economica e partico-
larmente da V.Pareto. Ne mostreremo, poi, alcuni limiti e, infine, indicheremo dei nostri sviluppi “in senso
dinamico” di tale impostazione che, quanto meno, possano avviare ad un loro superamento.
V.Pareto occupa in E. d'A. una posizione forte, pur se gli era ben nota la sua ostilità al riconosci-
mento del carattere scientifico alla scienza delle finanze. Si trattò, a dire di d'A., solo di un grave equivoco
spiegabile col "comune credo", anche ai tempi di Pareto, circa i criteri dell'azione dei governanti: nel senso
che essi sarebbero stati particolarmente usi alla strumentalizzazione della finanza pubblica per fini di potere
politico e arricchirsi.
La "funzione di utilità individuale dei governanti", dipendente dall'attività finanziaria pubblica già
risultava acquisita nell'opera scientifica di C.Cosciani e, prima ancora, era già stata rintracciabile in un filo-
ne di rilievo di cultori della scienza delle finanze in Italia, ad es., in Conigliani.
Per E.d’A, la spiegazione dell'azione economica dei governi aveva dignità scientifica solo se fonda-
ta sull'ipotesi che essi sono mossi dal soddisfacimento del bene comune. In altri termini, nel pensiero di
d'A. ma anche in altri (basterà controllare le identiche posizioni dei padri della scienza delle finanze italia-
na: ad es. A.De Viti De Marco, o M.Pantaleoni), occorre distinguere il divenire storico- sociologico, di cui
sono parte anche gli "uomini" di governo, come comuni mortali, dalle leggi economiche nel campo pubbli-
co. E' solo a questa che va rivolta l'attenzione dello scienziato economista.
Non era ancora venuto il tempo per l'inquadramento scientifico dei legami tra le funzioni di utilità
individuali dei governanti e la funzione di utilità pubblica, quale fondamento per spiegare le scelte pubbli-
__________

Luciani, N. (1937), professore di scienza delle finanze nell’Università di Bologna. Allievo di E. d'Albergo. E-mail:
[email protected], [email protected], [email protected] .Si vegga, per il curriculum vitae: home page di
N.L, http://www2.dse.unibo.it/luciani/index.htm.
Altri allievi di E. d’A. sono stati: prima di me, Guglielmo Gola (Università di Bologna), Giorgio Stefani (Università
di Ferrara); dopo di me, Maria Clara Sellari (Università “La Sapienza” di Roma), Vincenzo Russo (Università “La Sa-
pienza” di Roma), Gaetana Trupiano (Università di Roma TRE).
384
d'Albergo, E.(1952), Economia della Finanza Pubblica, Giuffrè, Milano, cap. I; d'Albergo, E. (1963-64-71), Ge-
nesi convergenti del calcolo finanziario pubblico; Oneri e vantaggi alla 'Frontiera dell''Utilità' collettiva; Pondera-
zione necessaria di contrapposte grandezze Edonistiche; Presupposti della 'Generalità' del II modello Gnoseologico
Paretiano; Riducibilità logica al modello Paretiano di funzioni e schemi del Welfare collegati con piani di Bilanci fi-
nanziari; Validità attuale della Genesi razionale italiana del massimo utile collettivo, in "Giornale degli economisti".
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che in campo economico. Questo, del resto era lo stesso percorso già seguito dagli studiosi dell'economia di
mercato relativamente al rapporto tra le motivazioni individuali dell'imprenditore e la ragione economico-
sociale dell'impresa. Secondo questo percorso, poteva normalmente accadere che l'imprenditore soddisfa-
cesse gli interessi del consumatore, cercando primariamente il proprio interesse personale (profitto), ma non
sempre (vedi: dominanze monopolistiche del mercato). E, dunque, anche nel campo pubblico poteva “es-
serci” o “non esserci” dualismo tra interessi personali dei governanti e interesse pubblico. E' un inquadra-
mento, quest'ultimo, che, nel campo pubblico, acquisirà dignità scientifica solo di recente, ad opera della
Scuola di Public Choice, e che sicuramente è ancora lontano dall'essere completato.
Pertanto, si comprende come, una volta chiarito l'equivoco, per d'A. il collegamento diretto col V.
Pareto economista del benessere fosse immediato e spontaneo. Per lui, l'inquadramento scientifico della
"vera" scienza delle finanze era già avvenuto in modo rigoroso proprio in V.Pareto sotto due riguardi: il
primo era quello nel quale Pareto aveva delineato il ruolo dei "vincoli", di varia natura, alle leggi dell'equi-
librio economico generale e, a questo riguardo, gli fu facile indicare le imposte e spese pubbliche come vin-
coli da aggiungere all'elenco di Pareto; il secondo era quello nel quale Pareto inquadrava i massimi di utilità
"per" e "della" collettività nell'impiego delle proprie risorse.
E' di questo secondo aspetto che qui ci occuperemo.

2.- Carattere coercitivo dell'attività finanziaria pubblica, secondo d'A.


Non faremo qui un riassunto delle grandi questioni dell'economia del benessere, ma solo un breve
richiamo a quegli elementi di essa più confacenti al nostro scopo introduttivo385.
Per d'Albergo, economista della finanza pubblica, il problema finanziario pubblico non nasceva da
una preferenza ideologica per l'economia pubblica ai fini della allocazione e distribuzione delle risorse di
una collettività, ma dalla constatazione dell'impossibilità del mercato di ripartire in modo ottimale le risorse
tra l'uso privato e quello pubblico, semplicemente perchè la destinazione di date risorse all'uso pubblico non
poteva essere guidata dai prezzi, definiti come la sola fonte di finanziamento finale delle risorse medesime.
Nella sua "Teoria dello scambio volontario e dell'utilità collettiva"386, d'A. motivò ciò con due ar-
gomenti: a) il primo è che la domanda di servizi pubblici non è, per sua natura, "volontaria", ma "coerciti-
va": nel senso che essa è decisa dal governo, come interprete dei bisogni pubblici dei cittadini ( si direbbe
oggi, come espressione di una "maggioranza" che si impone ad una "minoranza"), e nel senso che questi,
come singoli, sono "obbligati" a saldarne il costo (dedotto le eventuali entrate provenienti da prezzi pubbli-
ci) con le imposte decise dal governo; b) il secondo è che in via di principio è perfino sbagliato parlare di
uno "scambio senza mercato", ossia di una prestazione e controprestazione equivalente, nel giudizio del go-
verno (quindi del "non mercato") perchè tale "scambio" è per sua natura sbilanciato: come dire, sempre c'è
chi guadagna e chi perde da questo tipo di "scambio".
E' forse il caso di ricordare, qui, che per quanti come noi sono usi, e abusi ormai, alla definizione di
bene pubblico come "identità" (Samuelson), questa tesi sembrerebbe ovvia: nel senso che se, una volta che
dati beni pubblici siano offerti anche solo a qualche individuo in una certa quantità secondo i suoi gusti, essi
sono di fatto anche offerti "totalmente"a tutti gli altri cittadini, va da sè che nessuno di essi ne ha la dispo-
nibilità nella misura che esattamente gliene serve, se in disaccordo coi gusti di quell'individuo. E quindi non
esiste la possibilità di allocare in modo ottimale i beni pubblici, individualmente.
In realtà questa definizione, di tipo Samuelson, è innovativa rispetto a quella della letteratura prece-
dente, pur se va precisato che il più delle volte ciò si deduce solo in modo implicito. Innanzitutto si discor-
reva di beni e servizi pubblici come di termini equivalenti. Ad es., per A. De Viti De Marco: " Ai beni che
lo Stato produce per soddisfare i bisogni della collettività diamo il nome di servizi pubblici"; per M. Fasia-
ni: "E' ormai per lo più riconosciuto che il distinguere le due categorie economiche di 'beni' e dei 'servigi'
resi dallo Stato non è soltanto pressocchè impossibile, ma per lo più anche inutile. Qui e di seguito useremo
indifferentemente e promiscuamente i due termini". "Al par di tutti gli scrittori diremo che lo Stato produce
'servigi pubblici' ". Lo stesso è della generazione successiva, e tra questa ricorderemo C.Cosciani, fino al-
l'edizione 1964 delle sue Istituzioni di scienza delle finanze, dove Samuelson (1954) è citato genericamente,
e non con specifico riguardo alla sua definizione dei beni pubblici387.
__________
385
Si veggano, tra la vasta letteratura, le antologie di AA.VV., indicate nei riferimenti bibliografici alla fine di que-
sto studio.
386
d'Albergo, E. (1958), Teoria dello scambio volontario e dell'utilità collettiva, in "Stato sociale".
387
Cosciani, C. (1964), Istituzioni di scienza delle finanze, ed. UTET, Torino, cap.II.
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Per capire questa posizione può essere utile ricordare quanto è d'uso fare in economia politica. Nel
caso di beni di consumo si contano le loro quantità fisiche; invece, nel caso di beni durevoli si contano i lo-
ro servizi. Lo stesso valeva in passato per i beni pubblici durevoli. In modo analogo tali servizi pubblici e-
rano ritenuti sommabili come i servizi privati.
La divaricazione tra i servizi pubblici ed i servizi privati nasceva, invece, sul terreno della "divisibi-
lità": nel senso che, non potendosi per i servizi pubblici generali far uso dei prezzi di mercato, mancava il
mezzo per misurare l'utilità individuale dei beni e servizi pubblici, sulla base della domanda differenziata
dei vari utenti; e invece per i beni e servizi privati era possibile valersene.
A sua volta, neppure il carattere che i beni pubblici potessero essere a costo marginale zero costi-
tuiva allora un ulteriore motivo per distinguerli dai beni privati, giacchè anche i costi fissi "privati" erano a
costo marginale zero.

3.- Pareto e i due teoremi fondamentali dell'economia del benessere


Una volta configurato di carattere coercitivo, nei confronti del singolo utente, il processo di scelta
pubblica (nel senso che questo aveva i caratteri propri dei sistemi collettivisti), anche le condizioni di ottima
scelta collettiva dovevano essere diverse da quelle del mercato.
E' forse il caso di ricordare alcune posizioni dell'economia del benessere388, circa la solvibilità del
problema. E' noto che, in base all'ottimo Paretiano, le condizioni di impiego efficiente dei beni economici,
tra gli scambisti, è l'eguaglianza dei tassi di sostituzione marginale dei beni scambiati, per tutti loro.
In teoria pura i meccanismi che portano a realizzare tale condizioni sono infiniti. Uno di essi è il
mercato di concorrenza perfetta con uso della moneta. In questo mercato, infatti, i prezzi di equilibrio finale
sono dei dati per tutti gli scambisti e pertanto, dato un rispettivo reddito monetario da spendere, ognuno di
loro lo ripartisce tra i vari beni in modo da eguagliare i loro tassi di sostituzione marginali ai prezzi relativi.
Se così fanno tutti i consumatori, anche i tassi di sostituzione marginale tra i beni divengono uguali per tutti
i consumatori. Questo è il contenuto del primo teorema.

__________
388
Tra i testi istituzionali recenti, cfr.: Balducci R.-.Candela, G. (1991), Teoria della politica economica, Parte I, ed.
NIS, Roma.
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Dal punto di vista distributivo si hanno delle importanti conseguenze: esse sono che, nell'ambito
delle scelte volontarie, data una distribuzione iniziale delle risorse, gli scambisti hanno la possibilità di mo-
dificarla per aumentare il proprio benessere, senza che alcuno peggiori rispetto al benessere iniziale.
Benchè questo schema si avvalga di grandezze reali, è ovviamente implicito che esso implica che,
comunque, prima e dopo lo scambio, non muterebbero i valori monetari totali posseduti, rispettivamente.
Per chiarire questi concetti, e soprattutto per il seguito, riprendiamo la scatola di Edgeworth (vedi
sopra).
Quale sia il meccanismo regolatore della soluzione effettiva tra P1 e P4, lungo la curva dei contrat-
ti, la teoria tradizionale ci dice che dipende dalla forza contrattuale degli scambisti o, per meglio dire, dal
bisogno comparato che i due hanno delle due merci. Tra l'altro, si nota nel grafico, che P3 è relativamente
più favorevole ad A, e che P2 è relativamente più favorevole a B.
Se in generale il rapporto di scambio fosse ritenuto troppo sbilanciato a sfavore di uno dei due (ad
es., nel campo della sanità), può darsi che qualcuno reclami una qualche forma di regolazione pubblica.
Questa considerazione ci introduce ad secondo criterio di scelta, fuori dall'area del mercato, con so-
luzioni che non potrebbero essere accettate volontariamente da tutti gli ex-scambisti, in base al criterio del-
l'area del mercato libero.
Per distinguere il criterio dell'area del mercato da quello dell'area pubblica, non volontaristica, sem-
pre di Pareto ma meno noto, E.d'Albergo chiamò l'uno come "I criterio Paretiano", comunemente noto
come ottimo Paretiano, e l'altro (di cui appresso diremo) "2° criterio Paretiano".

Prima di considerare il 2° criterio, ricordiamo come parte degli economisti del benessere abbia insi-
stito nell'evidenziare che le soluzioni ottimali all'interno dell'area volontaristica dipendono, oltre che dai
prezzi relativi delle merci (e questo già l'abbiamo ricordato più sopra), dalle dotazioni iniziali di risorse per
gli scambisti. Inoltre tali soluzioni ottimali sono individuate senza tener conto delle economie e disecono-
mie esterne. Ma trascuriamo qui quest'ultime, pur se per la finanza pubblica potrebbero essere elementi ri-
levanti come l'uso dei beni pubblici.
Tali dotazioni iniziali, si dice, nulla hanno a che fare col processo di aggiustamento che conduce gli
scambisti a migliorare ulteriormente il benessere arrecato dalle dotazioni iniziali medesime. Invece esse so-
no il risultato delle regole distributive di un dato assetto sociale, e non v'è alcun argomento per sostenere
che l'un assetto è migliore di un altro. La ragione è che il fondamento dell'assetto stesso è semplicemente un
giudizio di valore.
Pertanto, se si modificassero per legge, sulla base di un nuovo "patto sociale", le dotazioni iniziali
degli scambisti, questi di nuovo promuoverebbero un processo di aggiustamento lungo la vecchia curva di
contratto, sia pur all'interno di un'area diversamente delimitata. Di nuovo, dunque, ritroveremmo le condi-
zioni di efficienza allocativa, ma a partire da una diversa distribuzione. Questo è il secondo teorema fonda-
mentale dell'economia del benessere.
Vediamo un attimo criticamente questi aspetti. Tra le infinite ipotesi rappresentabili nel grafico 2,
immaginiamo che la nuova dotazione iniziale, da cui ripartire per l'aggiustamento, sia indicata da D. In tal
caso la soluzione contrattata dovrebbe aver luogo all'interno del tratto P1-P2 della curva di contratto.
Se, tra le soluzioni possibili prima della modifica della distribuzione iniziale delle risorse, la solu-
zione contrattata fosse stata il punto P3 (grafico 1), sarebbe evidente che la nuova distribuzione sarebbe
dannosa per A e vantaggiosa per B (grafico 2).
A questo punto, volendo "ricreare il caos", con luogo ad una diversa distribuzione, occorre tener
conto che le dotazioni "primarie" dell'uomo, quali l'intelligenza, la struttura e la forza fisica, sono dati non
modificabili dall'uomo, per cui anche le remunerazioni dell'attività produttiva di individui "diversi" devono
essere "diverse", sempre che questa possa aver luogo liberamente. Si trae che solo il "primo" caos dipende
pienamente da un giudizio di valore, mentre tutti gli altri sono legati al primo, perchè possano avere una
qualche logicità, e dunque il secondo caos, per avere un fondamento economico, dev'essere un "caos vinco-
lato". Si conclude che l'applicazione del secondo teorema parte da presupposti alquanto fragili, economica-
mente. Ad es., avrebbe significato assegnare un abito di taglia m 1,70 a chi fosse alto m 1,50 e un abito di
taglia m 1,50 a chi fosse alto m 1,70, in base al ragionamento che, in caso di errore di scelta pubblica, i due
si invertirebbero gli abiti, successivamente?
In altri termini, la modifica della distribuzione iniziale, motivata con l'argomento che un caos vale
l'altro, si fonda su un'indeterminatezza talmente ampia del problema del redistribuzione, che ai fini della
promozione del benessere è indifferente lasciare le cose come stanno o modificarle.
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Serve, dunque, un preciso criterio per giustificare la modifica della distribuzione. E se esso è un cri-
terio economico che abbraccia la collettività nel suo complesso, allora esso deve fondarsi sulla dimostrazio-
ne , almeno teorica, della possibilità di migliorare il benessere della collettività nel suo complesso (, me-
diante una modifica coattiva della distribuzione esistente), portando la collettività, nel suo complesso, su un
livello di benessere più elevato, rispetto a quello raggiungibile con il mercato. E' questo il percorso del mo-
dello Pareto-d'Albergo, e che dunque affronta il problema della distribuzione in una ben diversa luce.

