Giovanni Paolo II-Teologia Del Corpo

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Sua Santità

San Giovanni Paolo II

Udienze del mercoledì

sulla

TEOLOGIA DEL CORPO

http://w2.vatican.va/content/vatican/it/holy-father/giovanni-paolo-ii.html

compilate sulla versione in italiano


tenendo conto della disposizione delle note secondo la versione in francese

1
PIANO DELL'OPERA

1°) - n° 23 udienze = 05/09/1979 - 02/04/1980: il piano di Dio "alle origini" circa l'uomo e la
donna in risposta alla domanda che i farisei fanno a Gesù "E' permesso ripudiare la propria
moglie?" (Mt 19,3-9)
2°) - n° 40 udienze = 16/04/1980 - 06/05/1981: riflessione sulla purezza del cuore, prendendo le
mosse dal Discorso della montagna (Mt 5,27-28)
3°) - n° 45 udienze = 11/11/1981 - 09/02/1983: dalla risposta di Gesù ai sadducei circa la
resurrezione (Mc 12,20-23)
4°) - n° 21 udienze = 23/05/1984 - 28/11/1984: di cui quindici dedicate a commento della
Humanae vitae di S.S. San Paolo VI

Mercoledì, 5 settembre 1979


A colloquio con Cristo sui fondamenti della famiglia
1. Da un certo tempo sono in corso i preparativi per la prossima assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi,
che si svolgerà a Roma nell’autunno dell’anno venturo. Il tema del Sinodo: “De muneribus familiae
christianae” (Doveri della famiglia cristiana) concentra la nostra attenzione su tale comunità della vita
umana e cristiana, che sin da principio è fondamentale. Proprio di questa espressione “da principio” si è
servito il Signore Gesù nel colloquio sul matrimonio, riportato nel Vangelo di San Matteo e da quello di San
Marco. Vogliamo chiederci che cosa significhi questa parola: “principio”. Vogliamo inoltre chiarire perché
Cristo si richiami al “principio” appunto in quella circostanza e, pertanto, ci proponiamo una più precisa
analisi del relativo testo della Sacra Scrittura.
2. Due volte, durante il colloquio con i farisei, che gli ponevano il quesito sulla indissolubilità del
matrimonio, Gesù Cristo si è riferito al “principio”. Il colloquio si è svolto nel modo seguente: “...gli si
avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “E lecito ad un uomo ripudiare la propria
moglie per qualsiasi motivo?”. Ed egli rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e
femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una
carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non
lo separi”. Gli obiettarono: “Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di mandarla via?”.
Rispose loro Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da
principio non fu così” (Mt 19,3ss.; cf. Mc 10,2ss.).
Cristo non accetta la discussione al livello nel quale i suoi interlocutori cercano di introdurla, in certo senso
non approva la dimensione che essi hanno cercato di dare al problema. Evita di impigliarsi nelle controversie
giuridico-casistiche; e invece si richiama due volte al “principio”. Agendo così, fa chiaro riferimento alle
relative parole del Libro della Genesi che anche i suoi interlocutori conoscono a memoria. Da quelle parole
dell’antichissima rivelazione, Cristo trae la conclusione e il colloquio si chiude.
3. “Principio” significa quindi ciò di cui parla il Libro della Genesi. È dunque la Genesi 1,27 che Cristo cita,
in forma riassuntiva: “Il Creatore da principio li creò maschio e femmina”, mentre il brano originario
completo suona testualmente così: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e
femmina li creò”. In seguito, il Maestro si richiama alla Genesi 2,24: “Per questo l’uomo abbandonerà suo
padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”. Citando queste parole quasi “ in
extenso”, per intero, Cristo dà loro un ancor più esplicito significato normativo (dato che sarebbe ipotizzabile
che nel Libro della Genesi suonino come affermazioni di fatto: “abbandonerà... si unirà... saranno una sola
carne”). Il significato normativo è plausibile in quanto Cristo non si limita soltanto alla citazione stessa, ma
aggiunge: “Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non
lo separi”. Quel “non lo separi” è determinante. Alla luce di questa parola di Cristo, la Genesi 2,24 enuncia il
principio dell’unità e indissolubilità del matrimonio come il contenuto stesso della parola di Dio, espressa
nella più antica rivelazione.

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4. Si potrebbe a questo punto sostenere che il problema sia esaurito, che le parole di Gesù Cristo confermino
l’eterna legge formulata e istituita da Dio da “principio” come la creazione dell’uomo. Potrebbe anche
sembrare che il Maestro, nel confermare questa primordiale legge del Creatore, non faccia altro che stabilire
esclusivamente il suo proprio senso normativo, richiamandosi all’autorità stessa del primo Legislatore.
Tuttavia, quella espressione significativa: “da principio”, ripetuta due volte, induce chiaramente gli
interlocutori a riflettere sul modo in cui nel mistero della creazione è stato plasmato l’uomo, appunto, come
“maschio e femmina”, per capire correttamente il senso normativo delle parole della Genesi. E questo non è
meno valido per gli interlocutori di oggi quanto non sia stato per quelli di allora. Pertanto, nel presente
studio, considerando tutto ciò, dobbiamo metterci proprio nella posizione degli odierni interlocutori di
Cristo.
5. Durante le successive riflessioni del mercoledì, nelle udienze generali, cercheremo, come odierni
interlocutori di Cristo, di fermarci più a lungo sulle parole di San Matteo (Mt 19,3ss.). Per rispondere
all’indicazione, che Cristo ha in esse racchiuso, cercheremo di addentrarci verso quel “principio”, al quale
egli si è riferito in modo tanto significativo; e così seguiremo da lontano il gran lavoro, che su questo tema
proprio adesso intraprendono i partecipanti al prossimo Sinodo dei Vescovi. Insieme a loro vi prendono parte
numerosi gruppi di pastori e di laici, che si sentono particolarmente responsabili circa i compiti, che Cristo
pone al matrimonio e alla famiglia cristiana; i compiti che egli ha posto sempre, e pone anche nella nostra
epoca, nel mondo contemporaneo.
Il ciclo di riflessioni che iniziamo oggi, con l’intenzione di continuarlo durante i successivi incontri del
mercoledì, ha anche, tra l’altro, come scopo di accompagnare, per così dire da lontano, i lavori preparatori al
Sinodo, non toccandone però direttamente il tema, ma volgendo l’attenzione alle profonde radici, da cui
questo tema scaturisce.

Mercoledì, 12 settembre 1979


Nel primo racconto della creazione l’oggettiva definizione dell’uomo
1. Mercoledì scorso abbiamo iniziato il ciclo di riflessioni sulla risposta che Cristo Signore diede ai suoi
interlocutori circa la domanda sull’unità e indissolubilità del matrimonio. Gli interlocutori farisei, come
ricordiamo, si sono appellati alla legge di Mosè; Cristo invece si è richiamato al “principio”, citando le
parole del Libro della Genesi.
Il “principio”, in questo caso, riguarda ciò di cui tratta una delle prime pagine del Libro della Genesi. Se
vogliamo fare un’analisi di questa realtà, dobbiamo senz’altro rivolgerci anzitutto al testo. Infatti le parole
pronunziate da Cristo nel colloquio con i farisei, che il capo 19 di Matteo e il capo 10 di Marco ci hanno
riportato, costituiscono un passo che a sua volta si inquadra in un contesto ben definito, senza il quale non
possono essere né intese né giustamente interpretate.
Questo contesto è dato dalle parole; “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e
femmina...?” (Mt19,4), e fa riferimento al cosiddetto primo racconto della creazione dell’uomo, inserito nel
ciclo dei sette giorni della creazione del mondo (Gen 1,1-2.4). Invece, il contesto più prossimo alle altre
parole di Cristo, tratte da Genesi 2,24, è il cosiddetto secondo racconto della creazione dell’uomo (Gen 2,5-
25), ma indirettamente è tutto il terzo capitolo della Genesi. Il secondo racconto della creazione dell’uomo
forma una unità concettuale e stilistica con la descrizione dell’innocenza originaria, della felicità dell’uomo
ed anche della sua prima caduta. Data la specificità del contenuto espresso nelle parole di Cristo, prese da
Genesi 2,24, si potrebbe anche includere nel contesto almeno la prima frase del capitolo quarto della Genesi,
che tratta del concepimento e della nascita dell’uomo dai genitori terrestri. Così noi intendiamo fare nella
presente analisi.
2. Dal punto di vista della critica biblica, bisogna subito ricordare che il primo racconto della creazione
dell’uomo è cronologicamente posteriore al secondo. L’origine di quest’ultimo è molto più remota. Tale testo
più antico si definisce come “jahvista”, perché per denominare Dio si serve del termine “Jahvè”. È difficile
non restare impressionati dal fatto che l’immagine di Dio ivi presentata ha dei tratti antropomorfici
abbastanza rilevanti (tra l’altro vi leggiamo infatti che “...il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del

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suolo e soffiò nelle sue (Gen 2,7). In confronto a questa descrizione, il primo racconto, cioè proprio quello
ritenuto cronologicamente più recente, è molto più maturo sia per quanto riguarda l’immagine di Dio, sia
nella formulazione delle verità essenziali sull’uomo. Questo racconto proviene dalla tradizione sacerdotale e
insieme “elohista”, da “Elohim”, termine da esso usato per denominare Dio.
3. Dato che in questa narrazione la creazione dell’uomo come maschio e femmina, alla quale si riferisce
Gesù nella sua risposta secondo Matteo 19, è inserita nel ritmo dei sette giorni della creazione del mondo, le
si potrebbe attribuire soprattutto un carattere cosmologico; l’uomo viene creato sulla terra e insieme al
mondo visibile. Ma nello stesso tempo il Creatore gli ordina di soggiogare e dominare la terra (cf. Gen 1,28):
egli è quindi posto al di sopra del mondo. Sebbene l’uomo sia così strettamente legato al mondo visibile,
tuttavia la narrazione biblica non parla della sua somiglianza col resto delle creature, ma solamente con Dio
(“Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò...” (Gen 1,27). Nel ciclo dei sette giorni della
creazione è evidente una precisa gradualità 1. L’uomo invece non viene creato secondo una naturale
successione, ma il Creatore sembra arrestarsi prima di chiamarlo all’esistenza, come se rientrasse in se stesso
per prendere una decisione: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza...” (Gen 1,26).
4. Il livello di quel primo racconto della creazione dell’uomo, anche se cronologicamente posteriore, è
soprattutto di carattere teologico. Ne è indice soprattutto la definizione dell’uomo sulla base del suo rapporto
con Dio (“a immagine di Dio lo creò”), il che racchiude contemporaneamente l’affermazione dell’assoluta
impossibilità di ridurre l’uomo al “mondo”. Già alla luce delle prime frasi della Bibbia, l’uomo non può
essere né compreso né spiegato fino in fondo con le categorie desunte dal “mondo”, cioè dal complesso
visibile dei corpi. Nonostante ciò anche l’uomo è corpo. Genesi 1,27 constata che questa verità essenziale
circa l’uomo si riferisce tanto al maschio che alla femmina: “Dio creò l’uomo a sua immagine... maschio e
femmina li creò”2 . Bisogna riconoscere che il primo racconto è conciso, libero da qualsiasi traccia di
soggettivismo: contiene soltanto il fatto oggettivo e definisce la realtà oggettiva, sia quando parla della
creazione dell’uomo, maschio e femmina, ad immagine di Dio, sia quando vi aggiunge poco dopo le parole
della prima benedizione: “Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra;
soggiogatela e dominate”” (Gen 1,28).
5. Il primo racconto della creazione dell’uomo, che, come abbiamo constatato, è di indole teologica,
nasconde in sé una potente carica metafisica. Non si dimentichi che proprio questo testo del Libro della
Genesi è diventato la sorgente delle più profonde ispirazioni per i pensatori che hanno cercato di
comprendere l’“essere” e l’“esistere” (forse soltanto il capitolo terzo del libro dell’Esodo può reggere il
confronto con questo testo 3) . Nonostante alcune espressioni particolareggiate e plastiche del brano, l’uomo
vi è definito prima di tutto nelle dimensioni dell’essere e dell’esistere (“esse”). È definito in modo più
metafisico che fisico. Al mistero della sua creazione (“a immagine di Dio lo creò”) corrisponde la prospettiva

1. Parlando della materia non vivificata, l’autore biblico adopera differenti predicati, come “separò”, “chiamò”, “fece”,
“pose”. Parlando invece degli esseri dotati di vita usa i termini “creò” e “benedisse”. Dio ordina loro: “Siate fecondi e
moltiplicatevi”. Questo ordine si riferisce sia agli animali, sia all’uomo, indicando che la corporalità è comune a loro
[cf. Gen 1,27-28]. Tuttavia la creazione dell’uomo si distingue essenzialmente, nella descrizione biblica, dalle
precedenti opere di Dio. Non soltanto è preceduta da una solenne introduzione, come se si trattasse di una deliberazione
di Dio prima di questo atto importante, ma soprattutto l’eccezionale dignità dell’uomo viene messa in rilievo dalla
“somiglianza” con Dio di cui è l’immagine. Creando la materia non vivificata Dio “separava”, agli animali ordina di
essere fecondi e di moltiplicarsi, ma la differenza del sesso è sottolineata soltanto nei confronti dell’uomo [“maschio e
femmina li creò”] benedicendo nello stesso tempo la loro fecondità, cioè il vincolo delle persone [Gen 1,27-28]-
2. Il testo originale dice: “Dio creò l’uomo [ha-adam – sostantivo collettivo: l’“umanità”?], a sua immagine; a immagi-
ne di Dio lo creò; maschi [zakar – maschile] e femmina [uneqebah– femminile] li creò” [Gen 1,27].
3. “Haec sublimis veritas”: “Io sono colui che sono” [Es 3,14] costituisce oggetto di riflessione di molti filosofi,
incominciando da Sant’Agostino, il quale riteneva che Platone dovesse conoscere questo testo perché gli sembrava
tanto vicino alle sue concezioni. La dottrina agostiniana della divina “essentialitas” ha esercitato, mediante
Sant’Anselmo, un profondo influsso sulla teologia di Riccardo da S. Vittore, di Alessandro di Hales e di S.
Bonaventura. “Pour passer de cette interprétation philosophique du texte de l’Exode à celle qu’allait proposer saint
Thomas il fallait nécessairement franchir la distance qui sépare “l’être de l’essence” de “l’être de l’existence”. Les
preuves thomistes de l’existence de Dieu l’ont franchie”. Diversa è la posizione di Maestro Eckhart, che sulla base di
questo testo attribuisce a Dio la “puritas essendi”: “est aliquid altius ente... ” [cf. E. Gilson, Le Thomisme, Paris 1944
[Vrin], pp. 122-127; E. Gilson, History of Christian Philosophy in the Middle Ages, London 1955 [Sheed and Ward],
810].

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della procreazione (“siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra”), di quel divenire nel mondo e nel
tempo, di quel “fieri” che è necessariamente legato alla situazione metafisica della creazione: dell’essere
contingente (“contingens”). Proprio in tale contesto metafisico della descrizione di Genesi 1, bisogna
intendere l’entità del bene, cioè l’aspetto del valore. Infatti, questo aspetto torna nel ritmo di quasi tutti i
giorni della creazione e raggiunge il culmine dopo la creazione dell’uomo: “Dio vide quanto aveva fatto, ed
ecco, era cosa molto buona” (Gen1,31). Per cui si può dire con certezza che il primo capitolo della Genesi ha
formato un punto inoppugnabile di riferimento e la solida base per una metafisica ed anche per
un’antropologia e un’etica, secondo la quale “ens et bonum convertuntur”. Senz’altro, tutto ciò ha un suo
significato anche per la teologia e soprattutto per la teologia del corpo.
6. A questo punto interrompiamo le nostre considerazioni. Tra una settimana ci occuperemo del secondo
racconto della creazione, cioè di quello che, secondo i biblisti, è cronologicamente più antico. L’espressione
“teologia del corpo”, or ora usata, merita una spiegazione più esatta, ma la rimandiamo ad un altro incontro.
Dobbiamo prima cercare di approfondire quel passo del Libro della Genesi, al quale Cristo si è richiamato.

Mercoledì, 19 settembre 1979


Nel secondo racconto della creazione la definizione soggettiva dell’uomo
1. In riferimento alle parole di Cristo sul tema del matrimonio, in cui egli si richiama al “principio”, abbiamo
rivolto la nostra attenzione, una settimana fa, al primo racconto della creazione dell’uomo nel Libro della
Genesi (Gen 1) Oggi passeremo al secondo racconto il quale, poiché Dio vi è chiamato “Jahvè”, viene spesso
definito “jahvista”.
Il secondo racconto della creazione dell’uomo (legato alla presentazione sia dell’innocenza e felicità
originarie che della prima caduta) ha per sua natura un carattere diverso. Pur non volendo anticipare i
particolari di questa narrazione – perché ci converrà richiamarli nelle ulteriori analisi – dobbiamo constatare
che tutto il testo, nel formulare la verità sull’uomo, ci stupisce con la sua tipica profondità, diversa da quella
del primo capitolo della Genesi. Si può dire che è una profondità di natura soprattutto soggettiva e quindi, in
certo senso, psicologica. Il capitolo 2 della Genesi costituisce, in certo qual modo, la più antica descrizione e
registrazione dell’auto-comprensione dell’uomo e, insieme al capitolo 3, è la prima testimonianza della
coscienza umana. Con una approfondita riflessione su questo testo – attraverso tutta la forma arcaica della
narrazione, che manifesta il suo primitivo carattere mitico 4 – vi troviamo “in nucleo” quasi tutti gli elementi

4. Se nel linguaggio del razionalismo del XIX secolo il termine “mito” indicava ciò che non si conteneva nella realtà, il
prodotto di immaginazione [Wundt], o ciò che è irrazionale [Lévy-Bruhl], il secolo XX ha modificato la concezione del
mito. L. Walk vede nel mito la filosofia naturale, primitiva e areligiosa; R. Otto lo considera strumento di conoscenza
religiosa; per C. G. Jung invece il mito è manifestazione degli archetipi e l’espressione dell’“inconscio collettivo”,
simbolo dei processi interiori. M. Eliade scopre nel mito la struttura della realtà che è inaccessibile all’indagine
razionale ed empirica: il mito infatti trasforma l’evento in categoria e rende capaci di percepire la realtà trascendente;
non è soltanto simbolo dei processi interiori [come afferma Jung], ma un atto autonomo e creativo dello spirito umano,
mediante il quale si attua la rivelazione [cf. Traité d’histoire des religiones, Paris 1949, p. 363; Images et symboles,
Paris 1952, pp. 199-235]. Secondo P. Tillich il mito è un simbolo, costituito dagli elementi della realtà per presentare
l’assoluto e la trascendenza dell’essere, ai quali tende l’atto religioso. H. Schlier sottolinea che il mito non conosce i
fatti storici e non ne ha bisogno, in quanto descrive ciò che è destino cosmico dell’uomo che è sempre tale e quale.
Infine il mito tende a conoscere ciò che è inconoscibile.
Secondo P. Ricœur : « Le mythe est autre chose qu’une explication du monde, de l’histoire et de la destinée ; il exprime,
en terme de monde, voire d’outre-monde ou de second monde la compréhension que l’homme prend de lui-même par
rapport au fondement et à la limite de son existence. […] Il exprime dans un langage objectif le sens que l’homme
prend de sa dépendance à l’égard de cela qui se tient à la limite et à l’origine de son monde. » (P. Ricœur, le Conflit des
interprétations, Paris 1969 (Seuil), p. 383.) « Le mythe adamique est par excellence le mythe anthropologique ; Adam
veut dire Homme ; mais tout mythe de l’ « homme primordial » n’est pas « mythe adamique » qui… est seul propre-
ment anthropologique; par là trois traits sont désignés: « – Le mythe étiologique rapporte l’origine du mal à
un ancêtre de l’humanité actuelle dont la condition est homogène à la nôtre. […]« – Le mythe étiologique est la
tentative la plus extrême pour dédoubler l’origine du mal et du bien. L’intention de ce mythe est de donner consistance à
une origine radicale du mal distincte de l’origine plus originaire de l’être-bon des choses. […] Cette distinction du

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dell’analisi dell’uomo, ai quali è sensibile l’antropologia filosofica moderna e soprattutto contemporanea. Si
potrebbe dire che Genesi 2 presenta la creazione dell’uomo specialmente nell’aspetto della sua soggettività.
Confrontando insieme ambedue i racconti, giungiamo alla convinzione che questa soggettività corrisponde
all’oggettiva realtà dell’uomo creato “a immagine di Dio”. E anche questo fatto è – in un altro modo –
importante per la teologia del corpo, come vedremo nelle analisi seguenti.
2. È significativo che il Cristo, nella sua risposta ai farisei in cui si richiama al “principio”, indica
innanzitutto la creazione dell’uomo con riferimento a Genesi 1,27: “Il Creatore da principio li creò maschio e
femmina”; soltanto in seguito cita il testo di Genesi 2,24. Le parole, che direttamente descrivono l’unità e
indissolubilità del matrimonio, si trovano nell’immediato contesto del secondo racconto della creazione, il
cui tratto caratteristico è la creazione separata della donna (cf. Gen 2,18-23), mentre il racconto della
creazione del primo uomo (maschio) si trova in Genesi 2,5-7.
Questo primo essere umano la Bibbia lo chiama “uomo” (“‘adam”), mentre invece dal momento della
creazione della prima donna, comincia a chiamarlo “maschio”, “‘is”, in relazione a “‘iššâ” (“femmina”)
perché è stata tolta dal maschio = “‘iš”)5 . Ed è anche significativo che, riferendosi a Genesi 2,24, Cristo non
soltanto collega il “principio” col mistero della creazione, ma anche ci conduce, per così dire, al confine
della primitiva innocenza dell’uomo e del peccato originale.
La seconda descrizione della creazione dell’uomo è stata fissata nel Libro della Genesi proprio in tale
contesto. Vi leggiamo innanzitutto: “Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una
donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: “Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle
mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta” (Gen 2,22-23).
“Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola
carne” (Gen2,24).
“Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non provavano vergogna” (Gen 2,25).
3. In seguito, immediatamente dopo questi versetti, inizia Genesi 3, il racconto della prima caduta dell’uomo
e della donna, collegato con l’albero misterioso, che già prima è stato chiamato “albero della conoscenza del
bene e del male” (Gen 2,17). Con ciò emerge una situazione completamente nuova, essenzialmente diversa
da quella precedente. L’albero della conoscenza del bene e del male è una linea di demarcazione tra le due
situazioni originarie, di cui parla il libro della Genesi. La prima situazione è quella dell’innocenza originaria,
in cui l’uomo (maschio e femmina) si trova quasi al di fuori della conoscenza del bene e del male, fino al
momento in cui non trasgredisce la proibizione del Creatore e non mangia il frutto dell’albero della
conoscenza. La seconda situazione, invece, è quella in cui l’uomo, dopo aver trasgredito il comando del
Creatore per suggerimento dello spirito maligno simboleggiato dal serpente, si trova, in un certo modo,
dentro la conoscenza del bene e del male. Questa seconda situazione determina lo stato di peccaminosità
umana, contrapposto allo stato di innocenza primitiva.
Sebbene il testo jahvista sia nell’insieme molto conciso, basta però a differenziare e a contrapporre con
chiarezza quelle due situazioni originarie. Parliamo qui di situazioni, avendo davanti agli occhi il racconto
che è una descrizione di eventi. Nondimeno attraverso questa descrizione e tutti i suoi particolari, emerge la
differenza essenziale tra lo stato di peccaminosità dell’uomo e quello della sua innocenza originaria (“Lo

radical de l’originaire est essentielle au caractère anthropologique du mythe adamique ; c’est elle qui fait de l’homme
un commencement du mal au sein d’une création qui a déjà son commencement absolu dans l’acte créateur de Dieu.« –
Le mythe adamique subordonne à la figure centrale de l’homme primordial d’autres figures qui tendent à décentrer le
récit, sans pourtant supprimer le primat de la figure adamique. […]
« Le mythe, en nommant Adam, l’homme, explicite l’universalité concrète du mal humain ; l’esprit de pénitence se
donne dans le mythe adamique le symbole de cette universalité. Nous retrouvons ainsi […] la fonction universalisante
du mythe. Mais en même temps nous retrouvons les deux autres fonctions également suscitées par l’expérience
pénitentielle. […] Le mythe proto-historique servit ainsi non seulement à généraliser l’expérience d’Israël à l’humanité
de tous les temps et de tous les lieux, mais à étendre à celle-ci la grande tension de la condamnation et de la
miséricorde que les prophètes avaient enseigné à discerner dans le propre destin d’Israël. « Enfin, dernière fonction du
mythe, motivée dans la foi d’Israël : le mythe prépare la spéculation en explorant le point de rupture de l’ontologique et
de l’historique. » (P. Ricœur, Finitude et culpabilité : II. Symbolique du mal, Paris 1960 (Aubier), pp. 218-227.)
5. Quanto all’etimologia, non è escluso che il termine ebraico “‘iš” derivi da una radice che significa “forza” [“‘iš”
oppure “‘wš”]; invece “‘iššâ” è legata ad una serie di termini semitici, il cui significato oscilla tra “femmina” e
“moglie”. L’etimologia proposta dal testo biblico è di carattere popolare e serve a sottolineare l’unità della provenienza
dell’uomo e della donna; ciò sembra confermato dall’assonanza di ambedue le voci.

6
stesso linguaggio religioso richiede la trasposizione da “immagini” o piuttosto “modalità simboliche” a
“modalità concettuali” di espressione. A prima vista questa trasposizione può sembrare un cambiamento
puramente “estrinseco”... Il linguaggio simbolico sembra inadeguato a prendere la via del concetto per un
motivo che è peculiare della cultura occidentale. In questa cultura il linguaggio religioso è sempre stato
condizionato da un altro linguaggio, quello filosofico, che è il linguaggio concettuale “per eccellenza”... Se è
vero che un vocabolario religioso è compreso solo in una comunità che lo interpreta e secondo una tradizione
di interpretazione, è vero però anche che non esiste tradizione di interpretazione che non sia “mediata” da
qualche concezione filosofica. Ecco che la parola “Dio”, che nei testi biblici riceve il suo significato dalla
“convergenza” di diversi modi del discorso [racconti e profezie, testi di legislazione e letteratura sapienziale,
proverbi ed inni], – vista, questa convergenza, sia come il punto di intersezione che come l’orizzonte
sfuggente ad ogni e qualsiasi forma – dovette essere assorbita nello spazio concettuale, per essere
reinterpretata nei termini dell’Assoluto filosofico, come primo motore, causa prima, “Actus essendi”, essere
perfetto, ecc. Il nostro concetto di Dio appartiene quindi ad una onto-teologia, nella quale si organizza
l’intera costellazione delle parole-chiave della semantica teologica, ma in una cornice di significati dettati
dalla metafisica” [P. Ricœur, Ermeneutica biblica, Morcelliana, Brescia 1978, pp. 140-141; tit. orig.: Biblical
Ermeneutics, Montana 1975].
La questione, se la riduzione metafisica esprima realmente il contenuto che nasconde in sé il linguaggio
simbolico e metaforico, è un tema a parte.). La teologia sistematica scorgerà in queste due situazioni
antitetiche due diversi stati della natura umana: “status naturae integrae” (stato di natura integra) e “status
naturae lapsae” (stato di natura decaduta). Tutto ciò emerge da quel testo jahvista di Genesi 2 e 3, che
racchiude in sé la più antica parola della rivelazione, ed evidentemente ha un significato fondamentale per la
teologia dell’uomo e per la teologia del corpo.
4. Quando Cristo, riferendosi al “principio”, indirizza i suoi interlocutori alle parole scritte in Genesi 2,24,
ordina loro, in certo senso, di oltrepassare il confine che, nel testo jahvista della Genesi, corre tra la prima e
la seconda situazione dell’uomo. Egli non approva ciò che “per durezza del... cuore” Mosè ha permesso, e si
richiama alle parole del primo ordinamento divino, che in questo testo è espressamente legato allo stato di
innocenza originaria dell’uomo. Ciò significa che questo ordinamento non ha perduto il suo vigore, benché
l’uomo abbia perso la primitiva innocenza. La risposta di Cristo è decisiva e senza equivoci. Perciò
dobbiamo trarne le conclusioni normative, che hanno un significato essenziale non soltanto per l’etica, ma
soprattutto per la teologia dell’uomo e per la teologia del corpo, la quale, come un momento particolare
dell’antropologia teologica, si costituisce sul fondamento della parola di Dio che si rivela. Cercheremo di
trarre tali conclusioni durante il prossimo incontro.

