Ariel S. Levi Di Gualdo "CRISTO NON ERA POVERO"

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L’ISOLA di PATMOS

CONTRO LA MODERNA IDOLATRIA IDEOLOGICA DELLA


POVERTÀ: GESÙ CRISTO NON ERA POVERO E MAI DA
POVERO VISSE, MANGIÒ E VESTÌ, NÉ ALLA SUA MORTE FU
SEPOLTO DA POVERO
Gesù di Nazareth non era affatto un povero morto di fame, lo dimostrano e lo nar-
rano i Santi Vangeli, basterebbe saperli leggere e spiegare al Popolo di Dio, che
stando al fastidio che manifesta, pare essere sempre più saturo di quei richiami
eccessivi e surreali rivolti ai poveri ed alla povertà caratterizzanti l’argomento
centrale, ed a tratti ossessivo, di questo augusto pontificato.

Talvolta noi parliamo della povertà a sproposito, altre


trasformiamo la povertà in utopia, altre usiamo i po-
veri e la povertà non perché a certa politica interessi-
no i poveri, ma perché interessa l’ideologia che a ca-
vallo tra l’Ottocento e il Novecento europeo è stata
costruita sopra alla pelle dei poveri per tutt’altri sco-
pi. Se infatti i poveri sono stati spesso usati e sfruttati
per scopi economici da molti ricchi, o da potenti e
prepotenti di varia fatta, va ricordato che gli stessi
poveri non sono stati meno usati e sfruttati per i loro
scopi ideologici da altrettanti ricchi marxisti, i capo-
rioni dei quali, come la storia prova, a partire dallo
Autore
stesso Karl Marx, provenivano come minimo dalle
Ariel S. Levi di Gualdo famiglie dalla borghesia, se non dell’alta borghesia e
dell’antica aristocrazia.

La Rivoluzione Francese, tutt’oggi studiata non nella corretta prospettiva storica


bensì alla luce di surreali leggende romantiche, non fu messa in piedi dal popolo
contadino appassionato e oppresso, ma dall’aristocrazia, dalla borghesia e da non

© L’Isola di Patmos
Rivista telematica di teologia ecclesiale e di aggiornamento pastorale
Articolo pubblicato il 19 luglio 2017. Autore: Ariel S. Levi di Gualdo
Si autorizza per lettura e uso privato la stampa cartacea di questo articolo che se totalmente o parzialmente riportato deve però recare indicata la data di
pubblicazione, il nome di questa rivista telematica e il nome dell’Autore.
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pochi membri del clero. Il popolo contadino appassionato e oppresso, non riusci-
va neppure a concepire se stesso e la Francia senza un re sopra il proprio capo.

Altre volte capita di imbattersi in straordinari altruisti che esigono la massima


povertà, anzi la povertà totale sulla pelle degli altri. Chi, non ha mai udito affer-
mare: «La Chiesa deve essere povera»? Spesso, per non dire nella gran parte dei
casi, ad affermare questo sono però persone che poi si presentano con automobili
che costano quanto un appartamento e che in valore indossano, tra vestiti e ac-
cessori, l’equivalente di sei mesi di stipendio di un operaio; però rivendicano una
Chiesa povera.

IL PATRIMONIO IMMOBILIARE ECCLESIASTICO, LA MUCCA E IL LATTE

Esistono poi ― sempre restando alla Chiesa ―, i benefattori per così dire immobi-
liari. Chi, non ha mai sentito qualcuno dire: «La Chiesa deve vendere i suoi beni e
darli ai poveri»? Sarebbe una bella idea. Però, viaggiando un giorno per la Sicilia
sud orientale e parlando con un saggio contadino che alleva mucche ― e che per
inciso guadagna in una settimana quello che un alto funzionario di banca guada-
gna in un mese ―, ho capito dalle sue acute parole che fare una cosa simile sareb-
be parecchio dannoso, anzitutto per i poveri. Se infatti prendiamo una mucca e la
macelliamo ― disse il saggio contadino ―, dando per una settimana da mangiare
le carni arrostite ai poveri, quando poi i poveri verranno a chiedere il latte, noi
dovremo rispondere che il latte non c’è perché la mucca se la sono mangiata. Pe-
rò, macellandola e offrendola in cibo, abbiamo compiuto un gesto di straordinaria
“generosità” e di “donazione assoluta”; uno di quei gesti che tanto piacciono ai
fricchettoni del quotidiano La Repubblica, nato e vissuto per decenni come giorna-
le laicista ed anticlericale, ma oggi ridotto ad essere un supplemento de L’ Osser-
vatore Romano. Noi che però abbiamo buona memoria, ricordiamo molto bene
Eugenio Scalfari che per tutto il corso degli anni Ottanta del Novecento ha sbef-
feggiato quel «moralista-retrivo» del Santo Pontefice Giovanni Paolo II, afferman-
do nei suoi scritti che «con il Vaticano in casa l’anticlericalismo è un dovere civico
dell’italiano». Tempi passati, oggi ci aspettiamo di vedere da un giorno all’altro

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Eugenio Scalfari servir devoto la Santa Messa nella Cappella della Domus Sanctae
Marthae, con l’abortista impenitente Emma Bonino ― per la quale l’aborto è con-
siderato tutt’oggi «una grande conquista sociale» ― che durante i sacri riti d’ of-
fertorio canta come corista solista: «A te Signor leviamo i cuori, a te Signor noi li
doniam». Perché a questo ci stanno portando e verso questo ci stanno conducen-
do quel manipolo di delinquenti che circondano e che circuiscono il Sommo Pon-
tefice Francesco: ci stanno facendo sprofondare nel teatrino del ridicolo.

LE CASE DELLA CHIESA AI POVERI ED IL RICCO MERCATO ORTOFRUTTICOLO


DEI FINOCCHI

Durante il mese di maggio di quest’anno, recandomi in Liguria presso il convento


domenicano di Varazze, dove vive Padre Giovanni Cavalcoli, attraversando alcuni
quartieri di Genova notai degli striscioni di saluto al Sommo Pontefice che pochi
giorni dopo avrebbe visitato il capoluogo ligure, i quali recavano scritto: «Papa
Francesco, le case di proprietà della Chiesa ai poveri!». E toccando questo tema si
finisce col toccare un tasto molto dolente, di cui ritengo sia però bene parlare,
perché certe informazioni false e dannose che producono poi autentico odio so-
ciale verso la Chiesa, non si dissipano mettendosi a disquisire sull’Incarnazione
del Verbo di Dio o sulla Immacolata Concezione dalle nuvole dell’alta teologia
dogmatica; perché in equa dose occorrono sia la concretezza della terra sia la spi-
ritualità del cielo e dei grandi misteri della fede.