4.- Il "2° criterio" Paretiano e la funzione di utilità pubblica


Nel caso dei beni che ammettono un mercato, dacchè quello di concorrenza perfetta realizza le con-
dizioni di ottimo Paretiano (I criterio), può esservi più di un buon motivo per modificare la distribuzione in
modo coattivo se si trova la via per dimostrare che la società civile ha dei vantaggi da una modifica della
distribuzione. E’ la via esplorata da Pareto, in sociologia.
V'è, però, un vasto campo di beni, e che sono i beni pubblici (e genericamente le economie e le di-
seconomie esterne), per i quali non è possibile realizzare un mercato e quindi neppure applicare l’ottimo pa-
retiano ("I criterio Paretiano") o al più possono ammettere dei particolari prezzi di mercato con un signifi-
cato diverso da quello dei comuni prezzi di mercato. Per tali beni, direbbe E.d'A., nel processo di decisione
pubblica sono inevitabili, per i cittadini, dei danni ad alcuni di loro e dei vantaggi ad altri: pertanto, per tali
beni (e ciò è ammesso anche da Samuelson, a parte il fondamento della teoria dell’ottimo, da lui impostato
per detto caso molto particolare, dei beni pubblici389).
Questo carattere del processo di scelta pubblica non è solo del problema specifico della produzione
di beni e servizi pubblici: esso è un carattere generale di tutte le scelte pubbliche. Come dire, le scelte pub-
bliche hanno sempre carattere redistributivo delle risorse tra i cittadini: dunque è in sede distributiva che va
affrontato il problema. Anzi, a suo dire, un problema di questa natura è così ampio da includere anche il
problema allocativo.
Per la rigorosa impostazione di questo problema gli strumenti analitici erano già tutti nel modello
sociologico Paretiano. Ma questo comportava un netto superamento del quadro analitico già impostato da
A.Smith, dove appunto solo l'egoismo è il motore delle azioni economiche degli uomini, ed il benessere
__________
389
E’ noto che Samuelson, P.A. (1954), “The pure theory of public expenditure” (tradotto in italiano in Teorie della
finanza pubblica, a cura di F. Volpi, Franco Angeli, Milano 1975), un bene è pubblico se “il consumo di un tal bene da
parte di ciascun individuo non comporta alcuna riduzione da parte di qualsiasi altro”. Si vegga a p. 194 e p. 198.
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collettivo è il frutto dei moti di essi, come regolati dal sistema dei prezzi. Occorreva passare al concetto di
collettività in cui gli uomini non erano isole incomunicanti e in cui i prezzi venivano abbandonati ai fini
della misura del valore, giacchè essi non sono indipendenti dalla distribuzione delle risorse tra gli uomini.
Per questo passo c'era, però, un ostacolo grave: il no bridge tra le sensibilità individuali, e quindi
occorreva inventare un marchingegno (in luogo del sistema dei prezzi) per risalire alla misurazione della u-
tilità delle risorse delle diverse persone avvantaggiate o svantaggiate da modifiche della distribuzione.
Al contrario L. Einaudi aveva sostenuto "non esistere stetoscopio" e quindi impossibile il supera-
mento del no bridge390.
Nel modello Paretiano questo marchingegno è il giudizio di "un governo". Lo stesso troveremo in
Pantaleoni (si ricorderà che qui il giudice è il Parlamento). In d'A. è il giudizio della classe governante, co-
me interprete dei giudizi dei cittadini. In altri termini l'apprezzamento dell'utilità delle risorse individuali è
un'entità storica, variabile con le classi sociali al potere e contro il quale, nemmeno in caso di errore, il sin-
golo ha difesa nell'immediato.
E' ben noto il travaglio della successiva letteratura dell'economia del benessere sulla possibilità di
costruire una funzione del benessere sociale. Il problema del superamento del "no bridge" ai fini delle scelte
pubbliche fu da lui risolto con due motivazioni:
a) la prima è che le scelte pubbliche sono necessarie e sono fatte molto normalmente. Allora un
qualche approccio sulle regole per la costruzione di una funzione dell'utilità collettiva bisogna pur farlo, e il
solo modo per evitare il caos è di affidarla ad un "terzo", che teoricamente potrebbe essere un illuminato,
ma che praticamente è la cosiddetta "classe governante";
b) la seconda è che esiste un fondo di comune sentire negli uomini e basterà guardare a quante rea-
zioni molto simili gli uomini hanno, di fronte a certe azioni fatte nei loro confronti.
Continuando su questo versante, può essere interessante ricordare che E. d'A. rintracciò anche nel
Vangelo una traccia storica circa l'esistenza di questo fondo di comune sentire, e lo trovò nel passo in cui
Gesù, all'interno del Tempio di Gerusalemme, disse che la vedova, dando due spiccioli alle casse del tem-
pio, aveva dato molto di più che il ricco Fariseo, coi suoi talenti.
Sembrerebbe, a proposito di questo fondo di comune, sentire il successivo Rawls, che poi se ne av-
varrà sia pur con l'obiettivo più restrittivo di giustificare lo "Stato minimo". E che dire, poi, sempre in tema
di Vangelo, della direttiva di Gesù: "date ai poveri il sovrappiù"? Come dire che era nel comune sentire che,
se il fare contento qualcuno (cioè i poveri) non costa nulla (e lo è quod superest), perchè non farlo?
Prescindendo dalle gravi difficoltà di risolvere il problema della misurazione e del confronto delle
utilità delle risorse individuali, l'importanza fondamentale del modello sociologico Paretiano sta nell'aver
dimostrato la possibilità teorica di portare la collettività su una posizione di benessere più alta, rispetto a
quella conseguibile con lo scambio volontario, e quindi senza il rischio di creare un nuovo caos, da cui far
ripartire gli individui per successivi aggiustamenti. Vediamo un attimo, avvalendoci di un grafico.
Estendendo il criterio ad una collettività con n individui, Pareto391 aveva espresso come condizione
di massimo (2° criterio):

0 = M1 δϕ 1 + M2 δϕ 2 + M3 δϕ 3 +....

dove: M1, M2, M3,... sono coefficienti di ponderazione (del governo, ai fini di omogeneizzazione),
delle funzioni di utilità del reddito degli individui ricompresi nelle varie classi sociali 1,2,3,.... Data la legge
della decrescenza dell'utilità marginale del reddito degli stessi, la funzione di utilità pubblica è massima se
la somma algebrica delle variazioni utilitarie è zero.
Trasposta nella scienza delle finanze, le variazioni utilitarie sono i benefici e i danni arrecati agli
individui dalla tassazione e dalla spesa pubblica, e che quindi si rivelano lo strumento per la redistribuzio-
ne del reddito tra le classi sociali.

__________
390
Si vegga tra le rivisatazioni odierne del tema: Forte, F. (1993), Teorie della giustizia e disuguaglianza. Riflessioni
su Nash, Harsany, Gauthier, Rawls e Barry; Patrizii, V. (1993) Confronti interpersonali e giustizia distributiva; Dar-
danoni V.- Stroffolini, F. (1993), La misura dell'equità orizzontale, in "SIEP - Riunione scientifica 1993, Pavia 15-16
ottobre 1993, su Ineguaglianza e redistribuzione, (a cura di Muraro G. - Rey M.), ed. Franco Angeli, Milano 1996.
7. Pareto, V. (1913), Il massimo di utilità per una collettività in sociologia, in "Giornale degli economisti e rivista di
statistica", aprile.
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La fecondità del modello sociologico Paretiano rimane a tutt'oggi di grande momento, compresa la
sua rappresentazione del passaggio dal "mercato" al "quasi mercato" e infine al "non mercato". Ad es., una
successione di punti all'interno del campo delimitato dalle curve contrapposte iniziali fa sicuramente parte
del mercato; un qualche punto fuori dal campo medesimo è sicuramente fuori dal mercato, giacchè nessuno
accetterebbe volontariamente di peggiorare la propria situazione, rispetto a quella iniziale, pre-scambio. In-
vece un punto interno al campo medesimo, ma in prossimità di una delle curve inziali è una situazione di
quasi mercato, diciamo di mercato monopolistico, giacchè esiste una sproporzione tra le capacità contrat-
tuale degli scambisti, così che quasi tutto il beneficio va ad uno di loro.

A questo punto, un'azione pubblica di regolazione del potere contrattuale parrebbe cosa buona per
la collettività nel suo complesso.
Ripresa la scatola di Edgeworth, il tratto Po-Pn è la curva dei possibili contratti e tuttavia col limite
di non peggiorare la rispettiva situazione di benessere iniziale. Questo vuol dire che i contratti volontari pos-
sibili sono circoscritti al tratto P1-P4 : più vicino a P4, se la capacità contrattuale di B è relativamente molto
grande; più vicino a P1 se è, invece, grande la forza di A.
Ipotizziamo che i due individui concordino un contratto in P3: questo punto è un punto Pareto effi-
ciente (I criterio), o di massimo di utilità per la collettività, conseguendo il quale tutti migliorano rispetto
alla posizione iniziale.
Rispetto a tale punto, un movimento verso Pn, mediante una redistribuzione coercitiva (diciamo del
governo), migliorerebbe la situazione di A, ma peggiorerebbe quella di B. Ma vi sarebbe convenienza per i
due individui nel loro complesso, se A guadagna, in termini di benessere, più di quanto B perda. Supposto
risolto il problema della omogeneizzazione delle utilità dei due individui, in termini marginali il massimo di
utilità della collettività si ottiene redistribuendo da B a A fino al punto in cui il beneficio marginale è uguale
al danno marginale.
In modo analogo, un movimento verso Po migliorebbe la situazione di B, ma peggiorebbe quella di
A. E se il beneficio di B è minore del danno di A, la situazione della collettività nel suo complesso peggiora.
Quale delle due, il governo debba procurare con la cercizione dipende dalla consapevolezza del
Governo se convenga l’un movimento o quell’altro.
Ma è ben noto che il criterio del bene comune, in termini di “ragione di Stato”, ha procurato una
commistione di bene e di male alle collettività nel complesso, almeno secondo le interpretazioni storiche
successive.

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5 - La successiva letteratura di Bergson, Little, Kaldor e altri sulla funzione del benessere socia-
le, secondo d'A.
Il modello sociologico Paretiano compare nella sede economica più prestigiosa nel 1913, sul Gior-
nale degli Economisti. Benchè le origini nobili della funzione del benessere sociale siano comunemente at-
tribuite al Bergson del 1938, non v'è dubbio che il modello Paretiano abbia avuto una diretta influenza mol-
to prima sugli scienziati finanziari italiani, creando i presupposti di una prima importante tradizione. A par-
te M.Pantaleoni, quasi di lui coetaneo e sicuramente nella sua linea con i "massimi sistemi edonistici" e con
i "criteri di riparto della spesa pubblica", il seme Paretiano appare sicuramente fecondo in Griziotti392, Bor-
gatta393, in Fasiani394. L'anello successivo, più autorevole, lo troviamo in E.d'A., ma ahimè con pochi altri
cultori italiani pronti a proseguire l'insegnamento di Pareto: ci riferiamo, tra i pochi, a G.Sensini395, a G. La
Volpe396 ed a G.Gola397, allievo di E.d'A, a G. Parravicini398. Ricordiamo, infine, un recente excursus di M.
Florio399 su Pareto e di E. Giardina400.
Nel complesso, tuttavia, questa letteratura è rimasta in ombra, sicuramente a causa delle difficoltà
linguistiche. Questo spiega perchè per ottimo Paretiano, tout court, si intende nel mondo quello realizzato
nel mercato di concorrenza, ma che E.d'A., chiamò I criterio Paretiano; e dall'altra parte spiega perchè la
funzione del benessere sociale è ritenuta comunemente una produzione scientifica originale di Bergson e
perfezionata da altri.
Non faremo qui una rassegna del percorso seguito dalla letteratura successiva a Pareto: ad es., se la
funzione del benessere sociale possa configurarsi come la somma delle funzioni di utilità individuali (Ber-
gson, con le complicazioni che sorvoliamo); se le funzioni stesse siano omogenee o se invece occorra, pri-
ma di sommarle, la omogeneizzazione di esse seguendo il giudizio di un terzo (Little); se sia possibile ed
abbia un senso costruire un ordine coerente di preferenze, da valere per tutti, mediante l'aggregazione di or-
dini di preferenza individuali (Arrow); se sia possibile e generalizzabile l'applicazione di un principio di
compensazione, in termini oggettivi, per cui tutti possano migliorare e nessuno peggiorare, grazie all'inden-
nizzo (Kaldor, con le osservazioni di Scitowskj), ecc. .
Ma soprattutto non faremo tale rassegna perchè vi provvide con ingegno e penna impareggiabile lo
stesso E.d'A. in una serie di articoli apparsi nei primi anni '60 sul Giornale degli Economisti401, e in ciascu-
no dei quali apparve martellante il giudizio negativo del nostro sulla presunta novità scientifica di tale lette-
ratura, successiva a Pareto, e per contro la sua tesi di" identità degli schemi" degli autori medesimi con lo
schema Paretiano-sociologico e conseguentemente anche sull'identità della condizione di ottimo della fun-
zione di utilità collettiva.

Ci sono, tuttavia, a nostro giudizio, almeno due aspetti "deboli" in tutta questa letteratura.
Il primo è che, se si ritiene che il problema del no bridge sia "risolto" attribuendo un qualche ruolo
alla "soggettività" del policy maker, poi (ossia ex-post) il progresso scientifico risulta nè più nè meno come
prima, se in sede di consuntivo si trova che il policy maker ha sbagliato i calcoli.
Quanto possano essere rilevanti gli errori del policy maker oggi lo vediamo nei fallimenti dei si-
stemi economici degli ex-Paesi del socialismo reale, ossia di Paesi che dopo aver assunto l'eguaglianza di-
__________
392
Griziotti, B. (1943), Fatti e teorie delle finanze in Vilfredo Pareto, in " Riv. di diritto finanziario e scienza delle
finanze, I.
393
Borgatta, G. (1923), Vilfredo Pareto, in " La riforma Sociale", sett.-ott. ; Borgatta, G. (1948), Vilfredo Pareto", in
"Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", 471.
394
Fasiani, M. (1941), Principî di scienza delle finanze, Vol. I, cap. II, ed. Giappichelli, Torino; Fasiani, M. (1949),
Contributo di Pareto alla Scienza delle finanze, in "Giornale degli economisti", marzo-aprile, 129-73.
395
Sensini, G. (1948), Corrispondenza di Vilfredo Pareto, Cedam, Padova.
396
La Volpe, G. (1987), Convenienza Economica Collettiva e Attività Pubblica nell'Economia (Raccolta di scritti),
CEDAM, Padova 1987.
397
Gola, G. (1960), Fondamenti razionali comuni della economia finanziaria e dell'economia del benessere", Scritti
di finanza pubblica, p. 71 ss., ed. CLUEB, Bologna 1991
398
Parravicini, G. (1967), Sulla teoria delle scelte finanziarie, in "Giornali degli Economisti", luglio-agosto.
399
Florio, M. (1988), Vilfredo Pareto fra Scienza delle finanze e Welfare Economics: alle origini del dibattito sui
criteri di benessere sociale, in "Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze", 489.
400
Giardina, E. (1969), “Le scelte finanziarie ed il massimo paretiano di utilità collettiva”, Scritti scelti (1960-2007),
Franco Angeli, Milano 2008.
401
d'Albergo, E. (1963-64-71), Genesi convergenti ...,cit., Giornale degli economisti.
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stributiva tra gli obiettivi prioritari della loro politica, poi, nel corso degli anni, si sono trovati con un PIL
via via minore da spartire; e lo vediamo nella grande disoccupazione dei Paesi occidentali (13% delle forze
di lavoro, attualmente in Italia), dove l'impegno redistributivo è stato sicuramente notevole negli anni recen-
ti, come è comprovato dal rapporto spesa pubblica/PIL, che in Italia è passato dal 33%, nel 1960, al 55%
nel 2008.
Il secondo aspetto debole di questi modelli redistributivi dell'economia del benessere è che sono
statici, ossia ragionano a bocce ferme.