Mercoledì, 26 settembre 1979


Legame tra innocenza originaria e redenzione operata da Cristo
1. Cristo, rispondendo alla domanda sull’unità e indissolubilità del matrimonio, si è richiamato a ciò che sul
tema del matrimonio è stato scritto nel Libro della Genesi. Nelle due precedenti nostre riflessioni abbiamo
sottoposto ad analisi sia il cosiddetto testo elohista (Gen 1), sia quello jahvista (Gen 2). Oggi desideriamo
trarre da queste analisi alcune conclusioni.
Quando Cristo si riferisce al “principio”, chiede ai suoi interlocutori di superare, in un certo senso, il confine
che, nel Libro della Genesi, passa tra lo stato di innocenza originaria e quello di peccaminosità, iniziato con
la caduta originale.
Simbolicamente si può legare questo confine con l’albero della conoscenza del bene e del male, che nel testo
jahvista delimita due situazioni diametralmente opposte: la situazione dell’innocenza originaria e quella del
peccato originale. Queste situazioni hanno una propria dimensione nell’uomo, nel suo intimo, nella sua
conoscenza, coscienza, scelta e decisione, e tutto ciò in rapporto a Dio Creatore che, nel testo jahvista
(Gen 2-3), è, al tempo stesso, il Dio dell’alleanza, della più antica alleanza del Creatore con la sua creatura,
cioè con l’uomo. L’albero della conoscenza del bene e del male, come espressione e simbolo dell’alleanza
con Dio infranta nel cuore dell’uomo, delimita e contrappone due situazioni e due stati diametralmente

7
opposti: quello dell’innocenza originaria e quello del peccato originale, e insieme della peccaminosità
ereditaria dell’uomo che ne deriva.
Tuttavia le parole di Cristo, che si riferiscono al “principio”, ci permettono di trovare nell’uomo una
continuità essenziale e un legame fra questi due diversi stati o dimensioni dell’essere umano. Lo stato di
peccato fa parte dell’“uomo storico”, sia di colui del quale leggiamo in Matteo 19 cioè dell’interlocutore di
Cristo d’allora, sia pure di ogni altro potenziale o attuale interlocutore di tutti i tempi della storia, e quindi,
naturalmente, anche dell’uomo di oggi. Quello stato però – lo stato “storico”, appunto – in ogni uomo, senza
alcuna eccezione, affonda le radici nella sua propria “preistoria” teologica, che è lo stato dell’innocenza
originaria.
2. Non si tratta qui di sola dialettica. Le leggi del conoscere rispondono a quelle dell’essere. È impossibile
capire lo stato della peccaminosità “storica”, senza riferirsi o richiamarsi (e Cristo infatti vi si richiama) allo
stato di originaria (in un certo senso “preistorica”) e fondamentale innocenza. Il sorgere quindi della
peccaminosità come stato, come dimensione della esistenza umana è, sin dagli inizi, in rapporto con questa
reale innocenza dell’uomo come stato originario e fondamentale, come dimensione dell’essere creato “a
immagine di Dio”.
E così avviene non soltanto per il primo uomo, maschio e femmina quali “dramatis personae” e protagonisti
delle vicende descritte nel testo jahvista dei capitoli 2 e 3 della Genesi, ma anche per l’intero percorso storico
dell’esistenza umana. L’uomo storico è dunque, per così dire, radicato nella sua preistoria teologica rivelata;
e perciò ogni punto della sua peccaminosità storica si spiega (sia per l’anima che per il corpo) col riferimento
all’innocenza originaria. Si può dire che questo riferimento è “coeredità” del peccato, e proprio del peccato
originale. Se questo peccato significa, in ogni uomo storico, uno stato di grazia perduta, allora esso comporta
pure un riferimento a quella grazia, che era precisamente la grazia dell’innocenza originaria.
3. Quando Cristo, secondo il capitolo 19 di Matteo, si richiama al “principio”, con questa espressione egli
non indica soltanto lo stato di innocenza originaria quale orizzonte perduto dell’esistenza umana nella storia.
Alle parole, che egli pronunzia proprio con la sua bocca, abbiamo il diritto di attribuire contemporaneamente
tutta l’eloquenza del mistero della redenzione. Infatti già nell’ambito dello stesso jahvista di Genesi 2 e 3,
siamo testimoni di quando l’uomo, maschio e femmina, dopo aver rotto l’alleanza originaria col suo
Creatore, riceve la prima promessa di redenzione nelle parole del cosiddetto Protoevangelo in Genesi 3,15 6 e
comincia a vivere nella prospettiva teologica della redenzione. Così dunque l’uomo “storico” sia
l’interlocutore di Cristo, di quel tempo, di cui parla Matteo 19, sia l’uomo di oggi partecipa a questa
prospettiva. Egli partecipa non soltanto alla storia della peccaminosità umana, come un soggetto ereditario e
nello stesso tempo personale e irrepetibile di questa storia, ma partecipa pure alla storia della salvezza, anche
qui come suo soggetto e concreatore. Egli è quindi non soltanto chiuso a causa della sua peccaminosità,
riguardo all’innocenza originaria, ma è contemporaneamente aperto verso il mistero della redenzione, che si
è compiuta in Cristo e attraverso Cristo. Paolo, autore della lettera ai Romani, esprime questa prospettiva
della redenzione nella quale vive l’uomo “storico”, quando scrive: “...anche noi, che possediamo le primizie
dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando... la redenzione del nostro corpo” (Rm8,23). Non possiamo
perdere di vista questa prospettiva mentre seguiamo le parole di Cristo che, nel suo colloquio
sull’indissolubilità del matrimonio, fa ricorso al “principio”. Se quel “principio” indicasse solo la creazione
dell’uomo come “maschio e femmina”, se – come già abbiamo accennato – conducesse gli interlocutori solo
attraverso il confine dello stato di peccato dell’uomo fino all’innocenza originaria, e non aprisse
6. Già la traduzione greca dell’Antico Testamento, quella dei Settanta, risalente circa al II secolo a. C. interpreta Genesi
3,15 nel senso messianico, applicando il pronome maschile “autòs” in riferimento al sostantivo neutro greco “sperma”
[“semen” nella Volgata]. La traduzione giudaica continua questa interpretazione. L’esegesi cristiana, cominciando da
Sant’Ireneo [Adversus haereses, III, 23,7] vede questo testo come protoevangelo, che preannunzia la vittoria su Satana
riportata da Gesù Cristo. Sebbene negli ultimi secoli gli studiosi della Sacra Scrittura abbiano diversamente interpretato
questa pericope, ed alcuni di essi contestino l’interpretazione messianica, tuttavia negli ultimi tempi si ritorna ad essa
sotto un aspetto un po’ diverso. L’autore jahvista unisce infatti la preistoria con la storia di Israele, che raggiunge il suo
vertice nella dinastia messianica di Davide, la quale porterà a compimento le promesse di Genesi 3,15 [cf. 2 Sam 7,12].
Il Nuovo Testamento ha illustrato il compimento della promessa nella stessa prospettiva messianica: Gesù è Messia,
discendente di Davide [Rm 1,3; 2Tm 2,8], nato da donna [Gal 4,4], nuovo Adamo-Davide [1Cor 15], che deve regnare
“finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi” [1Cor 15,25] E infine [Ap 12,1-10] presenta il compimento
finale della profezia di Genesi 3,15, che pur non essendo un chiaro e immediato annunzio di Gesù, come Messia di
Israele, conduce tuttavia a Lui attraverso la tradizione regale e messianica che unisce l’Antico e il Nuovo Testamento.

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contemporaneamente la prospettiva di una “redenzione del corpo” la risposta di Cristo non sarebbe affatto
intesa in modo adeguato. Proprio questa prospettiva della redenzione del corpo garantisce la continuità e
l’unità tra lo stato ereditario del peccato dell’uomo e la sua innocenza originaria, sebbene questa innocenza
sia stata storicamente da lui perduta in modo irrimediabile. È anche evidente che Cristo ha il massimo diritto
di rispondere alla domanda postagli dai dottori della Legge e dell’alleanza (come leggiamo in Matteo 19 e in
Marco 10), nella prospettiva della redenzione sulla quale poggia l’alleanza stessa.
4. Se nel contesto sostanzialmente così delineato della teologia dell’uomo-corpo pensiamo al metodo delle
analisi ulteriori circa la rivelazione del “principio”, in cui è essenziale il riferimento ai primi capitoli del
Libro della Genesi, dobbiamo subito rivolgere la nostra attenzione ad un fattore che è particolarmente
importante per l’interpretazione teologica: importante perché consiste nel rapporto tra rivelazione ed
esperienza. Nell’interpretazione della rivelazione circa l’uomo, e soprattutto circa il corpo, per ragioni
comprensibili dobbiamo riferirci all’esperienza, poiché l’uomo-corpo viene percepito da noi soprattutto
nell’esperienza. Alla luce delle menzionate considerazioni fondamentali, abbiamo il pieno diritto di nutrire la
convinzione che questa nostra esperienza “storica” deve, in un certo modo, fermarsi alle soglie
dell’innocenza originaria dell’uomo, poiché nei suoi confronti rimane inadeguata. Tuttavia alla luce delle
stesse considerazioni introduttive, dobbiamo arrivare alla convinzione che la nostra esperienza umana è, in
questo caso, un mezzo in qualche modo legittimo per l’interpretazione teologica, ed è, in un certo senso, un
indispensabile punto di riferimento, al quale dobbiamo richiamarci nell’interpretazione del “principio”.
L’analisi più particolareggiata del testo ci permetterà di averne una visione più chiara.
5. Sembra che le parole della lettera ai Romani 8,23, or ora citata, rendano nel modo migliore l’orientamento
delle nostre ricerche incentrate sulla rivelazione di quel “principio”, al quale si è riferito Cristo nel suo
colloquio sull’indissolubilità del matrimonio (Mt 19; Mc 10). Tutte le successive analisi che a questo
proposito saranno fatte in base ai primi capitoli della Genesi, rifletteranno quasi necessariamente la verità
delle parole paoline: “Noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando... la
redenzione del nostro corpo”. Se ci mettiamo in questa posizione – così profondamente concorde con
l’esperienza7 – il “principio” deve parlarci con la grande ricchezza di luce che proviene dalla rivelazione, alla
quale desidera rispondere soprattutto la teologia. Il seguito delle analisi ci spiegherà perché e in quale senso
questa deve essere teologia del corpo.

Mercoledì, 10 ottobre 1979


L’uomo alla ricerca della definizione di se stesso
1. Nell’ultima riflessione del presente ciclo siamo giunti ad una conclusione introduttiva, tratta dalle parole
del Libro della Genesi sulla creazione dell’uomo quale maschio e femmina. A queste parole, ossia al
“principio”, si è riferito il Signore Gesù nel suo colloquio sull’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19,3-
9; Mc 10,1-12). Ma la conclusione, alla quale siamo pervenuti, non pone ancora fine alla serie delle nostre
analisi. Dobbiamo infatti rileggere le narrazioni del primo e del secondo capitolo del Libro della Genesi in un
contesto più ampio, che ci permetterà di stabilire una serie di significati del testo antico, al quale Cristo si è
riferito. Oggi pertanto rifletteremo sul significato dell’originaria solitudine dell’uomo.
2. Lo spunto per tale riflessione ci viene dato direttamente dalle seguenti parole del Libro della Genesi: “Non
è bene che l’uomo (maschio) sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile” (Gen 2,18). È Dio-Jahvè che
7. Parlando qui del rapporto tra l’“esperienza” e la “rivelazione”, anzi di una sorprendente convergenza tra loro,
vogliamo soltanto constatare che l’uomo, nel suo attuale stato dell’esistere nel corpo, sperimenta molteplici limiti,
sofferenze, passioni, debolezze ed infine la morte stessa, i quali, in pari tempo, riferiscono questo suo esistere nel corpo
ad un altro e diverso stato o dimensione. Quando San Paolo scrive della “redenzione del corpo”, parla con il linguaggio
della rivelazione; l’esperienza infatti non è in grado di cogliere questo contenuto, l’autore della Lettera ai Romani, 8,23
riprende tutto ciò che tanto a lui quanto, in certo modo, ad ogni uomo [indipendentemente dal suo rapporto con la
rivelazione] è offerto attraverso l’esperienza dell’esistenza umana, che è un’esistenza nel corpo. Abbiamo quindi il
diritto di parlare del rapporto tra l’esperienza e la rivelazione, anzi abbiamo il diritto di porre il problema della loro
reciproca relazione, anche se per molti tra l’una e l’altra passa una linea di totale antitesi e di radicale antinomia. Questa
linea, a loro parere, deve senz’altro essere tracciata tra la fede e la scienza, tra la teologia e la filosofia. Nel formulare
tale punto di vista, vengono presi in considerazione piuttosto concetti astratti che non l’uomo quale soggetto vivo.

9
pronunzia queste parole. Esse fanno parte del secondo racconto della creazione dell’uomo e provengono
quindi dalla tradizione jahvista. Come abbiamo già ricordato in precedenza, è significativo che, quanto al
testo jahvista, il racconto della creazione dell’uomo (maschio) sia un brano a sé (cf. Gen 2,7), che precede il
racconto della creazione della prima donna (cf. Gen 2,21-22). È inoltre significativo che il primo uomo
(“‘adam”), creato dalla “polvere del suolo”, soltanto dopo la creazione della prima donna venga definito
come un “maschio” (“‘iš”).
Così, dunque, quando Dio-Jahvè pronunzia le parole circa la solitudine, le riferisce alla solitudine
dell’“uomo” in quanto tale, e non soltanto a quella del maschio 8
È difficile però, solo in base a questo fatto, andare troppo lontano nel trarre le conclusioni. Nondimeno il
contesto completo di quella solitudine, di cui parla la Genesi 2,18, può convincerci che qui si tratti della
solitudine dell’“uomo” (maschio e femmina) e non soltanto della solitudine dell’uomo-maschio, causata
dalla mancanza della donna.
Sembra quindi, in base al contesto intero, che questa solitudine abbia due significati: uno che deriva dalla
natura stessa dell’uomo, cioè dalla sua umanità (e ciò è evidente nel racconto di Genesi 2), e l’altro che
deriva dal rapporto maschio-femmina, e ciò è evidente, in un certo modo, in base al primo significato. Una
particolareggiata analisi della descrizione sembra confermarlo.
3. Il problema della solitudine si manifesta soltanto nel contesto del secondo racconto della creazione
dell’uomo. Il primo racconto non conosce questo problema. Ivi l’uomo viene creato in un solo atto come
“maschio e femmina” (“Dio creò l’uomo a sua immagine... maschio e femmina li creò”) ( Gen 1,27). Il
secondo racconto che, come abbiamo già menzionato, parla prima della creazione dell’uomo e soltanto dopo
della creazione della donna dalla “costola” del maschio, concentra la nostra attenzione sul fatto che “l’uomo
è solo” e ciò appare un fondamentale problema antropologico anteriore, in un certo senso, a quello posto dal
fatto che tale uomo sia maschio e femmina.
Questo problema è anteriore non tanto nel senso cronologico, quanto nel senso esistenziale: esso è anteriore
“per sua natura”. Tale si rivelerà anche il problema della solitudine dell’uomo dal punto di vista della
teologia del corpo, se riusciremo a fare un’analisi approfondita del secondo racconto della creazione in
Genesi 2.
4. L’affermazione di Dio-Jahvè: “Non è bene che l’uomo sia solo”, appare non soltanto nel contesto
immediato della decisione di creare la donna (“gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”), ma anche nel
contesto più vasto di motivi e di circostanze, che spiegano più profondamente il senso della solitudine
originaria dell’uomo. Il testo jahvista lega anzitutto la creazione dell’uomo col bisogno di “lavorare il suolo”
(Gen 2,5), e ciò corrisponderebbe, nel primo racconto, alla vocazione di assoggettare e dominare la terra
(cf. Gen 1,28). Poi, il secondo racconto della creazione parla della collocazione dell’uomo nel “giardino in
Eden”, e in questo modo ci introduce nello stato della sua felicità originaria. Fino a questo momento l’uomo
è oggetto dell’azione creatrice di Dio-Jahvè, il quale nello stesso tempo, come legislatore, stabilisce le
condizioni della prima alleanza con l’uomo. Già attraverso ciò viene sottolineata la soggettività dell’uomo.
Essa trova un’ulteriore espressione quando il Signore Dio “plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e
tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo (maschio), per vedere come li avrebbe chiamati” ( Gen 2,19).
Così dunque il primitivo significato della solitudine originaria dell’uomo viene definito in base ad uno
specifico “test”, o ad un esame che l’uomo sostiene di fronte a Dio (e in certo modo anche di fronte a se
stesso). Mediante tale “test”, l’uomo prende coscienza della propria superiorità, e cioè che non può essere
messo alla pari con nessun’altra specie di esseri viventi sulla terra.
Infatti, come dice il testo, “in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello
doveva essere il suo nome” (Gen 2,19). “Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del
cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma – finisce l’autore – l’uomo (maschio) non trovò un aiuto che gli fosse
simile” (Gen 2,19-20).
5. Tutta questa parte del testo è senza dubbio una preparazione al racconto della creazione della donna.
Tuttavia essa possiede un suo profondo significato anche indipendentemente da questa creazione. Ecco,
l’uomo creato si trova, fin dal primo momento della sua esistenza, di fronte a Dio quasi alla ricerca della

8. Il testo ebraico chiama costantemente il primo uomo “ha’adam”, mentre il termine “‘iš” [“maschio”] viene introdotto
soltanto quando emerge il confronto con la “‘iššâ” [“femmina”]. Solitario era quindi l’uomo senza riferimento al sesso.
Nella traduzione in alcune lingue europee è difficile però esprimere questo concetto della Genesi, perché “uomo” e
“maschio” vengono definiti, di solito, con un unico vocabolo: “homo”, “uomo”, “homme”, “hombre”, “man”.

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propria entità; si potrebbe dire: alla ricerca della definizione di se stesso. Un contemporaneo direbbe: alla
ricerca della propria “identità”. La constatazione che l’uomo “è solo” in mezzo al mondo visibile e, in
particolare, tra gli esseri viventi, ha in questa ricerca un significato negativo, in quanto esprime ciò che egli
“non è”.
Nondimeno la constatazione di non potersi essenzialmente identificare col mondo visibile degli altri esseri
viventi (“animalia”) ha, nello stesso tempo, un aspetto positivo per questa ricerca primaria: anche se tale
constatazione non è ancora una definizione completa, pur tuttavia costituisce uno dei suoi elementi. Se
accettiamo la tradizione aristotelica nella logica e nell’antropologia, bisognerebbe definire quest’elemento
come “genere prossimo” (“genus proximum”).
6. Il testo jahvista ci consente tuttavia di scoprire anche ulteriori elementi in quel mirabile brano, nel quale
l’uomo si trova solo di fronte a Dio soprattutto per esprimere, attraverso una prima autodefinizione, la
propria autoconoscenza, quale primitiva e fondamentale manifestazione di umanità. L’autoconoscenza va di
pari passo con la conoscenza del mondo, di tutte le creature visibili, di tutti gli esseri viventi ai quali l’uomo
ha dato il nome per affermare di fronte ad essi la propria diversità. Così dunque la coscienza rivela l’uomo
come colui che possiede la facoltà conoscitiva rispetto al mondo visibile. Con questa conoscenza che lo fa
uscire, in certo modo, al di fuori del proprio essere, in pari tempo l’uomo rivela sé a se stesso in tutta la
peculiarità del suo essere. Egli non è soltanto essenzialmente e soggettivamente solo. Solitudine infatti
significa anche soggettività dell’uomo, la quale si costituisce attraverso l’autoconoscenza. L’uomo è solo
perché è “differente” dal mondo visibile, dal mondo degli esseri viventi. Analizzando il testo del Libro della
Genesi siamo, in certo senso, testimoni di come l’uomo “si distingue” di fronte a Dio-Jahvè da tutto il mondo
degli esseri viventi (“animalia”) col primo atto di autocoscienza, e di come pertanto si riveli a se stesso e
insieme si affermi nel mondo visibile come “persona”. Quel processo delineato in modo così incisivo in
Genesi 2,19-20, processo di ricerca di una definizione di sé, non porta soltanto ad indicare – riallacciandoci
alla tradizione aristotelica – il “genus proximum”, che nel capitolo 2 della Genesi viene espresso con le
parole: “ha dato il nome”, a cui corrisponde la “differentia” specifica che è, secondo la definizione di
Aristotele, “noû, zoón noetikón”. Tale processo porta anche alla prima delineazione dell’essere umano come
persona umana con la propria soggettività che la caratterizza.
Interrompiamo qui l’analisi del significato della originaria solitudine dell’uomo. La riprenderemo tra una
settimana.

Mercoledì, 24 ottobre 1979


L’uomo dall’originaria solitudine alla consapevolezza che lo fa persona
1. Nella precedente conversazione abbiamo cominciato ad analizzare il significato della solitudine originaria
dell’uomo. Lo spunto ci è stato dato dal testo jahvista, e in particolare dalle seguenti parole: “Non è bene che
l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile” (Gen 2,18).
L’analisi dei relativi passi del Libro della Genesi (cf. Gen 2) ci ha già portato a sorprendenti conclusioni che
riguardano l’antropologia, cioè la scienza fondamentale circa l’uomo, racchiusa in questo libro. Infatti, in
frasi relativamente scarse, l’antico testo delinea l’uomo come persona con la soggettività che la caratterizza.
Quanto a questo primo uomo, così formato, Dio-Jahvè dà il comando che riguarda tutti gli alberi che
crescono nel “giardino in Eden”, soprattutto quello della conoscenza del bene e del male, ai lineamenti
dell’uomo, sopra descritti, si aggiunge il momento della scelta e dell’autodeterminazione, cioè della libera
volontà. In questo modo, l’immagine dell’uomo, come persona dotata di una propria soggettività, appare
davanti a noi come rifinita nel suo primo abbozzo.
Nel concetto di solitudine originaria è inclusa sia l’autocoscienza che l’autodeterminazione. Il fatto che
l’uomo sia “solo” nasconde in sé tale struttura ontologica e insieme è un indice di autentica comprensione.
Senza di ciò, non possiamo capire correttamente le parole successive, che costituiscono il preludio alla
creazione della prima donna: “voglio fare un aiuto”. Ma, soprattutto, senza quel significato così profondo
della solitudine originaria dell’uomo, non può essere intesa e correttamente interpretata l’intera situazione
dell’uomo creato a immagine di Dio”, che è la situazione della prima, anzi primitiva alleanza con Dio.

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2. Quest’uomo, di cui il racconto del capitolo dice che è stato creato “a immagine di Dio”, si manifesta nel
secondo racconto come soggetto dell’alleanza, e cioè soggetto costituito come persona, costituito a misura di
“partner dell’Assoluto” in quanto deve consapevolmente discernere e scegliere tra il bene e il male, tra la vita
e la morte. Le parole del primo comando di Dio-Jahvè (Gen 2,16-17) che parlano direttamente della
sottomissione e della dipendenza dell’uomo-creatura dal suo Creatore, rivelano indirettamente appunto tale
livello di umanità, quale soggetto dell’alleanza e “partner dell’Assoluto”. L’uomo è “solo”: ciò vuol dire che
egli, attraverso la propria umanità, attraverso ciò che egli è, viene nello stesso tempo costituito in un’unica,
esclusiva ed irripetibile relazione con Dio stesso. La definizione antropologica contenuta nel testo jahvista si
avvicina dal canto suo a ciò che esprime la definizione teologica dell’uomo, che troviamo nel primo racconto
della creazione: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e nostra somiglianza” (Gen 1,26).
3. L’uomo, così formato, appartiene al mondo visibile, è corpo tra i corpi. Riprendendo e, in certo modo,
ricostruendo, il significato della solitudine originaria, lo applichiamo all’uomo nella sua totalità. Il corpo,
mediante il quale l’uomo partecipa al mondo creato visibile, lo rende nello stesso tempo consapevole di
essere “solo”. Altrimenti non sarebbe stato capace di pervenire a quella convinzione, alla quale, in effetti,
come leggiamo, è giunto (cf. Gen 2,20), se il suo corpo non lo avesse aiutato a comprenderlo, rendendo la
cosa evidente. La consapevolezza della solitudine avrebbe potuto infrangersi proprio a causa dello stesso
corpo. L’uomo (“‘adam”) avrebbe potuto, basandosi sull’esperienza del proprio corpo, giungere alla
conclusione di essere sostanzialmente simile agli altri esseri viventi (“animalia”). E invece, come leggiamo,
non è arrivato a questa conclusione, anzi è giunto alla persuasione di essere “solo”. Il testo jahvista non parla
mai direttamente del corpo; perfino quando dice che “il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo”,
parla dell’uomo e non del corpo. Ciononostante il racconto preso nel suo insieme ci offre basi sufficienti per
percepire quest’uomo, creato nel mondo visibile, proprio come corpo tra i corpi.
L’analisi del testo jahvista ci permette inoltre di collegare la solitudine originaria dell’uomo con la
consapevolezza del corpo, attraverso il quale l’uomo si distingue da tutti gli “animalia” e “si separa” da essi,
e anche attraverso il quale egli è persona. Si può affermare con certezza che quell’uomo così formato ha
contemporaneamente la consapevolezza e la coscienza del senso del proprio corpo. E ciò sulla base
dell’esperienza della solitudine originaria.
4. Tutto ciò può essere considerato come implicazione del secondo racconto della creazione dell’uomo, e
l’analisi del testo ce ne consente un ampio sviluppo.
Quando all’inizio del testo jahvista, prima ancora che si parli della creazione dell’uomo dalla “polvere del
suolo”, leggiamo che “nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto
il suolo” (Gen 2,5-6), associamo giustamente questo brano a quello del primo racconto, in cui viene espresso
il comando divino: “Riempite la terra: soggiogatela e dominate” (Gen 1,28). Il secondo racconto allude in
modo esplicito al lavoro che l’uomo svolge per coltivare la terra. Il primo fondamentale mezzo per dominare
la terra si trova nell’uomo stesso.
L’uomo può dominare la terra perché soltanto lui e nessun altro degli esseri viventi è capace di “coltivarla” e
trasformarla secondo i propri bisogni (“faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare il suolo”). Ed
ecco, questo primo abbozzo di un’attività specificamente umana sembra fare parte della definizione
dell’uomo, così come essa emerge dall’analisi del testo jahvista. Di conseguenza, si può affermare che tale
abbozzo è intrinseco al significato della solitudine originaria e appartiene a quella dimensione di solitudine,
attraverso la quale l’uomo, sin dall’inizio, è nel mondo visibile quale corpo tra i corpi e scopre il senso della
propria corporalità.
Su questo argomento ritorneremo nella prossima meditazione.

Mercoledì, 31 ottobre 1979


Nella definizione stessa dell’uomo l’alternativa tra morte ed immortalità
1. Ci conviene ritornare oggi ancora una volta sul significato della solitudine originaria dell’uomo, che
emerge soprattutto dall’analisi del cosiddetto testo jahvista di Genesi 2. Il testo biblico ci permette, come già
abbiamo constatato nelle precedenti riflessioni, di mettere in rilievo non soltanto la coscienza del corpo
umano (l’uomo è creato nel mondo visibile come “corpo tra i corpi”), ma anche quella del suo significato
proprio.

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Tenendo conto della grande concisione del testo biblico, non si può, senz’altro, ampliare troppo questa
implicazione. È però certo che tocchiamo qui il problema centrale dell’antropologia. La coscienza del corpo
sembra identificarsi in questo caso con la scoperta della complessità della propria struttura che, in base a
un’antropologia filosofica, consiste, in definitiva, nel rapporto tra anima e corpo. Il racconto jahvista col
proprio linguaggio (cioè con la sua propria terminologia) lo esprime dicendo: “Il Signore Dio plasmò l’uomo
con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” 9 (Gen 2,7).
E proprio quest’uomo, “essere vivente”, si distingue in continuazione da tutti gli altri esseri viventi del
mondo visibile. La premessa di questo distinguersi dell’uomo è proprio il fatto che solo lui è capace di
“coltivare la terra” (cf. Gen 2,5) e di “soggiogarla” (cf. Gen 1,28). Si può dire che la consapevolezza della
“superiorità”, iscritta nella definizione di umanità, nasce fin dall’inizio in base a una prassi o comportamento
tipicamente umano. Questa consapevolezza porta con sé una particolare percezione del significato del
proprio corpo, la quale emerge appunto dal fatto che sta all’uomo “coltivare la terra” e “assoggettarla”. Tutto
ciò sarebbe impossibile senza un’intuizione tipicamente umana del significato del proprio corpo.
2. Sembra quindi che occorra parlare innanzitutto di questo aspetto, piuttosto che del problema della
complessità antropologica in senso metafisico. Se l’originaria descrizione della coscienza umana, riportata
dal testo jahvista, comprende nell’insieme del racconto anche il corpo, se essa racchiude quasi la prima
testimonianza della scoperta della propria corporeità (e perfino, come è stato detto, la percezione del
significato del proprio corpo), tutto ciò si rivela non in base a una qualche primordiale analisi metafisica, ma
in base a una concreta soggettività dell’uomo abbastanza chiara. L’uomo è un soggetto non soltanto per la
sua autocoscienza e autodeterminazione, ma anche in base al proprio corpo. La struttura di questo corpo è
tale da permettergli di essere l’autore di un’attività prettamente umana. In questa attività il corpo esprime la
persona. Esso è quindi, in tutta la sua materialità (“plasmò l’uomo con polvere del suolo”), quasi penetrabile
e trasparente, in modo da rendere chiaro chi sia l’uomo (e chi dovrebbe essere) grazie alla struttura della sua
coscienza e della sua autodeterminazione. Su questo poggia la fondamentale percezione del significato del
proprio corpo, che non si può non scoprire analizzando la solitudine originaria dell’uomo.
3. Ed ecco che, con tale fondamentale comprensione del significato del proprio corpo, l’uomo, quale
soggetto dell’antica alleanza col Creatore, viene posto dinanzi al mistero dell’albero della conoscenza. “Tu
potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi
mangiare, perché, quando tu ne mangiassi certamente moriresti” (Gen 2,16-17). L’originario significato della
solitudine dell’uomo si basa sull’esperienza dell’esistenza ottenuta dal Creatore. Tale esistenza umana è
caratterizzata appunto dalla soggettività, che comprende pure il significato del corpo. Ma l’uomo, il quale
nella sua coscienza originaria conosce esclusivamente l’esperienza dell’esistere e quindi della vita, avrebbe
potuto capire che cosa significasse la parola “morirai”? Sarebbe stato egli capace di giungere a comprendere
il senso di questa parola attraverso la complessa struttura della vita, datagli quando “il Signore Dio... soffiò
nelle sue narici un alito di vita...”? Bisogna ammettere che questa parola, completamente nuova, sia apparsa
sull’orizzonte della coscienza dell’uomo senza che egli ne abbia mai sperimentato la realtà, e che nello stesso
tempo questa parola sia apparsa davanti a lui come una radicale antitesi di tutto ciò di cui l’uomo era stato
dotato.
L’uomo udiva per la prima volta la parola “morirai”, senza avere con essa alcuna familiarità nell’esperienza
fatta fino ad allora; ma d’altra parte non poteva non associare il significato della morte a quella dimensione
di vita di cui aveva fino ad allora fruito. Le parole di Dio-Jahvè rivolte all’uomo confermavano una
dipendenza nell’esistere, tale da fare dell’uomo un essere limitato e, per sua natura, suscettibile di non-
esistenza. Queste parole posero il problema della morte in modo condizionale: “Quando tu ne mangiassi...
moriresti”. L’uomo, che aveva udito tali parole, doveva ritrovarne la verità nella stessa struttura interiore
della propria solitudine. E, in definitiva, dipendeva da lui, dalla sua decisione e libera scelta, se con la
solitudine fosse entrato anche nel cerchio dell’antitesi rivelatagli dal Creatore, insieme all’albero della
conoscenza del bene e del male, e avesse così fatto propria l’esperienza del morire e della morte. Ascoltando
le parole di Dio-Jahvè, l’uomo avrebbe dovuto capire che l’albero della conoscenza aveva messo le radici
non soltanto nel “giardino in Eden”, ma anche nella sua umanità. Egli, inoltre, avrebbe dovuto capire che
quell’albero misterioso nascondeva in sé una dimensione di solitudine, fino ad allora sconosciuta, della quale

9. L’antropologia biblica distingue nell’uomo non tanto “ il corpo ” e “ l’anima ” quanto il “ corpo ” e la “ vita ”.
L’autore biblico mostra così che il dono della vita è stato fatto attraverso il “ soffio ” che non cessa di essere proprietà di
Dio: quando Dio lo toglie, l’uomo torna a essere la polvere da cui proveniva (cf. Gb 34, 14-15; Ps 104, 29ss.).

13
il Creatore lo aveva dotato in mezzo al mondo degli esseri viventi, ai quali lui, l’uomo – dinanzi allo stesso
Creatore – aveva “imposto nomi”, per giungere a comprendere che nessuno di loro gli era simile.
4. Quando dunque il fondamentale significato del suo corpo era già stato stabilito attraverso la distinzione dal
resto delle creature, quando per ciò stesso era divenuto evidente che l’“invisibile” determina l’uomo più che
il “visibile”, allora dinanzi a lui si è presentata l’alternativa collegata strettamente e direttamente da Dio-
Jahvè all’albero della conoscenza del bene e del male.
L’alternativa tra la morte e l’immortalità, che emerge da Genesi 2,17, va oltre il significato essenziale del
corpo dell’uomo, in quanto coglie il significato escatologico non soltanto del corpo, ma dell’umanità stessa,
distinta da tutti gli esseri viventi, dai “corpi”. Questa alternativa riguarda però in un modo del tutto
particolare il corpo creato dalla “polvere dei suolo”.
Per non prolungare di più questa analisi, ci limitiamo a constatare che l’alternativa tra la morte e
l’immortalità entra, sin dall’inizio, nella definizione dell’uomo e che appartiene “da principio” al significato
della sua solitudine di fronte a Dio stesso. Questo originario significato di solitudine, permeato
dall’alternativa tra morte e immortalità, ha anche un significato fondamentale per tutta la teologia del corpo.
Con questa constatazione concludiamo per ora le nostre riflessioni sul significato della solitudine originaria
dell’uomo. Tale constatazione, che emerge in modo chiaro e incisivo dai testi del Libro della Genesi, induce
anche a riflettere tanto sui testi quanto sull’uomo, il quale ha forse troppo scarsa coscienza della verità che lo
riguarda, e che è racchiusa già nei primi capitoli della Bibbia.