Striscioni ad effetto a parte, la verità è tutt’altra: numerose diocesi italiane pos-


seggono patrimoni immobiliari che derivano da donazioni fatte nel corso dei se-
coli da fedeli cattolici, oppure dai cosiddetti “patrimoni parrocchiali”. Era infatti
buona abitudine, quando in passato si costruivano le chiese parrocchiali, dotare le
stesse di un patrimonio immobiliare, costituito da alcuni appartamenti, fondi
commerciali o terreni. I proventi degli affitti erano poi usati per le spese di man-
tenimento della parrocchia, o per aiutare i poveri stessi che bussavano alle sue
porte. Ciò che però non scrive L’Espresso diretto da Tommaso Cerno, ex Presiden-
te nazionale del “glorioso” Arcigay, è il fatto che molte diocesi sono sprofondate in

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colossali perdite perché un elevato numero di inquilini, che beneficiavano sem-


mai di vecchi affitti e che avrebbero dovuto pagare trecento euro al mese di ca-
none per delle case che sul mercato immobiliare non sarebbero mai state affittate
da nessuno a nessuno a meno di mille euro mensili, si sentivano autorizzati a non
pagare l’affitto perché gli immobili erano di proprietà della Chiesa. E la Chiesa,
come risaputo, non deve e non può chiedere, deve solo dare, tutto e gratis. E sic-
come le diocesi non amano finire sui giornali per avere intrapreso azioni di sfrat-
to nei confronti di inquilini morosi, è accaduto che per anni e anni numerose dio-
cesi del nostro Paese si sono sorbite inquilini non paganti senza fare alcuna pro-
cedura di sfratto, sapendo che le conseguenze sarebbero stati i titoli a caratteri
cubitali sui giornali della gaia sinistra fricchettona che sarebbero suonati più o
meno così: «La Chiesa mette le famiglie in mezzo alla strada».

Agli inizi del Duemila, un vescovo del Meridione d’Italia, oggi neppure più emerito
perché già morto da un paio d’anni, mi confidò profondamente amareggiato :

«La situazione nella quale versa la mia diocesi con gli immobili di sua pro-
prietà è disastrosa, abbiamo infatti calcolato che oltre il cinquanta per cento
degli affittuari non paga il canone di affitto. Per altro verso bisogna conside-
rare che da anni, la Conferenza Episcopale Italiana, non perde occasione per
lamentare che in Italia non si fanno più figli. Non oso quindi neppure pensare
che cosa accadrebbe se la mia diocesi si mettesse a fare procedure di sfratto
ad inquilini che non pagano neppure vecchi affitti molto al di sotto di quelli
richiesti sul corrente mercato immobiliare, ed in particolare se in certe fami-
glie, dove se andiamo a vedere nulla manca di superfluo, ci sono all’interno
uno o due bambini. Questo il motivo per il quale, durante la riunione del Con-
siglio per gli affari economici, presenti due avvocati civilisti invitati dal no-
stro economo diocesano, io bloccai immediatamente tutti dicendo: “La dioce-
si non farà alcuna procedura di sfratto”. E quando mi tirarono fuori il conto
già calcolato della perdita, nell’ordine degli svariati milioni di euro, io repli-
cai: “Con le procedure di sfratto, andremmo incontro ad una perdita molto

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maggiore, perché saremmo messi in croce dalla stampa e non capiti né giusti-
ficati in alcun modo dall’opinione pubblica” ».

Quando questo vescovo lasciò la cattedra episcopale al compimento dei 75 anni


d’età, poco dopo la stampa cominciò a pubblicare articoli in toni di risentito scan-
dalo dettagliando che il presule aveva lasciato un deficit di svariati milioni di eu-
ro. Il suo successore, poco dopo, cercò di porre rimedio al tutto affidando ad una
grande società immobiliare italiana la vendita di tutti gli appartamenti di proprie-
tà della diocesi, conservando nel patrimonio immobiliare solamente fondi com-
merciali e alloggi per usi professionali. A quel punto, la stampa, annunciò che la
diocesi stava facendo grandi speculazioni di vendita sul mercato immobiliare.

La verità è che molte diocesi, oltre a non riscuotere gli affitti, erano però costrette
a pagare le tasse sulla proprietà degli immobili, oltre alle loro spese di manuten-
zione. Perché ciò che non dice e che non narra l’anticlericale settimanale L’
Espresso del gaio direttore Tommaso Cerno, è che la Chiesa, sugli immobili, le tas-
se le paga tutte. Esenti dalle tasse sono solo gli stabili di culto, le case canoniche,
gli oratori parrocchiali, i locali della Caritas ... E proprio il gaio direttore dell’ anti-
clericale settimanale L’Espresso, per sua passata esperienza d’ufficio dovrebbe sa-
pere che neppure gli stabili dei circoli dell’Arcigay ed i loro locali affini dove si
fanno iniziative di altissima cul … tura, pagano le tasse sugli immobili; neppure
quando dietro a questi circoli cul … turali si nascondono giri di prostituzione, di
mercato dei marchettari venduti un tanto a centimetro, di droga e via dicendo,
come dimostrano non certo le mie parole ma i numerosi e ripetuti atti giudiziari
legati a indagini varie su svariati circoli di alta cul ... tura gay [cf. QUI].

Più di una volta, in varie parti d’Italia, diverse diocesi non hanno pagato le tasse
sugli immobili per il semplice fatto che erano in deficit e non avevano i soldi per
pagarle, perché buona parte degli inquilini non pagavano i canoni di affitto. Moti-
vo questo per il quale non poche diocesi hanno infine venduto gli immobili di loro
proprietà, cercando di investire i soldi in altro modo.