6 - Il pensiero odierno verso lo Stato minimo e il permanere di alcuni limiti


Se, in applicazione di un criterio distributivo, come il "2° criterio Paretiano", è modificata la di-
stribuzione del reddito tra le classi sociali, e questa ostacola le condizioni di sviluppo, il criterio stesso ri-
sulta, infine, in contraddizione con se stesso, perchè viene a mancare la torta, che è il presupposto perchè
anche in futuro si possa discorrere di distribuzione. Sono considerazioni, peraltro, piuttosto comuni anche
nel pensiero economico passato ma che, di recente, stanno orientando gli economisti verso una comune
proposta di "Welfare State" possibile402, ossia in senso riduttivo.
E.d'A. fu ben consapevole dei limiti del modello Paretiano, sia pur indirettamente. Nel trattare del
principio del sacrificio minimo collettivo, enunciato da Edgewordh, il nostro ci ricorda (condividendone le
preoccupazioni) che la "grande montagna del sapere economico" (come lui lo chiamava), dopo avere enun-
ciato il principio stesso, rimase offuscato da dubbi e riserve: "un'imposta progressiva, ...mentre migliore-
rebbe la distribuzione, ostacolerebbe il risparmio e quindi l'aumento della ricchezza sociale". Come dire
(nostra aggiunta), in futuro verrebbe a mancare la torta, che è il presupposto fondamentale per potere di-
scorrere anche in seguito di distribuzione.
In ciò egli era confortato dal suo grande amico R.D'Addario, che aveva enunciato come "principio
fondamentale della tassazione" che "non potesse accadere che un cittadino più ricco di un altro prima della
tassazione potesse ritrovarsi più povero di lui dopo la tassazione". Ovviamente andava considerata anche la
spesa pubblica, rilevò d'A. all'amico403, e questo valeva anche per Edgeworth.
Quali le possibilità di applicare il modello senza cadere in errore? Questa problematica è stato mol-
to discussa negli scorsi anni.
Uno dei filoni di pensiero, a nostro avviso da ricordare, è quello orientato verso lo Stato minimo e
ultraminimo del benessere. Ricorderemo qualcuno dei numerosi pensatori su questi temi, come Rawls e
Nozick404.
Secondo Rawls405, una concezione della giustizia è un insieme di principî che permettono la scelta
tra i diversi assetti sociali, i quali determinano una data distribuzione consentendo la formazione di un con-
senso sulle giuste distribuzioni. E la più razionale concezione della giustizia sembra essere quella "utilitari-
stica": ogni persona nel realizzare il proprio vantaggio può certamente bilanciare le proprie perdite con i
propri guadagni e quindi massimizzare ciò che è bene è la più semplice e immediata concezione del sogget-
tivamente giusto406.
Proprio come il principio che guida la scelta individuale è di ottenere il massimo per sè, realizzando
il più possibile il proprio sistema di desideri razionali, così il principio della scelta sociale è di realizzare il
massimo bene, definito allo stesso modo, ottenuto sommando il bene di tutti i membri della società, giun-
gendo in modo naturale al "principio di utilità".
In economia, le esigenze dell'efficienza prendono spesso la forma dell'ottimalità Paretiana. Si tratta
di una condizione di "non migliorabilità", rispetto ad una data posizione volontaristica individualista e
quindi restrittiva.

__________
402
AA.VV. (1981), Il Welfare State possibile. Alternative agli insuccessi, in "Raccolta di saggi e interventi ad un
Convegno della Fondazionie Einaudi", ed. Le Monnier, Firenze 1984.
403
d'Albergo, E. (1971), Economia ... cit., vol. I, 326.
404
Nozich, R. (1980), Anarchia, Stato e Utopia, in "AA.VV. (a cura di F.Forte-E.Granaglia), La nuova politica eco-
nomica americana", cap 9, ed. Sugarco, Milano 1980.
405
Rawls, J. (1980), Giustizia distributiva, in "AA.VV. (a cura di F.Forte-C.Granaglia), La nuova politica economi-
ca americana", cap 8, ed. Sugarco, Milano .
406
Si vegga su questo argomento: Forte, F. (1993), Teorie della giustizia e disuguaglianza, cit. 283 ss.; .Zamagni, S.
(1990), Le teorie economiche della giustizia. Un contributo di economia "ingenua", in "AA.VV., Saggi di Politica e-
conomica", a cura di N.Acocella, G.M.Rey, M.Tiberi, ed. F.Angeli, Milano 1990.
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Per Rawls il principio di giustizia va innanzitutto definito deduttivamente in se stesso, come modo
di non farsi ingabbiare da formulazioni semplicistiche. O per meglio dire, vi sono dei "principî di giustizia"
come i seguenti:
1) Ogni uomo ha diritto al massimo di beni primari, compatibilmente con l'uguale diritto degli altri.
Non sono "beni primari" solo le dotazioni di dati beni e servizi ma anche le libertà fondamentali per la cre-
scita della persona;
2) Si possono accettare disuguaglianze nella distribuzione dei redditi e della ricchezza purchè esse
non contrastino con l'esigenza che a tutti siano garantite pari opportunità e portino il massimo beneficio ai
meno avvantaggiati.
Secondo Rawls la società umana è un'associazione regolata da una comune idea della giustizia con
lo scopo di favorire il benessere dei propri membri. E, tuttavia, il patto sociale che consegue non è tanto il
frutto di un compromesso a "metà strada", bensì un patto tra soggetti identici, che convergono automatica-
mente. E' la via che, partendo da determinati "giudizi di valore", diciamo universali, porta allo "Stato mini-
mo", nel quale il governo non solo è "ultraminimo" (per dirla con Nozick, ossia assicura le funzioni classi-
camente fondamentali dello Stato, quali la protezione dei cittadini, ecc.) ma anche condizioni di sufficiente
competitività al mercato (no ad eccessive concentrazioni di proprietà, ecc.), una ragionevole "piena occupa-
zione", un minimo sociale mediante trasferimenti pubblici (indennità familiari, contributi speciali in periodi
di disoccupazione, imposte negative sul reddito) idonei al soddisfacimento dei bisogni individuali fonda-
mentali, e comunque secondo una linea di continuità nella correzione delle concentrazioni di ricchezza.

Questo, dunque, vuol dire che mentre il mercato costituisce un punto fondamentale di riferimento
per la salvaguardia delle condizioni di continuità dello sviluppo, vi sono in esso "devianze" sicuramente co-
sì rilevanti da comprometterne il cammino: da qui la via che giustifica lo Stato minimo, ossia una serie di
correzioni "sicuramente" da apportare, ma non di più, perchè l'andare oltre potrebbe portare più in su ma
anche più in giù, rispetto alla posizione iniziale.
Ci sembra, tuttavia, evidente che queste soluzioni, più che essere la soluzione rigorosa di un pro-
blema allocativo-distributivo, siano dei modi empirici di venire incontro, ex-post, ad esigenze di riassesta-
mento di sistemi economici in crisi, sia pur sulla base di rispettabilissimi parametri oggettivi (caduta del
tasso di crescita del P.I.L., degli investimenti e dell'occupazione).
Secondo noi, la soluzione scientifica ai problemi del benessere non può trovarsi in soluzioni "nor-
mative" (lo è anche lo Stato minimo): come dire il "policy maker", che fa i calcoli, non può essere un pro-
dotto casuale della storia, ma appunto qualcuno che decide sulla base di alcuni precisi dati ex-ante. In que-
sto senso il lavoro di E. d'A. va proseguito.

7 - Come superare i limiti espressi. La Scuola di Public Choice


Secondo noi, i limiti di base del modello Paretiano (2° criterio) sono la "soggettività" del policy
maker e la "statiticità", e quindi è da qui che occorre ricominciare.
Il primo limite, a dir vero, è ancora più precario di quanto sembrerebbe a prima vista se, come nella
letteratura pubblica prevalsa fino a poco fa, il policy maker è configurato univocamente come un "onni-
sciente", o come il "buon governo", almeno per le intenzioni.
Tale presupposto oggi non è più accettato generalmente e, del resto, dopo i fallimenti diffusi dei
modelli di politica economica, è giocoforza ritenere che qualche variabile fondamentale sfugga al modello e
quindi occorra inserirvela. Nel campo distributivo, qui toccato, già vari stati studi hanno mostrato l'aumen-
to, in questi anni, del grado delle disuguaglianze in Italia sia nei rapporti tra enti pubblici407 sia nei rapporti
tra cittadini408, e questo è stato constatato, paradossalmente, a consuntivo di politiche nominalmente eguali-
tarie del governo.
__________
407
In Italia la riforma tributaria del 1971-73 aveva, tra l'altro, motivato la centralizzazione del potere fiscale con la
necessità di garantire uniformemente, a carico dello Stato, il finanziamento degli enti locali, con particolare riguardo al
Mezzogiorno. Ma dieci anni più tardi P.Giarda dimostrava la crescita abnorme degli squilibri finanziari tra gli enti lo-
cali. Si vegga:: P.Giarda, Il finanziamento degli enti locali: linee di riforma con riferimento particolare alle ammini-
strazioni comunali, in "Aspetti del sistema tributario italiano", Camera dei Deputati, Roma 1980.
408
Si vegga: AA.VV. (1993), La crescita ineguale - 1981-1991, a cura di N. Rossi, Primo rapporto CNEL sulla di-
stribuzione e redistribuzione del reddito in Italia, ed. Il Mulino, Bologna; AA.VV. (1992), a cura di P.Bosi e
S.Lugaresi), Bilancio Pubblico e redistribuzione, ISPE, ed. Il Mulino.
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ERNESTO D’ALBERGO, ECONOMIA DELLA FINANZA PUBBLICA
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Seguendo la Scuola di Public Choice, le scelte pubbliche non sono pienamente spiegabili senza
considerare gli interessi personali della classe politica. In questo senso ci ritroviamo a fare i conti con quella
tal funzione di utilità individuale dei soggetti pubblici, che all'inizio abbiamo ricordato come già presente in
passato, e che per lungo tempo (da Pareto e dallo stesso E.d'A.) fu ritenuta non appartenere alla spiegazione
scientifica dell'attività finanziaria pubblica. Non c'è nulla di strano nell'assumere che anche i politici siano
considerati dei "comuni mortali", e che quindi anch'essi siano mossi innanzitutto dal tornaconto individuale,
ma anche da nobili sentimenti altruistici, così come si ritiene avvenga normalmente per i comuni imprendi-
tori privati e per chiunque.
A questo punto, le soluzioni distributive divengono accettabili, ossia ritenute non eccessivamente
devianti rispetto alla soluzione "efficiente", se le decisioni sono prese sulla base di date regole. A questo
proposito la letteratura di public choice409 ha messo in evidenza, riteniamo, con molto buon senso, che sen-
za regole non può derivare nulla di buono da una modifica della distribuzione, perchè tutti saremmo sogget-
ti all'arbitrio del più forte di turno, ma che a sua volta sarà esposto a quello del successivo più forte di turno.
Già tre secoli fa, ricorda questa letteratura, Hobbes (Il leviatano, 1651) aveva scritto che senza regole la vita
sarebbe "solitaria, povera, cattiva, brutale e breve".

Se dunque si assume, come sistema politico, quello democratico e, come regola costituzionale,
quella della decisione a maggioranza, perchè si ritiene che il consenso di una "maggioranza", alle proposte
di programma della classe governante, garantisca relativamente di più, circa l'approssimazione al benessere
collettivo, altrettanto non vi è nulla di strano se si ritiene che la "maggioranza" stessa possa prendere deci-
sioni distributive a danno dei cittadini con reddito medio-alto, semplicemente perchè è composta da cittadi-
ni con reddito medio-basso. E', invece, rilevante che la regola costituzionale garantisca anche l'invertibilità
delle maggioranze, a date scadenze significative in cui valutare i consuntivi dei programmi.
In rapporto a queste ipotesi esplicative della realtà, occorre assumere esplicitamente, come presup-
posti del modello sociologico Paretiano: a) che i cittadini hanno delle proprie funzioni di utilità delle impo-
ste (T) e delle spese pubbliche (G), (per T<= >G)410; b) che la classe governante ha delle proprie funzioni di
utilità dei voti dei cittadini; c) e che il raccordo tra le soluzioni ottimali, separate, dei due ordini di funzioni
avviene mediante la funzione di utilità pubblica, di cui al modello Paretiano, nel senso che la classe gover-
nante (o meglio i vari partiti, aspiranti a governare) ipotizza la funzione stessa, come sintesi delle situazioni
delle classi sociali create dal proprio programma, e si aspetta un voto a favore per ogni variazione positiva
della funzione di utilità del reddito finale (ossia reddito iniziale - prelievo + spesa pubblica) di ciascuna
classe sociale, ed un voto contrario per ogni variazione negativa. Infine, tra più ipotesi di programmi alter-
nativi, i cittadini scelgono quello che dà soluzioni vicine a quelle preferite.411

8 - Verso la impostazione dinamica del modello Paretiano (vale dire, inserendovi il fattore tempo)
Il secondo aspetto di debolezza del modello Paretiano l'abbiamo indicato nel suo carattere statico
(vale dire, non tenendo conto del tempo) per cui, più che questione di una sua insufficienza, si tratta di ve-
derne i limiti, che sono quelli propri dei modelli statici (e non solo di questi).
Se possiamo ricordare, anche il teorema Ricardiano dei costi comparati è valido in statica, ma non
per questo il protezionismo ha avuto un ruolo per lo sviluppo, come visione dinamica. Come dire, il prote-
zionismo permanente genera la povertà; il protezionismo che accompagna le fasi temporanee di trasforma-

__________
409
Si vegga molto efficacemente su questo argomento: Brennan, G. - Buchanan J.M.(1992), Le ragioni delle regole,
(a cura di A.Villani), Franco Angeli, cap. I.
410
La tesi surriferita di E.d'A., secondo cui il II criterio Paretiano abbraccia sia l'aspetto allocativo che quello distri-
butivo si fonda sulla considerazione che il prelievo possa essere diverso dalla spesa pubblica, a livello individuale: os-
sia non si tratti solo di trasformare delle risorse private in risorse pubbliche, come sarebbe se T=G, individualmente,
ma anche di trovarsi con un reddito monetario variato, dato che T è normalmente diverso da G, sempre individualmen-
te.
411
In un nostro studio, Luciani, N. (1994), Economia delle scelte pubbliche ...,cit., abbiamo dimostrato che il mas-
simo della funzione di utilità della classe politica non richiede il massimo numero di voti, perchè i voti costano (per in-
formare i cittadini, organizzare i partiti, ecc.), per cui i politici cercano esattamente il numero di voti in corrispondenza
dei quali la funzione è massima. In tale studio abbiamo anche indicato come un criterio per diminuire tale dissonanza
sia di caricare sul bilancio pubblico i costi di informazione della politica, in modo che i politici non siano frenati nel
portate a tutti i cittadini la conoscenza dei propri programmi elettorali.
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zione verso più alti stadi di sviluppo può generare il benessere. Lo stesso può essere dei vincoli alla distri-
buzione, se inquadrati dinamicamente.
In questo tipo di problemi, le proposte più interessanti per la dinamizzazione delle scelte sono state
che i cittadini (o il Parlamento) decidano preventivamente, a livello costituzionale, le grandi regole del gio-
co (ossia sulle norme di impiegare nella fase post-costituzionale), in modo che ognuno sappia che il criterio
che oggi gioca a suo favore, nella soluzione di un problema, domani potrebbe giocare contro di lui, trovan-
dosi nella situazione di chi oggi è danneggiato412. Così sarebbe anche nel campo fiscale413, relativamente a
criteri redistributivi.
Secondo noi, l'applicazione generalizzata di tale criterio (ossia, decidere prima le regole), mentre
appare, con immediatezza, appropriato per la normativa sui quorum, può non esserlo per i criteri distributi-
vi, perchè qui non sempre le situazioni sono invertibili. Ad es., uno ritiene di essere avvantaggiato, oggi, da
una regola che danneggia i redditi medio-alti, ma anche che non sarà danneggiato, in futuro, da questa rego-
la se, data la sua situazione, non aspira a divenire un redditiere medio-alto.
In realtà, il problema è più complicato in una visione deterministica, come quella della public choi-
ce, e ne è prova il fatto che, in seguito a politiche redistributive oltre un certo limite, il P.I.L. è caduto, e
dunque tutti si sono ritrovati più poveri che nella situazione iniziale.
Per superare i limiti delle valutazioni economiche dovute a insufficienza di orizzonte temporale, in-
dichiamo qui un percorso metodologico, che faccia luce il più possibile, e subito, sul futuro, in modo che il
criterio distributivo del decisore lo abbracci fin da adesso.
Per far questo è sufficiente ridefinire le grandezze oggettive del modello sociologico Paretiano, in
modo che esse non siano intese come i redditi di una collettività in una data unità temporale, ma come i loro
valori attuali. In questo modo è possibile regolare la distribuzione in base alle aspettative dei redditi delle
varie classi sociali, nel tempo, e quindi anche in base alle aspettative di andamento delle rispettive funzioni
di utilità, in rapporto ai bisogni nella successione delle unità di tempo. E', inoltre, possibile tenere conto del-
le aspettative circa la capacità, delle varie classi sociali, di sviluppare reddito nel tempo e, di conseguenza,
creare occupazione. Pertanto, volendo salvaguardare tale capacità, i valori attuali potranno essere calcolati
impiegando i tassi di rendimento attribuiti dal governo alle classi stesse, secondo la sua aspettativa.