Mercoledì, 7 novembre 1979


L’unità originaria dell’uomo e della donna nell’umanità
1. Le parole del libro della Genesi, “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18), sono quasi un preludio al
racconto della creazione della donna. Insieme a questo racconto, il senso della solitudine originaria entra a
far parte del significato dell’originaria unità, il cui punto chiave sembrano essere proprio le parole di Genesi
2,24, alle quali si richiama Cristo nel suo colloquio con i farisei: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si
unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola” (Mt 19,5). Se Cristo, riferendosi al “principio”, cita queste
parole, ci conviene precisare il significato di quella originaria unità, che affonda le radici nel fatto della
creazione dell’uomo come maschio e femmina.
Il racconto del capitolo primo della Genesi non conosce il problema della solitudine originaria dell’uomo:
l’uomo infatti sin dall’inizio è “maschio e femmina”. Il testo jahvista del capitolo secondo, invece, ci
autorizza, in certo modo, a pensare prima solamente all’uomo in quanto, mediante il corpo, appartiene al
mondo visibile, però oltrepassandolo; poi, ci fa pensare allo stesso uomo, ma attraverso la duplicità del sesso.
La corporeità e la sessualità non s’identificano completamente. Sebbene il corpo umano, nella sua normale
costituzione, porti in sé i segni del sesso e sia, per sua natura, maschile o femminile, tuttavia il fatto che
l’uomo sia “corpo” appartiene alla struttura del soggetto personale più profondamente del fatto che egli sia
nella sua costituzione somatica anche maschio o femmina. Perciò il significato della solitudine originaria,
che può essere riferito semplicemente all’“uomo”, è sostanzialmente anteriore al significato dell’unità
originaria; quest’ultima infatti si basa sulla mascolinità e sulla femminilità, quasi come su due differenti
“incarnazioni”, cioè su due modi di “essere corpo” dello stesso essere umano, creato “a immagine di Dio”
(Gen 1,27).
2. Seguendo il testo jahvista, nel quale la creazione della donna è stata descritta separatamente (Gen 2,21-
22), dobbiamo avere davanti agli occhi, nello stesso tempo, quell’“immagine di Dio” del primo racconto
della creazione. Il secondo racconto conserva, nel linguaggio e nello stile, tutte le caratteristiche del testo
jahvista. Il modo di narrare concorda col modo di pensare e di esprimersi dell’epoca alla quale il testo
appartiene. Si può dire, seguendo la filosofia contemporanea della religione e quella del linguaggio, che si
tratta di un linguaggio mitico. In questo caso, infatti, il termine “mito” non designa un contenuto fabuloso,
ma semplicemente un modo arcaico di esprimere un contenuto più profondo. Senza alcuna difficoltà, sotto lo
strato dell’antica narrazione, scopriamo quel contenuto, veramente mirabile per quanto riguarda le qualità e
la condensazione delle verità che vi sono racchiuse. Aggiungiamo che il secondo racconto della creazione
dell’uomo conserva, fino ad un certo punto, una forma di dialogo tra l’uomo e Dio-Creatore, e ciò si

14
manifesta soprattutto in quella tappa nella quale l’uomo (“‘adam”) viene definitivamente creato quale
maschio e femmina (“‘is-issah”)10 . La creazione si attua quasi contemporaneamente in due dimensioni;
l’azione di Dio-Jahvè che crea si svolge in correlazione al processo della coscienza umana.
3. Così dunque Dio-Jahvè dice: “Non è bene che l’uomo sia solo; gli voglio dare un aiuto che gli sia simile”
(Gen 2,18). E nello stesso tempo l’uomo conferma la propria solitudine (Gen 2,20). In seguito leggiamo:
“Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e
rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola che aveva tolta all’uomo una donna”
(Gen2,21-22). Prendendo in considerazione la specificità del linguaggio bisogna prima di tutto riconoscere
che ci fa molto pensare quel torpore genesiaco, nel quale, per opera di Dio-Jahvè, l’uomo s’immerge in
preparazione del nuovo atto creatore. Sullo sfondo della mentalità contemporanea, abituata – per via delle
analisi del subcosciente – a legare al mondo del sonno dei contenuti sessuali, quel torpore può suscitare
un’associazione particolare 11 . Tuttavia il racconto biblico sembra andare oltre la dimensione del subconscio
umano. Se si ammette poi una significativa diversità di vocabolario, si può concludere che l’uomo (“‘ adam”)
cade in quel “torpore” per risvegliarsi “maschio” e “femmina”. Infatti per la prima volta in Genesi 2,23 ci
imbattiamo nella distinzione “‘is-issah”. Forse quindi l’analogia del sonno indica qui non tanto un passare
dalla coscienza alla subcoscienza, quanto uno specifico ritorno al non-essere (il sonno ha in sé una
componente di annientamento dell’esistenza cosciente dell’uomo) ossia al momento antecedente alla
creazione, affinché da esso, per iniziativa creatrice di Dio, l’“uomo” solitario possa riemergere nella sua
duplice unità di maschio e femmina 12.
In ogni caso alla luce del contesto di Genesi 2,18-20 non vi è alcun dubbio che l’uomo cada in quel “torpore”
col desiderio di trovare un essere simile a sé. Se possiamo, per analogia col sonno, parlare qui anche di
sogno, dobbiamo dire che quel biblico archetipo ci consente di ammettere come contenuto di quel sogno un
“secondo io”, anch’esso personale e ugualmente rapportato alla situazione di solitudine originaria, cioè a
tutto quel processo di stabilizzazione dell’identità umana in relazione all’insieme degli esseri viventi
(“animalia”), in quanto è processo di “differenziazione” dell’uomo da tale ambiente. In questo modo, il

10. Il termine ebraico “‘adam” esprime il concetto collettivo della specie umana, cioè l’“uomo” che rappresenta
l’umanità; [la Bibbia definisce l’individuo usando l’espressione: “figlio dell’uomo”, “ben-’adam”]. La
contrapposizione: “‘iš-’iššah” sottolinea la diversità sessuale [come in greco “aner-gyne”] Dopo la creazione della
donna, il testo biblico continua a chiamare il primo uomo “‘adam” [con l’articolo definito], esprimendo così la sua
“corporate personality”, in quanto è diventato “padre dell’umanità”, suo progenitore e rappresentante, come poi Abramo
è stato riconosciuto quale “padre dei credenti” e Giacobbe è stato identificato con Israele-Popolo Eletto.
11. Il torpore di Adamo [in ebraico “tardemah”] è un profondo sonno [latino: “sopor”; inglese: “sleep”], in cui l’uomo
cade senza conoscenza o sogni [la Bibbia ha un altro termine per definire il sogno: “halom”]; cf. Gen 15,12;
1 Sam 26,12. Freud esamina, invece, il contenuto dei “sogni” [latino: “somnium”; inglese: “dream”], i quali formandosi
con elementi psichici “respinti nel subconscio”, permettono, secondo lui, di farne emergere i contenuti inconsci, che
sarebbero, in ultima analisi, sempre sessuali. Questa idea è naturalmente del tutto estranea all’autore biblico. Nella
teologia dell’autore jahvista, il torpore nel quale Dio fece cadere il primo uomo sottolinea l’“esclusività dell’azione di
Dio” nell’opera della creazione della donna; l’uomo non aveva in essa alcuna partecipazione cosciente. Dio si serve
della sua costola soltanto per accentuare la comune natura dell’uomo e della donna.
12. “Torpore” [“tardemah”] è il termine che appare nella Sacra Scrittura, quando durante il sonno o direttamente dopo
di esso debbono accadere degli avvenimenti straordinari [cf. Gen 15,12; 1 Sam 26,12; Is 29,10; Gb 4,13; 33,15]. I
Settanta traducono “tardemah” con “éktasis” [un’estasi]. Nel Pentateuco “tardemah” appare ancora una volta in un
contesto misterioso: Abram, su comando di Dio, ha preparato un sacrificio di animali, scacciando da essi gli uccelli
rapaci: “Mentre il sole stava per tramontare, “un torpore” cadde su Abram, ed ecco “un oscuro terrore” lo assalì... ”
[Gen 15,12]. Proprio allora Dio comincia a parlare e conclude con lui un’alleanza, che è “il vertice della rivelazione”
fatta ad Abram. Questa scena somiglia in certo modo a quella del giardino di Getsemani: Gesù “cominciò a sentire
paura e angoscia... ” [Mc 14,33] e trovò gli Apostoli “che “dormivano per la tristezza”” [Lc 22,45]. L’autore biblico
ammette nel primo uomo un certo senso di carenza e di solitudine [“non è bene che l’uomo sia solo”; “non trovò un
aiuto che gli fosse simile”], anche se non di paura. Forse questo stato provoca “un sonno causato dalla tristezza”, o
forse, come in Abramo “da un oscuro terrore” di non-essere; come alla soglia dell’opera della creazione: “la terra era
informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso” [Gen 1,2]. In ogni caso, secondo tutti e due i testi, in cui il
Pentateuco o piuttosto il Libro della Genesi parla del sonno profondo [tardemah], ha luogo una speciale azione divina,
cioè un’“alleanza” carica di conseguenze per tutta la storia della salvezza: Adamo dà inizio al genere umano, Abramo al
Popolo Eletto.

15
cerchio della solitudine dell’uomo-persona si rompe, perché il primo “uomo” si risveglia dal suo sonno come
“maschio e femmina”.
4. La donna è plasmata “con la costola” che Dio-Jahvè aveva tolto all’uomo. Considerando il modo arcaico,
metaforico e immaginoso di esprimere il pensiero, possiamo stabilire che si tratta qui di omogeneità di tutto
l’essere di entrambi; tale omogeneità riguarda soprattutto il corpo, la struttura somatica, ed è confermata
anche dalle prime parole dell’uomo alla donna creata: “Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle
mie ossa” (Gen 2,23) 13 . E nondimeno le parole citate si riferiscono pure all’umanità dell’uomo-maschio.
Esse vanno lette nel contesto delle affermazioni fatte prima della creazione della donna, nelle quali, pur non
esistendo ancora l’“incarnazione” dell’uomo, essa viene definita come “aiuto simile a lui” (cf. Gen 2,18 e
20)14. Così, dunque, la donna viene creata, in certo senso, sulla base della medesima umanità.
L’omogeneità somatica, nonostante la diversità della costituzione legata alla differenza sessuale, è così
evidente che l’uomo (maschio), svegliatosi dal sonno genetico, la esprime subito, quando dice: “Questa volta
essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta”
(Gen2,23). In questo modo l’uomo (maschio) manifesta per la prima volta gioia e perfino esaltazione, di cui
prima non aveva motivo, a causa della mancanza di un essere simile a lui. La gioia per l’altro essere umano,
per il secondo “io”, domina nelle parole dell’uomo (maschio) pronunziate alla vista della donna (femmina).
Tutto ciò aiuta a stabilire il pieno significato dell’originaria unità. Poche sono qui le parole, ma ognuna è di
grande peso. Dobbiamo quindi tener conto – e lo faremo anche di seguito – del fatto che quella prima donna,
“plasmata con la costola tolta... all’uomo” (maschio), viene subito accettata come aiuto adeguato a lui.
A questo stesso tema, cioè al significato dell’unità originaria dell’uomo e della donna nell’umanità,
torneremo ancora nella prossima meditazione.

Mercoledì, 14 novembre 1979


Anche attraverso la comunione delle persone l’uomo diventa immagine di Dio
1. Seguendo la narrazione del Libro della Genesi, abbiamo costatato che la “definitiva” creazione dell’uomo
consiste nella creazione dell’unità di due esseri. La loro unità denota soprattutto l’identità della natura
umana; la dualità, invece, manifesta ciò che, in base a tale identità, costituisce la mascolinità e la femminilità
dell’uomo creato. Questa dimensione ontologica dell’unità e della dualità ha, nello stesso tempo, un
significato assiologico. Dal testo di Genesi 2,23 e dall’intero contesto risulta chiaramente che l’uomo è stato
creato come un particolare valore dinanzi a Dio (“Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto
buona”) (Gen 1,31) ma anche come un particolare valore per l’uomo stesso: primo, perché è “uomo”;
secondo, perché la “donna” è per l’uomo, e viceversa l’“uomo” è per la donna. Mentre il capitolo primo della
Genesi esprime questo valore in forma puramente teologica (e indirettamente metafisica), il capitolo
13. È interessante notare che per gli antichi Suméri il segno cuneiforme per indicare il sostantivo “costola” coincideva
con quello usato per indicare la parola “vita”. Quanto poi al racconto jahvista, secondo una certa interpretazione di
Genesi 2,21, Dio piuttosto ricopre la costola di carne [invece di rinchiudere la carne al suo posto] e in questo modo
“forma” la donna, che trae origine dalla “carne e dalle ossa” del primo uomo [maschio]. Nel linguaggio biblico questa è
una definizione di consanguineità o appartenenza alla stessa discendenza [ad es. cf. Gen 29,14]: la donna appartiene alla
stessa specie dell’uomo, distinguendosi dagli altri esseri viventi prima creati. Nell’antropologia biblica le “ossa”
esprimono una componente importantissima del corpo; dato che per gli Ebrei non vi era una precisa distinzione tra
“corpo” e “anima” [il corpo veniva considerato come manifestazione esteriore della personalità], le “ossa” significavano
semplicemente, per sineddoche, l’“essere” umano [cf. ad es. Sal 139,15: “Non ti erano nascoste le mie ossa”]. Si può
quindi intendere “osso dalle ossa”, in senso relazionale, come l’“essere dall’essere”; “carne dalla carne” significa che,
pur avendo diverse caratteristiche fisiche, la donna possiede la stessa personalità che possiede l’uomo. Nel “canto
nuziale” del primo uomo, l’espressione “osso dalle ossa, carne dalla carne” è una forma di superlativo, sottolineato
inoltre dalla triplice ripetizione: “questa”, “essa”, “la”.
14. È difficile tradurre esattamente l’espressione ebraica “cezer kenegdô”, che viene tradotta in vario modo nelle lingue
europee, ad esempio: latino: “adiutorium ei conveniens sicut oportebat iuxta eum”; tedesco: “eine Hilfe..., die ihm
entspricht”; francese: “égal vis-á-vis de lui”; italiano: “un aiuto che gli sia simile”; spagnolo: “como él que le ayude”;
inglese: “a helper fit for him”; polacco: “odopowicdnia alla niego pomoc”. Poiché il termine “aiuto” sembra suggerire il
concetto di “complementarità” o meglio di “corrispondenza esatta”, il termine “simile” si collega piuttosto con quello di
“similarità”, ma in senso diverso dalla somiglianza dell’uomo con Dio.

16
secondo, invece, rivela, per così dire, il primo cerchio dell’esperienza vissuta dall’uomo come valore. Questa
esperienza è iscritta già nel significato della solitudine originaria, e poi in tutto il racconto della creazione
dell’uomo come maschio e femmina. Il conciso testo di Genesi 2,23, che racchiude le parole del primo uomo
alla vista della donna creata, “da lui tolta”, può essere ritenuto il prototipo biblico del Cantico dei Cantici. E
se è possibile leggere impressioni ed emozioni attraverso parole così remote, si potrebbe anche rischiare di
dire che la profondità e la forza di questa prima e “originaria” emozione dell’uomo-maschio dinanzi
all’umanità della donna, e insieme dinanzi alla femminilità dell’altro essere umano, sembra qualcosa di unico
ed irrepetibile.
2. In questo modo, il significato dell’unità originaria dell’uomo, attraverso la mascolinità e la femminilità, si
esprime come superamento del confine della solitudine, e nello stesso tempo come affermazione – nei
confronti di entrambi gli esseri umani – di tutto ciò che nella solitudine è costitutivo dell’“uomo”. Nel
racconto biblico, la solitudine è via che porta a quell’unità che, seguendo il Vaticano II, possiamo definire
“communio personarum” 15. Come abbiamo già in precedenza constatato, l’uomo, nella sua originaria
solitudine, acquista una coscienza personale nel processo di “distinzione” da tutti gli esseri viventi
(“animalia”) e nello stesso tempo, in questa solitudine, si apre verso un essere affine a lui e che la Genesi
(Gen 2,18 e 20) definisce quale “aiuto che gli è simile”. Questa apertura decide dell’uomo-persona non
meno, anzi forse ancor più, della stessa “distinzione”. La solitudine dell’uomo, nel racconto jahvista, ci si
presenta non soltanto come la prima scoperta della caratteristica trascendenza propria della persona, ma
anche come scoperta di un’adeguata relazione “alla” persona, e quindi come apertura e attesa di una
“comunione delle persone”.
Si potrebbe qui usare anche il termine “comunità”, se non fosse generico e non avesse così numerosi
significati. “Communio” dice di più e con maggior precisione, poiché indica appunto quell’“aiuto” che
deriva, in certo senso, dal fatto stesso di esistere come persona “accanto” a una persona. Nel racconto biblico
questo fatto diventa “eo ipso” – di per sé – esistenza della persona “per” la persona, dato che l’uomo nella
sua solitudine originaria era, in certo modo, già in questa relazione. Ciò è confermato, in senso negativo,
proprio dalla sua solitudine. Inoltre, la comunione delle persone poteva formarsi solo in base ad una “duplice
solitudine” dell’uomo e della donna, ossia come incontro nella loro “distinzione” dal mondo degli esseri
viventi (“animalia”), che dava ad ambedue la possibilità di essere e di esistere in una particolare reciprocità.
Il concetto di “aiuto” esprime anche questa reciprocità nell’esistenza, che nessun altro essere vivente avrebbe
potuto assicurare. Indispensabile per questa reciprocità era tutto ciò che di costitutivo fondava la solitudine di
ciascuno di essi, e pertanto anche l’autoconoscenza e l’autodeterminazione, ossia la soggettività e la
consapevolezza del significato del proprio corpo.
3. Il racconto della creazione dell’uomo, nel capitolo primo, afferma sin dall’inizio e direttamente che
l’uomo è stato creato a immagine di Dio in quanto maschio e femmina. Il racconto del capitolo secondo,
invece, non parla dell’“immagine di Dio”; ma esso rivela, nel modo che gli è proprio, che la completa e
definitiva creazione dell’“uomo” (sottoposto dapprima all’esperienza della solitudine originaria) si esprime
nel dar vita a quella “communio personarum” che l’uomo e la donna formano. In questo modo, il racconto
jahvista si accorda con il contenuto del primo racconto. Se, viceversa, vogliamo ricavare anche dal racconto
del testo jahvista il concetto di “immagine di Dio”, possiamo allora dedurre che l’uomo è divenuto
“immagine e somiglianza” di Dio non soltanto attraverso la propria umanità, ma anche attraverso la
comunione delle persone, che l’uomo e la donna formano sin dall’inizio. La funzione dell’immagine è quella
di rispecchiare colui che è il modello, riprodurre il proprio prototipo. L’uomo diventa immagine di Dio non
tanto nel momento della solitudine quanto nel momento della comunione. Egli, infatti, è fin “da principio”
non soltanto immagine in cui si rispecchia la solitudine di una Persona che regge il mondo, ma anche, ed
essenzialmente, immagine di una imperscrutabile divina comunione di Persone.
In questo modo, il secondo racconto potrebbe anche preparare a comprendere il concetto trinitario
dell’“immagine di Dio”, anche se questa appare solamente nel primo racconto. Ciò, ovviamente, non è senza
significato anche per la teologia del corpo, anzi forse costituisce perfino l’aspetto teologico più profondo di
tutto ciò che si può dire circa l’uomo. Nel mistero della creazione – in base alla originaria e costitutiva
“solitudine” del suo essere – l’uomo è stato dotato di una profonda unità tra ciò che in lui umanamente e
mediante il corpo è maschile, e ciò che in lui altrettanto umanamente e mediante il corpo è femminile. Su

15. “Ma Dio non creò l’uomo lasciandolo solo; fin da principio “uomo e donna li creò” (Gen 1,17) e la loro unione
costituisce la prima forma di comunione di persone” [Gaudium et Spes, 12].

17
tutto questo, sin dall’inizio, è scesa la benedizione della fecondità, congiunta con la procreazione umana
(cf. Gen1,28).
4. In questo modo, ci troviamo quasi nel midollo stesso della realtà antropologica che ha nome “corpo”. Le
parole di Genesi 2,23 ne parlano direttamente e per la prima volta nei seguenti termini: “carne dalla mia
carne e ossa dalle mie ossa”. L’uomo maschio pronunzia queste parole, come se soltanto alla vista della
donna potesse identificare e chiamare per nome ciò che in modo visibile li rende simili l’uno all’altro, e
insieme ciò in cui si manifesta l’umanità. Alla luce della precedente analisi di tutti i “corpi”, con i quali
l’uomo è venuto a contatto, e che egli ha concettualmente definito dando loro il nome (“animalia”),
l’espressione “carne dalla mia carne” acquista proprio questo significato: il corpo rivela l’uomo. Questa
formula concisa contiene già tutto ciò che sulla struttura del corpo come organismo, sulla sua vitalità, sulla
sua particolare fisiologia sessuale, ecc., potrà mai dire la scienza umana. In questa prima espressione
dell’uomo maschio, “carne dalla mia carne”, vi è anche racchiuso un riferimento a ciò per cui quel corpo è
autenticamente umano, e quindi a ciò che determina l’uomo come persona, cioè come essere che anche in
tutta la sua corporeità è “simile” a Dio 16 .
5. Ci troviamo, dunque, quasi nel midollo stesso della realtà antropologica, il cui nome è “corpo”, corpo
umano. Tuttavia, come è facile osservare, tale midollo non è soltanto antropologico, ma anche
essenzialmente teologico. La teologia del corpo, che sin dall’inizio è legata alla creazione dell’uomo a
immagine di Dio, diventa, in certo modo, anche teologia del sesso, o piuttosto teologia della mascolinità e
della femminilità, che qui, nel Libro della Genesi, ha il suo punto di partenza. Il significato originario
dell’unità, testimoniata dalle parole di Genesi 2,24, avrà nella rivelazione di Dio ampia e lontana prospettiva.
Quest’unità attraverso il corpo (“e i due saranno una sola carne”) possiede una dimensione multiforme: una
dimensione etica, come viene confermato dalla risposta di Cristo ai farisei in Matteo 19 (cf. anche Mc 10) e
anche una dimensione sacramentale, strettamente teologica, come viene comprovato dalle parole di San
Paolo agli Efesini 17, che si riferiscono altresì alla tradizione dei profeti (Osea, Isaia, Ezechiele). Ed è così,
perché quell’unità che si realizza attraverso il corpo indica, sin dall’inizio, non soltanto il “corpo”, ma anche
la comunione “incarnata” delle persone – “communio personarum” – che tale comunione sin dall’inizio
richiede. La mascolinità e la femminilità esprimono il duplice aspetto della costituzione somatica dell’uomo
(“questa volta essa è carne dalla mia carne e ossa dalle mie ossa”), e indicano, inoltre, attraverso le stesse
parole di Genesi 2,23, la nuova coscienza del senso del proprio corpo: senso, che si può dire consista in un
arricchimento reciproco. Proprio questa coscienza, attraverso la quale l’umanità si forma di nuovo come
comunione di persone, sembra costituire lo strato che nel racconto della creazione dell’uomo (e nella
rivelazione del corpo in esso racchiusa) è più profondo della stessa struttura somatica come maschio e
femmina. In ogni caso, questa struttura è presentata sin dall’inizio con una profonda coscienza della
corporeità e sessualità umana, e ciò stabilisce una norma inalienabile per la comprensione dell’uomo sul
piano teologico.

Mercoledì, 21 novembre 1979


Valore del matrimonio uno e indissolubile alla luce dei primi capitoli della Genesi
1. Ricordiamo che Cristo, interrogato sull’unità e indissolubilità del matrimonio, si è richiamato a ciò che era
“al principio”. Egli ha citato le parole scritte nei primi capitoli della Genesi. Cerchiamo perciò, nel corso
delle presenti riflessioni, di penetrare il senso proprio di queste parole e di questi capitoli.

16 .Nella concezione dei più antichi libri biblici non appare la contrapposizione dualistica “anima-corpo”. Come già è
stato sottolineato, si può piuttosto parlare di una combinazione complementare “corpo-vita”. Il corpo è espressione della
personalità dell’uomo, e se non esaurisce pienamente questo concetto, occorre intenderlo nel linguaggio biblico come
“pars pro toto”; cf. ad es.: “né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio... ” (Mt16,17), cioè: non
l’“uomo” lo ha rivelato a te.
17. “Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa,
poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due
formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” [Ef 5,29-32].

18
Il significato dell’unità originaria dell’uomo, che Dio ha creato “maschio e femmina”, si ottiene
(particolarmente alla luce di Genesi 2,23) conoscendo l’uomo nell’intera dotazione del suo essere, cioè in
tutta la ricchezza di quel mistero della creazione, che sta alla base dell’antropologia teologica. Questa
conoscenza, la ricerca cioè dell’identità umana di colui che all’inizio è “solo”, deve passare sempre
attraverso la dualità, la “comunione”.
Ricordiamo il passo di Genesi 2,23: “Allora l’uomo disse: “Questa volta essa è carne dalla mia carne e ossa
dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta””. Alla luce di questo testo,
comprendiamo che la conoscenza dell’uomo passa attraverso la mascolinità e la femminilità, che sono come
due “incarnazioni” della stessa metafisica solitudine, di fronte a Dio e al mondo – come due modi di “essere
corpo” e insieme uomo, che si completano reciprocamente – come due dimensioni complementari
dell’autocoscienza e dell’autodeterminazione e, nello stesso tempo, come due coscienze complementari del
significato del corpo. Così come già dimostra Genesi 2,23, la femminilità ritrova, in certo senso, se stessa di
fronte alla mascolinità, mentre la mascolinità si conforma attraverso la femminilità. Proprio la funzione del
sesso, che è, in un certo senso, “costitutivo della persona” (non soltanto “attributo della persona”), dimostra
quanto profondamente l’uomo, con tutta la sua solitudine spirituale, con l’unicità e irripetibilità propria della
persona, sia costituito dal corpo come “lui” o “lei”. La presenza dell’elemento femminile, accanto a quello
maschile e insieme con esso, ha il significato di un arricchimento per l’uomo in tutta la prospettiva della sua
storia, ivi compresa la storia della salvezza. Tutto questo insegnamento sull’unità è già stato espresso
originariamente in Genesi 2,23.
2. L’unità, di cui parla Genesi 2,23 (“i due saranno una sola carne”), è senza dubbio quella che si esprime e
realizza nell’atto coniugale. La formulazione biblica, estremamente concisa e semplice, indica il sesso,
femminilità e mascolinità, come quella caratteristica dell’uomo – maschio e femmina – che permette loro,
quando diventano “una sola carne”, di sottoporre contemporaneamente tutta la loro umanità alla benedizione
della fecondità. Tuttavia l’intero contesto della lapidaria formulazione non ci permette di soffermarci alla
superficie della sessualità umana, non ci consente di trattare del corpo e del sesso al di fuori della piena
dimensione dell’uomo e della “comunione delle persone”, ma ci obbliga fin dal “principio” a scorgere la
pienezza e la profondità proprie di questa unità, che uomo e donna debbono costituire alla luce della
rivelazione del corpo.
Quindi, prima di tutto, l’espressione prospettica che dice: “l’uomo... si unirà a sua moglie” così intimamente
che “i due saranno una sola carne”, ci induce sempre a rivolgerci a ciò che il testo biblico esprime
antecedentemente riguardo all’unione nell’umanità, che lega la donna e l’uomo nel mistero stesso della
creazione. Le parole di Genesi 2,23 or ora analizzate, spiegano questo concetto in modo particolare. L’uomo
e la donna, unendosi tra loro (nell’atto coniugale) così strettamente da divenire “una sola carne”, riscoprono,
per così dire, ogni volta e in modo speciale, il mistero della creazione, ritornano così a quell’unione
nell’umanità (“carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa”), che permette loro di riconoscersi
reciprocamente e, come la prima volta, di chiamarsi per nome. Ciò significa rivivere, in certo senso,
l’originario valore verginale dell’uomo, che emerge dal mistero della sua solitudine di fronte a Dio e in
mezzo al mondo. Il fatto che divengano “una sola carne” è un potente legame stabilito dal Creatore
attraverso il quale essi scoprono la propria umanità, sia nella sua unità originaria, sia nella dualità di una
misteriosa attrattiva reciproca. Il sesso, però, è qualcosa di più della forza misteriosa della corporeità umana,
che agisce quasi in virtù dell’istinto. A livello di uomo e nella reciproca relazione delle persone, il sesso
esprime un sempre nuovo superamento del limite della solitudine dell’uomo insita nella costituzione del suo
corpo, e ne determina il significato originario. Questo superamento contiene sempre in sé una certa
assunzione della solitudine del corpo del secondo “io” come propria.
3. Perciò essa è legata alla scelta. La stessa formulazione di Genesi 2,24 indica non solo che gli esseri umani
creati come uomo e donna sono stati creati per l’unità, ma pure che proprio questa unità, attraverso la quale
diventano “una sola carne”, ha fin dall’inizio un carattere di unione che deriva da una scelta. Leggiamo
infatti: “L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie”. Se l’uomo appartiene “per
natura” al padre e alla madre, in forza della generazione, “si unisce” invece alla moglie (o al marito) per
scelta. Il testo di Genesi 2,24 definisce tale carattere del legame coniugale in riferimento al primo uomo e
alla prima donna, ma nello stesso tempo lo fa anche nella prospettiva di tutto il futuro terreno dell’uomo.
Perciò, a suo tempo, Cristo si richiamerà a quel testo, come ugualmente attuale nella sua epoca. Formati ad
immagine di Dio, anche in quanto formano un’autentica comunione di persone, il primo uomo e la prima
donna debbono costituirne l’inizio e il modello per tutti gli uomini e donne, che in qualunque tempo si

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uniranno tra di loro così intimamente da essere “una sola carne”. Il corpo, che attraverso la propria
mascolinità o femminilità, fin dall’inizio aiuta ambedue (“un aiuto che gli sia simile”) a ritrovarsi in
comunione di persone, diviene, in modo particolare, l’elemento costitutivo della loro unione, quando
diventano marito e moglie. Ciò si attua, però, attraverso una reciproca scelta. È la scelta che stabilisce il patto
coniugale tra le persone (Gaudium et Spes, 48: “L’intima comunità di vita e d’amore coniugale, fondata dal
Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dal patto coniugale, vale a dire dall’irrevocabile consenso
personale”.), le quali soltanto in base ad essa divengono “una sola carne”.
4. Ciò corrisponde alla struttura della solitudine dell’uomo, e in concreto alla “duplice solitudine”.
La scelta, come espressione di autodeterminazione, poggia sul fondamento di quella struttura, cioè sul
fondamento della sua autocoscienza. Soltanto in base alla struttura propria dell’uomo, egli “è corpo” e,
attraverso il corpo, è anche maschio e femmina. Quando entrambi si uniscono tra di loro così intimamente da
diventare “una sola carne”, la loro unione coniugale presuppone una matura coscienza del corpo. Anzi, essa
porta in sé una particolare consapevolezza del significato di quel corpo nel reciproco donarsi delle persone.
Anche in questo senso, Genesi 2,24 è un testo prospettico. Esso dimostra, infatti, che in ogni unione
coniugale dell’uomo e della donna viene di nuovo scoperta la stessa originaria coscienza del significato
unitivo del corpo nella sua mascolinità e femminilità; con ciò il testo biblico indica, nello stesso tempo, che
in ciascuna di tali unioni si rinnova, in certo modo, il mistero della creazione in tutta la sua originaria
profondità e forza vitale.
“Tolta dall’uomo” quale “carne dalla sua carne”, la donna diventa in seguito, come “moglie” e attraverso la
sua maternità, madre dei viventi (cf. Gen 3,20), poiché la sua maternità ha anche in lui la propria origine. La
procreazione è radicata nella creazione, ed ogni volta, in certo senso, riproduce il suo mistero.
5. A questo argomento sarà dedicata una speciale riflessione: “La conoscenza e la procreazione”.
In essa occorrerà riferirsi ancora ad altri elementi del testo biblico. L’analisi fatta finora del significato
dell’unità originaria dimostra in che modo “da principio” quella unità dell’uomo e della donna, inerente al
mistero della creazione, viene pure data come un impegno nella prospettiva di tutti i tempi successivi.