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Avete mai letto nulla del genere su L’Espresso del gaio Tommaso Cerno Presidente
nazionale emerito del “glorioso” Arcigay, grande moralizzatore e castigatore dei
malcostumi della Chiesa, il quale fece assumere appena ventenne, presso questo
famoso settimanale, quel “grande intellettuale” di Simone Alliva, ovviamente per
puri meriti gay, essendo il giovincello un genderista radicale dichiarato, a causa
del quale brutti e tristi guai ebbe a passare il nostro caro Padre Giovanni Cavalcoli
per il lancio di una sua bufala, tramite la quale imputò al teologo domenicano di
avere affermato che i terremoti in Italia erano stati un castigo di Dio per le unioni
civili ? [chi vuole ripercorrere la vicenda veda QUI].

Ecco, anche noi preti rivendichiamo il diritto ad essere una specie protetta come i
gay; visto che all’interno del nostro clero, per colpa dei nostri improvvidi vescovi
che li hanno accolti e poi fatti preti, di gay ne abbiamo purtroppo in abbondanza.
E se un prete gay se la spassa con un minore in fascia di età compresa tra i 14 ed i
17 anni e 11 mesi, nessuno dovrebbe urlare dalle colonne de L’Espresso del gaio
moralizzatore Tommaso Cerno, contro il terribile “prete pedofilo”, esattamente
come non si urla al pedofilo quando nei circoli cul … turari dell’Arcigay, ci si in-
chiappettano allegramente i minori di 18 anni senza alcun problema. Se infatti un
imprenditore del mercato ortofrutticolo dei finocchi si inchiappetta un minore in
un circolo gay, il tutto rientra nelle meraviglie del libero amore homo, se però lo fa
un prete, in tal caso è un pericoloso pedofilo. Se un imprenditore del mercato or-
tofrutticolo dei finocchi, per un rapporto omosessuale con un ragazzo di 17 anni e
11 mesi fosse bollato come delinquente pervertito, l’accusatore finirebbe in tri-
bunale e ne uscirebbe fuori rigorosamente condannato; se però un prete se la
spassa con un giovane già marchettaro professionista di 17 anni e 11 mesi, in tal
caso è un pericoloso pedofilo. Detto questo: se il gaio Tommaso Cerno, Presidente
emerito dell’Arcigay, assieme a quell’altro ideologo attempato ammoscito di
Franco Grillini, intendono negare il tutto e sostenere il contrario, in tal caso sono
pregati di invitarmi a dibattere con loro ad un programma televisivo che sia però
trasmesso di rigore in diretta, affinché io possa esercitare con loro il mio diritto di
pensiero e parola, che se non erro seguita tutt’oggi a essere costituzionalmente
garantito anche alla specie non protetta di noi eterosessuali; ma soprattutto mi

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sarà così data l’opportunità di poter esercitare con questi due autentici posseduti
dai peggiori dèmoni della lussuria sodomitica, il mio sacro ministero di esorcista.

IL BUON LAICISTA ANTICRISTICO CHE COSA CONOSCE DEI VANGELI? MA OVVIO: CHE
GESÙ ERA UN POVERO MORTO DI FAME !

Esistono poi ― e tutti li abbiamo più o meno conosciuti ― quelli che non sanno
neppure che i Vangeli sono quattro e che sono stati scritti da degli evangelisti che
si chiamano Matteo, Luca, Marco e Giovanni. Costoro, che dei Vangeli non hanno
mai letto una sola riga, ritengono però di saperne quanto basta per venirci a fare
sante lezioni di sacra scrittura affermando: «Gesù era povero!». Ebbene. mi di-
spiace disilluderli: Gesù non era affatto povero. Sia il Divino Maestro sia i suoi
apostoli avevano di che mangiare e vivere, pur avendo lasciato lavoro e case. Si-
mone detto Pietro, era quello che oggi potremmo definire come un benestante
imprenditore della pesca. Come lo erano Giacomo e Giovanni figli di Zebedeo, si-
curamente molto più benestante dello stesso Simone detto Pietro, basti solo leg-
gere il passo del Santo Vangelo che narra:

Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simo-
ne, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro:
«Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito, lasciate le reti, lo
seguirono. Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebe-
dèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi,
lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono [Mc 1,
16-20].

Capisco perfettamente ― e dire ciò con ironia implicita è un santo obbligo del tut-
to doveroso ― che oggi siamo all’analfabetismo teologico-esegetico, al punto tale
da non capire persino ciò ch’è impresso nelle Sacre Scritture. Pertanto cerchiamo
di capire questo passo, nel quale di per sé poco o niente ci sarebbe da capire e da
spiegare. Anzitutto, i personaggi di questo racconto sulla chiamata degli Apostoli,
possedevano non solo “una barca”, ma “delle barche”, che all’epoca non era certo

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poca cosa; in particolare in quella zona considerata una delle province più povere
dell’Impero Romano. Esattamente come oggi è cosa del tutto diversa essere un
camionista proprietario di un camion per grandi trasporti il cui costo può giunge-
re sino a un milione di euro, ed essere invece un camionista che guida come di-
pendente stipendiato un camion per grandi trasporti di proprietà altrui; la stessa
cosa si applica tutt’oggi nella pesca, sia ai pescatori sia ai pescherecci, che non
sempre sono di proprietà di chi si dedica alla pesca.

Il Santo Vangelo qui richiamato specifica nel racconto che il padre di Giacomo e
Giovanni, avevano alle proprie dipendenze anche degli operai salariati: «Ed essi,
lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono» [cf. Mc 1,
20].

Ma d’altronde, se l’esegesi è quella insegnata alla Pontificia Università Gregoriana,


dove come metro di lettura si usa in parte il Capitale di Marx ed in parte la Teolo-
gia della Liberazione, o la nuova e ben peggiore Teologia de el Pueblo, non pos-
siamo certo pretendere che si giunga a queste ovvie deduzioni, sebbene scritte e
riportate a chiare lettere nei Vangeli. Infatti, ciò implicherebbe dover ammettere
che Cristo Signore, a diventare apostoli ed a seguirlo, non chiamò dei poveracci, o
per meglio dire dei sottoproletari, come spesso li hanno ridotti invece i Gesuiti in
America Latina tra un sorriso rivolto a Marx ed un bacetto d’amore dato ai guerri-
glieri di ispirazione comunista.