Qui di seguito presentiamo pertanto un modello analitico che può aiutare ad interpretare dinamica-
mente il modello Paretiano e quindi anche ad evitare di vederne tout court una base semplificata per giusti-
ficare troppo facilmente politiche redistributive, in condizioni storiche favorevoli a certe classi sociali, ri-
spetto ad altre, ma che sottostima gli effetti negativi sullo sviluppo, nel tempo, delle politiche stesse.
In estrema sintesi il modello è espresso dalla seguente funzione, sotto vincolo, e da valere per scelte
pubbliche:

W = U A ( CA0 ) + UB ( CB0 ) + ... + U N ( CN0 )


C0 = CA0 + CB0 + ... + CN0

In essa W è una funzione del benessere sociale, definita come somma delle funzioni di utilità di tutti
individui A, B, ..., N, di una collettività, ma secondo gli apprezzamenti di un terzo, in dato istante. Questo
terzo potrebbe essere un dittatore o, in democrazia, uno dei partiti che si presentano alle elezioni.
Le variabili indipendenti delle funzioni, CA, CB, ...,CN , sono definite come valori attuali dei red-
diti presenti e futuri, disponibili per la spesa, rispettivamente, per gli individui A, B,..., N, nelle unità tem-
porali da 1 (tempo iniziale) a n (tempo estremo a cui si estende il loro orizzonte temporale). Sia C0 la som-
ma di tutti i valori attuali, e che sono supposti quelli complessivamente oggi esistenti in un Paese o, se si
vuole, nel pianeta Terra.
Una volta definita la funzione come dipendente dai valori attuali dei redditi individuali, l'eventuale
redistribuzione dei redditi stessi tra gli individui diviene un problema di modifica dei loro valori attuali, os-

__________
412
Rawls, J., Giustizia distributiva, in " AA.VV. (a cura di F.Forte-C.Granaglia), La nuova politica ...", cit., 195.
413
In questo senso, cfr.: Buchanan J. - Tullock, G. (1989), Stato, mercato e libertà, con Introduzione di D. da Empo-
li, ed. Il Mulino, Bologna.
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sia delle dotazioni iniziali di risorse, in conto capitale, dei cittadini del Paese. Indichiamo con R1, R2,,...,Rn
tali redditi nella successione delle unità di tempo 1,2,...n.
Pertanto, per l'individuo A (e analogamente per gli altri), il valore CA0 di tali risorse oggi è il valore
attuale dei redditi medesimi, ad un dato tasso di interesse.
L'"interesse", in quanto accumulato via via e aggiunto ai beni preesistenti, ha percentualmente il si-
gnificato di tasso di rendimento delle risorse accumulate nel tempo e quindi indica anche la capacità di svi-
luppo economico, mediante l'attività di produzione. Invece, se detratto da un valore futuro, per ottenere un
valore presente, esso ha nome di tasso di sconto , ed ha il significato di tasso di preferenza dei beni presenti
rispetto ai beni futuri.
Tuttavia, osserviamo che, trattandosi di un tasso di interesse ad uso di scelte pubbliche, non è un
tasso di interesse di mercato, ma un tasso che il decisore pubblico assume, appunto, ai fini di scelte pubbli-
che, a seconda del modo come regoli il rapporto tra le generazioni, presente e future.
Qui si ipotizza genericamente, poi, come di solito, che la funzione di utilità marginale del reddito
disponibile per la spesa sia decrescente, e tuttavia asintotica verso l'ordinata e verso l'ascissa. Si assume,
tuttavia, che il livello della funzione possa essere diverso nelle diverse unità di tempo (la diversità dipende
dagli apprezzamenti del terzo). Per tener conto di questa possibilità le funzioni sono ponderate da coeffi-
cienti (α, β, γ, rispettivamente per gli individui A, B, ecc.), a giudizio del terzo, che valgono a modificare il
livello medesimo.
La funzione di utilità dell'individuo A è, pertanto, espressa qui nel seguente modo:

U A = α 1 U A ( RA1 ) + α 2 U A ( RA2 ) + α n U A ( RAn )


2 n
CA 0 = RA1 v + RA2 v + ... + RAn v

1
ove: v = , fattore di attualizzazione, per i tasso di interesse414.
1+ i

Assumendo che ogni individuo ripartisca al meglio i propri redditi nel tempo, ciascuno di questi,
ossia RA1, RA2,..., RAn, è definibile in termini di CA0. Difatti, con l'impiego di una funzione Lagrangiana,
si ottiene:
2 n
Z = α 1 U A ( RA1 ) + α 2 U A ( RA2 ) + α n U A ( RAn ) + λ ( − CA 0 + RA1 v + RA2 v + ... + RAn v )

le cui condizioni di massimo sono:

__________
414
Come noto il fattore di attualizzazione v è definibile anche come:
v = 1 − d , ove d è il tasso di sconto.

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δZ δU A
= α1 + λv = 0
δRA1 δRA1
δZ δU A 2
= α2 + λv = 0
δRA2 δRA2
...........................................
...........................................
δZ δU A n
= αn + λv = 0
δRAn δRAn
δZ 2 n
= − CA0 + RA1 v + RA2 v + ... + RAn v
δλ

e infine:

δU A δU A 1
α1 = α2
δRA1 δRA2 v
...........................................
...........................................
δU A δU A 1
α n −1 = αn
δRAn −1 δRA2 v
2 n
CA0 = RA1 v + RA2 v + ... + RAn v

da cui si ottengono RA1, RA2,...,RAn in termini di CA0.

Così si procede allo stesso modo per gli individui B, ...N, per cui si ottiene, infine, sommando le ri-
spettive funzioni individuali, la funzione del benessere sociale come formulata all'inizio, e che quindi può
essere interpretata dinamicamente.
In conclusione la funzione del benessere sociale è espressa dal modello:

W = U A ( CA0 ) + U B ( CB0 )+ ...... +U N ( CN 0 )


Co = CAo + CB o + ..... + CN o +

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U A = α 1 U A ( RA1 ) + α 2 U A ( RA2 ) + α n U A ( RAn )


2 n
CA 0 = RA1 v + RA2 v + ... + RAn v

U B = β 1 U B ( RB1 ) + β 2 U B ( RB1 ) + β n U B ( RBn )


2 n
CB 0 = RB1 v + RB2 v + ... + RBn v
................................................................................
................................................................................
U N = γ 1 U N ( RN 1 ) + γ 2 U N ( R N 2 ) + γ n U N ( R N n )
2 n
CN 0 = RN1 v + RN 2 v + ... + RN n v

Come si mostra, la funzione è ottenuta come somma ponderata delle funzioni individuali, dopo aver
espresso R1, R2, ..., Rn, in termini di C0, in condizioni di ottimo per ciascuno degli individui.

Le condizioni di ottimo della funzione del benessere sociale, limitatamente a quelle del primo ordi-
ne (e tralasciando i calcoli), è:

∂W ∂W ∂W
= = ...... =
∂C A o ∂C B o ∂C N o

Co = C Ao + C Bo + ...... + C N o

Si trova che la collettività nel suo complesso migliora il proprio benessere e, in particolare essa si
trova su una posizione di ottimo di livello relativamente più elevato di quello del libero mercato di concor-
renza, se la classe governante modifica la distribuzione dei valori attuali dei redditi, ossia delle dotazioni
iniziali di risorse in conto capitale , tra le varie classi sociali, in modo da eguagliare le utilità marginali
degli stessi, dato il monte di valori attuali complessivamente disponibili.
Ciò, dunque, ripropone ancora la condizione di ottimo proposta da Pareto, salvo per il fatto che le
variabili inidpendenti sono i "valori attuali dei redditi" presenti e futuri, anzichè i soli redditi correnti, al
presente. In altri termini, dati i valori attuali dei redditi futuri, o dotazioni iniziali di capitale, le differenze
positive o negative rispetto alla soluzione normativa devono essere redistribuite, e questo accade finchè le
variazioni positive di utilità di tali valori attuali presso i gruppi sociali sono eguali alle variazioni negative
di utilità presso altri gruppi sociali.
Dopo aver fatto questo, ciascun individuo o gruppo sociale sarà pienamente responsabile nel prose-
guire la sua strada di benessere impiegando le dotazioni assegnate, senza attendersi poi sovvenzioni corren-
ti, e ciò dunque concilia teoricamente equità ed efficienza.

ABSTRACT

Nello studio, qui presentato, introduco ad alcuni elementi della "maggiore" produzione scientifica di E.d'Albergo,
quella che fa discendere le norme agendi della finanza pubblica dalle grandi sistemazioni dell'economia del benessere
collettivo, già delineate dai grandi maestri della scienza economica e particolarmente da V.Pareto.
Secondo d'Albergo la funzione del benessere sociale, delineata da Pareto-sociologo nel 1913, è una base non solo
pionieristica, ma anche così ampia e feconda da ricomprendere tutti gli studi successivamente intervenuti nell'econo-

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mia del benessere collettivo. Essa, inoltre, secondo d'Albergo è il fondamento della scienza delle finanze nei suoi con-
tenuti di economia pubblica.
E' noto, d'altra parte, come frequentemente la funzione stessa sia divenuta una base per giustificare, in modo im-
proprio, gran parte delle politiche redistributive del reddito tra le classi sociali.
Secondo me questo uso "improprio" della funzione è dovuta al mancato approfondimento, da parte degli studiosi,
di alcuni suoi suoi limiti: il primo è la soggettività delle valutazioni di utilità pubblica dei policy makers, e questo no-
nostante che Kaldor già a suo tempo lo avesse sottolineato, proponendo in alternativa il suo "principio di compensa-
zione" in termini oggettivi; il secondo è la staticità della funzione.
Questo studio vuole offrire alcune indicazioni per superare detti limiti, e particolarmente come reinterpretare il
modello Paretiano in termini dinamici. Su questa base, pervengo a suggerire di assumere come variabili da redistri-
buire tra le classi sociali non i rispettivi redditi annuali, ma i valori attuali dei rispettivi redditi futuri, ossia le rispet-
tive dotazioni iniziali di capitale. Questo permette di conciliare, in teoria pura, equità ed efficienza.

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APPENDICE

NINO LUCIANI ∗

THE "2d PARETO’S CRITERION”, E. d’ALBERGO


AND THE SCIENCE OF PUBLIC FINANCE

1. - Premise
2. - Coercive character of financial public activity, according to E. d'A.
3. - Pareto and the two fundamental theorems of welfare economy
4. - Pareto's II criterion and the function of public utility
5. - The following literature by Bergon, Little, Kaldor and others on the function of social wel-
fare, according to E. d'A.
6. - The present thought on the "Minimum State" and some enduring limits
7. - How to overcome enduring limits. The School of Public Choice
8. - Towards the translation of Pareto's model into a dynamic model

1. - Premise
In this study I will introduce some elements of Ernesto d'Albergo's most important production415,
in which it is shown how the norms of action of public finance come from the main arrangements of social
welfare economy, norms that had already been delineated by some great teachers of economy and particu-
larly by Vilfredo Pareto. I will indicate, then, some limits of this production and finally, I will point out
some developments of mine, about Pareto-d'Albergo's model, to bring about further developments.
Pareto occupies a strong position in E. d'A.'s scientific production, even if E. d'A. himself perfectly
knew Pareto's hostility to the recognition of a scientific character to the science fo finances.
According to E. d'A. (and to Pareto), only the explanation of the government's economic action,
based on the hypothesis that they are moved by the aim of satisfying common good, had a scientific dignity.
For this reason no scientific character should be attributed to policy makers' "function of individual utility",
depending on public financial activity, a notion that had already been achieved in C. Cosciani's scientific
work and that had previously been founded in some scholars of the science of finances in Italy - i.e., in
Conigliani. In other words, in E. d'A.'s thought and also in others' (it will be sufficient to check the identical
positions of the fathers of the Italian science of finances: i.e., A.De Viti De Marco, M.Pantaleoni, etc.), it is
necessary to distinguish the sociological and historical becoming, of which also the government's "men" are
part - like all men subject to mortality - from the economic laws in the public field. The scientist econo-
mist's attention must concentrate only to this one.
The time for a scientific explanation of the connections between policy makers' individual utility
functions and public utility function - considered as a base to explain public choices in the economic field -
had not arrived yet. This was the same path already taken by scientists of market economy, with regard to
the relation between the manager's individual motivations and the economic-social reason of the enterprise;
therefore, it could normally happen that an entrepeneur satisfied consumers' interests, mainly pursuing his
__________

Nino Luciani, Full Professor of Science of Public Finance in the University of Bologna, Pupil od E. d’Albergo.
Others Pupils of E. d’A. are been: before me, Guglielmo Gola (Università di Bologna), Giorgio Stefani (Università
di Ferrara); after me, Maria Clara Sellari (Università “La Sapienza di Roma”), Vincenzo Russo (Università “La Sa-
pienza di Roma), Gaetana Trupiano (Università di Roma TRE).
415
d'Albergo, E.(1952), Economia della Finanza Pubblica, Giuffrè, Milano, cap. I; d'Albergo, E. (1963-64-71),
Converging genesis of financial public calculus; Burdens and advantages in the 'Frontier of collective Utility'; Neces-
sary homogenization of contrasting hedonistic greatnesses; Presuppositions of the 'Generality of Pareto's II model;
Logic possibility of translating Welfare functions and schemes connected with plans of financial Budget into Pareto's
model; Topical validity of the Italian rational Genesis of public utility: in "Giornale degli economisti".
425
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Edizione digitalizzata a cura di Nino Luciani, Alm@-DL , Bologna 2009

own interest (profit), but not always (see: monopolistic dominances of market). Thus, there could be also in
public field a dualism between the government's interests and public interest: in public field, this explana-
tion has only recently achieved scientific dignity, thanks to the School of Public Choice, although it is still
far from being completed.
As a consequence, and once clarified this misunderstanding, for E. d'A. the connection with
V.Pareto economist of the welfare had been direct and spontaneous. According to him, the scientific expla-
nation of the "real" scientific character of public finance had already been presented, in a rigid way, by
V.Pareto, under two points of view: the former was the point in which Pareto had delineated the role of the
"ties," of different nature, to the laws of general economic equilibrium and, with this respect, it was easy
for him to indicate taxes and public expenses as ties to be added to Paretos' list ; the latter was the point in
which Pareto framed the maximum of utility "for" and "of the" community, when using its own resources.
I will discuss here this second aspect.