Mercoledì, 12 dicembre 1979


I significati delle primordiali esperienze dell’uomo
1. Si può dire che l’analisi dei primi capitoli della Genesi ci costringe, in certo senso, a ricostruire gli
elementi costitutivi dell’originaria esperienza dell’uomo. In questo senso, il testo jahvista è, per il suo
carattere, una fonte peculiare. Parlando delle originarie esperienze umane, abbiamo in mente non tanto la
loro lontananza nel tempo, quanto piuttosto il loro significato fondante. L’importante, quindi, non è che
queste esperienze appartengano alla preistoria dell’uomo (alla sua “preistoria teologica”), ma che esse siano
sempre alla radice di ogni esperienza umana. Ciò è vero, anche se a queste esperienze essenziali,
nell’evolversi dell’ordinaria esistenza umana, non si presta molta attenzione. Esse, infatti, sono così
intrecciate alle cose ordinarie della vita che in genere non ci accorgiamo della loro straordinarietà. In base
alle analisi finora fatte abbiamo già potuto renderci conto che quanto abbiamo chiamato all’inizio
“rivelazione del corpo” ci aiuta in qualche modo a scoprire la straordinarietà di ciò che è ordinario. Ciò è
possibile perché la rivelazione (quella originaria, che ha trovato espressione prima nel racconto jahvista di
Genesi 2-3, poi nel testo di Genesi 1) prende in considerazione proprio tali esperienze primordiali nelle quali
appare in maniera quasi completa l’assoluta originalità di ciò che è l’essere umano maschio-femmina: in
quanto uomo, cioè, anche attraverso il suo corpo. L’umana esperienza del corpo, così come la scopriamo nei
testi biblici citati, si trova certo alla soglia di tutta l’esperienza “storica” successiva. Essa, tuttavia, sembra
anche poggiare su di una profondità ontologica tale, che l’uomo non la percepisce nella propria vita
quotidiana, anche se nel contempo, e in certo modo, la presuppone e la postula come parte del processo di
formazione della propria immagine.
2. Senza tale riflessione introduttiva, sarebbe impossibile precisare il significato della nudità originaria e
affrontare l’analisi di Genesi 2,25, che suona così: “Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non
ne provavano vergogna”. A prima vista, l’introduzione di questo particolare, apparentemente secondario, nel
racconto jahvista della creazione dell’uomo può sembrare qualcosa di inadeguato o di sfasato. Verrebbe da

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pensare che il passo citato non possa sostenere il paragone con ciò di cui trattano i versetti precedenti e che,
in certo senso, oltrepassi il contesto. Tuttavia, ad un’analisi approfondita, tale giudizio non regge. In effetti,
Genesi 2,25, presenta uno degli elementi chiave della rivelazione originaria, altrettanto determinante quanto
gli altri testi genesiaci (Gen 2,20.23), che già ci hanno permesso di precisare il significato della solitudine
originaria e della originaria unità dell’uomo. A questi si aggiunge, come terzo elemento, il significato della
nudità originaria, chiaramente messo in evidenza nel contesto; ed esso, nel primo abbozzo biblico
dell’antropologia, non è qualcosa di accidentale. Al contrario, esso è proprio la chiave per la sua piena e
completa comprensione.
3. È ovvio che appunto questo elemento dell’antico testo biblico dia alla teologia del corpo un contributo
specifico, dal quale non si può assolutamente prescindere. Ce lo confermeranno le ulteriori analisi. Ma,
prima di intraprenderle, mi permetto di osservare che proprio il testo di Genesi 2,25 esige espressamente di
collegare le riflessioni sulla teologia del corpo con la dimensione della soggettività personale dell’uomo; è in
questo ambito, infatti, che si sviluppa la coscienza del significato del corpo. Genesi 2,25 ne parla in modo
molto più diretto che non altre parti di quel testo jahvista, che abbiamo già definito come prima registrazione
della coscienza umana. La frase, secondo cui i primi esseri umani, uomo e donna, “erano nudi” e tuttavia
“non provavano vergogna”, descrive indubbiamente il loro stato di coscienza, anzi, la loro reciproca
esperienza del corpo, cioè l’esperienza da parte dell’uomo della femminilità che si rivela nella nudità del
corpo e, reciprocamente, l’analoga esperienza della mascolinità da parte della donna. Affermando che “non
ne provavano vergogna”, l’autore cerca di descrivere questa reciproca esperienza del corpo con la massima
precisione a lui possibile.
Si può dire che questo tipo di precisione rispecchia un’esperienza di base dell’uomo in senso “comune” e
prescientifico, ma esso corrisponde anche alle esigenze dell’antropologia e in particolare dell’antropologia
contemporanea, che si rifà volentieri alle cosiddette esperienze di fondo, come l’esperienza del pudore 18.
4. Alludendo qui alla precisione del racconto, quale era possibile all’autore del testo jahvista, siamo indotti a
considerare i gradi di esperienza dell’uomo “storico” carico dell’eredità del peccato, i quali però
metodologicamente partono appunto dallo stato di innocenza originaria. Abbiamo già constatato
precedentemente che nel riferirsi “al principio” (da noi qui sottoposto a successive analisi contestuali) Cristo
indirettamente stabilisce l’idea di continuità e di legame tra quei due stati, come se ci permettesse di
retrocedere dalla soglia della peccaminosità “storica” dell’uomo fino alla sua innocenza originaria. Proprio
Genesi 2,25 esige in modo particolare di oltrepassare quella soglia. È facile osservare come questo passo,
insieme al significato ad esso inerente della nudità originaria, si inserisca nell’insieme contestuale della
narrazione jahvista. Infatti, dopo alcuni versetti, lo stesso autore scrive: “Allora si aprirono gli occhi di tutti e
due e si accorsero di essere nudi, intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” ( Gen 3,7). L’avverbio
“allora” indica un nuovo momento e una nuova situazione conseguenti alla rottura della prima alleanza; è
una situazione che segue al fallimento della prova legata all’albero della conoscenza del bene e del male, che
nel contempo costituiva la prima prova di “obbedienza”, cioè di ascolto della Parola in tutta la sua verità e di
accettazione dell’Amore, secondo la pienezza delle esigenze della Volontà creatrice. Questo nuovo momento
o nuova situazione comporta anche un nuovo contenuto e una nuova qualità dell’esperienza del corpo, così
che non si può più dire: “erano nudi, ma non ne provavano vergogna”. La vergogna è quindi un’esperienza
non soltanto originaria, ma “di confine”.
5. È significativa, perciò, la differenza di formulazioni, che divide Genesi 2,25 da Genesi 3,7. Nel primo
caso, “erano nudi, ma non ne provavano vergogna”; nel secondo caso, “si accorsero di essere nudi”. Si vuol
forse dire, con ciò, che in un primo tempo “non si erano accorti di essere nudi”? che non sapevano e non
vedevano reciprocamente la nudità dei loro corpi? La significativa trasformazione testimoniataci dal testo
biblico circa l’esperienza della vergogna (di cui parla ancora la Genesi, particolarmente in 3,10-12), si attua
ad un livello più profondo del puro e semplice uso del senso della vista. L’analisi comparativa tra Genesi
2,25 e Genesi 3 porta necessariamente alla conclusione che qui non si tratta del passaggio dal “non
conoscere” al “conoscere”, ma di un radicale cambiamento del significato della nudità originaria della donna
di fronte all’uomo e dell’uomo di fronte alla donna. Esso emerge dalla loro coscienza, come frutto
dell’albero della conoscenza del bene e del male: “chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato
dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?” (Gen 3,11). Tale cambiamento riguarda direttamente

18. cf. ad esempio: M. Scheler, Über Scham und Schamgefühl, Halle 1914; Fr. Sawicki, Fenomenologia del pudore,
Kraków 1949; ed anche K. Wojtyla, Amore e responsabilità, Roma 1978, II ed., pp. 161-178.

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l’esperienza del significato del proprio corpo di fronte al Creatore e alle creature. Ciò viene confermato in
seguito dalle parole dell’uomo: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi
sono nascosto” (Gen 3,10). Ma in particolare quel cambiamento, che il testo jahvista delinea in modo così
conciso e drammatico, riguarda direttamente, forse nel modo più diretto possibile, la relazione uomo-donna,
femminilità-mascolinità.
6. Sull’analisi di questa trasformazione dovremo ritornare ancora in altre parti delle nostre ulteriori
riflessioni. Ora, giunti a quel confine che attraversa la sfera del “principio” al quale si è richiamato Cristo,
dovremmo chiederci se sia possibile ricostruire, in un certo qual modo, il significato originario della nudità,
che nel Libro della Genesi costituisce il contesto prossimo della dottrina circa l’unità dell’essere umano in
quanto maschio e femmina. Ciò sembra possibile, se assumiamo come punto di riferimento l’esperienza della
vergogna così come essa nell’antico testo biblico è stata chiaramente presentata quale esperienza “liminale”.
Cercheremo di fare un tentativo di tale ricostruzione nel seguito delle nostre meditazioni.

Mercoledì, 19 Dicembre 1979


Pienezza personalistica dell’innocenza originale
1. Che cos’è la vergogna e come spiegare la sua assenza nello stato di innocenza originaria, nella profondità
stessa del mistero della creazione dell’uomo come maschio e femmina? Dalle analisi contemporanee della
vergogna e in particolare del pudore sessuale si deduce la complessità di questa fondamentale esperienza,
nella quale l’uomo si esprime come persona secondo la struttura che gli è propria. Nell’esperienza del
pudore, l’essere umano sperimenta il timore nei confronti del “secondo io” (così, ad esempio, la donna di
fronte all’uomo), e questo è sostanzialmente timore per il proprio “io”. Con il pudore, l’essere umano
manifesta quasi “istintivamente” il bisogno dell’affermazione e dell’accettazione di questo “io”, secondo il
suo giusto valore. Lo esperimenta nello stesso tempo sia dentro se stesso, sia all’esterno, di fronte all’“altro”.
Si può dunque dire che il pudore è un’esperienza complessa anche nel senso che, quasi allontanando un
essere umano dall’altro (la donna dall’uomo), esso cerca nel contempo il loro personale avvicinamento,
creandogli una base e un livello idonei.
Per la stessa ragione, esso ha un significato fondamentale quanto alla formazione dell’ethos nell’umana
convivenza, e in particolare nella relazione uomo-donna. L’analisi del pudore indica chiaramente quanto
profondamente esso sia radicato appunto nelle mutue relazioni, quanto esattamente esprima le regole
essenziali alla “comunione delle persone”, e parimenti quanto profondamente tocchi la dimensione della
“solitudine” originaria dell’uomo. L’apparire della “vergogna” nella successiva narrazione biblica del
capitolo 3 della Genesi ha un significato pluridimensionale, e a suo tempo ci converrà riprenderne l’analisi.
Che cosa significa, invece, la sua originaria assenza in Genesi 2,25: “Erano nudi ma non ne provavano
vergogna”?
2. Bisogna stabilire, anzitutto, che si tratta, di una vera non-presenza della vergogna, e non di una sua
carenza o di un suo sottosviluppo. Non possiamo qui in alcun modo sostenere una “primitivizzazione” del
suo significato. Quindi il testo di Genesi 2,25 non soltanto esclude decisamente la possibilità di pensare ad
una “mancanza di vergogna”, ovverosia alla impudicizia, ma ancor più esclude che la si spieghi mediante
l’analogia con alcune esperienze umane positive, come ad esempio quelle dell’età infantile oppure della vita
dei cosiddetti popoli primitivi. Tali analogie sono non soltanto insufficienti, ma possono essere addirittura
deludenti. Le parole di Genesi 2,25 “non provavano vergogna” non esprimono carenza, ma, al contrario,
servono ad indicare una particolare pienezza di coscienza e di esperienza, soprattutto la pienezza di
comprensione del significato del corpo, legata al fatto che “erano nudi”.
Che così si debba comprendere e interpretare il testo citato, lo testimonia il seguito della narrazione jahvista,
in cui l’apparire della vergogna e in particolare del pudore sessuale, è collegato con la perdita di quella
pienezza originaria. Presupponendo, quindi, l’esperienza del pudore come esperienza “di confine”, dobbiamo
domandarci a quale pienezza di coscienza e di esperienza, e in particolare a quale pienezza di comprensione
del significato del corpo corrisponda il significato della nudità originaria, di cui parla Genesi 2,25.
3. Per rispondere a questa domanda, è necessario tenere presente il processo analitico finora condotto, che ha
la sua base nell’insieme del passo jahvista. In questo contesto, la solitudine originaria dell’uomo si manifesta

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come “non-identificazione” della propria umanità col mondo degli esseri viventi (“ animalia”) che lo
circondano.
Tale “non-identificazione”, in seguito alla creazione dell’uomo come maschio e femmina, cede il posto alla
felice scoperta della propria umanità “con l’aiuto” dell’altro essere umano; così l’uomo riconosce e ritrova la
propria umanità “con l’aiuto” della donna (Gen 2,25). Questo loro atto, nello stesso tempo, realizza una
percezione del mondo, che si attua direttamente attraverso il corpo (“carne dalla mia carne”). Esso è la
sorgente diretta e visibile dell’esperienza che giunge a stabilire la loro unità nell’umanità. Non è difficile
capire, perciò, che la nudità corrisponde a quella pienezza di coscienza del significato del corpo, derivante
dalla tipica percezione dei sensi. Si può pensare a questa pienezza in categorie di verità dell’essere o della
realtà, e si può dire che l’uomo e la donna erano originariamente dati l’uno all’altro proprio secondo tale
verità, in quanto “erano nudi”.
Nell’analisi del significato della nudità originaria, non si può assolutamente prescindere da questa
dimensione.
Questo partecipare alla percezione del mondo – nel suo aspetto “esteriore” – è un fatto diretto e quasi
spontaneo, anteriore a qualsiasi complicazione “critica” della conoscenza e dell’esperienza umana e appare
strettamente connesso all’esperienza del significato del corpo umano. Già così si potrebbe percepire
l’innocenza originaria della “conoscenza”.
4. Tuttavia, non si può individuare il significato della nudità originaria considerando soltanto la
partecipazione dell’uomo alla percezione esteriore del mondo; non lo si può stabilire senza scendere
nell’intimo dell’uomo. Genesi 2,25 ci introduce proprio a questo livello e vuole che noi lì cerchiamo
l’innocenza originaria del conoscere. Infatti, è con la dimensione dell’interiorità umana che bisogna spiegare
e misurare quella particolare pienezza della comunicazione interpersonale, grazie alla quale uomo e donna
“erano nudi ma non ne provavano vergogna”.
Il concetto di “comunicazione”, nel nostro linguaggio convenzionale, è stato pressoché alienato dalla sua più
profonda, originaria matrice semantica. Esso viene legato soprattutto alla sfera dei mezzi, e cioè, in massima
parte, ai prodotti che servono per l’intesa, lo scambio, l’avvicinamento. Invece è lecito supporre che, nel suo
significato originario e più profondo, la “comunicazione” era ed è direttamente connessa a soggetti, che
“comunicano” appunto in base alla “comune unione” esistente tra di loro, sia per raggiungere sia per
esprimere una realtà che è propria e pertinente soltanto alla sfera dei soggetti-persone. In questo modo, il
corpo umano acquista un significato completamente nuovo, che non può essere posto sul piano della
rimanente percezione “esterna” del mondo. Esso, infatti, esprime la persona nella sua concretezza ontologica
ed essenziale, che è qualcosa di più dell’“individuo”, e quindi esprime l’“io” umano personale, che fonda dal
di dentro la sua percezione “esteriore”.
5. Tutta la narrazione biblica e in particolare il testo jahvista, mostra che il corpo attraverso la propria
visibilità manifesta l’uomo e, manifestandolo, fa da intermediario, cioè fa sì che uomo e donna, fin
dall’inizio, “comunichino” tra loro secondo quella “communio personarum” voluta dal Creatore proprio per
loro. Soltanto questa dimensione, a quanto pare, ci permette di comprendere in modo appropriato il
significato della nudità originaria. A questo proposito, qualunque criterio “naturalistico” è destinato a fallire,
mentre invece il criterio “personalistico” può essere di grande aiuto. Genesi 2,25 parla certamente di
qualcosa di straordinario, che sta al di fuori dei limiti del pudore conosciuto per il tramite dell’esperienza
umana e che insieme decide della particolare pienezza della comunicazione interpersonale, radicata nel cuore
stesso di quella “communio” che viene così rivelata e sviluppata. In tale rapporto, le parole “non provavano
vergogna” possono significare (“in sensu obliquo”) soltanto un’originale profondità nell’affermare ciò che è
inerente alla persona, ciò che è “visibilmente” femminile e maschile, attraverso cui si costituisce l’“intimità
personale” della reciproca comunicazione in tutta la sua radicale semplicità e purezza. A questa pienezza di
percezione “esteriore”, espressa mediante la nudità fisica, corrisponde l’“interiore” pienezza della visione
dell’uomo in Dio, cioè secondo la misura dell’“immagine di Dio” (cf. Gen 1,17). Secondo questa misura,
l’uomo “è” veramente nudo (“erano nudi” [Gen 2,25])19, prima ancora di accorgersene (cf. Gen 3,7-10).
Dovremo ancora completare l’analisi di questo testo così importante durante le meditazioni che seguiranno.
19. Secondo le parole della Sacra Scrittura, Dio penetra la creatura che, prima di lui, è totalmente “nuda”: “Non v'è
creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo (“panta gymna”) e scoperto agli occhi suoi e a lui noi
dobbiamo rendere conto.” (Eb 4,13) Questa caratteristica appartiene in particolare alla Saggezza Divina: “La sapienza
per la sua purezza, si diffonde e penetra in ogni cosa.” (Sap 7,24).

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Mercoledì, 2 Gennaio 1980
La creazione come dono fondamentale e originario
1. Ritorniamo all’analisi del testo della Genesi (Gen 2,25), iniziato alcune settimane fa. Secondo tale passo,
l’uomo e la donna vedono se stessi quasi attraverso il mistero della creazione; vedono se stessi in questo
modo, prima di conoscere “di essere nudi”. Questo reciproco vedersi, non è solo una partecipazione
all’“esteriore” percezione del mondo, ma ha anche una dimensione interiore di partecipazione alla visione
dello stesso Creatore - di quella visione di cui parla più volte il racconto del capitolo primo: “Dio vide quanto
aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). La “nudità” significa il bene originario della visione
divina. Essa significa tutta la semplicità e pienezza della visione attraverso la quale si manifesta il valore
“puro” dell’uomo quale maschio e femmina, il valore “puro” del corpo e del sesso. La situazione che viene
indicata, in modo così conciso e insieme suggestivo, dall’originaria rivelazione del corpo come risulta in
particolare dal Genesi 2,25, non conosce interiore rottura e contrapposizione tra ciò che è spirituale e ciò che
è sensibile, così come non conosce rottura e contrapposizione tra ciò che umanamente costituisce la persona
e ciò che nell’uomo è determinato dal sesso: ciò che è maschile e femminile.
Vedendosi reciprocamente, quasi attraverso il mistero stesso della creazione, uomo e donna vedono se stessi
ancor più pienamente e più distintamente che non attraverso il senso stesso della vista, attraverso cioè gli
occhi del corpo. Vedono infatti, e conoscono se stessi con tutta la pace dello sguardo interiore, che crea
appunto la pienezza dell’intimità delle persone. Se la “vergogna” porta con sé una specifica limitazione del
vedere mediante gli occhi del corpo, ciò avviene soprattutto perché l’intimità personale è come turbata e
quasi “minacciata” da tale visione. Secondo Genesi 2,25, l’uomo e la donna “non provavano vergogna”:
vedendo e conoscendo se stessi in tutta la pace e tranquillità dello sguardo interiore, essi “comunicano” nella
pienezza dell’umanità, che si manifesta in loro come reciproca complementarietà proprio perché “maschile”
e “femminile”. Al tempo stesso, “comunicano” in base a quella comunione delle persone, nella quale,
attraverso la femminilità e la mascolinità essi diventano dono vicendevole l’una per l’altra. In questo modo
raggiungono nella reciprocità una particolare comprensione del significato del proprio corpo.
L’originario significato della nudità corrisponde a quella semplicità e pienezza di visione, nella quale la
comprensione del significato del corpo nasce quasi nel cuore stesso della loro comunità-comunione. La
chiameremo “sponsale”. L’uomo e la donna in Genesi 2,23-25 emergono, al “principio” stesso appunto, con
questa coscienza del significato del proprio corpo. Ciò merita un’analisi approfondita.
2. Se il racconto della creazione dell’uomo nelle due versioni, quella del capitolo primo e quella jahvista del
capitolo secondo ci permette di stabilire il significato originario della solitudine, dell’unità e della nudità, per
ciò stesso ci permette anche di ritrovarci sul terreno di un’adeguata antropologia, che cerca di comprendere e
di interpretare l’uomo in ciò che è essenzialmente umano 20.
I testi biblici contengono gli elementi essenziali di tale antropologia, che si manifestano nel contesto
teologico dell’“immagine di Dio”. Questo concetto nasconde in sé la radice stessa della verità sull’uomo,
rivelata attraverso quel “principio”, al quale Cristo si richiama nel colloquio con i farisei (cf. Mt 19,3-9),
parlando della creazione dell’uomo come maschio e femmina. Bisogna ricordare che tutte le analisi che qui
facciamo, si ricollegano, almeno indirettamente, proprio a queste sue parole. L’uomo, che Dio ha creato
“maschio e femmina”, reca l’immagine divina impressa nel corpo “da principio”; uomo e donna
costituiscono quasi due diversi modi dell’umano “esser corpo” nell’unità di quell’immagine.
Ora, conviene rivolgersi nuovamente a quelle fondamentali parole di cui Cristo si è servito, cioè alla parola
“creò” e al soggetto “Creatore”, introducendo nelle considerazioni fatte finora una nuova dimensione, un
nuovo criterio di comprensione e di interpretazione, che chiameremo “ermeneutica del dono”. La dimensione
del dono decide della verità essenziale e della profondità di significato dell’originaria solitudine-unità-nudità.
Essa sta anche nel cuore stesso del mistero della creazione, che ci permette di costruire la teologia del corpo
“da principio”, ma esige, nello stesso tempo, che noi la costruiamo proprio in tale modo.
3. La parola “creò”, in bocca a Cristo, contiene la stessa verità che troviamo nel Libro della Genesi. Il primo
racconto della creazione ripete più volte questa parola, da Genesi 1,1 (“in principio Dio creò il cielo e la

20. Il concetto di “antropologia adeguata” è stato spiegato nel testo stesso come “comprensione e interpretazione
dell’uomo in ciò che è essenzialmente umano”. Questo concetto determina il principio stesso di riduzione, proprio della
filosofia dell’uomo, indica il limite di questo principio, e indirettamente esclude che si possa varcare questo limite.
L’antropologia “adeguata” poggia sull’esperienza essenzialmente “umana”, opponendosi al riduzionismo di tipo
“naturalistico”, che va spesso di pari passo con la teoria evoluzionista circa gli inizi dell’uomo.

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terra”) fino a Genesi 1,27 (“Dio creò l’uomo a sua immagine”) 21. Dio rivela se stesso soprattutto come
Creatore. Cristo si richiama a quella fondamentale rivelazione racchiusa nel Libro della Genesi. Il concetto di
creazione ha in esso tutta la sua profondità non soltanto metafisica, ma anche pienamente teologica. Creatore
è colui che “chiama all’esistenza dal nulla”, e che stabilisce nell’esistenza il mondo e l’uomo nel mondo,
perché Egli “è amore” (1 Gv 4,8). A dire il vero, non troviamo questa parola amore (Dio è amore) nel
racconto della creazione; tuttavia questo racconto ripete spesso: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era
cosa molto buona”.
Attraverso queste parole noi siamo avviati ad intravvedere nell’amore il motivo divino della creazione, quasi
la sorgente da cui. essa scaturisce: soltanto l’amore infatti dà inizio al bene e si compiace del bene (cf.
1 Cor 13). La creazione perciò, come azione di Dio, significa non soltanto il chiamare dal nulla all’esistenza
e lo stabilire l’esistenza del mondo e dell’uomo nel mondo, ma significa anche, secondo la prima narrazione
“beresit bara”, donazione; una donazione fondamentale e “radicale”, vale a dire, una donazione in cui il dono
sorge proprio dal nulla.
4. La lettura dei primi capitoli del Libro della Genesi ci introduce nel mistero della creazione, dell’inizio cioè
del mondo per volere di Dio, il quale è onnipotenza e amore. Di conseguenza, ogni creatura porta in sé il
segno del dono originario e fondamentale.
Tuttavia, nello stesso tempo, il concetto di “donare” non può riferirsi ad un nulla. Esso indica colui che dona
e colui che riceve il dono, ed anche la relazione che si stabilisce tra di loro. Ora, tale relazione emerge nel
racconto della creazione nel momento stesso della creazione dell’uomo.
Questa relazione è manifestata soprattutto dall’espressione: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine
di Dio lo creò” (Gen 1,27). Nel racconto della creazione del mondo visibile il donare ha senso soltanto
rispetto all’uomo. In tutta l’opera della creazione, solo di lui si può dire che è stato gratificato di un dono: il
mondo visibile è stato creato “per lui”. Il racconto biblico della creazione ci offre motivi sufficienti per una
tale comprensione e interpretazione: la creazione è un dono, perché in essa appare l’uomo che, come
“immagine di Dio”, è capace di comprendere il senso stesso del dono nella chiamata dal nulla all’esistenza.
Ed egli è capace di rispondere al Creatore col linguaggio di questa comprensione. Interpretando appunto con
tale linguaggio il racconto della creazione, si può dedurne che essa costituisce il dono fondamentale e
originario: l’uomo appare nella creazione come colui che ha ricevuto in dono il mondo, e viceversa può dirsi
anche che il mondo ha ricevuto in dono l’uomo.
Dobbiamo, a questo punto, interrompere la nostra analisi. Ciò che abbiamo detto finora è in strettissimo
rapporto con tutta la problematica antropologica del “principio”. L’uomo vi appare come “creato”, cioè come
colui che, in mezzo al “mondo”, ha ricevuto in dono l’altro uomo. E proprio questa dimensione del dono noi
dovremo sottoporre in seguito ad una profonda analisi, per comprendere anche il significato del corpo umano
nella sua giusta misura. Sarà, questo, l’oggetto delle nostre prossime meditazioni.

Mercoledì, 9 Gennaio 1980


La rivelazione e la scoperta del significato sponsale del corpo
1. Rileggendo ed analizzando il secondo racconto della creazione, cioè il testo jahvista, dobbiamo chiederci
se il primo “uomo” (adam), nella sua solitudine originaria, “vivesse” il mondo veramente quale dono, con
atteggiamento conforme alla condizione effettiva di chi ha ricevuto un dono, quale risulta dal racconto del
capitolo primo. Il secondo racconto ci mostra infatti l’uomo nel giardino dell’Eden (cf. Gen 2,8); ma
dobbiamo osservare che, pur in questa situazione di felicità originaria, lo stesso Creatore (Dio Jahvè) e poi
anche l’“uomo”, invece di sottolineare l’aspetto del mondo come dono soggettivamente beatificante, creato
per l’uomo (cf. Gen 1,26-29), rilevano che l’uomo è “solo”. Abbiamo già analizzato il significato della
solitudine originaria; ora, però, è necessario notare che per la prima volta appare chiaramente una certa
carenza di bene: “Non è bene che l’uomo (maschio) sia solo” - dice Dio Jahvè - “gli voglio fare un aiuto...”

21. Il termine ebraico “bara” creò, usato esclusivamente per determinare l’azione di Dio, appare nel racconto della
creazione soltanto nel v. 1 [creazione del cielo e della terra], nel v. 21 [creazione degli animali] e nel v. 27 [creazione
dell’uomo]; qui però appare addirittura tre volte. Ciò significa la pienezza e la perfezione di quell’atto che è la creazione
dell’uomo, maschio e femmina. Tale iterazione indica che l’opera della creazione ha raggiunto qui il suo punto
culminante.