Il giovane Giovanni e suo fratello Giacomo provenivano da una famiglia d’ im-


prenditori benestanti, tanto che la madre, in un impeto di ingenuità nato dalla sua
non comprensione della missione del Verbo di Dio, chiese a Cristo Signore: «Di’
che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo re-
gno» [cf. Mt 20, 21]. Ebbene chi, se non la madre di due figli appartenenti a quella
che oggi chiameremmo borghesia mercantile, avrebbe osato avanzare una richie-
sta del genere ad un Maestro di simile prestigio? Poteva farlo solo una donna ap-
partenente ad un preciso ceto sociale, che desiderava per i propri rampolli un do-
vuto posto di riguardo.

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I dodici apostoli ricevevano aiuti dai benefattori e quando giungevano ospiti nelle
case si provvedeva offrendo a loro il meglio che si potesse offrire, avevano devote
donne che si occupavano delle loro cure e delle loro necessità.

IL BEATO GIUSEPPE NON ERA UN POVERO OPERAIO E LA VERGINE MARIA VENIVA DA


UNA FAMIGLIA PIÙ BENESTANTE DELLA SUA

Il Beato Patriarca Giuseppe non era un operaio salariato ma un imprenditore che


svolgeva un mestiere signorile, quello di ebanista; mestiere di riguardo e molto
redditizio. Pertanto, chiunque dica «San Giuseppe operaio», o chiunque affermi
che «San Giuseppe era un operaio», mistifica la figura del Beato sposo della Vergi-
ne Maria, perché Giuseppe non era affatto un operaio, tutt’altro: era sicuramente
lui, che presso la sua azienda dava lavoro a degli operai salariati.

La Beata Vergine Maria, molto probabilmente proveniva da una famiglia più be-
nestante ancora di quella di Giuseppe, lo si evince sempre dagli stessi Vangeli, per
esempio nel racconto della sua visita alla cugina Elisabetta, madre di Giovanni
detto il Battista e moglie di Zaccaria, che era un membro dell’antica casta sacerdo-
tale ed una persona molto colta e abbiente. Non solo Zaccaria era un sacerdote,
perché come tale apparteneva pure ad un livello molto alto, infatti era membro
della classe di Abìa, che rappresentava l’VIII° delle XXIV classi in cui erano riparti-
ti i sacerdoti in servizio nel Tempio di Gerusalemme.

All’epoca, la cultura, era strettamente legata al benessere economico. Anche in


questo caso, i Santi Vangeli, ci dettagliano il livello di cultura di Zaccaria narrando
di come egli, non avendo in quel momento l’uso della parola, ad esso tolta dall’
Arcangelo Gabriele per non avere creduto all’annuncio che sua moglie avrebbe
dato alla luce un figlio in età avanzata [cf. Lc 1, 5-25], chiese una tavoletta per con-
fermare il proprio assenso al nome che Elisabetta intendeva dare al nascituro,
scrivendo: «Giovanni è il suo nome». [cf. Lc 1, 63]. Dinanzi a questi racconti, gli
storici e gli antropologi, ma soprattutto i teologi sempre più social-trend, quindi di
conseguenza sempre meno colti, in questi poveri tempi di vacche magre perse per

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le praterie delle periferie esistenziali, dovrebbero spiegare quante all’epoca fosse-


ro le persone nell’antica Giudea che sapevano leggere e persino scrivere. Non per
nulla, quando i giovani maschi ebrei celebravano il passaggio nell’età adulta at-
traverso il bar mtzvà e dovevano leggere e commentare pubblicamente un passo
della Torah, come fece Gesù all’età di dodici anni durante l’episodio narrato dai
Santi Vangeli come la sua disputa con i Dottori del Tempio [cf. Lc 2, 41-50], per la
gran parte di essi erano dolori, perché la assoluta maggioranza degli adolescenti
ebrei non sapevano leggere né scrivere. Così imparavano a memoria un versetto e
poi, con il Sefer Torah aperto [il rotolo della Santa Legge], lo recitavano. Un po’
come accade oggi alla gran parte degli ebrei più o meno osservanti, molti dei quali
non conosce l’ebraico, diversi riescono a leggerlo, ma non ne capiscono il signifi-
cato. Allora, il rabbino, provvede a scrivere un versetto traslitterato dall’ebraico
nei nostri odierni caratteri linguistici, lo mette sul Sefer Torah e l’adolescente lo
legge, qualche volta senza neppure sapere che cosa significa.

GESÙ NON È NATO IN UNA STALLA TRA UN BUE ED UN ASINO, ED I POVERI NON POSSONO
CERTO PERMETTERSI DI ANDARE A DUBAI

Ma ecco la pronta replica di quanti vogliono un Gesù a tutti i costi povero e di ri-
gore figlio di poveracci: «Gesù è nato in una povera stalla». Ma anche in questo ca-
so le cose stanno in modo diverso, narra infatti il Beato Evangelista Luca:

«[…] al tempo in cui un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il


censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quiri-
nio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella
propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giu-
dea alla città di Davide chiamata Bethlemme: egli apparteneva infatti alla ca-
sa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa,
che era incinta» [Lc 2, 1-20].

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La realtà storica è che il potere allora vigente aveva comandato un censimento


per ragioni amministrative, obbligando così Giuseppe e Maria, allora prossima al
parto, a recarsi presso la città di Davide, Betlemme. E qui è interessante notare
che Betlemme, in ebraico, significa “Casa del Pane”. E proprio in quella Città, non
certo per puro caso, nacque colui che poi diverrà il Pane Vivo disceso dal cielo [cf.
Gv 6, 35-59], che non è «come quello che mangiarono i padri vostri e morirono»
perché «chi mangia questo pane vivrà in eterno» [cf. Gv. 6, 58].