2.- Coercive character of financial public activity, according to E. d'A.


I will not summarize here the main questions of the economy of welfare, but I'll make brief recalls
to
those elements that are more suitable to my introductory purpose416.
According to E. d'A., economist of the public finance, the public financial problem didn't come
from an ideological preference for public economy in order to allocate and distribute the resources of a
community, but from the evidence that the market was enable to allocate resources to private and public use
in an optimal way, because the allocation of resources to public use could not be guided only by prices, de-
fined as the only source of final financing of the public resources.
In his "Theory of voluntary exchange and of collective utility"417, E. d'A. motivated his thesis with
two arguments: a) the former is that the demand of public services is not, in its own nature, "voluntary," but
"coercive": viz., it is decided by the government, which acts as an interpreter of citizens' public needs (an
expression of a "majority" that imposes itself to a "minority", as one would say nowadays), and since indi-
viduals are "forced" to settle the taxes decided by the government, after deducting the amount of public
prices; b) the latter is that, in principle, it is a mistake to talk about "exchange of services without market",
in the government's judgment (then of the "non market"), because such "exchange" is, in its own nature,
always unbalanced: there will always be someone who gains and someone who loses in this type of "ex-
change."
It should be underlined here, that, to those who accept the definition of public good as an "identity"
(Samuelson), E. d'A.'s thesis seems obvious: namely, once the government has decided that public goods
are to be offered, in a certain quantity, even only to one individual according to his own tastes, those goods
are offered "totally " to all citizens, too. No individual, if in disagreement with the above mentioned per-
son's tastes, has the public goods in the precise measure he needs. As a consequence, it is impossible to al-
locate public goods in an optimal way, individually.
This Samuelsonian definition is innovative with regards to previous literature, even if this thesis,
most of the times, is deduced only implicitly. First of all, "public goods and services" were talked about as
equivalent terms. I.e., for A. De Viti De Marco: "We give the name of public services to the goods that the
State produces to satisfy the community's needs"; for M. Fasiani: "It is prevalently recognized that a dis-
tinction between the two economic categories of 'goods' and 'services' offered by the State is, not only,
nearly impossible but also nearly useless. Here and after we will use the two terms without differences".
The same will be for the following generation of economists, and among these I will remember
C.Cosciani who, until the 1964 edition of his "Institutions of science of finances", mentioned Samuelson
(1954) generically, and not with specific reference to his new definition of public good418.
In order to understand this position, it can be useful to remember what happens in private economy.
In the case of goods of consumption, their physical quantity is counted; on the contrary, in the case of dura-
ble goods, their services are counted. In the past the same happened to public durable goods, as well as to
public services.

__________
416
See, among the literature, bigliography at the end of this study.
417
d'Albergo, E. (1958), Teoria dello scambio volontario e dell'utilità collettiva, in "Stato sociale".
418
Cosciani, C. (1964), Istituzioni di scienza delle finanze, ed. UTET, Torino, cap.II.
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The difference between public services and private ones resided, instead, in the sphere of "divisi-
bility": namely, since it was not possibile to use market prices for general public services, one had not the
means for measuring the individual utility of public goods and services, on the basis of different consum-
ers' demand. On the contrary, this was possible for private goods and services.
Furthermore, not even the fact that public goods were at zero marginal cost constituted a subse-
quent way to distinguish them from private ones, since the fixed private costs were at zero marginal cost,
too.

3.- Pareto and the two fundamental theorems of the economy of welfare
Once established that the process of public choice had a coercive character towards the individuals,
(in the sense that it has the same characters of the collectivist systems) the conditions of the best public
choice had to be different from those of the market.
Maybe it is useful to remember some positions of the economy of welfare about the solvency of
this problem419. It is known that, according to Pareto's best, the condition for an efficient use of economic
goods, between traders, is the equality of marginal substitution rates of the exchanged goods, for all of
them.
In pure theory the mechanisms which lead to the realization of such conditions are endless. One of
them is the market of perfect competition, with the use of money. In this type of market, in fact, the prices
of final equilibrium are data for all traders. As a consequence, given a respective monetary income to
spend, each of them divides it among the different goods in order to equal their rate of marginal substitution
to relative prices. If all consumers do that, all the rates of marginal substitution among goods will become
the same for all consumers. This is the content of the first proposition.

From a distributive point of view there are important consequences: among voluntary choices, trad-
ers have the opportunity of altering the initial distribution of the resources given, in order to increase their
own welfare without anyone becoming worse, with respect to the initial position.
Even if this scheme is founded on real greatness, it implicates that before and after the exchange,
the total monetary values possessed are not modified, respectively.
In order to clarify these concepts, and to better explain their continuation, I will use here Edge-
worth's well known box .

__________
419
Among recent institutional texts, see: Balducci, R.- Candela, G. (1991), Teoria della politica economica, Part I,
ed. NIS, Rome.
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Given m and n indifference curves, compatible with the initial availability of two goods, indicated
by point C, (which divides vertically and horizontally, among them, the total availability of the two goods),
respectively for individuals A and B, the two individuals may accept voluntarily the exchange of the goods,
if this allows them to improve their welfare. But it is also probable that none of them agrees to any solution
which could be worse than their initial situation. Precisely, in the box itself, P1 is the maximum limit for
the best of B and together the minimum limit for the worst of A: that is, while B would be very willing to
accept a solution among P1 and Po, A would not. The opposite is for B, beginning from P4 to Pn.

According to traditional theory, the mechanism which regulates the real solution among P1 and P4,
along the curve of contracts, depends on traders' contractual force, that is, from the need that the two have
of the goods. In the box, point P3 is relatively more favorable to A, and point P2 is relatively more favor-
able to B. In general, if the exchange was believed to be too unbalanced and disfavourable for one of the
two traders (i.e., in the case of health services), maybe he (or someone else in the same situation) could
claim some form of public regulation.
This consideration introduces to " Pareto's II criterion" of choice - outside the market area - with so-
lutions that could not be approved voluntarily by all ex-traders, according to the criterion of the area of the
free market.
In order to distinguish the criterion of the market area from that of the public one, the non volun-
taristic one (a less known Pareto's criterion), E. d'A. named the former "Pareto's I criterion", known as
"Pareto's best" (with indifference curves), and the latter "Pareto's II criterion".

Before discussing the "II criterion", I would like to point out how some welfare economists empha-
size that the optimal solutions in the area of market depends not only on the relative prices of goods (as I
have already mentioned above), but also on the initial endowments of traders' goods. Besides, such optimal
solutions are determined without taking into account the external economies and diseconomies. I will ne-
glect them here, even if they could be remarkable elements for public finance, in the form of public goods.
According to the same economists, such initial endowments must be considered in a different way
from the process of adjustment that leads the traders to better their own welfare. The initial endowments are
the result of the distributive rules of a given social order, and there is no argument which could support the
notion that an order is better than another. The reason for this is that the base of the whatever social order is
simply a judgment of value.
Therefore, if, on the base of a new "social pact", a law altered the traders' initial endowments, they
would try again to realize a new process of adjustment along the old curve of contract, within an area othe-
rwise bordered. Again, one would find the conditions of allocative efficiency, but starting from a different
distribution. This is the second fundamental theorem of welfare economy.

I will discuss this thesis briefly and critically. Among the infinite hypothesis representable in the
above mentioned box (graphic 2), let us suppose that the new initial endowment, from which to start for the
adjustment, is indicated from by point D. In this case the bargained solution should take place within the
part P1-P2 of the curve of contract.
If, among the possible solutions before the modification of the initial distribution of resources, the
bargained solution was in point P3 (graphic 1), it would be evident that the new distribution would be unfa-
vourable to A, and advantageous to B (graphic 2).
Under these conditions, if we want to modify the incomes distribution, we will need to take into ac-
count that all men's "original" endowments, like intelligence, body structure and physical strength, are data
not modifiable by man, . This means that the remuneration of "sundry "individuals' productivity must be
"different", too, if this can take place freely. I therefore claim that only the "first" order depends fully on a
judgment of value, while all the others are linked to the first. Therefore the second order, economically
speaking must be a "tied-up order". As a consequence, the application of the second fundamental theorem
starts from rather fragile elements, economically speaking. I.e., would it be consistent to allocate a 1.70 m.
suit long to a 1.50 m. person tall and a 1.50 m. suit long to a 1.70 m. person tall according to the belief that,
in case of error of public choice, the two would exchange clothes, afterwards?
In other terms, the modification of initial distribution, motivated by the argument that order is just
order, is based on such broad indefiniteness of the problem of redistribution, that, in promoting welfare, it is
indifferent to leave things as they are or to modify them.
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There is therefore the need for a precise criterion to justify the modification of distribution. If this
economic criterion embraces the community as a whole, it will have to be based on the demonstration of the
possibility to better the welfare of the whole community, by a modification of existent distribution. This is
the path of Pareto-d'Albergo's scheme, which faces the problem of distribution in a very different light.

4.- "Pareto's II criterion" and the function of public utility


In the case of goods admiting free market, even if perfect competion realizes the conditions of
Pareto's best (I criterion), there could be more than one reason to modify the distribution of resources in a
coercive way , if one demonstrates that collectivity, as a whole, improves the welfare. This was the way of
Pareto in sociology
There is, though, a large number of goods, like public ones (and external economies and di-
seconomies in general), for which it is not possible to realize the free market or which could admit public
market prices, differing in meaning from that of common market prices. For such goods, E.d'A. would say,
in the process of public choice, damages to some individuals and advantages to others are inevitable. There-
fore, "Pareto's best" (I criterion) is not applicable to such goods. This proposition was admitted by
Samuelson, too; even if he had made a particular theory of public goods, with the application of pareto’s
optimum420 .
This characteristic of the process of public choice is not only related to the problem of production
of public goods and services: it is a general characteristic of all public choices. According to E. d'A., the
public choices always redistribute resources among people: then this problem must be faced only with a cri-
terion of redistribution. In fact, according to him, this problem is so wide as to include the allocation prob-
lem as well.
The analytical elements useful for an accurate statement of this problem were already present in
Pareto's sociological model. But this involved a total neglect of the analytical criterion, previously stated by
A.Smith, according to whom, egoism is the only motor of men's economic actions, and the collective wel-
fare is the result of their movements as driven by the price system. There was a need to pass to the concept
of collectivity, in which men were not islands and in which prices had to be abandoned for measuring
value.

__________
420
It is well Knwon that according to Samuelson, P.A. (1954), “The pure theory of public expenditure” (tradotto in
italiano in Teorie della finanza pubblica, a cura di F. Volpi, Franco Angeli, Milano 1975), a good is public if “the con-
sumption of that good by some one does’nt involve any reduction of consumption buy any other members of the col-
lectivity”. See: p. 194 e p. 198.
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There was though a serious obstacle to this step: the no bridge among individual feelings. There
was then a need to invent an expedient (in the place of price system) to measure the utility of the resources
of sundry people who are advantaged or disadvantaged by the modifications of distribution. On the con-
trary, L. Einaudi had supported the theory of "the non-existence of the stethoscope" to overcome "no
bridge"421.
In Pareto's model this expedient resides in "a government's" judgement. One can find the same po-
sition in Pantaleoni (remember that, according to him, the Parliament is the judge). In E. d'A., it is the pol-
icy maker's judgment, as an interpreter of people's judgments. In other terms, the appreciation of the utility
of individual resources is a historic entity, wich varies according to the social classes in charge, and against
which, not even in case of error, single individuals have, in the foreseeable, any defense.
The trouble of ensuing welfare economic literature to build a function of social welfare is well
know.
The problem of overcoming "no bridge" for public choices was resolved by him with two motiva-
tions:
a) the former is that public choices are necessary and they are made in a very normal way. There is
then a need for an approach to the rules necessary for the construction of a function of collective utility. The
only way to avoid chaos, is to give this job to a "third" person, who, in theory, could be an illuminated
man, while in practice he is the so-called "policy maker";
b) the latter is that all men have a common feeling background, this being demonstrated by the fact
that they have very similar reactions to the same action towards them.
Continuing these considerations, it could be interesting to remember that E. d'A. found a historic
trace of the existence of this common feeling background, in the Gospels. He found it in the pages where
Jesus, inside the Temple of Jerusalem, said that the widow, only by giving two small coins to the Temple,
had in fact given much more than the rich Pharisee, with his own talents.
With regard to this common background, these concepts reflect those of Rawls, who will later use
them, but with a more limitative aim to legitimate the "Minimum State." And what about - speaking of
Gospels again - Jesus' directive: "Give the surplus to the poor"? Namely, it was a common feeling that, if
doing something good to anybody doesn't cost anything, why don't do it?
Leaving out of consideration the serious difficulty to resolve the problem of measurement and of
comparison of individual resource utilities, the fundamental importance of Pareto's sociological model is in
the fact that he demonstrated the theoric possibility to bring people to a position of better welfare than the
one that is gained with voluntary exchange. This without the risk of creating new chaos, from which indi-
viduals should start again to reach future adjustments. I will represent these concepts in a new graphic.
Resuming Edgeworth's box, the Po-Pn curve is the curve of traders' possible contracts, with the limit
of not worsening the respective situation of initial welfare. This means that the voluntary contracts possible
are limited to part P1-P4: nearer P4, if B's contractual ability relatively big; nearer P1 if , on the contrary, A's
force is bigger.
Let us hypothesize that the two individuals make an agreement, represented by point P3: this point
is a Pareto's efficient point (I criterion) - or a point of maximum of utility "for" the community - by which
everyone can make his own situation better than the initial one.
With respect to this point, a movement towards Pn, by means of a coercive redistribution made by
the government, would better A's situation, but it would worsen B's; and it would be convenient, for both
individuals if A's welfare increased more than B's welfare decreased. Supposing that the problem of com-
paring the utilities of the two individuals' resources utilities is solved, the maximum of utility - in marginal
terms - of the collectivity is obtained by redistributing resources from A to B (or viceversa) until marginal
benefits are more than marginal damages.
In the same way, a movement towards Po could better B’s situation, but could worsen A’s. In this
case the public welfare does worsen.

__________
421
See, among the topical rivisitations of this theme: Forte, F. (1993), Theories of justice and inequality. Reflections
on Nash, Harsany, Gauthier, Rawls and Barry; Patrizii, V. (1993), Interpersonal comparisons and distributive justice;
Dardanoni, V. - Stroffolini, F. (1993), Ridistribution of income and horizontal equity; Bernasconi, M. (1993), Welfa-
rism and fairness in the theory of collective choices, SIEP- Scientific Reunion 1993, on "Ineguaglianza e re-
distribuzione" Pavia 15-16 October 1993.
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But Government is not sure wich of the two solutions is very preferable. Not always the “Reason of
State” was a good criterion od decision for the collectivity, as a whole.

Extending this criterion to a community, Pareto422 expressed such condition of maximum (II crite-
rion) in this way:

0 = M1 δϕ 1 + M2 δϕ 2 + M3 δϕ 3 +....

where: M1, M2, M3 are coefficients of homogenization (the government's), of the income utility
functions of members belonging to various social classes 1,2,3,...,n. Given the law of the decrease of indi-
viduals' income marginal utility, the function of public utility is maximum if the algebraic sum of marginal
variations of utilities is zero.
Transposed in public finance, utilitarian variations are the benefits and the damages caused to indi-
viduals by new taxes and public expenditures, which are, therefore, the instrument for the redistribution of
incomes among social classes.