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(Gen 2,18). La stessa cosa afferma il primo “uomo”; anche lui, dopo aver preso coscienza fino in fondo della
propria solitudine tra tutti gli esseri viventi sulla terra, attende un “aiuto che gli sia simile” (cf. Gen 2,20).
Infatti, nessuno di questi esseri (animalia) offre all’uomo le condizioni di base, che rendano possibile esistere
in una relazione di reciproco dono.
2. Così, dunque, queste due espressioni, cioè l’aggettivo “solo” e il sostantivo “aiuto”, sembrano essere
veramente la chiave per comprendere l’essenza stessa del dono a livello d’uomo, come contenuto esistenziale
iscritto nella verità dell’“immagine di Dio”. Infatti il dono rivela, per così dire, una particolare caratteristica
dell’esistenza personale, anzi della stessa essenza della persona.
Quando Dio Jahvè dice che “non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18), afferma che da “solo” l’uomo non
realizza totalmente questa essenza. La realizza soltanto esistendo “con qualcuno” - e ancor più
profondamente e più completamente: esistendo “per qualcuno”. Questa norma dell’esistere come persona è
dimostrato nel Libro della Genesi come caratteristica della creazione, appunto mediante il significato di
queste due parole: “solo” e “aiuto”. Sono proprio esse che indicano quanto fondamentale e costitutiva per
l’uomo sia la relazione e la comunione delle persone. Comunione delle persone significa esistere in un
reciproco “per”, in una relazione di reciproco dono. E questa relazione è appunto il compimento della
solitudine originaria dell’“uomo”.
3. Tale compimento è, nella sua origine, beatificante. Senza dubbio esso è implicito nella felicità originaria
dell’uomo, e appunto costituisce quella felicità che appartiene al mistero della creazione fatta per amore, cioè
appartiene all’essenza stessa del donare creativo. Quando l’uomo-“maschio”, svegliato dal sonno genesiaco,
vede l’uomo-“femmina” da lui tratta, dice: “questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa”
(Gen 2,23); queste parole esprimono, in un certo senso, l’inizio soggettivamente beatificante dell’esistenza
dell’uomo nel mondo. In quanto verificatosi al “principio”, ciò conferma il processo di individuazione
dell’uomo nel mondo, e nasce, per così dire, dalla profondità stessa della sua solitudine umana, che egli vive
come persona di fronte a tutte le altre creature e a tutti gli esseri viventi (animalia). Anche questo “principio”
appartiene quindi ad una antropologia adeguata e può sempre essere verificato in base ad essa. Tale verifica
puramente antropologica ci porta, nello stesso tempo, al tema della “persona e al tema del “corpo-sesso”.
Questa contemporaneità è essenziale. Se infatti trattassimo del sesso senza la persona, sarebbe distrutta tutta
l’adeguatezza dell’antropologia, che troviamo nel Libro della Genesi. E per il nostro studio teologico sarebbe
allora velata la luce essenziale della rivelazione del corpo, che in queste prime affermazioni traspare con
tanta pienezza.
4. C’è un forte legame tra il mistero della creazione, quale dono che scaturisce dall’Amore, e quel
“principio” beatificante dell’esistenza dell’uomo come maschio e femmina, in tutta la verità del loro corpo e
del loro sesso, che è semplice e pura verità di comunione tra le persone. Quando il primo uomo, alla vista
della donna, esclama: “È carne dalla mia carne, e osso dalle mie ossa” (Gen 2,23), afferma semplicemente
l’identità umana di entrambi. Così esclamando, egli sembra dire: ecco un corpo che esprime la “persona”!
Seguendo un precedente passo del testo jahvista, si può anche dire: questo “corpo” rivela l’“anima vivente”,
quale l’uomo diventò quando Dio Jahvè alitò la vita in lui (cf. Gen 2,7), per cui ebbe inizio la sua solitudine
di fronte a tutti gli altri esseri viventi. Proprio attraverso la profondità di quella solitudine originaria, l’uomo
emerge ora nella dimensione del dono reciproco, la cui espressione - che per ciò stesso è espressione della
sua esistenza come persona - è il corpo umano in tutta la verità originaria della sua mascolinità e femminilità.
Il corpo, che esprime la femminilità “per” la mascolinità e viceversa la mascolinità “per” la femminilità,
manifesta la reciprocità e la comunione delle persone. La esprime attraverso il dono come caratteristica
fondamentale dell’esistenza personale. Questo è il corpo: testimone della creazione come di un dono
fondamentale, quindi testimone dell’Amore come sorgente, da cui è nato questo stesso donare. La
mascolinità-femminilità - cioè il sesso - è il segno originario di una donazione creatrice di una presa di
coscienza da parte dell’uomo, maschio-femmina, un dono vissuto per così dire in modo originario. Tale è il
significato, con cui il sesso entra nella teologia del corpo.
5. Quell’“inizio”beatificante dell’essere e dell’esistere dell’uomo, come maschio e femmina, è collegato con
la rivelazione e con la scoperta del significato del corpo, che conviene chiamare “sponsale”. Se parliamo di
rivelazione ed insieme di scoperta, la facciamo in rapporto alla specificità del testo jahvista, nel quale il filo
teologico è anche antropologico, anzi appare come una certa realtà coscientemente vissuta dall’uomo.
Abbiamo già osservato che alle parole che esprimono la prima gioia del comparire dell’uomo all’esistenza
come “maschio e femmina” (Gen 2,23) segue il versetto che stabilisce la loro unità coniugale (Gen 2,24), e

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poi quello che attesta la nudità di entrambi, priva di reciproca vergogna (Gen 2,25). Proprio questo
significativo confronto ci permette di parlare della rivelazione ed insieme della scoperta del significato
“sponsale” del corpo nel mistero stesso della creazione. Questo significato (in quanto rivelato ed anche
cosciente, “vissuto” dall’uomo) conferma fino in fondo che il donare creativo, che scaturisce dall’Amore, ha
raggiunto la coscienza originaria dell’uomo, diventando esperienza di reciproco dono, come si percepisce già
nel testo arcaico. Di ciò sembra anche testimoniare - forse perfino in modo specifico - quella nudità di
entrambi i progenitori, libera dalla vergogna.
6. Genesi 2,24 parla della finalizzazione della mascolinità e femminilità dell’uomo, nella vita dei coniugi-
genitori. Unendosi tra loro così strettamente da diventare “una sola carne”, questi sottoporranno, in certo
senso, la loro umanità alla benedizione della fecondità, cioè della “procreazione”, di cui parla il primo
racconto (Gen 1,28). L’uomo entra “in essere” con la coscienza di questa finalizzazione della propria
mascolinità-femminilità, cioè della propria sessualità.
Nello stesso tempo, le parole di Genesi 2,25: “Tutti e due erano nudi ma non ne provavano vergogna”,
sembrano aggiungere a questa fondamentale verità del significato del corpo umano, della sua mascolinità e
femminilità, un’altra verità non meno essenziale e fondamentale. L’uomo, consapevole della capacità
procreativa del proprio corpo e del proprio sesso, è nello stesso tempo libero dalla “costrizione” del proprio
corpo e sesso.
Quella nudità originaria, reciproca e ad un tempo non gravata dalla vergogna, esprime tale libertà interiore
dell’uomo. È, questa, la libertà dall’“istinto sessuale”? Il concetto di “istinto” implica già una costrizione
interiore, analogicamente all’istinto che stimola la fecondità e la procreazione in tutto il mondo degli esseri
viventi (animalia). Sembra, però, che tutti e due i testi del Libro della Genesi, il primo e il secondo racconto
della creazione dell’uomo, colleghino sufficientemente la prospettiva della procreazione con la fondamentale
caratteristica della esistenza umana in senso personale. Di conseguenza l’analogia del corpo umano e del
sesso in rapporto al mondo degli animali - che possiamo chiamare analogia “della natura” - in tutti e due i
racconti (benché in ciascuno in modo diverso) è elevata anch’essa, in un certo senso, a livello di “immagine
di Dio”, e a livello di persona e di comunione tra le persone.
A questo problema essenziale occorrerà dedicare ancora altre analisi. Per la coscienza dell’uomo - anche per
l’uomo contemporaneo - è importante sapere che in quei testi biblici che parlano del “principio” dell’uomo,
si trova la rivelazione del “significato sponsale del corpo”. Però è ancor più importante stabilire che cosa
esprima propriamente questo significato.

Mercoledì, 16 Gennaio 1980


L’uomo-persona diventa dono nella libertà dell’amore
1. Continuiamo oggi l’analisi dei testi del Libro della Genesi, che abbiamo intrapreso secondo la linea
dell’insegnamento di Cristo. Ricordiamo, infatti, che, nel colloquio sul matrimonio, Egli si è richiamato al
“principio”.
La rivelazione, ed insieme la scoperta originaria del significato “sponsale” del corpo, consiste nel presentare
l’uomo, maschio e femmina, in tutta la realtà e verità del suo corpo e sesso (“erano nudi”) e nello stesso
tempo nella piena libertà da ogni costrizione del corpo e del sesso. Di ciò sembra testimoniare la nudità dei
progenitori, interiormente liberi dalla vergogna. Si può dire che, creati dall’Amore, cioè dotati nel loro essere
di mascolinità e femminilità, entrambi sono “nudi” perché sono liberi della stessa libertà del dono. Questa
libertà sta appunto alla base del significato sponsale del corpo. Il corpo umano, con il suo sesso, e la sua
mascolinità e femminilità, visto nel mistero stesso delle creazione, è non soltanto sorgente di fecondità e di
procreazione, come in tutto l’ordine naturale, ma racchiude fin “dal principio” l’attributo “sponsale”, cioè la
capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e - mediante
questo dono - attua il senso stesso del suo essere ed esistere. Ricordiamo qui il testo dell’ultimo Concilio,
dove si dichiara che l’uomo è l’unica creatura nel mondo visibile che Dio abbia voluto “per se stessa”,
aggiungendo che quest’uomo non può “ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé” 22.
22. Anzi, quando il Signore Gesù prega il Padre, perché “tutti siano una cosa sola, come io e te siamo una cosa sola”
[Gv 17,21-22] mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra
l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che

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2. La radice di quella nudità originaria libera dalla vergogna, di cui parla Genesi 2,25, si deve cercare proprio
in quella integrale verità sull’uomo. Uomo o donna, nel contesto del loro a principio” beatificante, sono liberi
della stessa libertà del dono. Infatti, per poter rimanere nel rapporto del “dono sincero di sé” e per diventare
un tale dono l’uno per l’altro attraverso tutta la loro umanità fatta di femminilità e mascolinità (anche in
rapporto a quella prospettiva di cui parla Genesi 2,24), essi debbono essere liberi proprio in questo modo.
Intendiamo qui la libertà soprattutto come padronanza di se stessi (autodominio). Sotto questo aspetto, essa è
indispensabile perché l’uomo possa “dare se stesso”, perché possa diventare dono, perché (riferendoci alle
parole del Concilio) possa “ritrovarsi pienamente” attraverso “un dono sincero di sé”. Così, le parole “erano
nudi e non ne provavano vergogna” si possono e si devono intendere come rivelazione - ed insieme
riscoperta - della libertà, che rende possibile e qualifica il senso “sponsale” del corpo.
3. Genesi 2,25 dice però ancora di più. Difatti, questo passo indica la possibilità e la qualifica di tale
reciproca “esperienza del corpo”. E inoltre ci permette di identificare quel significato sponsale del corpo in
actu. Quando leggiamo che “erano nudi, ma non ne provavano vergogna”, ne tocchiamo indirettamente quasi
la radice, e direttamente già i frutti. Liberi interiormente dalla costrizione del proprio corpo e sesso, liberi
della libertà del dono, uomo e donna potevano fruire di tutta la verità, di tutta l’evidenza umana, così come
Dio Jahvè le aveva rivelate a loro nel mistero della creazione. Questa verità sull’uomo, che il testo conciliare
precisa con le parole sopra citate, ha due principali accenti. Il primo afferma che l’uomo è l’unica creatura
nel mondo che il Creatore abbia voluto “per se stessa”; il secondo consiste nel dire che questo stesso uomo,
voluto in tal modo dal Creatore fin dal “principio”, può ritrovare se stesso soltanto attraverso un dono
disinteressato di sé. Ora, questa verità circa l’uomo, che in particolare sembra cogliere la condizione
originaria collegata al “principio” stesso dell’uomo nel mistero della creazione, può essere riletta - in base al
testo conciliare - in entrambe le direzioni. Una tale rilettura ci aiuta a capire ancora maggiormente il
significato sponsale del corpo, che appare iscritto nella condizione originaria dell’uomo e della donna
(secondo Genesi 2,23-25) e in particolare nel significato della loro nudità originaria.
Se, come abbiamo costatato, alla radice della nudità c’è l’interiore libertà del dono - dono disinteressato di se
stessi - proprio quel dono permette ad ambedue, uomo e donna, di ritrovarsi reciprocamente, in quanto il
Creatore ha voluto ciascuno di loro “per se stesso” (cf. Gaudium et Spes, 24). Così l’uomo nel primo
incontro beatificante, ritrova la donna, ed essa ritrova lui. In questo modo egli accoglie interiormente lei;
l’accoglie così come essa è voluta “per se stessa” dal Creatore, come è costituita nel mistero dell’immagine
di Dio attraverso la sua femminilità; e, reciprocamente, essa accoglie lui nello stesso modo, come egli è
voluto “per se stesso” dal Creatore, e da Lui costituito mediante la sua mascolinità. In ciò consiste la
rivelazione e la scoperta del significato “sponsale” del corpo. La narrazione jahvista, e in particolare Genesi
2,25, ci permette di dedurre che l’uomo, come maschio e femmina, entra nel mondo appunto con questa
coscienza del significato del proprio corpo, della sua mascolinità e femminilità.
4. Il corpo umano, orientato interiormente dal “dono sincero” della persona, rivela non soltanto la sua
mascolinità o femminilità sul piano fisico, ma rivela anche un tale valore e una tale bellezza da oltrepassare
la dimensione semplicemente fisica della “sessualità” 23. In questo modo si completa in un certo senso la
coscienza del significato sponsale del corpo, collegato alla mascolinità-femminilità dell’uomo. Da una parte,
questo significato indica una particolare capacità di esprimere l’amore, in cui l’uomo diventa dono;
dall’altra, gli corrisponde la capacità e la profonda disponibilità all’“affermazione della persona”, cioè,
letteralmente, la capacità di vivere il fatto che l’altro - la donna per l’uomo e l’uomo per la donna - è, per
mezzo del corpo, qualcuno voluto dal Creatore “per se stesso”, cioè l’unico ed irripetibile: qualcuno scelto
dall’eterno Amore.

l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa, non possa ritrovarsi pienamente se non
attraverso un dono sincero di sé [Gaudium et Spes, 24]. L’analisi strettamente teologica del “Libro della Genesi”, in
particolare Genesi 2, 23-25, ci consente di far riferimento a questo testo. Ciò costituisce un altro passo tra “antropologia
adeguata” e “teologia del corpo”, strettamente legata alla scoperta delle caratteristiche essenziali dell’esistenza
personale nella “preistoria teologica” dell’uomo. Sebbene questo possa incontrare resistenza da parte della mentalità
evoluzionistica [anche tra i teologi], tuttavia sarebbe difficile non accorgersi che il testo analizzato del “Libro della
Genesi”, specialmente Genesi 2, 23-25, dimostra la dimensione non soltanto “originaria”, ma anche “esemplare”
dell’esistenza delI’uomo, in particolare dell’uomo “come maschio e femmina”.
23. La tradizione biblica riferisce un’eco lontana della perfezione fisica del primo uomo. Il profeta Ezechiele,
paragonando implicitamente il re di Tiro con Adamo nell’Eden, scrive così: “Tu eri un modello di perfezione, / pieno di
sapienza, / perfetto in bellezza; / in Eden, giardino di Dio...” [Ez 28,12-13].

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L’“affermazione della persona” non è nient’altro che accoglienza del dono, la quale, mediante la reciprocità,
crea la comunione delle persone; questa si costruisce dal di dentro, comprendendo pure tutta l’“esteriorità”
dell’uomo, cioè tutto quello che costituisce la nudità pura e semplice del corpo nella sua mascolinità e
femminilità. Allora - come leggiamo in Genesi 2,25 - l’uomo e la donna non provavano vergogna.
L’espressione biblica “non provavano” indica direttamente “l’esperienza” come dimensione soggettiva.
5. Proprio in tale dimensione soggettiva, come due “io” umani determinati dalla loro mascolinità e
femminilità, appaiono entrambi, uomo e donna, nel mistero del loro beatificante “principio” (ci troviamo
nello stato della innocenza originaria e, simultaneamente, della felicità originaria dell’uomo). Questo
apparire è breve, poiché comprende solo qualche versetto nel Libro della Genesi; tuttavia è pieno di un
sorprendente contenuto, teologico ed insieme antropologico. La rivelazione e la scoperta del significato
sponsale del corpo spiegano la felicità originaria dell’uomo e, ad un tempo, aprono la prospettiva della sua
storia terrena, nella quale egli non si sottrarrà mai a questo indispensabile “tema” della propria esistenza.
I versetti seguenti del Libro della Genesi, secondo il testo jahvista del capitolo 3, dimostrano, a dire il vero,
che questa prospettiva “storica” si costruirà in modo diverso dal “principio” beatificante (dopo il peccato
originale). Tanto più, però, bisogna penetrare profondamente nella struttura misteriosa, teologica ed insieme
antropologica, di tale “principio”. Infatti, in tutta la prospettiva della propria “storia”, l’uomo non mancherà
di conferire un significato sponsale al proprio corpo. Anche se questo significato subisce e subirà molteplici
deformazioni, esso rimarrà sempre il livello più profondo, che esige di essere rivelato in tutta la sua
semplicità e purezza, e manifestarsi in tutta la sua verità, quale segno dell’“immagine di Dio”. Di qui passa
anche la strada che va dal mistero della creazione alla “redenzione del corpo” (cf. Rm 8).
Rimanendo, per ora, sulla soglia di questa prospettiva storica, ci rendiamo chiaramente conto, in base a
Genesi 2,23-25, dello stesso legame che esiste tra la rivelazione e la scoperta del significato sponsale del
corpo e la felicità originaria dell’uomo. Un tale significato “sponsale” è anche beatificante e, come tale,
manifesta in definitiva tutta la realtà di quella donazione, di cui ci parlano le prime pagine del Libro della
Genesi. La loro lettura ci convince del fatto che la coscienza del significato del corpo che ne deriva - in
particolare del suo significato “sponsale” - costituisce la componente fondamentale dell’esistenza umana nel
mondo.
Questo significato “sponsale” del corpo umano si può capire solamente nel contesto della persona.
Il corpo ha un significato “sponsale” perché l’uomo-persona, come dice il Concilio, è una creatura che Iddio
ha voluto per se stessa, e che, simultaneamente, non può ritrovarsi pienamente se non mediante il dono di sé.
Se Cristo ha rivelato all’uomo ed alla donna, al di sopra della vocazione al matrimonio, un’altra vocazione -
quella cioè di rinunciare al matrimonio, in vista del Regno dei Cieli -, con questa vocazione ha messo in
rilievo la medesima verità sulla persona umana. Se un uomo o una donna sono capaci di fare dono di sé per il
regno dei cieli, questo prova a sua volta (e forse anche maggiormente) che c’è la libertà del dono nel corpo
umano. Vuol dire che questo corpo possiede un pieno significato “sponsale”

Mercoledì, 30 Gennaio 1980


Coscienza del significato del corpo e innocenza originaria
1. La realtà del dono e dell’atto del donare, delineata nei primi capitoli della Genesi come contenuto
costitutivo del mistero. della creazione, conferma che l’irradiazione dell’Amore è parte integrante di questo
stesso mistero. Soltanto l’Amore crea il bene, ed esso solo può, in definitiva, essere percepito in tutte le sue
dimensioni ed i suoi profili nelle cose create e soprattutto nell’uomo. La sua presenza è quasi il risultato
finale di quell’ermeneutica del dono, che qui stiamo conducendo.
La felicità originaria, il “principio” beatificante dell’uomo che Dio ha creato “maschio e femmina”
(Gen 1,27), il significato sponsale del corpo nella sua nudità originaria: tutto ciò esprime il radicamento
nell’Amore.
Questo donare coerente, che risale fino alle più profonde radici della coscienza e della subcoscienza, agli
strati ultimi dell’esistenza soggettiva di ambedue, uomo e donna, e che si riflette nella loro reciproca
“esperienza del corpo”, “testimonia il radicamento nell’Amore. I primi versetti della Bibbia ne parlano tanto
da togliere ogni dubbio. Parlano non soltanto della creazione del mondo e dell’uomo nel mondo, ma anche
della grazia, cioè del comunicarsi della santità, dell’irradiare dello Spirito, che produce uno speciale stato di

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“spiritualizzazione” in quell’uomo, che di fatto fu il primo. Nel linguaggio biblico, cioè nel linguaggio della
Rivelazione, la qualifica di “primo” significa appunto “di Dio”: “Adamo, figlio di Dio” (cf. Lc 3,38).
2. La felicità è il radicarsi nell’Amore. La felicità originaria ci parla del “principio” dell’uomo, che è sorto
dall’Amore e ha dato inizio all’amore. E ciò è avvenuto in modo irrevocabile, nonostante il successivo
peccato e la morte. A suo tempo, Cristo sarà testimone di questo amore irreversibile del Creatore e Padre, che
si era già espresso nel mistero della creazione e nella grazia dell’innocenza originaria. E perciò anche il
comune “principio” dell’uomo e della donna, cioè la verità originaria del loro corpo nella mascolinità e
femminilità, verso cui Genesi 2,25 rivolge la nostra attenzione, non conosce la vergogna. Questo “principio”
si può anche definire come originaria e beatificante immunità dalla vergogna per effetto dell’amore.
3. Una tale immunità ci orienta verso il mistero dell’innocenza originaria dell’uomo. Essa è un mistero della
sua esistenza, anteriore alla conoscenza del bene e del male e quasi “al di fuori” di questa. Il fatto che l’uomo
esiste in questo modo, antecedentemente alla rottura della prima Alleanza col suo Creatore, appartiene alla
pienezza del mistero della creazione. Se, come abbiamo già detto, la creazione è un dono fatto all’uomo,
allora la sua pienezza e dimensione più profonda è determinata dalla grazia, cioè dalla partecipazione alla
vita interiore di Dio stesso, alla sua santità.
Questa è anche, nell’uomo, fondamento interiore e sorgente della sua innocenza originaria. È con questo
concetto - e più precisamente con quello di “giustizia originaria” - che la teologia definisce lo stato
dell’uomo prima del peccato originale. Nella presente analisi del “principio”, che ci spiana le vie
indispensabili alla comprensione della teologia del corpo, dobbiamo soffermarci sul mistero dello stato
originario dell’uomo. Infatti, proprio quella coscienza del corpo - anzi, la coscienza del significato del corpo
- che cerchiamo di mettere in luce attraverso l’analisi del “principio”, rivela la peculiarità dell’innocenza
originaria.
Ciò che forse maggiormente si manifesta in Genesi 2,25 in modo diretto, è appunto il mistero di tale
innocenza, che tanto l’uomo quanto la donna delle origini portano, ciascuno in se stesso. Di tale caratteristica
è testimone in certo senso “oculare” il loro corpo stesso. È significativo che l’affermazione racchiusa in
Genesi 2,25 - circa la nudità reciprocamente libera da vergogna - sia una enunciazione unica nel suo genere
in tutta la Bibbia, così che non sarà mai più ripetuta. Al contrario, possiamo citare molti testi, in cui la nudità
sarà legata alla vergogna o addirittura, in senso ancor più forte, all’“ignominia” 24. In questo ampio contesto
sono tanto più visibili le ragioni per scoprire in Genesi 2,25 una particolare traccia del mistero dell’innocenza
originaria e un particolare fattore della sua irradiazione nel soggetto umano. Tale innocenza appartiene alla
dimensione della grazia contenuta nel mistero della creazione, cioè a quel misterioso dono atto all’intimo
dell’uomo - al “cuore” umano - che consente ad entrambi, uomo e donna, di esistere dal “principio” nella
reciproca relazione del dono disinteressato di sé. In ciò è racchiusa la rivelazione e insieme la scoperta del
significato “sponsale” del corpo nella sua mascolinità e femminilità. Si comprende perché parliamo, in
questo caso, di rivelazione ed insieme di scoperta. Dal punto di vista della nostra analisi è essenziale che la
scoperta del significato sponsale del corpo, che leggiamo nella testimonianza del Libro della Genesi, si attui
attraverso l’innocenza originaria; anzi, è tale scoperta che la svela e la mette in evidenza.
4. L’innocenza originaria appartiene al mistero del “principio” umano, dal quale l’uomo “storico” si è poi
separato commettendo il peccato originale. Il che non significa, però, che non sia in grado di avvicinarsi a
quel mistero mediante la sua conoscenza teologica. L’uomo “storico” cerca di comprendere il mistero
dell’innocenza originaria quasi attraverso un contrasto, e cioè risalendo anche all’esperienza della propria
colpa e della propria peccaminosità 25.. Egli cerca di comprendere l’innocenza originaria come carattere
24. La “nudità”, nel senso di “mancanza di vestito”, nell’antico Medio Oriente significava lo stato di abiezione degli
uomini privi di libertà: di schiavi, prigionieri di guerra o di condannati, di quelli che non godevano della protezione
della legge. La nudità delle donne era considerata disonore [cf. ad es. le minacce dei profeti: Os 1,2 e Ez 23,26.29].
L’uomo libero, premuroso della sua dignità, doveva vestirsi sontuosamente: più le vesti avevano strascico, più alta era la
dignità [cf. ad es. la veste di Giuseppe, che ispirava la gelosia dei suoi fratelli; o dei farisei, che allungavano le loro
frange]. Il secondo significato della “nudità”, in senso eufemistico, riguardava l’atto sessuale. La parola ebraica cerwat
significa un vuoto spaziale [ad es. del paesaggio], mancanza di vestito, spogliazione, ma non aveva in sé nulla di
obbrobrioso.
25. “Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Io non riesco
a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto... Quindi non sono più io a
farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio
del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se

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essenziale per la teologia del corpo, partendo dall’esperienza della vergogna; infatti, lo stesso testo biblico
così lo orienta. L’innocenza originaria è quindi ciò che “radicalmente”, cioè alle sue stesse radici, esclude la
vergogna del corpo nel rapporto uomo-donna, ne elimina la necessità nell’uomo, nel suo cuore, ossia nella
sua coscienza. Sebbene l’innocenza originaria parli soprattutto del dono del Creatore, della grazia che ha reso
possibile all’uomo di vivere il senso della donazione primaria del mondo ed in particolare il senso della
donazione reciproca dell’uno all’altro attraverso la mascolinità e femminilità in questo mondo, tuttavia tale
innocenza sembra anzitutto riferirsi allo stato interiore del “cuore” umano, della umana volontà. Almeno
indirettamente, in essa è inclusa la rivelazione e la scoperta dell’umana coscienza morale - la rivelazione e la
scoperta di tutta la dimensione della coscienza - ovviamente, prima della conoscenza del bene e del male. In
certo senso, va intesa come rettitudine originaria.
5. Nel prisma del nostro “a posteriori storico” cerchiamo quindi di ricostruire, in certo modo, la caratteristica
dell’innocenza originaria intesa quale contenuto della reciproca esperienza del corpo come esperienza del
suo significato sponsale (secondo la testimonianza di Genesi 2,23-25). Poiché la felicità e l’innocenza sono
iscritte nel quadro della comunione delle persone, come se si trattasse di due fili convergenti dell’esistenza
dell’uomo nello stesso mistero della creazione, la coscienza beatificante del significato del corpo - cioè del
significato sponsale della mascolinità e della femminilità umane - è condizionata dall’originaria innocenza.
Sembra che non vi sia alcun impedimento per intendere qui quella innocenza originaria come una particolare
“purezza di cuore”, che conserva un’interiore fedeltà al dono secondo il significato sponsale del corpo. Di
conseguenza, l’innocenza originaria, così concepita, si manifesta come una tranquilla testimonianza della
coscienza che (in questo caso) precede qualsiasi esperienza del bene e del male; e tuttavia tale testimonianza
serena della coscienza è qualcosa di tanto più beatificante. Si può dire, infatti, che la coscienza del significato
sponsale del corpo, nella sua mascolinità e femminilità, diventa “umanamente” beatificante solo mediante
tale testimonianza.
A questo argomento - cioè al legame che, nell’analisi del “principio” dell’uomo, si delinea tra la sua
innocenza (purezza di cuore) e la sua felicità - dedicheremo la prossima meditazione.

Mercoledì, 6 Febbraio 1980


Il dono del corpo crea un’autentica comunione
1. Proseguiamo l’esame di quel “principio”, al quale Gesù si è richiamato nel suo colloquio con i farisei sul
tema del matrimonio. Questa riflessione esige da noi di oltrepassare la soglia della storia dell’uomo e di
giungere fino allo stato di innocenza originaria. Per cogliere il significato di tale innocenza, ci basiamo, in
certo modo, sull’esperienza dell’uomo “storico”, sulla testimonianza del suo cuore, della sua coscienza.
2. Seguendo la linea dell’“a posteriori storico”, tentiamo di ricostruire la peculiarità dell’innocenza originaria
racchiusa nell’esperienza reciproca del corpo e del suo significato sponsale, secondo quanto attesta Genesi 2,
23-25. La situazione qui descritta rivela l’esperienza beatificante del significato del corpo che, nell’ambito
del mistero della creazione, l’uomo attinge, per così dire, nella complementarietà di ciò che in lui è maschile
e femminile. Tuttavia, alle radici di questa esperienza deve esserci la libertà interiore del dono, unita
soprattutto all’innocenza; la volontà umana è originariamente innocente e, in questo modo, è facilitata la
reciprocità e lo scambio del dono del corpo, secondo la sua mascolinità e femminilità, quale dono della
persona. Conseguentemente, l’innocenza attestata in Genesi 2,25 si può definire come innocenza della
reciproca esperienza del corpo. La frase: “Tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano
vergogna”, esprime proprio tale innocenza nella reciproca “esperienza del corpo”, innocenza ispirante
l’interiore scambio del dono della persona, che, nel reciproco rapporto, realizza in concreto il significato
sponsale della mascolinità e femminilità. Così, dunque, per comprendere l’innocenza della mutua esperienza

faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge:
quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie
membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato
che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” [ Rm 7,14-15.17-24;
cf.: “Video meliora proboque, deteriora sequor”: Ovidio, Metamorph., VII, 20].

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del corpo, dobbiamo cercare di chiarire in che cosa consista l’innocenza interiore nello scambio del dono
della persona. Tale scambio costituisce, infatti, la vera sorgente dell’esperienza dell’innocenza.
3. Possiamo dire che l’innocenza interiore (cioè la rettitudine di intenzione) nello scambio del dono consiste
in una reciproca “accettazione” dell’altro, tale da corrispondere all’essenza stessa del dono; in questo modo,
la donazione vicendevole crea la comunione delle persone. Si tratta, perciò, di “accogliere” l’altro essere
umano e di “accettarlo”, proprio perché in questa mutua relazione, di cui parla Genesi 2, 23-25, l’uomo e la
donna diventano dono l’uno per l’altro, mediante tutta la verità e l’evidenza del loro proprio corpo, nella sua
mascolinità e femminilità. Si tratta, quindi, di una tale “accettazione” o “accoglienza” che esprima e sostenga
nella reciproca nudità il significato del dono e perciò approfondisca la dignità reciproca di esso. Tale dignità
corrisponde profondamente al fatto che il Creatore ha voluto (e continuamente vuole) l’uomo, maschio e
femmina, “per se stesso”. L’innocenza “del cuore”, e, di conseguenza, l’innocenza dell’esperienza significa
partecipazione morale all’eterno e permanente atto della volontà di Dio.
Il contrario di tale “accoglienza” o “accettazione” dell’altro essere umano come dono sarebbe una privazione
del dono stesso e perciò un tramutamento e addirittura una riduzione dell’altro ad “oggetto per me stesso”
(oggetto di concupiscenza, di “appropriazione indebita”, ecc.).
Non tratteremo, ora, in modo particolareggiato di questa multiforme, presumibile antitesi del dono.
Occorre però già qui, nel contesto di Genesi 2, 23-25, costatare che un tale estorcere all’altro essere umano il
suo dono (alla donna da parte dell’uomo e viceversa) ed il ridurlo interiormente a puro “oggetto per me”,
dovrebbe appunto segnare l’inizio della vergogna. Questa, infatti, corrisponde ad una minaccia inferta al
dono nella sua personale intimità e testimonia il crollo interiore dell’innocenza nell’esperienza reciproca.
4. Secondo Genesi 2, 25, “uomo e donna non provavano vergogna”. Questo ci permette di giungere alla
conclusione che lo scambio del dono, al quale partecipa tutta la loro umanità, anima e corpo, femminilità e
mascolinità, si realizza conservando la caratteristica interiore (cioè appunto l’innocenza) della donazione di
sé e dell’accettazione dell’altro come dono. Queste due funzioni del mutuo scambio sono profondamente
connesse in tutto il processo del “dono di sé”: il donare e l’accettare il dono si compenetrano, così che lo
stesso donare diventa accettare, e l’accettare si trasforma in donare.
5. Genesi 2, 23-25 ci permette di dedurre che la donna, la quale nel mistero della creazione “è data” all’uomo
dal Creatore, grazie all’innocenza originaria viene “accolta”, ossia accettata da lui quale dono. Il testo biblico
a questo punto è del tutto chiaro e limpido. In pari tempo, l’accettazione della donna da parte dell’uomo e lo
stesso modo di accettarla diventano quasi una prima donazione, cosicché la donna donandosi (sin dal primo
momento in cui nel mistero della creazione è stata a data” all’uomo da parte del Creatore) “riscopre” ad un
tempo a se stessa”, grazie al fatto che è stata accettata e accolta e grazie al modo con cui è stata ricevuta
dall’uomo. Ella ritrova quindi se stessa nel proprio donarsi (“attraverso un dono sincero di sé”) (Gaudium et
Spes, 24), quando viene accettata così come l’ha voluta il Creatore, cioè “per se stessa”, attraverso la sua
umanità e femminilità; quando in questa accettazione viene assicurata tutta la dignità del dono, mediante
l’offerta di ciò che ella è in tutta la verità della sua umanità e in tutta la realtà del suo corpo e sesso, della sua
femminilità, ella perviene all’intima profondità della sua persona e al pieno possesso di sé. Aggiungiamo che
questo ritrovare se stessi nel proprio dono diventa sorgente di un nuovo dono di sé, che cresce in forza
dell’interiore disposizione allo scambio del dono e nella misura in cui incontra una medesima e anzi più
profonda accettazione e accoglienza, come frutto di una sempre più intensa coscienza del dono stesso.
6. Sembra che il secondo racconto della creazione abbia assegnato “da principio” all’uomo la funzione di chi
soprattutto riceve il dono (cf. Gen 2,23). La donna viene “da principio” affidata ai suoi occhi, alla sua
coscienza, alla sua sensibilità, al suo “cuore”; lui invece deve, in certo senso, assicurare il processo stesso
dello scambio del dono, la reciproca compenetrazione del dare e ricevere in dono, la quale, appunto
attraverso la sua reciprocità, crea un’autentica comunione di persone.
Se la donna, nel mistero della creazione, è colei che è stata “data” all’uomo, questi da parte sua, ricevendola
quale dono nella piena verità della sua persona e femminilità, per ciò stesso la arricchisce, e in pari tempo
anch’egli, in questa relazione reciproca, viene arricchito. L’uomo si arricchisce non soltanto mediante lei, che
gli dona la propria persona e femminilità, ma anche mediante la donazione di se stesso. La donazione da
parte dell’uomo, in risposta a quella della donna, è per lui stesso un arricchimento; infatti vi si manifesta
quasi l’essenza specifica della sua mascolinità che, attraverso la realtà del corpo e del sesso, raggiunge
l’intima profondità del “possesso di sé”, grazie alla quale è capace sia di dare se stesso che di ricevere il dono
dell’altro.