Dimenticando tutte le tenere e rispettabili letture con le quali la pietà popolare ha


colorato il testo del Vangelo lucano, esso narra che la nascita di Gesù avviene in
uno spazio che si poteva trovare nelle abitazioni del tempo, quelle scavate all’ in-
terno, presumibilmente una stanza scavata nella roccia; quel genere di abitazioni
che tutt’oggi sono visibili in certi siti archeologici, come quelli ubicati in Sicilia
presso la Necropoli di Pantalica nel siracusano [cf. QUI], o nella Basilicata presso i
cosiddetti Sassi di Matera [cf. QUI], o nella bassa Maremma toscana nella Città di
Pitigliano scavata nel tufo sul confine tra Toscana e Lazio [cf. QUI].

Nei Vangeli non c’è alcun riferimento al bue, all’asino e alla presenza di animali
vari attorno alla Beata Vergine Maria. Ma soprattutto, questa nascita in un luogo
non previsto, non è avvenuta perché Giuseppe era un sottoproletario squattrina-
to, ma perché ― come narrano i Vangeli ― sia per il censimento, sia per il grande
afflusso di pellegrini a Gerusalemme, non c’era proprio nemmeno un buco libero.

Faccio uso di un esempio che mi ha sempre fatto sorridere: la mamma del mio al-
lievo e collaboratore, il giovane studioso Jorge Facio Lince, stava per partorirlo
mentre si trovava all’interno di un taxi. Prontamente, il tassista dirottò la corsa
verso l’ospedale. Nessuno avrebbe però mai sostenuto, nel caso in cui quest’altra
Maria ― Maria Ines, la mamma di Jorge ―, lo avesse partorito in un taxi, che la po-
verina era così povera da non potersi neppure permettere di partorire il figlio in
una clinica di ostetricia-ginecologia.

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Insomma, Gesù è nato povero nella misura stessa in cui è nato con la pelle bian-
chissima, i capelli biondi e gli occhi azzurri, in una città della Svezia ― come ov-
viamente leggiamo sui Vangeli ― chiamata Betlemme, a poche decine di chilome-
tri dalla capitale di Stoccolma.

Tra i vari episodi che danno la corretta e reale percezione di quanto il Beato Giu-
seppe e la Vergine Maria non fossero dei poveri sottoproletari spiantati, è di certo
esaustivo il racconto della strage degli innocenti. Il temibile Erode, avendo saputo
che dei maghi astronomi si erano recati nella Giudea dove sarebbe nato un re, do-
po avere tentato di trarli in inganno ordinò successivamente di far uccidere tutti i
neonati maschi dai due anni in giù. Il Beato Giuseppe, avvisato in sogno da un An-
gelo, prende il bambino e la madre e fugge in Egitto, dove la famiglia rimase sino
alla morte di Erode [cf. Mt 2, 1-16]. Riguardo questo racconto bisogna precisare
che sulla scia del protestante Rudolph Bultmann, maestro della de-mitizzazione
dei Santi Vangeli ― al quale molti nostri teologi ed esegeti si rifanno in modo im-
pudente, trasmettendone teorie e insegnamenti direttamente dentro le nostre
odierne e povere università ecclesiastiche ―, molti sono gli studiosi che mettono
in dubbio la storicità della fuga in Egitto. A dar loro man forte, sono poi intervenu-
ti i nostri biblisti per così dire cattolici, sostenendo che la fuga in Egitto del rac-
conto del Beato Evangelista Matteo sarebbe stata costruita per dare un fonda-
mento teologico a questo Vangelo diretto principalmente agli ebrei, ai quali era
così esposto che Gesù Cristo era il nuovo Mosè e che attraverso di lui si era quindi
realizzata la profezia del Profeta Osea: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» [cf. Os
11,1]. Secondo altri “grandi scienziati” della esegesi biblica, sempre per così dire
cattolica, il racconto del Beato Evangelista Matteo sarebbe null’altro che un plagio
della Aggadah ebraica che narra come il Patriarca Mosè si fosse salvato dalla mor-
te, dopo che il faraone aveva decretata la soppressione dei bambini. Noi Padri de
L’Isola di Patmos, che non siamo né “cristiani adulti” né dottorini cresciuti al Pon-
tificio Istituto Biblico tra un flûte di Martini con tanto di oliva, stuzzichino d’ ac-
compagnamento, ed un bagno nella vasca d’idromassaggi biblici delle peggiori
esegesi protestanti, sosteniamo invece che le similitudini tra il Patriarca Mosè e

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L’ISOLA di PATMOS

Cristo Dio non rappresentano affatto un elemento solido per negare la storicità di
quanto narrato dal Beato Evangelista Matteo.

Dopo questa doverosa divagazione torniamo al problema, che è il seguente: come


potevano permettersi, due poveracci, di trasferirsi a tempo indeterminato in Egit-
to? I cultori della poverolatria cristica, si sono mai domandati quanto costasse,
all’epoca, soggiornare in Egitto? Ecco, facendo sia un parallelo sia una conversio-
ne socio-finanziaria, possiamo sostenere senza pena di smentita che all’epoca,
soggiornare in Egitto, costava quanto oggi costerebbe soggiornare a Dubai, noto-
ria meta dei più grandi morti di fame di questo mondo. Nulla però impedisce a
nessuno di sostenere che l’Egitto di ieri e la Dubai di oggi, null’altro erano e sono
nella realtà che delle grandi villas de las miserias, l’importante è solo trovare quat-
tro beoti disposti a credere a simili fiabe ideologico-sentimentali su un Cristo ri-
costruito nel Terzo Millennio a proprio uso e consumo, perché di questo passo ar-
riveremo presto a proclamare che in verità, il Verbo di Dio Incarnato, è nato in
una periferia esistenziale di Buenos Aires.