Pareto's sociological model is still very topical. It is also important to represent the passage from
the "market" to the "almost market" and finally to the "non market." I.e., a sequence of points within the
field bordered by the initial indifference curve is part of the market; any point outside that field is not part
of the market, because nobody would voluntary accept to worsen his own situation with respect to the ini-
tial one, pre-exchange. A point inside that field, but near an initial indifference curve, indicates a situation
of "almost market", i.e. the result of a monopolistic market, because it shows a disproportion among traders'
contractual abilities, so that almost all the benefit goes to one of them only.
In a situation like the last one, a public regulation of contractual power would be requested by
community as a whole.

5- The following literature by Bergson, Little, Kaldor and others on the function of the social
welfare, according to E.d'A.
Pareto's sociological model appeared in the most prestigious economic journal, Il Giornale degli
Economisti, in 1913. Even if the "noble origins" of social welfare function are commonly attributed to
Bergson (1938), there is no doubt that Pareto's model had had a direct influence on Italian financial scien-
tists much earlier, creating the presuppositions of a first important tradition in Italy. Apart from
M.Pantaleoni, who was almost the same age as Pareto, and who surely was on his line with the publication
__________
422
Pareto, V. (1913), The maximum of utility for a collectivity in sociology, in "Giornale degli economisti e rivista di
statistica".
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of "Maximum hedonistic systems" and "Criterions of public expenditure allocation", Pareto's ideas were
surely productive in B. Griziotti423, G. Borgatta424, in M. Fasiani425. The following link can be found in E.
d'A., and in few other Italian scholars ready to continue Pareto's teaching, such as G.Sensini426, G. La
Volpe427 , G. Gola428, ( one of E. d'A.'s pupils), and G.Parravicini429. I also remember a recent revew of
M.Florio430 e di E.Giardina431 about Pareto.
On the whole, though, this literature stayed in the background, surely because of linguistic prob-
lems. This explains why by "Pareto's best", tout court, one commonly means the best realized in the market
of perfect competition, what E. d'A. named "Pareto's I criterion"; and this also explains why the social wel-
fare function is commonly considered Bergson's original scientific production, improved by others.
I won't survey here the literature following Pareto's: i.e., if the social welfare function can be de-
fined as the sum of individual utility functions(as for Bergson); if these functions are homogeneous or if,
before they are added, they need a homogenization following a third person's judgment (Little); if there is
any point in building a coherent social order of preferences, by means of the aggregation of the orders of
individual preferences (Arrow); if it is possible and extensible to everyone the application of a principle of
compensation, in objective terms, thanks to which everyone could better and nobody worsen their posi-
tions, because of compensation (Kaldor, and Scitowskj's observations), etc.
But the main reason why I won't do such a survey is that it has already been succesfully made by
E. d'A. himself, in a series of articles, published during the early 60s in Il Giornale degli Economisti432. In
each of them E. d'A.'s judgment on Bergson and other's presumed scientific novelty appeared hammering
and negative. On the contrary he defended the thesis of these authors' "identity of schemes" with Pareto's,
and consequently, the "identity of conditions" of the best, for public utility function, too.

There are, though, in my opinion, at least two "weak" aspects in the above mentioned literature.
The former is that, if one thinks that the problem of no bridge is "resolved" by attributing any role
to the policy maker's "subjectivity", then (that is ex-post) scientific progress will turn out to be neither more
nor less than before, if in the final balance one finds out that the policy maker made a miscalculation.
How remarkable the policy maker's mistakes may be, can be seen nowadays in the failure of for-
mer socialist countries' econimic systems, those countries which, after having adopted distributive equality
among the fundamental aims of their policy, later found out that, the G.I.P., to be distributed, had decreased
over the years. We can see an analogous situation in western Countries' big unemployment rate (13% of
work force, today in Italy). In these countris the criterion of redistribution has certainly been applied in re-
cent years, as it is demonstrated by the fact that public expenditure/G.I.P. rate is about 55-60%.
The latter is that these models are static, that is, they don't take time into account.

6- The present thought about the "Minimum State", and some enduring limits
If a distributive criterion, like "Pareto's II criterion", involves a modification of the distribution of
income among social classes, impeding development conditions, it will, eventually, contradict itself, be-
__________
423
Griziotti, B. (1943), Facts and theories of finances in Vilfredo Pareto, in "Rivista di diritto finanziario e scienza
delle finanze", 1943, I.
424
Borgatta, G. (1923), Vilfredo Pareto, in "La riforma sociale", sept.-oct.; Borgatta, G. (1948), Vilfredo Pareto, in
"Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", 471.
425
Fasiani, M. (1941), Principî di scienza delle finanze, Vol. I, cap. II, ed. Giappichelli, Torino 1949; Fasiani, M.
(1949), Contributi di Pareto alla scienza delle finanze, in "Giornale degli economisti", marzo-aprile, 129-73.
426
Sensini, G. (1948), Corrispondenza di Vilfredo Pareto, Cedam, Padova.
427
La Volpe, G. (1987), Convenienza economica collettiva e Attività pubblica nell'economia, (A collection of wri-
tings), ed. CEDAM, Padova.
428
Gola, G. (1960) Common rational foundations of financial economy and of welfare economy, in "Giornale degli
economisti", maggio-giugno. Reprinted in "Scritti di finanza pubblica", p. 71, ed. CLUEB, Bologna 1991.
429
Parravicini, G.(1967), On the theory of financial choices, in "Giornale degli economisti e Annali di economia",
luglio-agosto.
430
Florio, M. (1988), Vilfredo Pareto fra Scienza delle finanze e Welfare Economics: alle origini del dibattito sui
criteri di benessere sociale, in "Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze.
431
Giardina, E. (1969), “Le scelte finanziarie ed il massimo paretiano di utilità collettiva”, Scritti scelti (1960-2007),
Franco Angeli, Milano 2008.
432
d'Albergo, E., Converging genesis ..., cit.
432
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cause resources, which are the presuppositions for a future distribution, will be lacking. These considera-
tions were rather common also in the economic thought of the thought, but they are orienting the econo-
mists towards a common proposal of "possible welfare"433, that is in a reductive sense.
E.d'A. was conscious of the limits in Pareto's model, even if indirectly. While discussing common
minimum sacrifice principle, enunciated by Edgeworth, he reminds us that, after having enunciated the
same principle, he was full of doubts: "a progressive tax, while bettering distribution, would also impede
savings, and therefore the increase of social resources".
These considerations were supported by his close friend R. D'Addario, who had also enunciated as
"a fundamental principle of taxation" that "a person who is welthier than another before taxation cannot, af-
ter taxation, become poorer". Obviously, public expenditure must be taken into consideration, as E. d'A.
revealed to his friend434, and this was the same for Edgeworth.
Which are the possibilities of applying that model without falling in error? These problems have
been much discussed during the latest years.
According to me, there is a current of thought that should be remembered.That is the one which is
directed towards welfare "minimum state" and "ultraminimum state". I will mention here some of the vari-
ous thinkers on these themes, such as Rawls and Nozick435.
According to Rawls436, a conception of justice is that of a set of principles allowing a choice among
various social orders, with a given distribution, and leading to the formation of the approval of correct dis-
tributions. And the most rational conception of justice seems to be the "utilitarian" one: each person, by re-
alizing his own advantage, can certainly balance his own losses with his own earnings. Then, the maximi-
zation of what is good, is the simplest and most immediate conception of what is subjectively right437.
Just like the principle driving individual choice is to obtain the maximum of utility for oneself - re-
alizing one's own system of rational desires as much as possible - the principle of social choice is to real-
ize the maximum good, decided in the same way and obtained by adding the good of all members of soci-
ety, and then by reaching the "principle of utility" in a natural way.
In economy, efficiency requirements often take the form of Pareto's best. It is a condition of "non
improvebility", with respect to a given voluntaristic position of individuals and therefore limitative.
According to Rawls the principle of justice must be determined, first of all, in a deductive way, so
that no one becomes imprisoned by simplistic formulations. Or, better, there are some "justice principles",
like the following:
1) Each man has a right to the maximum amount of primary goods, in so far as other peoples' equal
right allows. "Primary goods" are not only the endowments of given goods and services, but also the fun-
damental freedoms for the person's growth;
2) Inequalities in the distribution of incomes and wealth can be accepted, on condition that they
don't contrast with the need to guarantee everyone equal opportunities and that they bring maximum benefit
to the less advantaged.
According to Rawls, human society is an association regulated by a common idea of justice with
the purpose of favouring its own members' welfare. The ensuing social pact is not the outcome of a "half-
way"compromise, but a pact among identical subjects, who converge automatically. It is the way that, start-
ing from definite universal "judgments of value", leads to the "minimum state", where the government is
not only "ultraminimum" (that is, according to Nozick, it assures the State fundamental classical functions,
such as citizens' protection, etc.) but also the conditions of sufficient competition in the market (a non ex-
cessive concentrations of ownerships, etc.), a reasonable "full occupation", a "social minimum" assured by

__________
433
AA.VV., (1984), Il Welfare State possibile. Alternative agli insuccessi, Meeting of Foundation L.Einaudi, 1981,
ed. Le Monnier, Firenze.
434
d'Albergo, E., Economia ..., cit., Vol. I, p. 326.
435
R. Nozich, R. (1980), Anarchy, State and Utopia, in "Basic Books", New York, 3, 6-7, 10-17, 22-25, 113- 5,
118-119, 297, 333-334.
436
Rawls, J (1977), Giustizia distributiva, in "Le ragioni della giustizia", Biblioteca della libertà, XIV, aprile-
settembre, 65/66, 45-75.
437
See on this subject: Forte, F. (1993), Theories of justice and inequality. Reflections on Nash, Harsany, Gauthier,
Rawls and Barry, SIEP- Scientific Reunion on "Ineguaglianza e Redistribuzione", Pavia 15-16 October 1993;
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433
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public transfers (family indemnity, special contributions in periods of unemployment, negative taxes on the
income), able to satisfy individual fundamental needs, and at any rate according to a line of continuity in
the correction of wealth concentrations.

This means that, while the market is a fundamental point of reference for the safeguard of develop-
ment continuity conditions, there are in it "deviances" so remarkable as to endanger its progress. This le-
gitimates the "minimum state", that is a series of corrections which are to be introduced, but not more than
this, because going beyond that limit could bring higher, but also lower, with respect to the initial position.
It seems evident that these solutions, more than being a rigid solution for an allocative-distributive
problem, are just empirical ways to find adjustments, ex-post, for economic systems in crisis, even if they
are base on reputable objective parameters (i.e., fall of G.I.P. growth rate, fall of investment rate or of occu-
pation).
According to me, a scientific solution of welfare problems cannot be found in "normative"solutions
(such as the "minimum state"). Namely, the "policy maker" should not be a fortuitous product of history,
but someone who decides, ex-ante, on the basis of precise data. Under this aspect E. d'A.'s work must be
pursued.

7- How to overcome the enduring limits. The School of Public Choice


According to me, the limits of Pareto's model (II criterion) are in the subjectivity of policy maker's
judgement and in its "static nature". Then we needs to start again from these limits.
The first limit is more precarious than it would seem at first sight if, as prevailed in public literature
until recently, the policy maker is considered ominiscient, as the "good government", for his intentions.
Today such presupposition is not generally approved anymore and, after many solutions of political
economic models have failed, it is necessary to think that some fundamental variables escape these models,
and that there is a need to insert them. In the distributive field, cosidered here, many studies have already
shown how, in recent years, the degree of inequalities in Italy among local public goverments438, and
among individuals439has increased. All this was a consequence of the government's nominally egalitarian
policy.
According to the School of Public Choice, public choices cannot be fully explained without taking
political class personal interests into consideration. As to this subject one finds again that "public subjects'
individual utility function" which, at the beginning of this paper, I said was already present in C. Cosciani's
works and in others' in Italy before him, but which for a long time had been considered (by Pareto and by E.
d'A.) as non belonging to the scientific explanation of public finance.There is nothing strange in assuming
that also policy makers are "common mortals", and that they are mainly driven by their individual benefit,
but also by their noble altruistic feelings, as commonly happens in private entrepreneurs and in everyone.
At this point, distributive solutions become acceptable, that is they are considered not to be very far
from the efficient solution. This happens if solutions are taken on the basis of the given rules.
Concerning this, Public Choice literature sensibly outlined how, without rules, nothing good can
come from a modification of distribution, since we will all be subject to the strongest in turn person's will
and since this person will be exposed to a future strong person's will himself.
Already three hundred years ago, as this literature points out, Hobbes (Leviathan, 1651) wrote that
without rules life would be "lonely, poor, wicked, brutal and short". Therefore, if we assume as political
system the democratic one and, as a constitutional rule decisions taken by a majority - because we think that
the majority's approval of the ruling social class program guarantees relatively more, in terms of collective
welfare approximation - there is nothing strange in assuming that this "majority" could take distributive
decisions to damage individuals with medium-high incomes, if it is composed by individuals with medium-
__________
438
In Italy, the 1971-73 fiscal reform motivated fiscal power centralization with the need to finance local govern-
ments uniformly - to be payd by the government - with particular respect to the South of the country. But ten years
later. P.Giarda demonstrated that the differences of finances, among local governments, had abnormally increased. Se-
e: P.Giarda, Il finanziamento degli enti locali: linee di riforma con riferimento particolare alle amministrazioni comu-
nali, in "Aspetti del sistema tributario italiano", Camera dei Deputati, Roma 1980.
439
See: AA.VV., La crescita ineguale - 1981-1991, by care of N.Rossi, "First Report to CNEL on the distribution
and ridistribution of income in Italy", ed.Il Mulino, Bologna 1993; AA.VV., by care of P.Bosi and S.Lugaresi), Bi-
lancio pubblico e redistribuzione, ISPE, ed. Il Mulino, Bologna, 1992.
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low incomes. But, it is relevant how the constitutional rule guarantees the reversibility of majorities, at
given significant dates, when it is possible to value policy makers' programs.
As a consequence of these realistic hypothesis, it is necessary to assume expressly, as presupposi-
tions of Pareto's sociological model: a) that voters have thier own utility function of taxes (T) and of public
expenditures (G), (T<=> G)440; b) that politicy makers have their own utility function of people's votes; c)
that the link between optimal solutions, of the two orders of functions, is realized by means of public utility
function, as in the above-mentioned Pareto's model. That is, the political class in charge (or better, political
parties, which aspire to govern) builds the function itself, as a synthesis of social class situations created by
its own program. It expects, then, favourable votes for each positive change in each social class income util-
ity function (that is: initial income - taxes+ public expenditure), and a contrary vote for each negative
change. Finally, among alternative programs, voters choose the one which gives solutions closer to the pre-
fered ones441.

8 - Towards the translation of Pareto's model into a dynamic model


The second weakness of Pareto's model is that it is static. This is a limit, that one generally finds in
static models, that it does not consider the tfactor time.
If I could remember, Ricardo's theorem of compared costs is also static, but this character did not
impede the introduction of protectionism in order to promote further developments. In other words, perma-
nent protectionism results in poverty; transitory protectionism can promote development, and then welfare
state. The same could be said for ties to distribution, if they are seen in a dinamic point of view, with their
effects.
In this kind of problems, the most interesting proposals to obtain dinamic choices were that citizens
(or Parliament) decide in advance, as a constitutional rule, the rule of public choice, so that anyone knows
that the same rule, which at present is favourable to him, in the solution of a problem, could be against him
in the future, when he may be in the situation of the person who is being damaged today442. According to
someone443, this conclusion could be valid also in fiscal field, relatively to distribution criterions.
In my opinion, a general application of this criterion (deciding rules in advance), while seems at
first appropriate to the quorum body of legislation, cannot be to distributive criterions, because here situa-
tions are not always reversible. I.e. someone believes to be presently advantaged by a rule which damages
medium-high incomes, but also that he will not be damaged in the future by the same rule if he does not
want to become a medium-hign rentier.
Actually, from a deterministic point of view, like that of Public Choice, the problem is more com-
plicated. A proof of this being so, as a consequence of redistributive politics beyond a certain limit, the
G.I.P. has fallen down, so that everyone is poorer than he was in the initial situation.
In order to overcome the limits of economic valutations, caused by an insufficient temporal hori-
zon, we will state here a methodological path which can shed light upon the future as much and as soon as
possible , so that the policy maker's distributive criterion will adopt it immediately.
To do this it is sufficient to redefine the objective quantities of Pareto's sociological model, so that
they are not considered as incomes of a collectivity in a given temporal unit, but as their present values. In
this way it is possibile to regulate distribution according to the expectations of various social class incomes
as times goes by and therefore according to the trend expectations of respective utility functions, in relation
to the needs in the sequence of temporal units. It is also possible to take the expectations concerning the
various social classes' ability to increase their income into consideration and, consequently to create em-

__________
440
E.d'A.'s above mentioned thesis (that is, "Pareto's II criterion" embraces allocation and distribution branch) is
founded upon the consideration that, normally, fiscal burden and public expenditure, can be different for each person.
441
See: Luciani, N. (1994), Economia delle scelte pubbliche di beni e servizi, ed. F.Angeli, Milan. In this study I
demonstrated that political class utility maximum doesn't require the maximum number of votes, because votes have a
cost (informing voters, organizing parties, etc.). Then politicians look for the number of votes correspondending to the
maximum function. In this study I also pointed out a criterion to decrease this dissonance, consisting in charging pub-
lic budget for the costs of political of information, so that politicians can freely let all voters know their electoral pro-
grams.
442
See: J. Rawls, "Distributive Justice," AA.VV., La nuova politica economica americana, cit. cap. 8., p. 195.
443
See, in this sense: Buchanan, J.- Tullock, G. , Stato, mercato e libertà, ed. Il Mulino, Bologna.
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ployment. Thus, if one wants to protect this capacity, present values will be calculated using the productiv-
ity rates the government assignes to social classes themselves, according to its expectations.