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L’uomo, quindi, non soltanto accetta il dono, ma ad un tempo viene accolto quale dono dalla donna, nel
rivelarsi della interiore spirituale essenza della sua mascolinità, insieme con tutta la verità del suo corpo e
sesso. Così accettato, egli, per questa accettazione ed accoglienza del dono della propria mascolinità, si
arricchisce. In seguito, tale accettazione, in cui l’uomo ritrova se stesso attraverso il “dono sincero di sé”,
diventa in lui sorgente di un nuovo e più profondo arricchimento della donna con sé. Lo scambio è reciproco,
ed in esso si rivelano e crescono gli effetti vicendevoli del “dono sincero” e del “ritrovamento di sé”.
In questo modo, seguendo le orme dell’“a posteriori storico” - e soprattutto seguendo le orme dei cuori
umani - possiamo riprodurre e quasi ricostruire quel reciproco scambio del dono della persona, che è stato
descritto nell’antico testo, tanto ricco e profondo, del Libro della Genesi.

Mercoledì, 13 Febbraio 1980


L’innocenza originaria e lo stato storico dell’uomo
1. La meditazione di oggi presuppone quanto già è stato acquisito dalle varie analisi fatte finora. Queste
sono scaturite dalla risposta data da Gesù ai suoi interlocutori (cf. Mt 19,3-9; Mc 10,1-12), i quali gli
avevano posto una questione sul matrimonio, sulla sua indissolubilità e unità. Il Maestro aveva loro
raccomandato di considerare attentamente ciò che era “da principio”. E proprio per questo, nel ciclo delle
nostre meditazioni fino ad oggi, abbiamo cercato di riprodurre in qualche modo la realtà dell’unione, o
meglio della comunione di persone, vissuta fin “da principio” dall’uomo e dalla donna. In seguito, abbiamo
cercato di penetrare nel contenuto del conciso versetto 25 di Genesi 2: “Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e
sua moglie, ma non ne provavano vergogna”.
Queste parole fanno riferimento al dono dell’innocenza originaria, rivelandone il carattere in modo, per così
dire, sintetico. La teologia, su questa base, ha costruito l’immagine globale dell’innocenza e della giustizia
originaria dell’uomo, prima del peccato originale, applicando il metodo dell’oggettivizzazione, specifico
della metafisica e dell’antropologia metafisica. Nella presente analisi cerchiamo piuttosto di prendere in
considerazione l’aspetto della soggettività umana; questa, del resto, sembra trovarsi più vicina ai testi
originari, specialmente al secondo racconto della creazione, cioè il testo jahvista.
2. Indipendentemente da una certa diversità di interpretazione, sembra abbastanza chiaro che l’“esperienza
del corpo”, quale possiamo desumere dal testo arcaico di Genesi 2, 23 e più ancora di Genesi 2,25, indica un
grado di a spiritualizzazione” dell’uomo, diverso da quello di cui parla lo stesso testo dopo il peccato
originale (Genesi 3) e che noi conosciamo dall’esperienza dell’uomo “storico”. È una diversa misura di
“spiritualizzazione”, che comporta un’altra composizione delle forze interiori nell’uomo stesso, quasi un
altro rapporto corpo-anima, altre proporzioni interne tra la sensitività, la spiritualità, l’affettività, cioè un
altro grado di sensibilità interiore verso i doni dello Spirito Santo. Tutto ciò condiziona lo stato di innocenza
originaria dell’uomo ed insieme lo determina, permettendoci anche di comprendere il racconto della Genesi.
La teologia ed anche il magistero della Chiesa hanno dato a queste fondamentali verità una propria forma 26.
3. Intraprendendo l’analisi del “principio” secondo la dimensione della teologia del corpo, lo facciamo
basandoci sulle parole di Cristo, con le quali egli stesso si è riferito a quel “principio”.
Quando disse: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina?” (Mt 19,4), ci ha
ordinato e sempre ci ordina di ritornare alla profondità del mistero della creazione. E noi lo facciamo, avendo
piena coscienza del dono dell’innocenza originaria, propria dell’uomo prima del peccato originale. Sebbene
una insormontabile barriera ci divida da ciò che l’uomo è stato allora come maschio e femmina, mediante il
dono della grazia unita al mistero della creazione, e da ciò che ambedue sono stati l’uno per l’altro, come
dono reciproco, tuttavia cerchiamo di comprendere quello stato di innocenza originaria nel suo legame con lo
stato “storico” dell’uomo dopo il peccato originale: “status naturae lapsae simul et redemptae”.
26. “Si quis non confitetur primum hominem Adam, cum mandatum Dei in paradiso fuisset transgressus, statim
sanctitatem et iustitiam, in qua constitutus fuerat, amisisse... anathema sit” [Conc. Trident., Sess. V, can. 1, 2: D.-S.
788, 789]. “Protoparentes in statu sanctitatis et iustitiae constituti fuerunt... Status iustitiae originalis protoparentibus
collatus, erat gratuitus et vere supernaturalis... Protoparentes constituti sunt in statu naturae integrae, id est, immunes
a concupiscentia, ignorantia, dolore et morte... singularique felicitate gaudebant... Dona integritatis protoparentibus
collata, erant gratuita et praeternaturalia” [A. Tanquerey, Synopsis Theologiae Dgmaticae, Parisiis 194324 pp. 534-
549].

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Per il tramite della categoria dello “a posteriori storico”, cerchiamo di giungere al senso originario del corpo,
e di afferrare il legame esistente tra di esso e l’indole dell’innocenza originaria nell’“esperienza del corpo”,
quale si pone in evidenza in modo così significativo nel racconto del Libro della Genesi. Arriviamo alla
conclusione che è importante ed essenziale precisare questo legame, non soltanto nei confronti della
“preistoria teologica” dell’uomo, in cui la convivenza dell’uomo e della donna era quasi completamente
permeata dalla grazia dell’innocenza originaria, ma anche in rapporto alla sua possibilità di rivelarci le radici
permanenti dell’aspetto umano e soprattutto teologico dell’ethos del corpo.
4. L’uomo entra nel mondo e quasi nella più intima trama del suo avvenire e della sua storia, con la coscienza
del significato sponsale del proprio corpo, della propria mascolinità e femminilità.
L’innocenza originaria dice che quel significato è condizionato “eticamente” e inoltre che, da parte sua,
costituisce l’avvenire dell’ethos umano. Questo è molto importante per la teologia del corpo: è la ragione per
cui dobbiamo costruire questa teologia “dal principio”, seguendo accuratamente l’indicazione delle parole di
Cristo.
Nel mistero della creazione, l’uomo e la donna sono stati “dati” dal Creatore, in modo particolare, l’uno
all’altro, e ciò non soltanto nella dimensione di quella prima coppia umana e di quella prima comunione di
persone, ma in tutta la prospettiva dell’esistenza del genere umano e della famiglia umana. Il fatto
fondamentale di questa esistenza dell’uomo in ogni tappa della sua storia è che Dio “li creò maschio e
femmina”; infatti sempre li crea in questo modo e sempre sono tali. La comprensione dei significati
fondamentali, racchiusi nel mistero stesso della creazione, come il significato sponsale del corpo (e dei
fondamentali condizionamenti di tale significato), è importante e indispensabile per conoscere chi sia l’uomo
e chi debba essere, e quindi come dovrebbe plasmare la propria attività. È cosa essenziale e importante per
l’avvenire dell’ethos umano.
5. Genesi 2,24 costata che i due, uomo e donna, sono stati creati per il matrimonio: “Per questo l’uomo
abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”.
In tal modo si apre una grande prospettiva creatrice: che è appunto la prospettiva dell’esistenza dell’uomo, la
quale continuamente si rinnova per mezzo della “procreazione” (si potrebbe dire dell’“autoriproduzione”).
Tale prospettiva è profondamente radicata nella coscienza dell’umanità (cf. Gen 2,23) e anche nella
particolare coscienza del significato sponsale del corpo (Gen 2,25). L’uomo e la donna, prima di diventare
marito e moglie (in concreto ne parlerà in seguito Genesi 4,1), emergono dal mistero della creazione prima di
tutto come fratello e sorella nella stessa umanità. La comprensione del significato sponsale del corpo nella
sua mascolinità e femminilità rivela l’intimo della loro libertà, che è libertà di dono.
Di qui inizia quella comunione di persone, in cui entrambi s’incontrano e si donano reciprocamente nella
pienezza della loro soggettività. Così ambedue crescono come persone-soggetti, e crescono reciprocamente
l’uno per l’altro anche attraverso il loro corpo e attraverso quella “nudità” libera da vergogna. In questa
comunione di persone viene perfettamente assicurata tutta la profondità della solitudine originaria dell’uomo
(del primo e di tutti) e, nello stesso tempo, tale solitudine diventa in modo meraviglioso permeata ed
allargata dal dono dell’“altro”. Se l’uomo e la donna cessano di essere reciprocamente dono disinteressato,
come lo erano l’uno per l’altro, nel mistero della creazione, allora riconoscono di “esser nudi” (cf. Gen 3).
Ed allora nascerà nei loro cuori la vergogna di quella nudità, che non avevano sentita nello stato di innocenza
originaria.
L’innocenza originaria manifesta ed insieme costituisce l’ethos perfetto del dono.
Su questo argomento ritorneremo ancora.

Mercoledì, 20 Febbraio 1980


Con “il sacramento del corpo” l’uomo si sente soggetto di santità
1. Il libro della Genesi rileva che l’uomo e la donna sono stati creati per il matrimonio: “... L’uomo
abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2,24).
In questo modo si apre la grande prospettiva creatrice dell’esistenza umana, che sempre si rinnova mediante
la “procreazione” che è “autoriproduzione”. Tale prospettiva è radicata nella coscienza dell’umanità e anche
nella particolare comprensione del significato sponsale del corpo, con la sua mascolinità e femminilità.

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Uomo e donna, nel mistero della creazione, sono un reciproco dono. L’innocenza originaria manifesta e
insieme determina l’ethos perfetto del dono.
Di ciò abbiamo parlato durante il precedente incontro. Attraverso l’ethos del dono viene delineato in parte il
problema della “soggettività” dell’uomo, il quale è un soggetto fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Nel
racconto della creazione (cf. Gen 2,23-25) “la donna” certamente non è soltanto “un oggetto” per l’uomo,
pur rimanendo ambedue l’uno di fronte all’altra in tutta la pienezza della loro oggettività di creature come
“osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne”, come maschio e femmina, entrambi nudi. Solo la nudità che
rende “oggetto” la donna per l’uomo, o viceversa, è fonte di vergogna. Il fatto che “non provavano
vergogna” vuol dire che la donna non era per l’uomo un “oggetto” né lui per lei. L’innocenza interiore come
“purezza di cuore”, in certo modo, rendeva impossibile che l’uno venisse comunque ridotto dall’altro al
livello di mero oggetto.
Se “non provavano vergogna”, vuol dire che erano uniti dalla coscienza del dono, avevano reciproca
consapevolezza del significato sponsale dei loro corpi, in cui si esprime la libertà del dono e si manifesta
tutta l’interiore ricchezza della persona come soggetto. Tale reciproca compenetrazione dell’“io” delle
persone umane, dell’uomo e della donna, sembra escludere soggettivamente qualsiasi “riduzione ad oggetto”.
Si rivela in ciò il profilo soggettivo di quell’amore, di cui peraltro si può dire che “è oggettivo” fino in fondo,
in quanto si nutre della stessa reciproca “oggettività del dono”.
2. L’uomo e la donna, dopo il peccato originale, perderanno la grazia dell’innocenza originaria. La scoperta
del significato sponsale del corpo cesserà di essere per loro una semplice realtà della rivelazione e della
grazia. Tuttavia, tale significato resterà come impegno dato all’uomo dall’ethos del dono, iscritto nel
profondo del cuore umano, quasi lontana eco dell’innocenza originaria. Da quel significato sponsale si
formerà l’amore umano nella sua interiore verità e nella sua soggettiva autenticità. E l’uomo - anche
attraverso il velo della vergogna - vi riscoprirà continuamente se stesso come custode del mistero del
soggetto, cioè della libertà del dono, così da difenderla da qualsiasi riduzione a posizioni di puro oggetto.
3. Per ora, tuttavia, ci troviamo dinanzi alla soglia della storia terrena dell’uomo. L’uomo e la donna non
l’hanno ancora varcata verso la conoscenza del bene e del male. Sono immersi nel mistero stesso della
creazione, e la profondità di questo mistero nascosto nel loro cuore è l’innocenza, la grazia, l’amore e la
giustizia: “E Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” ( Gen 1,31). L’uomo appare nel
mondo visibile come la più alta espressione del dono divino, perché porta in sé l’interiore dimensione del
dono. E con essa porta nel mondo la sua particolare somiglianza con Dio, con la quale egli trascende e
domina anche la sua “visibilità” nel mondo, la sua corporeità, la sua mascolinità o femminilità, la sua nudità.
Un riflesso di questa somiglianza è anche la consapevolezza primordiale del significato sponsale del corpo,
pervasa dal mistero dell’innocenza originaria.
4. Così, in questa dimensione, si costituisce un primordiale sacramento, inteso quale segno che trasmette
efficacemente nel mondo visibile il mistero invisibile nascosto in Dio dall’eternità. E questo è il mistero della
Verità e dell’Amore, il mistero della vita divina, alla quale l’uomo partecipa realmente. Nella storia
dell’uomo, è l’innocenza originaria che inizia questa partecipazione ed è anche sorgente della originaria
felicità. Il sacramento, come segno visibile, si costituisce con l’uomo, in quanto “corpo”, mediante la sua
“visibile” mascolinità e femminilità. Il corpo, infatti, e soltanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è
invisibile: lo spirituale e il divino. Esso è stato creato per trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero
nascosto dall’eternità in Dio, e così esserne segno.
5. Dunque, nell’uomo creato ad immagine di Dio è stata rivelata, in certo senso, la sacramentalità stessa della
creazione, la sacramentalità del mondo. L’uomo, infatti, mediante la sua corporeità, la sua mascolinità e
femminilità, diventa segno visibile dell’economia della Verità e dell’Amore, che ha la sorgente in Dio stesso
e che fu rivelata già nel mistero della creazione. Su questo vasto sfondo comprendiamo pienamente le parole
costitutive del sacramento del matrimonio, presenti in Genesi 2,24 (“l’uomo abbandonerà suo padre e sua
madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”). Su questo vasto sfondo, comprendiamo
inoltre, che le parole di Genesi 2,25 (“tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano
vergogna”), attraverso tutta la profondità del loro significato antropologico, esprimono il fatto che insieme
con l’uomo è entrata la santità nel mondo visibile, creato per lui. Il sacramento del mondo, e il sacramento
dell’uomo nel mondo, proviene dalla sorgente divina della santità, e contemporaneamente è istituito per la
santità.

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L’innocenza originaria, collegata all’esperienza del significato sponsale del corpo, è la stessa santità che
permette all’uomo di esprimersi profondamente col proprio corpo, e ciò, appunto, mediante il ff dono
sincero” di se stesso. La coscienza del dono condiziona, in questo caso, “il sacramento del corpo”: l’uomo si
sente, nel suo corpo di maschio o di femmina, soggetto di santità.
Con tale coscienza del significato del proprio corpo, l’uomo, quale maschio e femmina, entra nel mondo
come soggetto di verità e di amore. Si può dire che Genesi 2, 23-25 narra quasi la prima festa dell’umanità in
tutta la pienezza originaria dell’esperienza del significato sponsale del corpo: ed è una festa dell’umanità, che
trae origine dalle fonti divine della Verità e dell’Amore nel mistero stesso della creazione. E sebbene, ben
presto, su quella festa originaria si estenda l’orizzonte del peccato e della morte (Gen 3), tuttavia già fin dal
mistero della creazione attingiamo una prima speranza: che, cioè, il frutto della economia divina della verità
e dell’amore, che si è rivelata “al principio”, sia non la Morte, ma la Vita, e non tanto la distruzione del corpo
di Dio”, quanto piuttosto la “chiamata alla gloria” (cf. Rm 8,30).

Mercoledì, 5 Marzo 1980


Il significato biblico della conoscenza nella convivenza matrimoniale
1. All’insieme delle nostre analisi, dedicate al “principio” biblico, desideriamo aggiungere ancora un breve
passo, tratto dal capitolo IV del libro della Genesi. A tal fine, tuttavia, prima bisogna sempre rifarsi alle
parole pronunciate da Gesù Cristo nel colloquio con i farisei (cf. Mt 19 et Mc 10) 27 , nell’ambito delle quali
si svolgono le nostre riflessioni; esse riguardano il contesto dell’esistenza umana, secondo cui la morte e la
connessa distruzione del corpo (stando a quel: “in polvere tornerai”, di Genesi 3,19) sono diventate sorte
comune dell’uomo. Cristo si riferisce al “principio”, alla dimensione originaria del mistero della creazione,
allorquando questa dimensione già era stata infranta dal mysterium iniquitatis, cioè dal peccato e, insieme ad
esso, anche dalla morte: mysterium mortis. Il peccato e la morte sono entrati nella storia dell’uomo, in certo
modo attraverso il cuore stesso di quell’unità, che dal “principio” era formata dall’uomo e dalla donna, creati
e chiamati a diventare “una sola carne” (Gen 2,24). Già all’inizio delle nostre meditazioni abbiamo costatato
che Cristo, richiamandosi al “principio”, ci conduce, in un certo senso, oltre il limite della peccaminosità
ereditaria dell’uomo fino alla sua innocenza originaria; egli ci permette, così, di trovare la continuità ed il
legame esistente tra queste due situazioni, mediante le quali si è prodotto il dramma delle origini e anche la
rivelazione del mistero dell’uomo all’uomo storico.
Questo, per così dire, ci autorizza a passare, dopo le analisi riguardanti lo stato dell’innocenza originaria,
all’ultima di esse, cioè all’analisi della “conoscenza e della generazione”. Tematicamente, essa è strettamente
legata alla benedizione della fecondità, inserita nel primo racconto della creazione dell’uomo come maschio
e femmina (Gen 1,27-28). Storicamente, invece, è già inserita in quell’orizzonte di peccato e di morte che,
come insegna il libro della Genesi (Gen 3), ha gravato sulla coscienza del significato del corpo umano,
insieme all’infrazione della prima alleanza col Creatore.
2. In Genesi 4, e quindi ancora nell’ambito del testo jahvista, leggiamo: “Adamo si unì a Eva, sua moglie, la
quale concepì e partorì Caino e disse: “Ho acquistato un uomo dal Signore”. Poi partorì ancora suo fratello
Abele” (Gen 4,1-2). Se connettiamo alla “conoscenza” quel primo fatto della nascita di un uomo sulla terra,
lo facciamo in base alla traduzione letterale del testo, secondo cui l’“unione” coniugale viene definita
appunto come “conoscenza”. Difatti, la traduzione citata suona così: “Adamo si unì a Eva sua moglie”,
mentre alla lettera si dovrebbe tradurre: “conobbe sua moglie”, il che sembra corrispondere più
adeguatamente al termine semitico jadac 28. Si può vedere in ciò un segno di povertà della lingua arcaica, alla

27. Bisogna tener conto del fatto che, nel colloquio con i farisei [Mt 19,7-9; Mc 10,4-6], Cristo prende posizione
riguardo alla prassi della legge mosaica circa il cosiddetto “libello di ripudio”. Le parole “per la durezza del vostro
cuore”, pronunziate da Cristo rispecchiano non soltanto “la storia dei cuori”, ma anche tutta la complessità della legge
positiva dell’Antico Testamento, che sempre cercava il “compromesso umano” in questo campo tanto delicato.
28. “Conoscere” [jadac], nel linguaggio biblico, non significa soltanto una conoscenza meramente intellettuale, ma
anche esperienza concreta, come ad esempio l’esperienza della sofferenza [cf. Is 53,3], del peccato [Sap 3,13], della
guerra e della pace [Gdc 3,1; Is 59,8]. Da questa esperienza scaturisce anche il giudizio morale: “conoscenza del bene e
del male” [Gen 2,9-17]. La “conoscenza” entra nel campo dei rapporti interpersonali, quando riguarda la solidarietà di
famiglia [Dt 33,9]e specialmente i rapporti coniugali. Proprio in riferimento all’atto coniugale, il termine sottolinea la

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quale mancavano varie espressioni per definire fatti differenziati. Nondimeno, resta significativo che la
situazione, in cui marito e moglie si uniscono così intimamente tra loro da formare “una sola carne”, sia stata
definita una “conoscenza”. In questo modo, infatti, dalla stessa povertà del linguaggio sembra emergere una
specifica profondità di significato, derivante appunto da tutti i significati finora analizzati.
3. Evidentemente, ciò è pure importante quanto all’“archetipo” del nostro modo di pensare l’uomo corporeo,
la sua mascolinità e la sua femminilità, e quindi il suo sesso. Così, infatti, attraverso il termine “conoscenza”
usato in Genesi 4,1-2 e spesso nella Bibbia, il rapporto coniugale dell’uomo e della donna, cioè il fatto che
essi diventano, attraverso la dualità del sesso, una “sola carne”, è stato elevato e introdotto nella dimensione
specifica delle persone. Genesi 4,1-2 parla soltanto della “conoscenza” della donna da parte dell’uomo, quasi
per sottolineare soprattutto l’attività di quest’ultimo. Si può, però, anche parlare della reciprocità di questa
“conoscenza”, a cui uomo e donna partecipano mediante il loro corpo e il loro sesso. Aggiungiamo che una
serie di successivi testi biblici, come, del resto, lo stesso capitolo della Genesi (cf. ex. gr. Gen 4,17.25),
parlano con lo stesso linguaggio. E ciò fino alle parole pronunziate da Maria di Nazaret nell’annunciazione:
“Come è possibile? Non conosco uomo” (Lc 1,34).
4. Così, con quel biblico “conobbe”, che per la prima volta appare in Genesi 4,1-2, da una parte ci troviamo
di fronte alla diretta espressione dell’intenzionalità umana (perché essa è propria della conoscenza) e,
dall’altra, a tutta la realtà della convivenza e dell’unione coniugale, in cui uomo e donna diventano “una sola
carne”.
Parlando qui di “conoscenza”, sia pur a causa della povertà della lingua, la Bibbia indica l’essenza più
profonda della realtà della convivenza matrimoniale. Questa essenza appare come una componente ed
insieme un risultato di quei significati, la cui traccia cerchiamo di seguire fin dall’inizio del nostro studio;
essa infatti fa parte della coscienza del significato del proprio corpo. In Genesi 4,1, diventando “una sola
carne”, l’uomo e la donna sperimentano in modo particolare il significato del proprio corpo. Insieme, essi
diventano, così, quasi l’unico soggetto di quell’atto e di quell’esperienza, pur rimanendo, in quest’unità, due
soggetti realmente diversi. Il che ci autorizza, in certo senso, ad affermare che “il marito conosce la moglie”
oppure che entrambi “si conoscono” reciprocamente. Allora essi si rivelano l’uno all’altra, con quella
specifica profondità del proprio “io” umano, che appunto si rivela anche mediante il loro sesso, la loro
mascolinità e femminilità. Ed allora, in maniera singolare, la donna “è data” in modo conoscitivo all’uomo, e
lui a lei.
5. Se dobbiamo mantenere la continuità rispetto alle analisi finora fatte (particolarmente riguardo alle ultime,
che interpretano l’uomo nella dimensione di dono), bisogna osservare che, secondo il libro della
Genesi, datum e donum si equivalgono.
Tuttavia, Genesi 4,1-2 accentua soprattutto il datum. Nella “conoscenza” coniugale, la donna “è data”
all’uomo e lui a lei, poiché il corpo e il sesso entrano direttamente nella struttura e nel contenuto stesso di
questa “conoscenza”. Così, dunque, la realtà dell’unione coniugale, in cui l’uomo e la donna diventano “una
sola carne”, contiene in sé una scoperta nuova e, in certo senso, definitiva del significato del corpo umano
nella sua mascolinità e femminilità. Ma, a proposito di tale scoperta, è giusto parlare soltanto di “convivenza
sessuale”? Bisogna tener conto che ciascuno di loro, uomo e donna, non è soltanto un oggetto passivo,
definito dal proprio corpo e sesso, e in questo modo determinato “dalla natura”. Al contrario, proprio per il
fatto di essere uomo e donna, ognuno di essi è “dato” all’altro come soggetto unico e irripetibile, come “io”,
come persona. Il sesso decide non soltanto della individualità somatica dell’uomo, ma definisce nello stesso
tempo la sua personale identità e concretezza. E proprio in questa personale identità e concretezza, come
irripetibile “io” femminile-maschile, l’uomo viene “conosciuto” quando si verificano le parole di Genesi
2,24: “l’uomo... si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”. La “conoscenza”, di cui parlano
Genesi 4,1-2 e tutti i successivi testi biblici, arriva alle più intime radici di questa identità e concretezza, che
l’uomo e la donna debbono al loro sesso. Tale concretezza significa tanto l’unicità quanto l’irripetibilità della
persona.
paternità di illustri personaggi e l’origine della loro prole [cf. Gen 4,1.25.17; 1 Sam 1,19], come dati validi per la
genealogia, a cui la tradizione dei sacerdoti [ereditari in Israele] dava grande importanza. La “conoscenza” poteva però
significare anche tutti gli altri rapporti sessuali, persino quelli illeciti [cf. Nm 31,17; Gen 19,5; Gdc 19,22]. Nella forma
negativa, il verbo denota l’astensione dai rapporti sessuali, specialmente se si tratta di vergini [cf. ad
es Re 2,4; Gdc 11,39]. In questo campo, il Nuovo Testamento usa due ebraismi, parlando di Giuseppe [Mt 1,25] e di
Maria [Lc1,34]. Un significato particolare acquista l’aspetto della relazione esistenziale della “conoscenza”, quando suo
soggetto o oggetto è Dio stesso [ad es Sal 139; Ger 31,34; Os 2,22; e anche Gv 14,7-9; 17,3].

37
Valeva, dunque, la pena di riflettere sull’eloquenza del testo biblico citato e della parola “conobbe”;
nonostante l’apparente mancanza di precisione terminologica, essa ci permette di soffermarci sulla
profondità e sulla dimensione di un concetto, di cui il nostro linguaggio contemporaneo, pur molto preciso,
spesso ci priva.

Mercoledì, 12 Marzo 1980


Il mistero della donna si rivela nella maternità
1. Nella meditazione precedente, abbiamo sottoposto ad analisi la frase di Genesi 4, 1 e, in particolare, il
termine “conobbe”, usato nel testo originale per definire l’unione coniugale. Abbiamo anche rilevato che
questa “conoscenza” biblica stabilisce una specie di archetipo 29 personale della corporeità e sessualità
umana. Ciò sembra assolutamente fondamentale per comprendere l’uomo, che fin dal “principio” è alla
ricerca del significato del proprio corpo. Questo significato sta alla base della stessa teologia del corpo. Il
termine “conobbe” - “si unì” (Gen 4,1-2) sintetizza tutta la densità del testo biblico finora analizzato.
L’“uomo” che, secondo Genesi 4,1 per la prima volta, “conosce” la donna, sua moglie, nell’atto dell’unione
coniugale, è infatti quello stesso che, imponendo i nomi, cioè anche “conoscendo”, si è “differenziato” da
tutto il mondo degli esseri viventi o animalia, affermando se stesso come persona e soggetto. La
“conoscenza”, di cui parla Genesi 4,1, non lo allontana né può allontanarlo dal livello di quella primordiale e
fondamentale autocoscienza. Quindi - qualsiasi cosa ne affermasse una mentalità unilateralmente
“naturalistica” - in Genesi 4,1 non può trattarsi di un’accettazione passiva della propria determinazione da
parte del corpo e del sesso, proprio perché si tratta di “conoscenza”!
È, invece, una ulteriore scoperta del significato del proprio corpo, scoperta comune e reciproca, così come
comune e reciproca è dall’inizio l’esistenza dell’uomo, che “Dio creò maschio e femmina”. La conoscenza,
che stava alla base della solitudine originaria dell’uomo, sta ora alla base di quest’unità dell’uomo e della
donna, la cui chiara prospettiva è stata racchiusa dal Creatore nel mistero stesso della creazione ( Gen 1,27;
2,23). In questa “conoscenza”, l’uomo conferma il significato del nome “Eva”, dato a sua moglie, “perché
essa fu madre di tutti i viventi” (Gen 3,20).

29. Quanto agli archetipi, C. G. Jung li descrive come forme “a priori” di varie funzioni dell’anima: percezione di
relazioni, fantasia creativa. Le forme si riempiono di contenuto con materiali dell’esperienza. Esse non sono inerti,
bensì sono cariche di sentimento e di tendenza [si veda soprattutto: Die psychologischen Aspekte des Mutterarchetypus
“Eranos”, 6, 1938, pp. 405-409]. Secondo questa concezione, si può incontrare un archetipo nella mutua relazione
uomo-donna, relazione che si basa nella realizzazione binaria e complementare delI’essere umano in due sessi.
L’archetipo si riempirà di contenuto mediante l’esperienza individuale e collettiva, e può mettere in moto la fantasia
creatrice di immagini. Bisognerebbe precisare che l’archetipo: a) non si limita né si esalta nel rapporto fisico, bensì
include la relazione del “conoscere”; b) è carico di tendenza: desiderio-timore, dono-possessione; c) l’archetipo, come
protoimmagine [“Urbild”] è generatore di immagini [“Bilder”]. Il terzo aspetto ci permette di passare all’ermeneutica,
in concreto quella di testi della Scrittura e della Tradizione. Il linguaggio religioso primario è simbolico [cf. W.
Stählin, Symbolon, 1958; I. Macquarrie, God Talk, 1968; T. Fawcett, The Symbolic Language of Religion, 1970]. Tra i
simboli, egli ne preferisce alcuni radicali o esemplari, che possiamo chiamare archetipali. Orbene, tra di essi la Bibbia
usa quello della relazione coniugale, concretamente al livello del “conoscere” descritto. Uno dei primi poemi biblici,
che applica l’archetipo coniugale alle relazioni di Dio col suo popolo, culmina nel verbo commentato: “Conoscerai il
Signore” [Os2,22: weyadacta ‘et Yhwh; attenuato in “Conoscerà che io sono il Signore” = wydct ky ‘ny Yhwh: Is 49,23;
60,16; Ez 16,62, che sono i tre poemi “coniugali”]. Di qui parte una tradizione letteraria, che culminerà
nell’applicazione Paolina di Efesini 5 a Cristo e alla Chiesa; poi passerà alla tradizione patristica e a quella dei grandi
mistici [per esempio S. Giovanni della Croce, Llama de amor viva]. Nel trattato Grundzüge der Literatur -
und Sprachwissenschaft, vol. I, München 1976, IV ed., p. 462, così si definiscono gli archetipi: “Immagini e motivi
arcaici, che secondo Jung formano il contenuto dell’inconscio collettivo comune a tutti gli uomini; essi presentano dei
simboli, che in tutti i tempi e presso tutti i popoli rendono vivo in maniera immaginosa ciò che per l’umanità è decisivo
quanto ad idee, rappresentazioni e istinti”. Freud, a quanto risulta, non utilizza il concetto di archetipo. Egli stabilisce
una simbolica o codice di corrispondenze fisse tra immagini presenti-patenti e pensieri latenti. Il senso dei simboli è
fisso, anche se non unico; essi possono essere riducibili ad un pensiero ultimo irriducibile a sua volta, che suole essere
qualche esperienza dell’infanzia. Questi sono primari e di carattere sessuale [però non li chiama archetipi]. Si veda T.
Todorov, Théories da symbol, Paris 1977, pp. 317ss.; inoltre: J. Jacoby, Komplex, Archetyp, Symbol in der Psychologie
C. G. Jungs, Zürich 1957.