DENTRO LE CASE DELL’ANTICA ARISTOCRAZIA GIUDAICA, GESÙ CRISTO ERA TRATTATO


COME UN RE

Più volte, Gesù, fu onorato con omaggi preziosi, come il costoso olio di nardo col
quale Maria gli cosparse i piedi a Bethania [cf. Mc 14, 3-9]. Tra gli spettatori pre-
senti al fatto c’era Giuda Iscariota, che criticò con parole dure quel gesto di amo-
revole devozione lamentando cotanto spreco. Quell’olio era infatti molto prezioso
e molto costoso, valeva trecento danari, come dettaglia lo stesso racconto evange-
lico. E qui, per spiegare a che cosa corrispondesse un simile importo nella Giudea
dell’epoca, basti dire che un danaro era la paga giornaliera di un soldato romano e
che quell’olio, più costoso dell’oro, corrispondeva quindi a quasi un anno di paga.
Dinanzi all’episodio di Giuda che afferma che quel danaro si sarebbe potuto dare
ai poveri, l’Evangelista Giovanni ci narra che l’Iscariota non aveva alcuna preoc-
cupazione per i poveri, ma che era un ladro. La comunità degli apostoli aveva in-
fatti una cassa dalla quale egli rubava denaro [cf. Gv 12, 1-8]. Un giudizio duro,

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L’ISOLA di PATMOS

quello racchiuso in questo racconto col quale Giovanni condanna Giuda, non con-
danna la preoccupazione per i poveri, ma quella ipocrisia che ieri come oggi si
serve all’occorrenza dei poveri e dinanzi alla quale il Signore risponde a Giuda fu-
gando ogni dubbio per il presente e per il futuro: «I poveri li avrete sempre tra di
voi, ma non sempre avrete me» [Gv. 12, 1-11].

GESÙ CRISTO NON VESTIVA DA POVERO ED IL SUO CORPO MORTO,


MOLTO PROBABILMENTE, FU RECUPERATO ANCHE A CARO PREZZO

Gesù aveva persino un abbigliamento elegante, diremmo oggi di alta sartoria, in-
fatti indossava una tunica preziosa, tessuta per intero e senza cuciture, tanto che
sotto la croce i soldati non la fecero a pezzi com’eran soliti fare con gli stracci dei
poveretti, coi quali ripulivano poi le lance e le spade e lustravano le proprie arma-
ture, ma se la giocarono a dadi. I Vangeli sinottici si limitano a narrare che i solda-
ti tirarono a sorte la sua veste [cf. Mt 27,35; Mc 15,24; Lc 23,34], mentre il Beato
Evangelista Giovanni indugia a spiegare il pregio e il valore di quel capo di vestia-
rio: «Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d'un pezzo da cima a fon-
do. Perciò dissero tra loro: “Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca”» [Gv
19, 23-24]. Il tutto perché un pezzo di tale pregio e valore, non poteva certo esse-
re rovinato.

Tra i dodici apostoli — come dicevamo poc’anzi — c’era anche un cassiere, una
specie di antesignano del presidente della futura banca vaticana. Questo primitivo
banchiere non era però un galantuomo come Ettore Gotti Tedeschi ma si chiama-
va Giuda Iscariota ed era un soggetto dal quale guardarsi bene, non tanto quando
parlava dei poveri, fingendo ch’essi gli stessero tanto a cuore; da lui bisognava
guardarsi soprattutto quando dava i baci [cf. Mt 26,47-56; Mc 14,43-52; Lc 22,47-
53].

Il corpo del Signore morto, fu avvolto in un lino prezioso e deposto in un pregevo-


le sepolcro nuovo fornito da un uomo ricco divenuto seguace del Cristo: Giuseppe
di Arimatea [Mt. 27, 57-60]. Quindi Gesù, per rendere l’idea, non fu sepolto in una

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L’ISOLA di PATMOS

fossa comune o in un modesto loculo a spese del comune di Gerusalemme, ma in


quella che oggi sarebbe in tutto e per tutto l’elegante cappella sepolcrale di una
famiglia molto altolocata.

Una spiegazione a parte meriterebbe la stessa pena della crocifissione e le moda-


lità adottate. Accadeva infatti di frequente, per non dire quasi di prassi, che i car-
nefici, per alleviare le sofferenze del condannato ed affrettarne la morte, spezzas-
sero le gambe e le braccia ai condannati per accelerarne il decesso che in tal modo
avveniva per soffocamento. Una volta deposti i cadaveri dalle croci, i corpi segui-
vano questa sorte: o venivano presi e gettati in una grande fossa comune, oppure
erano fatti in pezzi a colpi di scure.

Come mai, il Santo corpo fisico di Cristo Signore, non seguì questa sorte, o meglio
questa prassi, dopo la sua crocifissione sul Golgota? Lo stesso nome di quel lugu-
bre colle, racchiude sia la sua storia sia il suo significato. Parola di derivazione
aramaica, il luogo è chiamato in greco ολγοϑᾶ e in latino Golgotha, ed alla lettera
significa “luogo del cranio”, o del “teschio”, per la presenza di crani ossificati e di
ossa sparse per il terreno. I cadaveri erano infatti gettati, interi od a pezzi, in fosse
non sempre profonde, con la conseguenza che i diversi animali presenti sul terri-
torio, spesso dissotterravano e poi seminavano in giro i resti dei corpi umani. Ma
questa sorte, che era l’ordinaria prassi, non toccò invece a Cristo Signore, il cui
corpo fu deposto dalla croce, raccolto, lavato, unto con oli ed essenze preziose, ed
infine avvolto in altrettanto prezioso sudario. Evidentemente, Gesù di Nazareth,
per quanto condannato a quell’orrenda pena, non era propriamente uno dei di-
versi ed ordinari condannati, quindi il suo corpo e la cura dello stesso, seguì
tutt’altre sorti. E queste sorti del tutto diverse, denotano ch’egli non era propria-
mente un poveraccio, né un ordinario condannato circondato da altrettanti pove-
racci, come i numerosi condannati per i quali, gli stessi familiari, non osavano
neppure andare a richiedere i corpi per una degna sepoltura, anche perché
avrebbero dovuto dare una lauta mancia ai soldati romani. Alcuni poveri familiari
dei morti crocifissi tentavano semmai di rubare i loro corpi di notte, col rischio
però di finire sottoposti a dure pene se scoperti. Detto questo non voglio avanzare

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L’ISOLA di PATMOS

ipotesi che potrebbero suscitare persino scandalo, poste però queste premesse,
imprimo tra le righe una semplice domanda senza alcuna risposta, proprio perché
non ho risposta. Questa è la domanda: il ricco Giuseppe di Arimatea, recandosi in
pieno giorno a richiedere il Corpo di Nostro Signore Gesù Cristo, si presentò forse
dai soldati romani a mani vuote, prese il corpo e poi disse loro “grazie per la vo-
stra sensibilità e per la vostra comprensione” ?.