I will present here an analytical model which can help to interpret Pareto's model in a dinamic way
and also to avoid seeing in the original model a basis to legitimate redistributive policy, in historic condi-
tions favorable to certain social classes, with respect to others, but which underestimates the negative ef-
fects on the income development.
In extreme synthesis the model is expressed by the following function, under tie:

W = U A ( CA0 ) + U B ( CB0 ) + ... + U N ( CN0 )


C 0 = CA0 + CB0 + ... + CN0

In it, the functions of CA ,CB , ... CN, are obtained by the following models, for individuals A, B.
...,N:
U A = α 1 U A ( RA1 ) + α 2 U A ( RA2 ) + α n U A ( RAn )
2 n
CA 0 = RA1 v + RA2 v +... + RAn v

U B = β 1 U B ( RB1 ) + β 2 U B ( RB1 ) + β n U B ( RBn )


2 n
CB 0 = RB1 v + RB2 v +... + RBn v
................................................................................
................................................................................
U N = γ 1 U N ( RN1 ) + γ 2 U N ( RN 2 ) + γ n U N ( RN n )
2 n
CN 0 = RN1 v + RN 2 v + ... + RN n v

In the first model W is a function of social welfare, defined as a sum of the utility functions of indi-
viduals A, B,... N, of a community, in which the utility is estimated by a "third person" with his own coef-
ficients of homogenization, in a given moment. This third person could be a dictator or, a democratic party
presenting its program for the elections.
The independent variable of functions, CA, CB, ...,CN, are "present values" of incomes, from 1 to
n temporal units, respectively for individuals A, B,..., N. These incomes are defined as available for con-
sumption. C0 is the sum of all present values, existing at present in the Country, or in the planet.

Once defined the function as dependent on present values of individual incomes, the possible redis-
tribution of incomes, among the individuals, becomes a problem of modification of their present values,
that is of the initial endowments of capital resources of the individuals of a county (that is, it is a modifi-
cation, in one year, of the distribution of national income).
As it is known, the present value is calculated by a rate of interest.
"Interest," as something added to existing savings, has the meaning of a rate of return of the re-
sources accumulated over the years. Therefore, it also indicates economic development ability, through
production activity. However, we can see that, being an interest rate used for public choices, it is not an in-
terest rate of market, but a rate that the policy maker assumes in order to make public choices, according to
the way he regulates the relationship between present and future generations.
I hypothesize here generically, as usually, that income marginal utility function is diminishing, but
asymptotic towards the ordinate axis and toward the abscissa axis. It is assumed, though, that the trend an
the level of the function can be different in different time units (the difference depends on the third person's
appreciations). To take this possibility into account, functions are pondered by coefficients (###, ###, ###,
436
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respectively for the individuals A, B, ...N), according to the third person's judgement. These coefficient can
alter the level of functions.

A's income utility functions is then expressed in the following way:

U A = α 1 U A ( RA1 ) + α 2 U A ( RA2 ) + α n U A ( RAn )


2 n
CA 0 = RA1 v + RA2 v + ... + RAn v

1
where: v = is the factor of actualization, and i is the rate of return.
1+ i

Assuming that each individual allots his incomes at best during the time, each income (RA1,
RA2,..., RAn).can be defined in terms of CA0, in condition of best. In fact, using a Lagrangian function, one
obtains:
2 n
Z = α 1 U A ( RA1 ) + α 2 U A ( RA2 ) + α n U A ( RAn ) + λ ( − CA 0 + RA1 v + RA2 v + ... + RAn v )
whose conditions of maximum are:

δZ δU A
= α1 + λv = 0
δRA1 δRA1
δZ δU A 2
= α2 + λv = 0
δRA2 δRA2
...........................................
...........................................
δZ δU A n
= αn + λv = 0
δRAn δRAn
δZ 2 n
= − CA0 + RA1 v + RA2 v + ... + RAn v
δλ

and at the end:

δU A δU A 1
α1 = α2
δRA1 δRA2 v
...........................................
...........................................
δU A δU A 1
α n −1 = αn
δRAn −1 δRA2 v
2 n
CA0 = RA1 v + RA2 v + ... + RAn v

from which one can obtain RA1, RA2,...,RAn in terms of CA0.

One deals with individual B as well as for individual A, and so on for N. In the end, after adding re-
spective individual functions, the social function is obtained, as above formulated, and then it can be inter-
preted in a dynamic way.

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As it is shown, the function is obtained by adding individual functions, after having expressed R1,
R2, ..., Rn, in terms of C0, in conditions of best for each individual.

In conclusion, social welfare function is expressed by this final model:

W = U A ( CA0 ) + U B ( CB0 ) + ... + U N ( CN0 )


C 0 = CA0 + CB0 + ... + CN0

The conditions for best, of this function, within those of the first order (and omitting calculuses),
are:

∂W ∂W ∂W
= = ...... =
∂CAo ∂CB o ∂ CN o
Co = CAo + CBo + ...... + CN o

One finds out that the collectivity as a whole better its own welfare and, in particular it is situated
on a position of best, in a relatively higher level relatively higher than that of free competition market, if
the political class in charge alters the distribution of present values of incomes, that is capital resources,
among social classes in order to equal their marginal utilities, beside individuals (or social classes), given
the amount of capital resources available. This proposes again the best condition enunciated by Pareto in a
different form (making equal to zero the utility variations of the incomes for social classes), except for the
fact that independent variables are "actual values of incomes", rather than only current incomes, in the pre-
sent temporal unit. In others words, given present values of future incomes, or initial endowments of capi-
tal, the positive or negative differences from normative solutions must be redistributed, and this happens
until their positive utility variations beside social groups is equal to negative utility variations beside other
social classes.
After this, each individual or social class will be able to run responsibly on his way, without wait-
ing for current finance, this making equity and efficiency compatible.

ABSTRACT

In this study I will introduce some elements of Ernesto d'Albergo's most important production, in which it is shown
how the norms of action of public finance come from the main arrangements of social welfare economy, norms that
had already been delineated by some great teachers of economy and particularly by Vilfredo Pareto. I will indicate,
then, some limits of this production and finally, I will point out some developments of mine, about Pareto-d'Albergo's
model, to bring about further developments, in dynamic terms.
This proposes again the best condition enunciated by Pareto (making equal to zero the utility variations of the in-
comes for social classes), except for the fact that independent variables are "actual values of incomes", or initial en-
dowments of capital, rather than only current incomes, in the present temporal unit.
After this, each individual or social class will be able to run responsibly on his way, without waiting for current fi-
nance, this making equity and efficiency compatible.

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Zamagni, S. (1990), Economic theories of the justice. A contribution of "ingenous"economy, in "AA.VV., Works of
Political Economic", by care of N.Acocella, G.M.Rey, M.Tiberi, ed. F.Angeli, Milan 1990.

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Elenco delle Pubblicazioni di Ernesto d’Albergo

1929 1) Il contributo di miglioria e le imposte speciali, in "Studio Editoriale Moderno", s.l.


2) Le rivalutazioni patrimoniali e l'imposta di ricchezza mobile, in “Rivista di Politica Economica", Roma.
3) L'imposta personale, Milano Locatelli & Sommaruga, s.l.
4) Le ultime vicende della politica monetaria degli Stati Uniti, in "Rivista di Politica Economica", Roma.
5) Aspetti e tendenze della nuova politica economica dell'Italia, in Studio Editoriale Moderno, Catania.
1930 6) Considerazioni sulla riforma della finanza locale 'in Italia, in "Rivista Internazionale di Scienze Sociali e
Discipline Ausiliarie", Milano, s.l.
1931 7) I limiti di convenienza dei prestiti esteri, in "Giornale degli economisti e annali di economia", Cedam, Pa-
dova.
8) La crisi dell'imposta personale sul reddito, Cedam, Padova.
9) Nuovi orientamenti della finanza pubblica inglese (Verso il tramonto del self-government?), in "Rivista di
Politica Economica", Roma.
10) Osservazioni critiche intorno alle "imposte sugli scambi", in "Giornale degli economisti e annali di eco-
nomia", Cedam, Padova.
11) Del principio "produttivistico" nei sistemi di imposizione personale del reddito, in "Giornale degli eco-
nomisti e annali di economia", Cedam, Padova.
1932 12) Intorno al concetto di costo dell'attività finanziaria, in "Annali di Economia dell'Università Bocconi",
Milano.
13) Reddito e imposte. Saggio critico sul produttivismo nell'attività finanziaria, in "Rivista Internazionale di
Scienze Sociali", luglio, Milano.
14) I limiti di convenienza nei prestiti esteri, in "Rivista di Statistica", s.l.
15) I presupposti dello Stato Corporativo e il fondamento dell'imposizione, in Atti del II Convegno di Studi
Sindacali e Corporativi, Ferrara.
1933- 16) Nuovi studi sull'ammortamento del debito pubblico, in "Giornale degli economisti e annali di economia",
34 Cedam, Padova.
17) Della sensibilità delle imposte in rapporto alle fluttuazioni economiche, in "La Riforma Sociale", Torino.
18) Sulla recente riforma dell'imposta complementare sul reddito, in "Il Giornale Economico", s.l.
19) Della bilancia dei pagamenti, in "Giornale degli economisti e annali di economia", Cedam, Padova.
1935 20) Sulla neutralizzazione della sensibilità congiunturale delle imposte, in "Rivista Intemazionale di Scienze
Sociali", Milano.
21) La condensazione delle aliquote dell'imposta sugli scambi in recenti riforme legislative, in "Giornale de-
gli economisti e annali di economia", Cedam, Padova.
22) Aspetti statistici della finanza corporativa, in "Barometro Economico Italiano", Roma.
1936 23) Politica tributaria hitleriana e teoria degli "sgravi fiscali", in "Rivista Internazionale di Scienze Sociali",
Milano.
24) Sul metodo nello studio della finanza pubblica, in "Rivista Internazionale di Scienze Sociali", Milano.
25) La funzione della banca e gli effetti economici dell'imposizione, in "Rivista Bancaria - Minerva Banca-
ria", Milano.
26) Di alcuni rapporti fra Banca Privata e Stato, in "Rivista italiana di Scienze Economiche", Bologna.
27) Guerra e movimento produttivo, in "Raccolta di "Studi economici finanziari corporativi" ", Roma.
1937 28) La determinazione della risultante" del Barone e i dati del problema finanziario, in "Annali dell'Univer-
sità di Ferrara", Ferrara.
29) A proposito di "diffusione " dell'imposta, in "Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze",
Giuffrè, Milano.
30) Discriminazione delle spese pubbliche indivisibili ed elisione delle "rendite di potezione", in "Rivista di
studi senesi", 1936 e in "Studi in onore di F. Flora", Zanichelli, Bologna, pp. 134.
31) L'economia italiana nel 1936 - VII - Finanza Statale, in "Rivista Internazionale di Scienze Sociali", Mi-
lano.
32) Problemi della finanza italiana, Cedam, Padova.
33) Politica de1 credito e congiuntura, in "Rassegna Monetaria", s.l.

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1938 34) L'autarchia e il problema della valuta, in "Giornale degli economisti e annali di economia", Cedam, Pa-
dova.
35) Sul carattere di tributo reale dell'imposta straordinaria immobiliare, Cedam, Padova.
36) L'economia italiana nel 937 - VIII - Finanza Pubblica, in "Rivista internazionale di Scienze Sociali”, Mi-
lano.
37) Il principio del reddito distribuito come imponibile nel nuovo finanziario italiano, in "Rivista Bancaria -
Minerva Bancaria", Milano.
38) Sul carattere di tributo reale dell'imposta straordinaria immobiliare, Cedam, Padova.
39) Redditi (denuncia obbligatoria dei) - Redditi superiori a Lire 10.000 (Imposta sui), in "Nuovo Digesto
Italiano", Torino.
1939 40) Il problema finanziario e le nuove teorie economiche, in "Giornale degli economisti e annali di econo-
mia", Cedam, Padova.
41) La politica finanziaria dei grandi Stati dal dopoguerra ad oggi, ed. I.S.P.I., Milano.
42) Principi di scienza delle finanze, "Appunti per gli studenti", Giuffrè, Milano, pp. 364.
43) Il nuovo "piano" finanziario tedesco, in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Milano.
1940 44) Les banques italiennes, in "Enquêtes sur les changements de structure du crédit et de la banque", 1918-
1938, Paris, Recueil Sirey.
45) Aspetti della recente riforma fiscale, in "Giornale degli economisti e annali di economia", Cedam, Pado-
va.
46) Tasse sulle società commerciali, in "Nuovo Digesto Italiano", Torino.
47) Sovraimposte, in "Nuovo Digesto Italiano", Torino.
48) Finanza pubblica, in "Rivista Internazionale di Scienze Sociali", Milano.
49) La situazione economica internozionale, Cedam, Padova.
1941 50) Politica finanziaria, reddito e risparmio nell'economia dal dopoguerra ad oggi, in "Notiziario Economi-
co", Cariplo, Milano.
51) Politica finanziaria reddito e risparmio nell'economia del dopoguerra, in "Notiziario economico", Cari-
plo, Milano.
52) Il rischio dell'impresa e l'ordinamento corporativo, in "Rivista Bancaria delle Assicurazioni e dei Servizi
Tributari", Milano.
1942 53) Problemi tributari e assicurativi. Alcune relazioni fra politica finanziaria, reddito e risparmio, ed. A.
Giuffrè, Milano, pp. 262.
54) Sulla misurazione degli effetti economici delle imposte, in "Giornale degli economisti e annali di econo-
mia", Cedam, Padova.
55) Aspetti della revisione generale degli estimi dei terreni, in "Rivista Bancaria delle Assicurazioni e dei
Servizi Tributari", Milano.
56) Il problema monetario nel dopoguerra, Arti Grafiche Pacini Mariotti, Pisa.
57) Riforme e rilievi in tema di tassazione degli utili di guerra, in "Rivista Bancaria delle Assicurazioni e dei
Servizi Tributari", Milano.
58) L'agricoltura e gli utili di congiuntura bellica soggetti a tassazione, in "Rivista Bancaria delle Assicura-
zioni e dei Servizi Tributari", Milano.
59) Il fattore finanziario e l'impiego del potenziale di lavoro, in "Rivista Bancaria delle Assicurazioni e dei
Servizi Tributari", Milano.
60) Alcune relazioni fra politica finanziaria, reddito e risparmio, in "Atti della Vlll Riunione Scientifica"
della Società Italiana di Demografia e Statistica, s.l.
61) Scienza delle Finanze. Cenni teorici sulla finanza ordinaria e straordinaria ad uso degli studenti, Ed.
Universitarie, Bologna, pp. 448.
1943 62) Sviluppi di un teorema finanziario e sue relazioni con il massimo benessere, in "Studi in memoria di Gu-
glielmo Masci", Giuffrè, Milano, pp. 382.
63) Il nuovo regime fiscale dei redditi fondiari, in "Rivista Bancaria delle Assicurazioni e dei Servizi Tributa-
ri", Milano.
1944 64) Scienza delle finanze ad uso degli studenti, 2a ed., UPEB, Bologna, pp. 639.
65) Moneta, Credito e Risparmio per il finanziamento della ricostruzione, in "Rivista Bancaria - Minerva
Bancaria", Milano.
1945 66) Prestiti e imposte nelle nuove teorie e nell'esperienza bellica, in "Studi dell'Istituto di Scienze Economi-
che e Statistiche dell'Università di Milano", Milano, pp. 256
67) Esperimenti di stabilizzazione monetari, in "Il problema monetario italiano", s.l.