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2. Secondo Genesi 4,1 colui che conosce è l’uomo e colei che è conosciuta è la donna-moglie, come se la
specifica determinazione della donna, attraverso il proprio corpo e sesso, nascondesse ciò che costituisce la
profondità stessa della sua femminilità. L’uomo, invece, è colui che - dopo il peccato - ha sentito per primo la
vergogna della sua nudità, e per primo ha detto: “Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”
(Gen 3,10). Occorrerà ancora tornare separatamente allo stato d’animo di entrambi dopo la perdita
dell’innocenza originaria. Già fin d’ora, però, bisogna costatare che nella Genesi 4,1, il mistero della
femminilità si manifesta e si rivela fino in fondo mediante la maternità, come dice il testo: “la quale concepì
e partorì”. La donna sta davanti all’uomo come madre, soggetto della nuova vita umana che in essa è
concepita e si sviluppa, e da essa nasce al mondo. Così si rivela anche fino in fondo il mistero della
mascolinità dell’uomo, cioè il significato generatore e “paterno” del suo corpo 30.
3. La teologia del corpo, contenuta nel Libro della Genesi, è concisa e parca di parole. Nello stesso tempo, vi
trovano espressione contenuti fondamentali, in un certo senso primari e definitivi. Tutti si ritrovano a loro
modo, in quella biblica “conoscenza”. Differente, rispetto all’uomo, è la costituzione della donna; anzi, oggi
sappiamo che è differente fino alle determinanti biofisiologiche più profonde. Essa si manifesta al di fuori
soltanto in una certa misura, nella costruzione e nella forma del suo corpo. La maternità manifesta tale
costituzione al di dentro, come particolare potenzialità dell’organismo femminile, che con peculiarità
creatrice serve al concepimento e alla generazione dell’essere umano, col concorso dell’uomo. La
“conoscenza” condiziona la generazione.
La generazione è una prospettiva, che uomo e donna inseriscono nella loro reciproca “conoscenza”. Questa,
perciò, oltrepassa i limiti di soggetto-oggetto, quali uomo e donna sembrano essere a vicenda, dato che la
“conoscenza” indica da una parte colui che “conosce” e dall’altra colei che “è conosciuta” (o viceversa). In
questa “conoscenza” si racchiude anche la consumazione del matrimonio, lo specifico consummatum; così si
ottiene il raggiungimento della “oggettività” del corpo, nascosta nelle potenzialità somatiche dell’uomo e
della donna, ed insieme il raggiungimento della oggettività dell’uomo che “è” questo corpo. Mediante il
corpo, la persona umana è “marito” e “moglie”; in pari tempo, in questo particolare atto di “conoscenza”,
mediato dalla femminilità e mascolinità personali, sembra raggiungersi anche la scoperta della “pura”
soggettività del dono: cioè, la mutua realizzazione di sé nel dono.
4. La procreazione fa sì che “l’uomo e la donna (sua moglie)” si conoscano reciprocamente nel “terzo”,
originato da ambedue. perciò, questa “conoscenza” diventa una scoperta, in certo senso una rivelazione del
nuovo uomo, nel quale entrambi, uomo e donna, riconoscono ancora se stessi, la loro umanità, la loro viva
immagine. In tutto ciò che viene determinato da entrambi attraverso il corpo ed il sesso, la “conoscenza”
iscrive un contenuto vivo e reale. Pertanto, la “conoscenza” in senso biblico significa che la determinazione
“biologica” dell’uomo, da parte del suo corpo e sesso, cessa di essere qualcosa di passivo, e raggiunge un
livello e un contenuto specifici alle persone autocoscienti e autodeterminanti; quindi essa comporta una
particolare coscienza del significato del corpo umano legata alla paternità e alla maternità.
5. Tutta la costituzione esteriore del corpo della donna, il sua particolare aspetto, le qualità che con la forza di
una perenne attrattiva stanno all’inizio della “conoscenza”, di cui parla Genesi 4,1-2 (“Adamo si unì a Eva
sua moglie”), sono in stretta unione con la maternità. La Bibbia (e in seguito la liturgia), con la semplicità
che le è propria, onora e loda lungo i secoli “il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte”
(Lc11,27). Queste parole costituiscono un elogio della maternità, della femminilità, del corpo femminile
nella sua tipica espressione dell’amore creatore. E sono parole riferite nel Vangelo alla Madre di Cristo,
Maria, seconda Eva. La prima donna, invece, nel momento in cui per la prima volta si rivelò la maturità
materna del suo corpo, quando “concepì e partorì”, disse: “Ho acquistato un uomo dal Signore” (Gen 4,1).
6. Queste parole esprimono tutta la profondità teologica della funzione di generare-procreare. Il corpo della
donna diventa luogo del concepimento del nuovo uomo 31 . Nel suo grembo, l’uomo concepito assume il suo
30. La paternità è uno degli aspetti dell’umanità più rilevanti nella Sacra Scrittura. Il testo di Genesi 5 3: “Adamo...
generò a sua immagine, a sua somiglianza, un figlio” si ricollega Esplicitamente al racconto della creazione dell’uomo
[Gen1, 27; 5,1] e sembra attribuire al padre terrestre la partecipazione all’opera divina di trasmettere la vita, e forse
anche a quella gioia presente all’affermazione: “vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” [Gen 1,31].
31. Secondo il testo di Genesi 1, 26 la “chiamata” all’esistenza è nello stesso tempo trasmissione dell’immagine e della
somiglianza divina. L’uomo deve procedere a trasmettere quest’immagine, continuando così l’opera di Dio. Il racconto
della generazione di Set sottolinea questo aspetto: “Adamo aveva centotrenta anni quando generò a sua immagine, a sua
somiglianza, un figlio” [Gen 5,3]. Dato che Adamo e Eva erano immagine di Dio, Set eredita dai genitori questa

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aspetto umano proprio, prima di essere messo al mondo. L’omogeneità somatica dell’uomo e della donna,
che ha trovato la sua prima espressione nelle parole: “È carne della mia carne e osso delle mie ossa”
(Gen 2,23), è confermata a sua volta dalle parole della prima donna-madre: “Ho acquistato un uomo!”. La
prima donna partoriente ha piena consapevolezza del mistero della creazione, che si rinnova nella
generazione umana. Ha anche piena consapevolezza della partecipazione creativa che Dio ha nella
generazione umana, opera sua e di suo marito, poiché dice: “Ho acquistato un uomo dal Signore”.
Non può esservi alcuna confusione tra le sfere d’azione delle cause. I primi genitori trasmettono a tutti i
genitori umani - anche dopo il peccato, insieme al frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male e
quasi alla soglia di tutte le esperienze “storiche” - la verità fondamentale circa la nascita dell’uomo a
immagine di Dio, secondo le leggi naturali. In questo nuovo uomo - nato dalla donna-genitrice per opera
dell’uomo-genitore - si riproduce ogni volta la stessa “immagine di Dio”, di quel Dio che ha costituito
l’umanità del primo uomo: “Dio creò l’uomo a sua immagine; ...maschio e femmina li creò” (Gen 1,27).
7. Sebbene esistano profonde differenze tra lo stato d’innocenza originaria e lo stato di peccaminosità
ereditaria dell’uomo, quella “immagine di Dio” costituisce una base di continuità e di unità. La
“conoscenza”, di cui parla Genesi 4,1, è l’atto che origina l’essere, ossia in unione col Creatore stabilisce un
nuovo uomo nella sua esistenza. Il primo uomo, nella sua solitudine trascendentale, ha preso possesso del
mondo visibile, creato per lui, conoscendo e imponendo i nomi agli esseri viventi (animalia). Lo stesso
“uomo”, come maschio e femmina, conoscendosi reciprocamente in questa specifica comunità-comunione di
persone, nella quale l’uomo e la donna si uniscono così strettamente tra loro da diventare “una sola carne”,
costituisce l’umanità, cioè conferma e rinnova l’esistenza dell’uomo quale immagine di Dio. Ogni volta
entrambi, uomo e donna, riprendono, per così dire, questa immagine dal mistero della creazione e la
trasmettono “con l’aiuto di Dio-Jahvè”.
Le parole del Libro della Genesi, che sono una testimonianza della prima nascita dell’uomo sulla terra,
racchiudono contemporaneamente in sé tutto ciò che si può e si deve dire della dignità della generazione
umana.

Mercoledì, 26 Marzo 1980


Il ciclo della conoscenza-generazione e la prospettiva della morte
1. Si avvia verso la fine il ciclo di riflessioni con cui abbiamo cercato di seguire il richiamo di Cristo
trasmessoci da Matteo (Mt 19,3-9) e da Marco (Mc 10,1-12): “Non avete letto che il Creatore da principio li
creò maschio e femmina e disse: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i
due saranno una carne sola?”” (Mt 19,4-5). L’unione coniugale, nel Libro della Genesi, è definita come
“conoscenza”: “Adamo si unì a Eva, sua moglie, la quale concepì e partorì... e disse: “Ho acquistato un uomo
dal Signore”” (Gen 4,1). Abbiamo cercato già nelle nostre precedenti meditazioni di far luce sul contenuto di
quella “conoscenza” biblica. Con essa l’uomo, maschio-femmina, non soltanto impone il proprio nome,
come ha fatto imponendo i nomi agli altri esseri viventi (animalia) prendendone così possesso, ma “conosce”
nel senso di Genesi 4,1 (e di altri passi della Bibbia), e cioè realizza ciò che il nome “uomo” esprime:
realizza l’umanità nel nuovo uomo generato. In certo senso, quindi, realizza se stesso, cioè l’uomo-persona.
2. In questo modo, si chiude il ciclo biblico della “conoscenza-generazione”. Tale ciclo della “conoscenza” è
costituito dall’unione delle persone nell’amore, che permette loro di unirsi così strettamente tra loro, da
diventare un’unica carne. Il Libro della Genesi ci rivela pienamente la verità di questo ciclo. L’uomo,
maschio e femmina, che, mediante la “conoscenza” di cui parla la Bibbia, concepisce e genera un essere
nuovo, simile a lui, al quale può imporre il nome di “uomo” (“ho acquistato un uomo”), prende, per così dire,
possesso della stessa umanità, o meglio la riprende in possesso. Tuttavia, ciò avviene in modo diverso da
somiglianza per trasmetterla agli altri. Nella S. Scrittura, però, ogni vocazione è unita ad una missione; quindi la
chiamata all’esistenza è già predestinazione all’opera di Dio: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo,
prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato” [Ger 1,5; cf. anche Is 44,1; 49,1.5]. Dio è colui che non soltanto
chiama all’esistenza, ma sostiene e sviluppa la vita fin dal primo momento del concepimento: “Sei tu che mi hai tratto
dal grembo, / mi hai fatto riposare sul petto di mia madre. / Al mio nascere tu mi hai accolto, / dal grembo di mia madre
sei tu il mio Dio” [Sal 22,10.11; cf. Sal 139,13-15]. L’attenzione dell’autore biblico si accentra sul fatto stesso del dono
della vita. L’interessamento per il modo in cui ciò avviene è piuttosto secondario e appare soltanto nei libri posteriori
[cf. Gb 10,8.11; 2 Mac 7,22-23; Sap 7,1-3].

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come aveva preso possesso di tutti gli altri esseri viventi (animalia), quando aveva imposto loro il nome.
Infatti, allora, egli era diventato il loro signore, aveva cominciato ad attuare il contenuto del mandato del
Creatore: “Soggiogate la terra e dominatela” (cf. Gen 1,28).
3. La prima parte, invece, dello stesso mandato: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gen 1,28)
nasconde un altro contenuto e indica un’altra componente. L’uomo e la donna in questa “conoscenza”, in cui
danno inizio ad un essere simile a loro, del quale possono insieme dire che “è carne della mia carne e osso
delle mie ossa” (Gen 2,24), vengono quasi insieme “rapiti”, insieme presi ambedue in possesso dall’umanità
che essi, nell’unione e nella “conoscenza” reciproca, vogliono esprimere nuovamente, prendere nuovamente
in possesso, ricavandola da loro stessi, dalla propria umanità, dalla mirabile maturità maschile e femminile
dei loro corpi e in fine - attraverso tutta la sequenza dei concepimenti e delle generazioni umane fin dal
principio - dal mistero stesso della Creazione.
4. In questo senso, si può spiegare la “conoscenza” biblica come “possesso”. È possibile vedere in essa
qualche equivalente biblico dell’“eros”? Si tratta qui di due ambiti concettuali, di due linguaggi: biblico e
platonico; soltanto con grande cautela essi possono essere interpretati l’uno con l’altro 32. Sembra, invece,
che nella rivelazione originaria non sia presente l’idea del possesso della donna da parte dell’uomo, o
viceversa, come di un oggetto. D’altronde, è però noto che, in base alla peccaminosità contratta dopo il
peccato originale, uomo e donna debbono ricostruire, con fatica, il significato del reciproco dono
disinteressato. Questo sarà il tema delle nostre ulteriori analisi.
5. La rivelazione del corpo, racchiusa nel Libro della Genesi, particolarmente nel capitolo 3, dimostra con
impressionante evidenza che il ciclo della “conoscenza-generazione”, così profondamente radicato nella
potenzialità del corpo umano, è stato sottoposto, dopo il peccato, alla legge della sofferenza e della morte.
Dio-Jahvé dice alla donna: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli”
(Gen3,16). L’orizzonte della morte si apre dinanzi all’uomo, insieme alla rivelazione del significato
generatore del corpo nell’atto della reciproca “conoscenza” dei coniugi. Ed ecco che il primo uomo,
maschio, impone a sua moglie il nome di Eva, “perché essa fu la madre di tutti i viventi” ( Gen 3,20), quando
già egli aveva sentito le parole della sentenza, che determinava tutta la prospettiva dell’esistenza umana “al
di dentro” della conoscenza del bene e del male. Questa prospettiva è confermata dalle parole: “Tornerai alla
terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e polvere tornerai!” (Gen 3,19).
Il carattere radicale di tale sentenza è confermato dall’evidenza delle esperienze di tutta la storia terrena
dell’uomo. L’orizzonte della morte si estende su tutta la prospettiva della vita umana sulla terra, vita che è
stata inserita in quell’originario ciclo biblico della “conoscenza-generazione”.
L’uomo che ha infranto l’alleanza col suo Creatore, cogliendo il frutto dall’albero della conoscenza del bene
e del male, viene da Dio-Jahvé staccato dall’albero della vita: “Ora egli non stenda più la mano e non prenda
anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre” (Gen 3,21). In questo modo, la vita data all’uomo nel
mistero della creazione non è stata tolta, ma ristretta dal limite dei concepimenti, delle nascite e della morte,
e inoltre aggravata dalla prospettiva della peccaminosità ereditaria; però gli viene, in certo senso,
nuovamente data come compito nello stesso ciclo sempre ricorrente. La frase: “Adamo si unì a (“conobbe”)

32. Secondo Platone, 1’“eros” è l’amore assetato del Bello trascendente ed esprime l’insaziabilità tendente al suo eterno
oggetto; esso, quindi, eleva sempre tutto ciò che è umano verso il divino, che solo è in grado di appagare la nostalgia
dell’anima imprigionata nella materia, è un amore che non indietreggia davanti al più grande sforzo, per raggiungere
l’estasi dell’unione; quindi è un amore egocentrico, è bramosia, sebbene diretta verso valori sublimi [cf. A.
Nygren, Erôs et Agapé, Paris 1951, vol. II, pp. 9-10]. Lungo i secoli, attraverso molte trasformazioni, il significato
dell’“eros” è stato abbassato alle connotazioni meramente sessuali. Caratteristico è qui il testo di P. Chauchard, che
sembra perfino negare all’“eros” le caratteristiche dell’amore umano. “La cérébralisation de la sexualité ne réside pas
dans les trucs techniques ennuyeux, mais dans la pleine reconnaissance de sa spiritualità, du fait qu’Erôs n’est humain
qu’animé par Agapé et qu’Agapé exige l’incarnation dans Erôs” [P. Chauchard, Vices des vertus, vertus des vices, Paris
1963, p. 147]. Il paragone della “conoscenza” biblica con 1’“eros” platonico rivela la divergenza di queste due
concezioni. La concezione platonica si basa sulla nostalgia del Bello trascendente e sulla fuga dalla materia; la
concezione biblica, invece, è diretta verso la realtà concreta, e le è alieno il dualismo dello spirito e della materia come
pure la specifica ostilità verso la materia [“E Dio vide che era cosa buona”: Gen 1,10.12.18.21.25]. In quanto il concetto
platonico di “eros” oltrepassa la portata biblica della “conoscenza” umana, il concetto contemporaneo sembra troppo
ristretto. La “conoscenza” biblica non si limita a soddisfare l’istinto o il godimento edonistico, ma è un atto pienamente
umano, diretto consapevolmente verso la procreazione, ed è anche l’espressione dell’amore interpersonale
[cf. Gen 29,20; 1 Sam 1,8; 2 Sam 12,24]).

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Eva sua moglie, la quale concepì e partorì” (Gen 4,1), è come un sigillo impresso nella rivelazione originaria
del corpo al “principio” stesso della storia dell’uomo sulla terra. Questa storia si forma sempre di nuovo nella
sua dimensione più fondamentale quasi dal “principio”, mediante la stessa “conoscenza-generazione”, di cui
parla il Libro della Genesi.
6. E così, ciascun uomo porta in sé il mistero del suo “principio” strettamente legato alla coscienza del
significato generatore del corpo. Genesi 4,1-2 sembra tacere sul tema del rapporto che intercorre tra il
significato generatore e quello sponsale del corpo. Forse non è ancora né il tempo né il luogo per chiarire
questo rapporto, anche se nell’ulteriore analisi ciò sembra indispensabile Occorrerà, allora, porre
nuovamente le domande legate all’apparire della vergogna nell’uomo, vergogna della sua mascolinità e della
sua femminilità, prima non sperimentata. In questo momento, tuttavia, ciò passa in secondo ordine. In primo
piano resta, invece, il fatto che “Adamo si unì a (“conobbe”) Eva sua moglie, la quale concepì e partorì”.
Questa è appunto la soglia della storia dell’uomo. È il suo “principio” sulla terra. Su questa soglia l’uomo,
come maschio e femmina, sta con la coscienza del significato generatore del proprio corpo: la mascolinità
nasconde in sé il significato della paternità e la femminilità quello della maternità. Nel nome di questo
significato, Cristo darà un giorno la categorica risposta alla domanda rivoltagli dai farisei (Mt 19; Mc 10).
Noi, invece, penetrando il semplice contenuto di questa risposta, cerchiamo in pari tempo di mettere in luce
il contesto di quel “principio”, al quale Cristo si è riferito. In esso affonda le radici la teologia del corpo.
7. La coscienza del significato del corpo e la coscienza del significato generatore di esso vengono a contatto,
nell’uomo, con la coscienza della morte, di cui portano in sé, per così dire, l’inevitabile orizzonte. Eppure,
sempre ritorna nella storia dell’uomo il ciclo conoscenza generazione”, in cui la vita lotta, sempre di nuovo,
con la inesorabile prospettiva della morte, e sempre la supera. E come se la ragione di questa
inarrendevolezza della vita, che si manifesta nella “generazione”, fosse sempre la stessa “conoscenza”, con la
quale l’uomo oltrepassa la solitudine del proprio essere e, anzi, di nuovo si decide ad affermare tale essere in
un “altro”. Ed ambedue, uomo e donna, lo affermano nel nuovo uomo generato. In questa affermazione, la
“conoscenza” biblica sembra acquistare una dimensione ancor maggiore. Sembra, cioè, inserirsi in quella
“visione” di Dio stesso, con la quale finisce il primo racconto della creazione dell’uomo circa il “maschio” e
la “femmina” fatti “ad immagine di Dio”: “Dio vide quanto aveva fatto ed... era cosa molto buona”
(Gen 1,31).
L’uomo, nonostante tutte le esperienze della propria vita, nonostante le sofferenze, le delusioni di se stesso,
la sua peccaminosità, e nonostante, infine, la prospettiva inevitabile della morte, mette tuttavia sempre di
nuovo la “conoscenza” all’“inizio” della “generazione”; egli, così, sembra partecipare a quella prima
“visione” di Dio stesso: Dio Creatore “vide..., ed ecco era cosa buona”. E, sempre di nuovo, egli conferma la
verità di queste parole.

Mercoledì, 2 Aprile 1980


Gli interrogativi sul matrimonio nella visione integrale dell’uomo
Il nostro incontro odierno si svolge nel cuore della Settimana Santa, nell’immediata vigilia di quel “Triduo
pasquale”, nel quale culmina e s’illumina l’intero Anno liturgico. Stiamo per rivivere i giorni decisivi e
solenni, nei quali si compì l’opera della redenzione umana: in essi Cristo, morendo, distrusse la nostra morte
e, risorgendo, ci ridonò la vita.
È necessario che ciascuno si senta personalmente coinvolto nel mistero che la Liturgia, anche quest’anno,
rinnova per noi. Vi esorto, pertanto, cordialmente a partecipare con fede alle funzioni sacre dei prossimi
giorni e ad impegnarvi nella volontà di morire al peccato e di risorgere sempre più pienamente alla vita
nuova, che Cristo ci ha portato.
Riprendiamo, ora, la trattazione del tema che ci occupa ormai da qualche tempo.
1. Il Vangelo secondo Matteo e quello secondo Marco ci riportano la risposta data da Cristo ai farisei, quando
lo interrogarono circa l’indissolubilità del matrimonio, richiamandosi alla legge di Mosè, che ammetteva, in
certi casi, la pratica del cosiddetto libello di ripudio. Ricordando loro i primi capitoli del Libro della Genesi,
Cristo rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo
l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non
sono più due, ma una carne sola. Quello, dunque, che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”. Poi,
rifacendosi alla loro domanda sulla legge di Mosè, Cristo aggiunse: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi

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ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così” ( Mt 19,3; Mc 12,2ss). Nella sua
risposta, Cristo si richiamò due volte al “principio”, e perciò anche noi, nel corso delle nostre analisi,
abbiamo cercato di chiarire nel modo più profondo possibile il significato di questo “principio”, che è la
prima eredità di ogni essere umano nel mondo, uomo e donna, prima attestazione dell’identità umana
secondo la parola rivelata, prima sorgente della certezza della sua vocazione come persona creata a
immagine di Dio stesso.
2. La risposta di Cristo ha un significato storico, ma non soltanto storico. Gli uomini di tutti i tempi pongono
il quesito sullo stesso tema. Lo fanno anche i nostri contemporanei, i quali però nelle loro domande non si
richiamano alla legge di Mosè, che ammetteva il libello di ripudio, ma ad altre circostanze e ad altre leggi.
Questi loro quesiti sono carichi di problemi sconosciuti agli interlocutori contemporanei di Cristo. Sappiamo
quali domande concernenti il matrimonio e la famiglia siano state rivolte all’ultimo Concilio, al Papa Paolo
VI, e vengano continuamente formulate nel periodo post-conciliare, giorno per giorno, nelle più varie
circostanze. Le rivolgono persone singole, coniugi, fidanzati, giovani, ma anche scrittori, pubblicisti, politici,
economisti, demografi, insomma, la cultura e la civiltà contemporanea.
Penso che fra le risposte, che Cristo darebbe agli uomini dei nostri tempi e ai loro interrogativi, spesso tanto
impazienti, fondamentale sarebbe ancora quella da lui data ai farisei. Rispondendo a quegli interrogativi,
Cristo si richiamerebbe innanzitutto al “principio”. Lo farebbe forse in modo tanto più deciso ed essenziale,
in quanto la situazione interiore e insieme culturale dell’uomo d’oggi sembra allontanarsi da quel “principio”
ed assumere forme e dimensioni, che divergono dall’immagine biblica del “principio” in punti
evidentemente sempre più distanti. Tuttavia, Cristo non sarebbe “sorpreso” da nessuna di queste situazioni, e
suppongo che continuerebbe a far riferimento soprattutto al “principio”.
3. È per questo che la risposta di Cristo esigeva una analisi particolarmente approfondita. Infatti, in quella
risposta sono state richiamate verità fondamentali ed elementari sull’essere umano, come uomo e donna. E la
risposta, attraverso la quale intravvediamo la struttura stessa della identità umana nelle dimensioni del
mistero della creazione e, ad un tempo, nella prospettiva del mistero della redenzione. Senza di ciò non c’è
modo di costruire un’antropologia teologica e, nel suo contesto, una “teologia del corpo”, da cui tragga
origine anche la visione, pienamente cristiana, del matrimonio e della famiglia. Lo ha rilevato Paolo VI
quando nella sua enciclica dedicata ai problemi del matrimonio e della procreazione, nel suo significato
umanamente e cristianamente responsabile, si è richiamato alla “visione integrale dell’uomo” (Paolo
VI, Humanae Vitae, 7). Si può dire che, nella risposta ai farisei, Cristo ha prospettato agli interlocutori anche
questa “visione integrale dell’uomo”, senza la quale non può essere data alcuna risposta adeguata agli
interrogativi connessi con il matrimonio e la procreazione. Proprio questa visione integrale dell’uomo deve
essere costruita dal “principio”.
Ciò è parimenti valido per la mentalità contemporanea, così come lo era, anche se in modo diverso, per gli
interlocutori di Cristo. Siamo, infatti, figli di un’epoca, in cui per lo sviluppo di varie discipline, questa
visione integrale dell’uomo può essere facilmente rigettata e sostituita da molteplici concezioni parziali, le
quali, soffermandosi sull’uno o sull’altro aspetto del compositum humanum, non raggiungono l’integrum
dell’uomo, o lo lasciano al di fuori del proprio campo visivo. Vi si inseriscono, poi, diverse tendenze
culturali, che - in base a queste verità parziali - formulano le loro proposte e indicazioni pratiche sul
comportamento umano e, ancor più spesso, su come comportarsi con l’“uomo”. L’uomo diviene allora più un
oggetto di determinate tecniche che non il soggetto responsabile della propria azione. La risposta data da
Cristo ai farisei vuole anche che l’uomo, maschio e femmina, sia tale soggetto, cioè un soggetto che decida
delle proprie azioni alla luce dell’integrale verità su se stesso, in. quanto verità originaria, ossia fondamento
delle esperienze autenticamente umane. È questa la verità che Cristo ci fa cercare dal “principio”. Così ci
rivolgiamo ai primi capitoli del Libro della Genesi.
4. Lo studio di questi capitoli, forse più che di altri, ci rende coscienti del significato e della necessità della
“teologia del corpo”. Il “principio” ci dice relativamente poco sul corpo umano, nel senso naturalistico e
contemporaneo della parola. Da questo punto di vista, nel presente studio, ci troviamo ad un livello del tutto
prescientifico. Non sappiamo quasi nulla sulle strutture interiori e sulle regolarità che regnano
nell’organismo umano. Tuttavia, al tempo stesso - forse proprio a motivo dell’antichità del testo - la verità
importante per la visione integrale dell’uomo si rivela in modo più semplice e pieno. Questa verità riguarda il
significato del corpo umano nella struttura del soggetto personale. Successivamente, la riflessione su quei
testi arcaici ci permette di estendere tale significato a tutta la sfera dell’intersoggettività umana, specie nel

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perenne rapporto uomo-donna. Grazie a ciò, acquistiamo nei confronti di questo rapporto un’ottica, che
dobbiamo necessariamente porre alla base di tutta la scienza contemporanea circa la sessualità umana, in
senso biofisiologico. Ciò non vuol dire che dobbiamo rinunciare a questa scienza o privarci dei suoi risultati.
Al contrario: se questi devono servire a insegnarci qualcosa sull’educazione dell’uomo, nella sua mascolinità
e femminilità, e circa la sfera del matrimonio e della procreazione, occorre - attraverso tutti i singoli elementi
della scienza contemporanea - giungere sempre a ciò che è fondamentale ed essenzialmente personale, tanto
in ogni individuo, uomo o donna, quanto nei loro rapporti reciproci.
Ed è proprio a questo punto che la riflessione sull’arcaico testo della Genesi si rivela insostituibile. Esso
costituisce realmente il principio” della teologia del corpo. Il fatto che la teologia comprenda anche il corpo
non deve meravigliare né sorprendere nessuno che sia cosciente del mistero e della realtà dell’Incarnazione.
Per il fatto che il Verbo di Dio si è fatto carne, il corpo è entrato, direi, attraverso la porta principale nella
teologia, cioè nella scienza che ha per oggetto la divinità. L’incarnazione - e la redenzione che ne scaturisce -
è divenuta anche la sorgente definitiva della sacramentalità del matrimonio, di cui, al tempo opportuno,
tratteremo più ampiamente.
5. Gli interrogativi posti dall’uomo contemporaneo sono anche quelli dei cristiani: di coloro che si preparano
al Sacramento del Matrimonio o di coloro che vivono già nel matrimonio, che è il sacramento della Chiesa.
Queste non soltanto sono le domande delle scienze, ma, ancor più, le domande della vita umana. Tanti
uomini e tanti cristiani nel matrimonio cercano il compimento della loro vocazione. Tanti vogliono trovare in
esso la via della salvezza e della santità.
Per loro è particolarmente importante la risposta data da Cristo ai farisei, zelatori dell’Antico Testamento.
Coloro che cercano il compimento della propria vocazione umana e cristiana nel matrimonio, prima di tutto
sono chiamati a fare di questa “teologia del corpo”, di cui troviamo il “principio” nei primi capitoli del Libro
della Genesi, il contenuto della loro vita e del loro comportamento. Infatti, quanto è indispensabile, sulla
strada di questa vocazione, la coscienza approfondita del significato del corpo, nella sua mascolinità e
femminilità! quanto è necessaria una precisa coscienza del significato sponsale del corpo, del suo significato
generatore, dato che tutto ciò, che forma il contenuto della vita degli sposi, deve costantemente trovare la sua
dimensione piena e personale nella convivenza, nel comportamento, nei sentimenti! E ciò, tanto più sullo
sfondo di una civiltà, che rimane sotto la pressione di un modo di pensare e di valutare materialistico ed
utilitario. La biofisiologia contemporanea può fornire molte informazioni precise sulla sessualità umana.
Tuttavia, la conoscenza della dignità personale del corpo umano e del sesso va attinta ancora ad altre fonti.
Una fonte particolare è la parola di Dio stesso, che contiene la rivelazione del corpo, quella risalente al
“principio”.
Quanto è significativo che Cristo, nella risposta a tutte queste domande, ordini all’uomo di ritornare, in certo
modo, alla soglia della sua storia teologica! Gli ordina di mettersi al confine tra l’innocenza-felicità
originaria e l’eredità della prima caduta. Non gli vuole forse dire, in questo modo, che la via sulla quale Egli
conduce l’uomo, maschio-femmina, nel Sacramento del Matrimonio, cioè la via della “redenzione del
corpo”, deve consistere nel ricuperare questa dignità in cui si compie, simultaneamente, il vero significato
del corpo umano, il suo significato personale e “di comunione”?
6. Per ora, terminiamo la prima parte delle nostre meditazioni dedicate a questo tema tanto importante. Per
dare una risposta più esauriente alle nostre domande, talvolta ansiose, sul matrimonio - o ancor più
esattamente: sul significato del corpo - non possiamo soffermarci soltanto su ciò che Cristo rispose ai farisei,
facendo riferimento al “principio” (cf. Mt 19,3ss; Mc 10,2ss).
Dobbiamo anche prendere in considerazione tutte le altre sue enunciazioni, tra le quali ne emergono
specialmente due, di carattere particolarmente sintetico: la prima, dal discorso sulla montagna, a proposito
delle possibilità del cuore umano rispetto alla concupiscenza del corpo (cf. Mt 5,8), e la seconda, quando
Gesù si richiamò alla futura risurrezione (cf. Mt 22,24-30: Mc 12,18-27; Lc 20,27-36).
Queste due enunciazioni intendiamo far oggetto delle nostre successive riflessioni.