Pochi giorni dopo, dinanzi alla pietra rovesciata del sepolcro del Cristo Risorto, i
Capi del Popolo invitarono i soldati romani posti di guardia alla tomba, a mentire;
e per indurli a ciò, dettero ad essi una buona somma di danaro [cf. Mt 28, 12-14].
Tema questo a cui ho dedicata una video-lezione alla quale rimando [vedere video
QUI]. Come mai, i Capi del Popolo, non dissero semplicemente ai romani: “Cari
Soldati, siate gentili e fateci questo favore, dite che …” ? Non fecero nulla di questo
per il semplice fatto che i romani, nell’antica Giudea dove tutto si vendeva, si
comprava e si commerciava, essendosi perfettamente ambientati e integrati alla
cultura ed ai modi di fare del luogo, gratis non facevano proprio niente, neanche
uccidere velocemente, perché persino un “misericordioso” colpo di lancia per al-
leviare le sofferenze di un condannato aveva un prezzo da pagare.

Detto questo, sono ben lieto di accogliere e di ospitare direttamente su queste no-
stre colonne de L’Isola di Patmos le eventuali smentite degli specialisti in esegesi
onirica del Vecchio e del Nuovo Testamento. Purché abbiano però argomenti vali-
di e credibili, perché con i Padri de L’Isola di Patmos non si discute con un flûte di
Martini in mano, con tanto di oliva e stuzzichino d’accompagnamento, dicendo
semmai … «Ma come osi, non sai, forse, che io mi sono dottorato al Pontificio Isti-
tuto Biblico?».

Tutto questo per dire che sia il Santo Vangelo della Natività, sia il Santo Vangelo
della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, non narrano affatto la nascita di un
poveraccio né la morte e la sepoltura di un altrettanto poveraccio. E tutti noi, sia
devoti fedeli, sia persone anche non fedeli e non credenti, dobbiamo stare, sulle

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L’ISOLA di PATMOS

basi di quella che si chiama onestà intellettuale, ai racconti storici dei Santi Van-
geli, che nulla hanno da spartire con le esegesi ideologiche più o meno ardite.

L’IDEOLOGICO GESÙ CRISTO POVERO È UN GESÙ CRISTO FALSO

Se noi non entriamo in questo stile di pensiero, non possiamo capire certi passi
dei Santi Vangeli, ma possiamo solo stravolgerli, di conseguenza sporcarli e falsar-
li. Quando infatti nel Discorso della Montagna, Cristo Signore enuncia le Beatitudi-
ni [cf. Mt 5, 1-16], il suo riferimento ai poveri, non è affatto un secco e lapidario
«Beati i poveri», come mormorava durante l’ultimo conclave il Cardinale Claudio
Hummes, o come da quattro anni a questa parte si sente purtroppo enunciare dai
pulpiti sempre più poveri di fede delle nostre chiese, con sproloqui omiletici in-
centrati in modo ossessivo su immigrati e profughi. Il Verbo di Dio non ha mai
pronunciato questa frase lapidaria, ma ha enunciato una espressione molto più
articolata, che è la seguente: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei
cieli» [cf. Mt 5, 3]. Egli non fa alcun riferimento alla povertà materiale, tanto meno
indicandola come virtù, posto che la povertà, la miseria, non sono affatto virtù
cardinali, ma sono disgrazie dalle quali uscire ed aiutare gli altri ad uscire. Noi
siamo invitato ad essere poveri «in spirito», ossia ad entrare in una precisa dispo-
sizione interiore. Essere interiormente poveri vuol dire infatti essere anzitutto
coscienti dei nostri limiti e delle nostre miserie di uomini nati con la corruzione
del peccato originale; essere poveri in spirito vuol dire riconoscere la nostra libe-
ra e vitale esigenza di dipendere dalla grazia di Dio Padre. E il modello per anto-
nomasia di quella povertà che è sinonimo di umiltà e donazione incondizionata
d’amore, è Cristo Dio che, come ci istruisce il Beato Apostolo Paolo, pur essendo
ricco si è fatto povero per noi:

«Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua
uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso fa-
cendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» [Fil 2, 6-11].

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L’ISOLA di PATMOS

Nei Santi Vangeli il Signore non ci dice “dovete essere poveri”, tutt’altro: ci esorta
dicendo in modo chiaro «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia per-
ché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli pos-
siede» [cf. Lc 12, 13-21].

L’intimo senso delle parole del Signore è: non affannarti per niente, perché vale si
la pena affannarsi, ma è bene affannarsi per quel tutto inteso come cristocentri-
smo cosmico, per l’essere presente proiettato verso un divenire futuro eterno,
non certo per il nulla.

I beni materiali sono necessari e possono essere molto utili per trasformarli in va-
rio modo in un bene collettivo. Investire sugli studi, per esempio, o in certi studi
in modo particolare, è molto costoso, ma grazie all’impiego di importanti somme
di danaro alcuni uomini di talento sono divenuti dei chirurghi che hanno poi in-
ventato nuove tecniche operatorie, altri degli scienziati che hanno scoperto nuove
molecole o creato nuovi vaccini. E tutto questo è stato possibile tramite quello
strumento chiamato danaro, attraverso il quale — dicono taluni — si muove il
mondo. Ammettiamo anche che il danaro muova il mondo, l’importante è che il
suo movimento non renda l’uomo schiavo intrappolato ed incapace a vedere al di
là della materia, cosa inaccettabile per noi cristiani che nella professione di fede
proclamiamo il nostro credo trinitario nell’eternità: «Aspetto la risurrezione dei
morti e la vita del mondo che verrà».

Nelle pagine dei Santi Vangeli, più che l’invito a una surreale povertà o peggio a
una povertà ideologica, il Signore invita a fare un uso sano e generoso delle ric-
chezze, usandole per il migliore sviluppo di noi stessi e per il bene degli altri, per
esempio attraverso quei meccanismi di flusso di danaro che creano posti di lavoro
e benessere collettivo. Tutto questo con buona pace dei grandi squali del peggiore
capitalismo selvaggio liberalista, i quali affermano che «la Chiesa deve essere po-
vera», mentre il povero africano extracomunitario gli serve un Cuba libre in me-
moria di Fidel Castro sul bordo della loro piscina, nel dolce ricordo di Ernesto

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L’ISOLA di PATMOS

Guevara detto El Che, ma anche noto come El Cerdo, ossia il Maiale, tanto era no-
toriamente sporco sia fuori sia soprattutto dentro.