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1947 68) Tutela del risparmio e controllo del credito nella costituzione italiana, in "Rivista del Commercio", Ro-
ma
69) Manovra del credito e stabilizzazione monetaria, in "Rivista del Commercio", Roma.
70) Misure urgenti e "riforme " tributarie, in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Milano.
71) Problemi dell'emigrazione italiana, Zuffi Editore, Bologna.
1948 72) Effetti delle imposte e teorie del 'full employment", in "Economia Internazionale", Genova
73) Restaurazione economica e "segreto bancario ", in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Milano.
1949 74) L'analisi Pareto-Slutzky della domanda e la teoria delle imposte sui consumi, in "Vilfredo Pareto l'eco-
nomista e il sociologo", Casa Editrice Rodolfo Malfassi, Milano, e in "Giornale degli economisti e annali di
economia", Cedam, Padova.
75) Proporzionalità e progressività dei tributi nelle carte costituzionali italiane, in "Annali dell'Università di
Palermo", Facoltà di Economia e Cormmercio, Palermo.
76) Benessere materiale e morale sociale, in "Rivista Idea", s.l.
Orientamenti per una revisione del sistema tributario italiano, STEB, Bologna.
L'opera e il pensiero di Renzo Fubini, in "Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze", Giuffrè,
Milano.
79) Aspectos de la politica fiscal de Italia después de la guerra, in "Revista de la situacion economica en Ita-
lia", Roma.
1950 80) Di una introduzione allo studio teorico della economia finanziaria, in "Rivista di Diritto Finanziario e
Scienza delle Fìnanze", Giuffrè, Milano.
81) Il fattore fiscale e le unioni economiche, in "Rivista di Politica Economica", Roma.
82) Gino Borgatta, in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Milano.
83) Beitrage zur finanzwissenschaft und zur geldtheorie - Festschrft fur Rudolf Stucken, Vandenhoeck &
Ruprecht, Gottingen.
84) Le stanze di compensazione in Italia. I prorogati pagamenti, in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria",
Milano.
85) Mauro Fasiani, in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Milano.
86) Rilievi sui progetti di "Riforma Tributaria" in discussione in Italia, in "Studi Economici", Napoli.
1951 87) Economia della finanza pubblica, (Corso di lezioni do scienza delle finanze), ed. STEB, Bologna .
88) Les problèmes de l'économie financière traditionelle et la théorie Keynèsienne, Conférence faite à la Fa-
culté de droit de Paris, in "Revue de Science et de Législation Financières", Paris.
89) Theoritische darstellungsmethoden des problemes det unterschiedlichen erfabbarkeit der steuerobjekte
bei direkter besteuerung, in "Festschrift fur Rudolf Stucken", s.l.
90) Sur la double taxation de l'épargne, in "Revue de Science et de Lègislation Financières", Parigi.
91) L'hétérogénéité logique de la taxation du revenu consommé et du revenu produit, in "Revue de Science et
de Législation Financières", Paris.
1952 92) Di una proprietà dell'imposta progressiva alla luce della "matematica fiscale" e della economia finan-
ziaria, in "Giornale degli economisti e annali di economia", Cedam, Padova..
93) Economia della finanza pubblica (nel corso di lezioni universitarie di Scienza delle finanze), STEB, Bo-
logna.
94) Sul progetto di legge per la finanza locale, in "Camera di Commercio Industria e Agricoltura di Milano,
Milano.
95) Genesi e tassazione di alcuni consumi voluttuari, in Rivista "Lo Spettacolo", s.l.
1953 96) Legislazione tributaria e produttività, in "Produttività", s.l.
97) Homogeneidad secular de las premisas de la cooperacion financiera internacional, in "Revista de la
situacion economica en Italia", Roma.
98) Sameness of the premises of international financial cooperation throughout time, in "Review of the Eco-
nomic Conditions in Italy", Roma.
99) Il problema della regolarità dell'occupazione. La disoccupazione ciclica e la sua Prevenzione, in "Atti
della Commissione Parlamentare d'inchiesta sulla disoccupazione", Roma.
100) Gino Borgatta, in "Studi in onore di Gino Borgatta", Vol. II, Istituto di cultura bancaria, Milano, pp.
363.
101) Contrapposizione razionale degli schemi per lo studio degli effetti economici delle imposte, in "Studi in
onore di Gino Borgatta", Vol. I, Istituto di cultura bancaria, Milano, pp. 338.

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1954 102) Di una proprietà dell'imposta prograssiva alla luce della matematica finanziara e dell'economia finan-
ziaria, Cedam, Padova, pp. 489.
103) Vecchia" teoria finanziaria e "nuove" incomprensioni, in "Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle
Finanze", Giuffrè, Milano.
Un aspetto della differenziazione tra economia e diritto, in "Studi Senesi", in memoria di 0. Vannini, 1954-
1955, Siena.
104) Alcuni rilievi critici intorno all'imposta sulle società, in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Milano.
106) Rettifiche di opinioni in tema di esenzioni e contributi, in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Mila-
no.
1955 107) Brevi note sull'ammortamento e sui “limiti” del debito pubblico, in "Studi in onore di Luigi Nina", s.l.
108) Politica doganale e sviluppo economico, in "Rassegna di Diritto e Tecnica Doganale e delle Imposte di
Fabbricazione", Roma.
109) L'applicazione al settore aziendale della legge per il risarcimento dei danni di guerra, in " Rassegna
Giuridica ed Economica sui danni di guerra", Roma.
110) Leggi "giuste " e nostra struttura economica, in "La proprietà Edilizia Lombarda", s.l.
111) Appunti Economia Bancaria, in C.I.D.A., Istituto Superiore per la Direzione Aziendale, s.l.
1956 112) Sulla tutela dell'avviamento commerciale, Ed. Industria Tipografica Imperia, Roma, pp. 150.
113) Messaggio e visita alla Scuola di Losanna, in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Milano.
114) Economia della finanza pubblica ed economia bancaria nell'ordinamento degli studi, in "Rivista Banca-
ria - Minerva Bancaria", Milano.
1957 I15) Visioni teoriche e impressioni politiche nella "manovra" di una imposta di fabbricazione, in "Rassegna
di Diritto e Tecnica Doganale delle Imposte di Fabbricazione", s.l.
116) Sull'indirizzo scientifico di Benvenuto Griziotti, in "Giornale degli economisti e annali di economia",
Cedam, Padova.
117) L'economia italiana nel 1956, in Rivista "Economia e Storia" s.l.
118) Una politica di libertà economica per il progresso sociale, Conferenza tenuta in Firenze a cura del Co-
mitato d'intesa Interconfederale, s.l.
119) Remarks on Italy's public debt policy, in "Review of the Economie Conditions in Italy",. Roma.
120) Observaciones sobre la politica italiana de deuda publica, in "Revista de la situacion economica en Ita-
lia", Roma.
121) Il controllo ortodosso del credito nelle condizioni postbelliche, in "Rivista Bancaria - Minerva Banca-
ria", Milano.
1958 122) Una visione prekeynesiana della 'fiscal policy', in "Studi Economici", Napoli.
123) Schemi di Pantaleoni e visioni odierne in tema di effetti economici delle imposte, in "Giornale degli e-
conomisti e annali di economia", Cedam, Padova.
124) Teoria dello "scambio volontario" e dell'utilità collettiva, in "Stato Sociale", Torino.
125) Finanze e tributi: osservazioni sull'aspetto fiscale del mercato comune, in "Comunità Economica Euro-
pea", s.l.
126) Il regime fiscale delle operazioni di borsa, Giuffrè, Milano.
127) In tema di "neutralità della scienza e di "idee-guida", s.l.
1959 128) Premesse scientifiche generali e teoria dell'illusione finanziaria, in "Economia Internazionale", Genova.
129) Incontri sui problemi della legislazione, in "Rassegna Parlamentare", Giuffè, Milano.
130) Inattualità e fallacia delle imposizioni sulle aree e sull'incremento di valore degli immobili, in "La pro-
prietà edilizia lombarda", s.l.
131) Appunti sulla finanza pubblica produttivistica in rapporto allo sviluppo economico, Scuola di Sviluppo
Economico, Unione Italiana delle Camere di Commercio, Industria e Agricoltura, Roma.
1960 132) Economia bancaria, "Centro di studi aziendali", Napoli.
133) Considerazioni finali sul sistema tributario nei sei Paesi del M.E.C., in "Atti del Convegno degli esperti
fiscali dei Paesi del M.E.C.", Giuffrè, Milano.
134) Sui limiti di discrezionalità del sistema bancario nella creazione di moneta creditizia, in"Rivista Banca-
ria - Minerva Bancaria", Milano .
135) Sull'interpretazione delle norme fiscali del trattato istitutivo del Mercato Comune, in "Rivista Bancaria
- Minerva Bancaria", Milano.
136) Il bilancio statale nella teoria e nella realtà, in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Milano.
1961 137) Paradossi sul ruolo del fattore fiscale nella determinazione del "reddito d'impresa", in "Saggi di eco-
nomia aziendale e sociale, in onore di G. Zappa", Vol. I, Milano, pp. 680.
138) Rilievi critici sull'ordinamento dell'imposta generale sull'entrata, in Convegno di Studi di Politica Eco-
nomica e Finanziaria", Torino.
139) Per una nuova disciplina delle società per azioni e delle attività di borsa, in "Rassegna Parlamentare",
Giuffrè, Milano.

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1962 140) Elementi volontaristici e coattivi nei rapporti finanziari con gli Enti pubblici, in "Stato Sociale", Torino.
141) I principi direttivi per la riforma della pubblica amministrazione, in "Rassegna Parlamentare", Giuffrè,
Milano.
142) In tema di applicazione dell'imposta sulle anticipazioni e della surrogata imposta di registro, in "Diritto
e pratica tributaria", Cedam, Padova.
1963 143) Per il progresso degli studi finanziari, in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Milano.
1963- 144) Finanza pubblica e benessere, in "Giornale degli economisti e annali di economia", Cedam, Padova.
!964
1964 145) Problemi economici della legislazione urbanistica, ed. Giuffrè, Milano, pp. 453.
1965 146) In tema di "svolte" nella teoria della finanza pubblica, in "Studi in onore di G. Zingali", Economia Fi-
nanza e Statistica, Vol. I, A. XX Giuffrè, Milano, pp. 672, e in "Economia Internazionale", 1967, Genova .
147)Psychologie sociale, finances publiques et économie du bien-etre, in "Finanzarchiv", Mohr, Tubingen.
148) Pieno impiego, inflazione e 'fiscal policy, in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Milano
149) Brevi note sull'ideale di giustizia nella scienza delle finanze, in "Studi in memoria di Carmelo Sgroi
(1893-1952), s.l.
1966 150) Gli effetti di imposte e spese del bilancio in regime collettivistico, in "Studi in onore di Marco Fanno",
Vol. I, Cedam, Padova, pp. 596, e in "Giornale degli economisti e Annali di Economia", Cedam, Padova.
1967 151) Considerazioni sulla riforma tributaria, in "Confedilizia", Roma.
152) La tassazione delle plusvalenze patrimonialí, in "Associazione nazionale tributaristi italiani; Atti del IX
congresso nazionale", Cedam, Padova.
153) Sulla logica dei sistemi tributari vigenti o possibili, in "Nel corso di lezioni universitarie", Bulzoni,
Roma, 1967-68.
154) Sommario di Economia Bancaria, in "C.I.D.A.- Istituto Superiore per la Direzione Aziendale", s.l.
1968 155) Il fondamento logico dell'imposta sugli introiti lordi, in "Studi sull'imposta sulle vendite", Facoltà di
Giurisprudenza, Giuffrè, e in "Saggi in onore del Centenario della Ragioneria Generale dello Stato", 1969.
156) Un'identificazione di schemi per l'economia finanziaria, in "Giornale degli Economisti e Annali di Eco-
nomia", Cedam, Padova.
1969 157) Necrologio, in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Milano.
158) Aspetti del regime tributario dei titoli obbligazionari pubblici, in "Rivista Bancaria - Minerva Banca-
ria", Milano.
159) Potere statale "e" regionale nella politica di piano?, in "La pianificazione regionale: problemi e teoria
di metodo nelle esperienze italiana e straniera", Atti del Convegno Internazionale di Sorrento 12-14 sett.
1968, ed. Marsilio, Padova, pp. 275.
1970 160) Sulle classificazioni tributarie nei rapporti internazionali, in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria",
Milano.
161) Sulla riforma tributaria, in "Rassegna Parlamentare", Giufrè, Milano.
162) Genesi convergenti del calcolo finanziario pubblico, in "Giornale degli economisti e annali di econo-
mia", Cedam, Padova.
163) Striking outlines of De Viti De Marco "First Principles", in "Rivista internazionale di scienze economi-
che e commerciali", s.l.
164) Economia della finanza pubblica, v. I e v. Il (con Aggiornamenti), Giuffrè, Milano.
1972 165) Relativizzazione di un teorema, in "Studi in onore di G. U. Papi", Cedam, Padova
166) Nemesi della logica finanziaria (modi e limiti di una tassazione surrogatoria di operazioni bancarie), in
"Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Milano.
167) Tendenze economiche in atto e programmi di rilancio dello sviluppo, in "Rivista Bancaria - Minerva
Bancaria", Milano
168) Finanza pubblica e benessere in unico modello, in "Studi in memoria di Antonio De Viti de Marco, Ca-
cucci, Bari..
1973 169) Basi reali della cooperazione monetaria, in "Giornale degli economisti e annali di economia", Cedam,
Padova.
1974 170) Divisione dei poteri e contenzioso tributario, in "Studi in onore di Giuseppe Chiarelli", s.l.
171) Nota introduttiva al saggio di N. Luciani "Le condizioni per l'impiego 'specializzato' delle leve moneta-
ria e fiscale per gli equilibri interno ed esterno", in "Rivista Bancaria - Minerva Bancaria", Milano.

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1980 SCRITTI SCELTI, (“Intorno al concetto di costo dell'attività finanziaria”, “Reddito e imposte. Saggio critico
sul produttivismo nell'attività finanziaria”, “Sull'utilità di un rapido ammortamento del debito pubblico”,
“Sulla neutralizzazione della sensibilità congiunturale delle imposte, “Discriminazione delle spese pubbliche
indivisibili ed elisione” delle rendite di protezione”, “Sviluppi di un teorema finanziario e sue relazioni con il
massimo benessere”, “Prestiti e imposte nelle nuove teorie e nell'esperienza bellica”, “Oneri e vantaggi alla «
frontiera dell'utilità » collettiva”, “In tema di « svolte » nella teoria della finanza pubblica”, “Gli effetti di im-
poste e spese del bilancio in regime collettivistico”.
Pubblicazione postuma del Dipartimento di Teoria economica e Metodi quantitativi per le Scelte Politiche,
Facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, a cura di Giulio La Volpe suo successo-
re nella cattedra di Scienza delle finanze di Roma “La Sapienza” (e proveniente dalla Cattedra di Economia
Politica dell’Università “Cà Foscari” di Venezia), e degli Allievi Nino Luciani, Gaetana Trupiano, Vincenzo
Russo.

P.S. La sigla “s.l” significa “sine loco”, ossia impossibilità di trovare l’editore e la località della pubblicazione.

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