In caso contrario, a chi animato da egoismo pensa solo a riempire i propri granai
per poi dire a se stesso: «Ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti e datti alla gioia» [cf. 12,
19]. Il Signore ricorda: «Attento, tu che accumuli tesori solo per te stesso e non ti
preoccupi di arricchirti al cospetto di Dio» [cf. Lc 12, 21].

Ricchezza e benessere non sono male, tutt’altro, possono essere fonti di gran bene
e come tali servire per creare ricchezza e benessere superiore. I mezzi materiali, a
partire dal danaro, sono strumenti da sempre utili, anzi indispensabili per l’ an-
nuncio stesso della Parola di Dio e per l’evangelizzazione. Gli stessi Dodici, che la-
sciarono famiglia, casa e lavoro per dedicarsi all’apostolato, avevano mezzi di so-
stentamento; la loro missione apostolica era sostenuta da fedeli benefattori e da
vedove molto benestanti.

Facciamo dunque sì che la ricchezza possa veramente produrre vera ricchezza,


per noi stessi e per il bene degli altri, affinché tutto quanto non sia soltanto «vani-
tà di vanità», come ammonisce Qoelet aprendo il proprio discorso con una invet-
tiva contro la vanità [Qo 1,3].

UNA CHIESA POVERA PER I POVERI? E QUANDO MAI, GESÙ CRISTO, HA AFFERMATO DI
VOLERE UNA CHIESA POVERA PER I POVERI?

Io non desidero, non ho mai pregato e non prego affinché si realizzi una «Chiesa
povera per i poveri» [cf. QUI]. La Chiesa è di tutti, dei poveri e dei ricchi e tutti so-
no chiamati alla salvezza; anche perché non è scritto in nessuna parte dei Santi
Vangeli che povero è uguale a buono e che ricco è uguale a cattivo. Ci sono poveri
dotati di una cattiveria e di una malvagità spaventosa, come ci sono ricchi che vi-
vono con grande rispetto per il prossimo, soprattutto per i meno abbienti; e spes-
so, solo dopo la morte di diversi di costoro, si è venuto a sapere quanta benefi-
cienza hanno fatto e quante famiglie hanno aiutato nel totale nascondimento. Così

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L’ISOLA di PATMOS

come ci sono poveri capaci a privarsi del necessario per rendere gloria a Dio, si
pensi solo al racconto evangelico della povera vedova che getta nel tesoro del
tempio le due uniche monete che possedeva [cf. Mt 12, 41-44]. Pertanto io ho
sempre pregato e seguiterò a pregare non per una ideologica Chiesa povera per i
poveri, ma per una Chiesa di uomini e donne ricchi di fede, lasciando ad altri la
suprema ideologia del povero, che non ha mai costituito né una verità né tanto
meno un dogma della santa fede cattolica. Anche perché, il primo a non essere na-
to da due poveri, a non avere vissuto da povero, a non avere mangiato da povero,
a non essere stato infine neppure sepolto da povero, è stato proprio Nostro Si-
gnore Gesù Cristo; è chi vi dice il contrario, vi parla di un Cristo del tutto diverso
da quello descritto nei Santi Vangeli, quindi vi annuncia un Cristo storico falso, un
Cristo che non è mai esistito.

Cristo è via, verità e vita [Cf. Gv 14, 6], lo è nella sua assolutezza e totalità. Cristo
non può essere ridotto ad un pretesto per legittimare la nostra via e le nostre opi-
nabili verità, conducendo infine il gregge a noi affidato da pascere dal Divino Pa-
store, verso una vita diversa da quella donata e offerta dal Datore Supremo della
vita. Perché in tal caso, su di noi, incomberà il grido:

«Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo».
Perciò dice il Signore, Dio di Israele, contro i pastori che devono pascere il
mio popolo: «Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne
siete preoccupati; ecco io mi occuperò di voi e della malvagità delle vostre a-
zioni. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tut-
te le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli; sa-
ranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le
faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; di esse
non ne mancherà neppure una» [Ger 23, 1-4].

E su di noi che le pecore le abbiamo disperse, perché impegnati ad imporre le


ideologie del nostro “io” anziché le verità di Dio, incomberà come sul «servo fan-
nullone» la condanna, quindi saremo «gettati fuori nelle tenebre, là dove sarà

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pianto e stridore di denti» [cf. Mt 25, 30]. È infatti cosa stolta ed empia che
l’improvvido ed eretico Preposito generale della Compagnia di Gesù, Padre Arturo
Sosa, “scherzi sull’Inferno” allegorizzando il Demonio e relegandolo a «simbolo»,
posto che il Demonio non è affatto «simbolo» ma persona [cf. QUI]. Esiste quindi il
Demonio ― che ripeto è persona ―, ed esiste l’Inferno, il quale tra l’altro rischia
d’essere pieno di quei teologastri gesuiti caduti oggi nel delirio d’onnipotenza e
nella totale impunità, i quali recano, come il loro Preposito generale lasciato in ca-
rica malgrado le sue grossolane eresie, sconforto e smarrimento nel Popolo di
Dio.

E di tutto questo, a faccia a faccia con Dio, qualcuno, o forse più di uno, ne dovrà
rispondere al Re dell’Universo che ricapitola in sé tutte le cose [cf . Ef 1, 1-23], ed
il Suo giudizio verso certi pastori che hanno disperso e fatto perire il gregge, sarà
severissimo. Perché Dio, castiga e usa misericordia [cf. Giovanni Cavalcoli, QUI,
QUI].

Da L’Isola di Patmos, 19 luglio 2017

Nota della Redazione

NELLA SEZIONE "I NOSTRI VIDEO " È DISPONIBILE UNA LECTIO NELLA QUALE PADRE
ARIEL TRATTA QUESTO ARGOMENTO SOTTO IL TITOLO: « L'ORO DEI MAGI E IL FALSO
AMORE PER I POVERI DI GIUDA ISCARIOTA ».

Per aprire il video cliccare

QUI

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