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Mercoledì, 16 aprile 1980
Cristo fa appello al “cuore” dell’uomo
1. Come argomento delle nostre future riflessioni - nell’ambito degli incontri del mercoledì - desidero
sviluppare la seguente affermazione di Cristo, che fa parte del discorso della montagna: "Avete inteso che fu
detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già
commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt 5,27-28). Sembra che questo passo abbia per la teologia del
corpo un significato-chiave, come quello, in cui Cristo ha fatto riferimento al "principio", e che ci è servito di
base per le precedenti analisi. Allora abbiamo potuto renderci conto di quanto ampio sia stato il contesto di
una frase, anzi di una parola pronunziata da Cristo. Si è trattato non soltanto del contesto immediato,
emerso nel corso del colloquio con i farisei, ma del contesto globale, che non possiamo penetrare senza
risalire ai primi capitoli del libro della Genesi (tralasciando ciò che ivi si riferisce agli altri libri dell’Antico
Testamento). Le precedenti analisi hanno dimostrato quanto esteso sia il contenuto che comporta il
riferimento di Cristo al "principio".
L’enunciazione, alla quale ora ci rifacciamo, cioè Mt 5,27-28,c’introdurrà con sicurezza - oltre che nel
contesto immediato in cui compare - anche nel suo contesto più ampio, nel contesto globale, per il cui
tramite ci si rivelerà gradualmente il significato-chiave della teologia del corpo. Questa enunciazione
costituisce uno dei passi del discorso della montagna, in cui Gesù Cristo attua una revisione fondamentale
del modo di comprendere e compiere la legge morale dell’Antica Alleanza. Ciò si riferisce, in ordine, ai
seguenti comandamenti del decalogo: al quinto "non uccidere" (cf. Mt 5,21-26), al sesto "non commettere
adulterio" (cf. Mt 5,27-32) - è significativo che alla fine di questo passo compaia anche la questione
dell’ "atto di ripudio" (cf. Mt 5,31-32), accennata già nel capitolo precedente - e all’ottavo comandamento
secondo il testo del libro dell’Esodo (cf. Es 20,7): "Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi
giuramenti" (cf. Mt 5,33-37).
Significative sono soprattutto le parole che precedono questi articoli - e i seguenti - del discorso della
montagna, parole con le quali Gesù dichiara: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti;
non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento" ( Mt 5,17). Nelle frasi che seguono, Gesù spiega il senso
di tale contrapposizione e la necessità del "compimento" della legge al fine di realizzare il regno di Dio:
"Chi... osserverà (questi comandamenti) e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei
cieli" ( Mt 5,19). "Regno dei cieli" significa regno di Dio nella dimensione escatologica. Il compimento della
Legge condiziona, in modo fondamentale, questo regno nella dimensione temporale dell’esistenza umana. Si
tratta tuttavia di un compimento che corrisponde pienamente al senso della legge, del decalogo, dei singoli
comandamenti. Soltanto tale compimento costruisce quella giustizia che Dio-Legislatore ha voluto. Cristo-
maestro ammonisce di non dare una tale interpretazione umana di tutta la legge e dei singoli comandamenti,
in essa contenuti, che non costruisca la giustizia voluta da Dio-legislatore: "Se la vostra giustizia non
supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli" ( Mt 5,20).
2. In tale contesto compare l’enunciazione di Cristo secondo Mt 5,27-28, che intendiamo prendere come base
per le presenti analisi, considerandola, insieme con l’altra enunciazione secondo Mt 19,3-9 (cf. etiam Mc 10),
come chiave della teologia del corpo. Questa, al pari dell’altra, ha carattere esplicitamente normativo.
Conferma il principio della morale umana contenuta nel comandamento "non commettere adulterio" e, al
tempo stesso, determina un’appropriata e piena comprensione di questo principio cioè una comprensione del
fondamento ed insieme della condizione per un suo adeguato "compimento"; questo va appunto considerato
alla luce delle parole di Mt 5,17-20, già prima riferite, sulle quali abbiamo poco fa richiamato l’attenzione. Si
tratta qui, da un lato, di aderire al significato che Dio-legislatore ha racchiuso nel comandamento "non
commettere adulterio", e dall’altro lato, di compiere quella "giustizia" da parte dell’uomo, la quale deve
"sovrabbondare" nell’uomo stesso, cioè in lui deve giungere alla sua pienezza specifica. Questi sono, per
così dire, i due aspetti del "compimento" nel senso evangelico.
3. Ci troviamo così nel pieno dell’ethos, ossia in ciò che può esser definito la forma interiore, quasi l’anima
della morale umana. I pensatori contemporanei (Ex. gr. Scheler) vedono nel discorso della montagna una
grande svolta appunto nel campo dell’ethos 33. Una morale viva, nel senso esistenziale, non viene formata

33. Non conosco una testimonianza di riformulazione di un'intero sistema di valori e relativizzazione dell'ethos antico
più grandiosa del Discorso della Montagna, che già nella sua espressione si presenta prima di tutto come
consapevolezza di tale riformulazione e relativizzazione dei valori dell'antica "legge": "Ma io vi dico " (Ich kenne kein
grandioseres Zeugnis für eine solche Neuerschließung eines ganzen Wertbereiches, die das ältere Ethos relativiert, als

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soltanto dalle norme che investono la forma dei comandamenti, dei precetti e dei divieti, come nel caso del
"non commettere adulterio". La morale in cui si realizza il senso stesso dell’esser uomo - che e, in pari
tempo, compimento della legge mediante il "sovrabbondare" della giustizia attraverso la vitalità soggettiva -
si forma nella percezione interiore dei valori da cui nasce il dovere come espressione della coscienza, come
risposta del proprio "io" personale. L’ethos ci fa contemporaneamente entrare nella profondità della norma
stessa e scendere nell’interno dell’uomo-soggetto della morale. Il valore morale è connesso con il processo
dinamico dell’intimità dell’uomo. Per raggiungerlo, non basta fermarsi "alla superficie" delle azioni umane,
bisogna penetrare proprio nell’interno.
4. Oltre al comandamento "non commettere adulterio", il decalogo ha anche "non desiderare la moglie del...
prossimo" (cf. Es 20,17; Dt 5,21). Nella enunciazione del discorso della montagna, Cristo li collega, in certo
senso, l’uno con l’altro: "Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio nel suo
cuore". Tuttavia, non si tratta tanto di distinguere la portata di quei due comandamenti del decalogo, quanto
di rilevare la dimensione dell’azione interiore, alla quale si riferiscono anche le parole: "Non commettere
adulterio". Tale azione trova la sua espressione visibile nell’"atto del corpo", atto al quale partecipano l’uomo
e la donna contro la legge dell’esclusività matrimoniale. La casistica dei libri dell’Antico Testamento, intesa
ad investigare ciò che, secondo criteri esteriori, costituiva tale "atto del corpo" e, al tempo stesso, orientata a
combattere l’adulterio, apriva a questo varie "scappatoie" legali (su ciò, cf. il seguito delle presenti
meditazioni). In questo modo, in base ai molteplici compromessi "per la durezza del... cuore" ( Mt 19,8), il
senso del comandamento, voluto dal legislatore, subiva una deformazione. Ci si atteneva all’osservanza
legalistica della formula, che non "sovrabbondava" nella giustizia interiore dei cuori. Cristo sposta l’essenza
del problema in un’altra dimensione, quando dice: "Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già
commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Secondo antiche traduzioni: "Già l’ha resa adultera nel suo
cuore", formula che sembra esser più esatta) 34.
Così, dunque, Cristo fa appello all’uomo interiore. Lo fa più volte e in diverse circostanze. In questo caso ciò
appare particolarmente esplicito ed eloquente, non soltanto riguardo alla configurazione dell’ ethos
evangelico, ma anche riguardo al modo di vedere l’uomo. Non è quindi solo la ragione etica, ma anche
quella antropologica a consigliare di soffermarsi più a lungo sul testo di Mt 5,27-28, che contiene le parole
pronunziate da Cristo nel discorso della montagna.

Mercoledì, 23 aprile 1980


Il contenuto etico e antropologico del comandamento “non commettere adulterio”
1. Ricordiamo le parole del discorso della montagna, alle quali facciamo riferimento nel presente ciclo delle
nostre riflessioni del mercoledì: "Avete inteso - dice il Signore - che fu detto: non commettere adulterio; ma
io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt

die Bergpredigt, die auch in ihrer Form als Zeugnis solcher Neuerschließung und Relativierung der älteren "Gesetzes"-
werte sich überall kundgibt: "Ich aber sage euch" [Max Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale
Wertethik, Halle a. d. S., Verlag M. Niemeyer, 1921, p. 316, n. 1]
34. Il testo della Volgata offre una fedele traduzione dall’originale: iam moechatus est eam in corde suo. Infatti, il verbo
greco "moicheúo" è transitivo. Invece, nelle moderne lingue europee, "commettere adulterio" è un verbo intransitivo;
donde la versione: "Ha commesso adulterio con lei". E così:
– in italiano: "... ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" [versione a cura della Conferenza Episcopale Italiana,
1971); similmente la versione del Pontificio Istituto Biblico, 1961, e quella a cura di S. Garofalo, 1966];
– in francese: "... a dejà commis, dans son coeur, l’adultère avec elle" [Bible de Jérusalem, Paris, 1973; Traduction
Oecumenique, Paris, 1972; Crampon]; soltanto Fillion traduce: "A déja commis l’adultère dans son coeur";
– in inglese: "...has already committed adultery with her in his heart" [Douai Version, 1582; analogamente Revised
Standard Version, dal 1611 al 1966; R. Knox, New English Bible, Jerusalem Bible, 1966];
– in tedesco: "...hat in seinen Herzen schon Ehebruch mit ihr begangen" [Einheitsübersetzung der Heiligen Schrift, im
Auftrag der Bischöfe des deutschen Sprachbereiches, 1979];
– in spagnolo: "...ya cometió adulterio con ella en su corazón" [Bibl. Societ., 1966];
– in portoghese: "...já cometeu adulterio com ela no seu coraçao" [M. Soares, Sao Paulo, 1933];
– in polacco: traduzioni antiche: "...już ją scudzołożył w sercu swoim"; traduzione ultima: "...już się w swoim sercu
dopuścił z nią cudzołóstwa" [Biblia Tysiąclecia].

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5,27-28).
L’uomo, al quale Gesù qui si riferisce, è proprio l’uomo " storico", quello di cui abbiamo rintracciato il
"principio" e la " preistoria teologica" nella precedente serie di analisi. Direttamente, è colui che ascolta con
le proprie orecchie il discorso della montagna. Ma insieme con lui, c’è anche ogni altro uomo, posto di fronte
a quel momento della storia, sia nell’immenso spazio del passato, sia in quello, ugualmente vasto, del futuro.
A questo " futuro", di fronte al discorso della montagna, appartiene anche il nostro presente, la nostra
contemporaneità. Quest’uomo è, in certo senso, " ciascun" uomo, " ognuno" di noi. Sia l’uomo del passato,
sia anche l’uomo del futuro può essere colui che conosce il comandamento positivo " non commettere
adulterio" quale " contenuto della legge" (cf. Rm 2,22-23 ), ma può essere ugualmente colui che, secondo la
lettera ai Romani, ha questo comandamento soltanto " scritto nel (suo) cuore" ( Rm 2,15 ) 35 . Alla luce delle
riflessioni precedentemente svolte, è l’uomo che dal suo " principio" ha acquistato un preciso senso del
significato del corpo, già prima di varcare " la soglia" delle sue esperienze storiche, nel mistero stesso della
creazione, dato che ne emerse " come uomo e donna" ( Gen 1,27 ). È l’uomo storico, che al " principio" della
sua vicenda terrena si è trovato " dentro" la conoscenza del bene e del male, rompendo l’alleanza con il suo
creatore. È l’uomo-maschio, che " conobbe (la donna) sua moglie" e la " conobbe" più volte, ed ella "
concepì e partorì" (cf. Gen 4,1-2 ) in conformità con il disegno del Creatore, che risaliva allo stato
dell’innocenza originaria (cf. Gen 1,28 ; 2,24 ).
2. Nel suo discorso della montagna, Cristo si rivolge, in particolare con le parole di Mt 5,27-28, proprio a
quell’uomo. Si rivolge all’uomo di un determinato momento della storia e, insieme, a tutti gli uomini,
appartenenti alla stessa storia umana. Si rivolge, come abbiamo già costatato, all’uomo " interiore". Le parole
di Cristo hanno un esplicito contenuto antropologico; esse toccano quei significati perenni, per il tramite dei
quali viene costituita l’antropologia " adeguata". Queste parole, mediante il loro contenuto etico,
simultaneamente costituiscono una tale antropologia, ed esigono, per così dire, che l’uomo entri nella sua
piena immagine. L’uomo che è " carne", e che come maschio rimane in rapporto, attraverso il suo corpo e
sesso, con la donna (ciò infatti indica anche l’espressione " non commettere adulterio"), deve, alla luce di
queste parole di Cristo, ritrovarsi nel suo interno, nel suo " cuore" 36 .
Il " cuore" è questa dimensione dell’umanità, con cui è legato direttamente il senso del significato del corpo
umano, e l’ordine di questo senso. Si tratta, qui, sia di quel significato che, nelle precedenti analisi, abbiamo
chiamato " sponsale", sia di quello che abbiamo denominato " generatore". E di quale ordine si tratta?
3. Questa parte delle nostre considerazioni deve dare una risposta appunto a tale domanda - una risposta che
arriva non soltanto alle ragioni etiche, ma anche a quelle antropologiche; esse, infatti, rimangono in rapporto
reciproco. Per ora, preliminarmente, occorre stabilire il significato del testo di Mt 5,27-28, il significato delle
espressioni usate in esso e il loro rapporto reciproco. L’adulterio, al quale si riferisce direttamente il citato
comandamento, significa l’infrazione dell’unità, mediante la quale l’uomo e la donna, soltanto come coniugi,
possono unirsi così strettamente da essere " una sola carne" ( Gen 2,24 ). Commette adulterio l’uomo, se in
35. In questo modo, il contenuto delle nostre riflessioni sarebbe spostato in certo senso sul terreno della "legge
naturale". Le parole citate della lettera ai Romani 2,15, sono sempre state considerate, nella Rivelazione, quale fonte di
conferma per l’esistenza della legge naturale. Così il concetto della legge naturale acquista anche un significato
teologico. Cf., fra altri, D. Composta, Teologia del diritto naturale, "Status quaestionis", Brescia 1972, Ed. Civiltà, pp.
7-22, 41-53; J. Fuchs, S. J., Lex naturae Zur Theologie des Naturrechts, Düsseldorf 1955, pp. 22-30; E. Hamel, S. J, Loi
naturelle et loi du Christ, Bruges-Paris 1965, Desclée de Brouwer, p. 18; A. Sacchi, La legge naturale nella Bibbia, in
La legge naturale. Le relazioni del convegno dei teologi moralisti dell’Italia settentrionale (11-13 settembre 1969),
Bologna 1970, Ed. Dehoniane, p. 53; F. Böckle, La legge naturale e la legge cristiana, ivi, pp. 214-215; A. Feuillet, Le
fondement de la morale ancienne et chrétienne d’après l’Epître aux Romains, in Revue Thomiste 78 [1970] 357-386; T.
Herr, Naturrecht aus der kritischen Sicht des Neuen Testaments, München 1976, Schöningh, pp. 155-164.
36. "The typically Hebraic usage reflected in the New Testament implies an understanding of man as unity of thought,
will and feeling. ...It depicts man as a whole, viewed from his intentionality; the heart as the center of man is thought of
as source of will, emotion, thoughts and affections. This traditional Judaic conception was related by Paul to Hellenistic
categories, such as "mind", "attitude", "thoughts" and "desires". Such a co-ordination between the Judaic and Hellenistic
categories is found in Fil 1,7; 4,7; Rm 1,21.24, where "heart" is thought of as center from which these things flow" [R.
Jewett, Paul’s Anthropologycal Terms. A Study of their Use in Conflict Settings, Leiden 1971, Brill, p. 448]. "Das
Hertz... ist die verbogene, inwendige Mitte und Wurzel des Menschen und damit seiner Welt..., der unergrüliche Grund
und die Lebendige Kraft aller Daseinserfahrung und -entscheidung" [H. Schlier, Das Menschenhertz nach dem Apostel
Paulus, in "Lebendiges Zeugnis", 1965, p. 123]. Cf. anche F. Baumgärtel-G. Behm, Kardía, in Theologisches
Wörterbuch zum Neuen Testament, II, Stuttgart 1933, Kolhammer, pp. 609-616.

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tale modo si unisce con una donna che non è sua moglie. Commette adulterio anche la donna, se in tale modo
si unisce con un uomo che non è suo marito. Bisogna dedurne che " l’adulterio nel cuore", commesso
dall’uomo quando " guarda una donna per desiderarla", significa un atto interiore ben definito. Si tratta di un
desiderio che è diretto, in questo caso, dall’uomo verso una donna che non è sua moglie, al fine di unirsi con
lei come se lo fosse, cioè - usando ancora una volta le parole di Gen 2,24 - così che " i due siano una sola
carne". Tale desiderio, come atto interiore, si esprime per mezzo del senso della vista, cioè con lo sguardo,
come nel caso di Davide e Betsabea, per servirci di un esempio tratto dalla Bibbia (cf. 2Sam 11,2 ; Questo
forse è il più noto, ma nella Bibbia si possono trovare altri esempi simili [cf. Gen 34,2 ; Gdc 14,1 ; 16,1 ]). Il
rapporto del desiderio col senso della vista è stato particolarmente messo in rilievo nelle parole di Cristo.
4. Queste parole non dicono chiaramente se la donna - oggetto del desiderio - sia moglie altrui oppure se
semplicemente non sia moglie dell’uomo che in tal modo la guarda. Può essere moglie altrui, oppure anche
non legata dal matrimonio. Bisogna piuttosto intuirlo, basandoci specialmente sulla espressione che appunto
definisce adulterio ciò che l’uomo ha commesso " nel suo cuore" con lo sguardo. Occorre correttamente
dedurne che un tale sguardo di desiderio rivolto verso la propria moglie non è adulterio " nel cuore", appunto
perché il relativo atto interiore dell’uomo si riferisce alla donna che è sua moglie, nei riguardi della quale
l’adulterio non può verificarsi. Se l’atto coniugale come atto esteriore, in cui " i due si uniscono così da
divenire una sola carne", è lecito nel rapporto dell’uomo in questione con la donna che è sua moglie,
analogamente è conforme all’etica anche l’atto interiore nella stessa relazione.
5. Nondimeno, quel desiderio, indicato dall’espressione circa " chiunque guarda una donna per desiderarla",
ha una propria dimensione biblica e teologica, che qui non possiamo non chiarire. Anche se tale dimensione
non si manifesta direttamente in quest’unica concreta espressione di Mt 5,27-28, tuttavia è profondamente
radicata nel contesto globale, che si riferisce alla rivelazione del corpo. A questo contesto dobbiamo risalire,
affinché il richiamo di Cristo " al cuore", all’uomo interiore, risuoni in tutta la pienezza della sua verità. La
citata enunciazione del discorso della montagna ( Mt 5,27-28 ) ha fondamentalmente un carattere indicativo.
Che Cristo si rivolga direttamente all’uomo come a colui che " guarda una donna per desiderarla", non vuol
dire che le sue parole, nel loro senso etico, non si riferiscano anche alla donna. Cristo si esprime così per
illustrare con un esempio concreto come occorra comprendere " il compimento della legge", secondo il
significato che le ha dato Dio-legislatore, ed inoltre come occorra intendere quel " sovrabbondare della
giustizia" nell’uomo, che osserva il sesto comandamento del decalogo. Parlando in questo modo, Cristo
vuole che non ci soffermiamo sull’esempio in se stesso, ma anche penetriamo nel pieno senso etico ed
antropologico dell’enunciato. Se esso ha carattere indicativo, significa che, seguendo le sue tracce, possiamo
giungere a comprendere la verità generale sull’uomo " storico", valida anche per la teologia del corpo. Le
ulteriori tappe delle nostre riflessioni avranno lo scopo di avvicinarsi a comprendere questa verità.

Mercoledì, 30 aprile 1980


La concupiscenza è il frutto della rottura dell’alleanza con Dio
1. Durante l’ultima nostra riflessione, abbiamo detto che le parole di Cristo nel Discorso della montagna
sono in diretto riferimento al "desiderio" che nasce immediatamente nel cuore umano; indirettamente,
invece, quelle parole ci orientano a comprendere una verità sull’uomo, che è di importanza universale.
Questa verità sull’uomo " storico", di importanza universale, verso la quale ci indirizzano le parole di Cristo
tratte da Matteo 5,27-28, sembra essere espressa nella dottrina biblica sulla triplice concupiscenza. Ci
riferiamo qui al conciso enunciato della prima Lettera di S. Giovanni: " Tutto quello che è nel mondo, la
concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal
mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno" ( 1Gv 2,16-
17 ). È ovvio che per capire queste parole, bisogna tenere gran conto del contesto, in cui sono inserite, cioè il
contesto di tutta la " teologia giovannea", su cui si è tanto scritto 37 . Tuttavia, le stesse parole s’inseriscono,

37. Cf. p. es.: J. Bonsirven, Epîtres de Saint Jean, Beauchesne, Paris 19542, pp. 113-119; E. Brooke, Critical and
Exegetical Commentary on the Johannine Epistles [International Critical Commentary], Clark, Edinburgh 1912, pp. 47-
49; P. De Ambroggi, Le Epistole Cattoliche, Marietti, Torino 1947, pp. 216-217; C. H. Dodd, The Johannine
Epistles, Moffatt New Testament Commentary, London 1946, pp. 41-42; J. Houlden, ACommentary on the Johannine

48
contemporaneamente, nel contesto di tutta la Bibbia: esse appartengono al complesso della verità rivelata
sull’uomo, e sono importanti per la teologia del corpo. Non spiegano la concupiscenza stessa nella sua
triplice forma, poiché sembrano presupporre che " la concupiscenza del corpo, la concupiscenza degli occhi
e la superbia della vita", siano, in qualche modo, un concetto chiaro e conosciuto. Spiegano, invece, la genesi
della triplice concupiscenza, indicando la sua provenienza non " dal Padre", ma " dal mondo".
2. La concupiscenza della carne e, insieme ad essa, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita,
è " nel mondo" e al tempo stesso " viene dal mondo", non come frutto del mistero della creazione, ma come
frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male" (cf. Gen 2,17 ) nel cuore dell’uomo. Ciò che
fruttifica nella triplice concupiscenza non è il " mondo" creato da Dio per l’uomo, la cui " bontà"
fondamentale abbiamo più volte letto in Genesi 1: " Dio vide che era cosa buona... era cosa molto buona".
Nella triplice concupiscenza fruttifica invece la rottura della prima alleanza con il Creatore, con Dio-Elohim,
con Dio-Jahvè. Questa alleanza fu rotta nel cuore dell’uomo. Bisognerebbe fare qui un’accurata analisi degli
avvenimenti descritti in Genesi 3,1-6. Tuttavia, ci riferiamo solo in generale al mistero del peccato, agli inizi
della storia umana. Infatti, solo come conseguenza del peccato, come frutto della rottura dell’alleanza con
Dio nel cuore umano - nell’intimo dell’uomo - il " mondo" del Libro della Genesi è divenuto il " mondo"
delle parole giovannee ( 1Gv 2,15-16 ): luogo e sorgente di concupiscenza.
Così, dunque, l’enunciato secondo cui la concupiscenza " non viene dal Padre, ma dal mondo", sembra
indirizzarci, ancora una volta, verso il biblico " principio". La genesi della triplice concupiscenza, presentata
da Giovanni, trova in questo principio la sua prima e fondamentale delucidazione, una spiegazione, che è
essenziale per la teologia del corpo. Per intendere quella verità di importanza universale sull’uomo "storico",
contenuta nella parole di Cristo durante il discorso della montagna ( Mt 5,27-28 ), dobbiamo ancora una volta
tornare al Libro della Genesi, ancora una volta soffermarci " alla soglia" della rivelazione
dell’uomo " storico". Ciò è tanto più necessario, in quanto tale soglia della storia della salvezza si dimostra al
tempo stesso soglia di autentiche esperienze umane, come costateremo nelle successive analisi. Vi rivivranno
gli stessi significati fondamentali, che abbiamo ricavato dalle precedenti analisi, quali elementi costitutivi di
una antropologia adeguata e profondo substrato della teologia del corpo.
3. Può sorgere ancora la domanda se sia lecito trasporre i contenuti tipici della " teologia giovannea",
racchiusi in tutta la prima lettera ( 1Gv 2,15-16 ), sul terreno del Discorso della montagna secondo Matteo, e
precisamente dell’affermazione di Cristo tratta da Matteo 5,27-28: " Avete inteso che fu detto: Non
commetterete adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso
adulterio con lei nel suo cuore". Riprenderemo questo argomento più volte: ciò nonostante, facciamo
riferimento fin d’ora al contesto biblico generale, all’insieme della verità sull’uomo, in essa rivelata ed
espressa. Proprio nel nome di questa verità, cerchiamo di capire fino in fondo l’uomo, che Cristo indica nel
testo di Matteo 5,27-28: cioè l’uomo che " guarda" la donna " per desiderarla". Un tale sguardo, in definitiva,
non si spiega forse col fatto che quell’uomo è appunto un " uomo di desiderio", nel senso della prima Lettera
di S. Giovanni, anzi che entrambi, cioè l’uomo che guarda per desiderare e la donna che è oggetto di tale
sguardo, si trovano nella dimensione della triplice concupiscenza, che " non viene dal Padre, ma dal
mondo"? Occorre, dunque, intendere che cosa sia quella concupiscenza o piuttosto chi sia quel
biblico " uomo di desiderio", per scoprire la profondità delle parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28, e per
spiegare che cosa significhi il loro riferimento, tanto importante per la teologia del corpo, al " cuore" umano.
4. Torniamo di nuovo al racconto jahvista, in cui lo stesso uomo, maschio e femmina, appare all’inizio come
uomo di innocenza originaria - prima del peccato originale - e poi come colui che ha perduto questa
innocenza, infrangendo l’originaria alleanza col suo Creatore. Non intendiamo qui fare un’analisi completa
della tentazione e del peccato, secondo lo stesso testo di Genesi 3,1-5, la relativa dottrina della Chiesa e la
teologia. Conviene soltanto osservare che la stessa descrizione biblica sembra mettere particolarmente in
evidenza il momento chiave, in cui nel cuore dell’uomo è posto in dubbio il Dono. L’uomo che coglie il frutto
dell’albero della conoscenza del bene e del male" fa, al tempo stesso, una scelta fondamentale e la attua
contro il volere del Creatore, Dio Jahvè, accettando la motivazione suggeritagli dal tentatore: " Non morirete

Epistles, Black, London 1973, pp. 73-74, B. Prete, Lettere di Giovanni, Ed. Paoline, Roma 1970, p. 61; R.
Schnackenburg, Die Johannesbriefe, Herders Theologischer Kommentar zum Neuen Testament, Freiburg 1953, pp.
112-115; J. R. W. Stott,Epistles of John, Tyndale New Testament Commentaries, London 19693, pp. 99-101. Sul tema
della teologia di Giovanni, cf. in particolare A. Feuillet, Le mystère de l’amour divin dans la théologie
johannique, Gabalda, Paris 1972.

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affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio,
conoscendo il bene e il male"; secondo antiche traduzioni: " Sarete come dèi, conoscenti del bene e del male" 38.
In questa motivazione si racchiude chiaramente la messa in dubbio del Dono e dell’Amore, da cui trae
origine la creazione come donazione. Per quanto riguarda l’uomo, egli riceve in dono il " mondo" ed al
tempo stesso la "immagine di Dio", cioè l’umanità stessa in tutta la verità della sua duplicità maschile e
femminile. È sufficiente leggere accuratamente tutto il brano di Genesi 3,1-5, per individuarvi il
mistero dell’uomo che volta le spalle al " Padre" (anche se nel racconto non troviamo tale appellativo di
Dio). Mettendo in dubbio, nel suo cuore, il significato più profondo della donazione, cioè l’amore come
motivo specifico della creazione e dell’Alleanza originaria (cf. Gen 3,5 ), l’uomo volta le spalle al Dio-
Amore, al " Padre". In certo senso lo rigetta dal suo cuore. Contemporaneamente, quindi, distacca il suo
cuore e quasi lo recide da ciò che " viene dal Padre": così, resta in lui ciò che " viene dal mondo".
5. " Allora si aprirono gli occhi di tutte e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne
fecero cinture" ( Gen 3,6 ). Questa è la prima frase del racconto jahvista, che si riferisce alla " situazione"
dell’uomo dopo il peccato e mostra il nuovo stato della natura umana. Non suggerisce forse anche questa
frase l’inizio della " concupiscenza" nel cuore dell’uomo? Per dare una risposta più approfondita a tale
domanda, non possiamo soffermarci su quella prima frase, ma occorre rileggere il testo per intero. Tuttavia,
qui vale la pena di ricordare ciò che nelle prime analisi è stato detto sul tema della vergogna come
esperienza " del limite".(cf. Giovanni Paolo II, Allocutio in Audientia Generali habita, die 12 dec.
1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 1378ss) Il Libro della Genesi fa riferimento a questa
esperienza per dimostrare il "confine" esistente tra lo stato di innocenza originaria (cf. in
particolare Genesi 2,25, al quale abbiamo dedicato molta attenzione nelle precedenti analisi [cfr. Udienza
generale del 12 dicembre 1979]) e lo stato di peccaminosità dell’uomo al " principio" stesso.
Mentre Genesi 2,25 sottolinea che " erano nudi... ma non ne provavano vergogna", Genesi 3,6 parla
esplicitamente della nascita della vergogna in connessione col peccato. Quella vergogna è quasi la prima
sorgente del manifestarsi nell’uomo - in entrambi, uomo e donna - di ciò che " non viene dal Padre, ma dal
mondo".

Mercoledì, 14 maggio 1980


Radicale cambiamento del significato della nudità originaria
1. Abbiamo già parlato della vergogna che sorse nel cuore del primo uomo, maschio e femmina, insieme al
peccato. La prima frase del racconto biblico, al riguardo, suona così: "Allora si aprirono gli occhi di tutti e
due, e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture" ( Gen 3,7). Questo passo,
che parla della vergogna reciproca dell’uomo e della donna quale sintomo della caduta (status naturae
lapsae), va considerato nel suo contesto. La vergogna in quel momento tocca il grado più profondo e sembra
sconvolgere le fondamenta stesse della loro esistenza. "Poi udirono il Signore Dio, che passeggiava nel
giardino alla brezza del giorno, e l’uomo con la sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi
del giardino" (Gen 3,8). La necessità di nascondersi indica che nel profondo della vergogna avvertita
reciprocamente, come frutto immediato dell’albero della conoscenza del bene e del male, è maturato un
senso di paura di fronte a Dio: paura precedentemente ignota. "Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse:
"Dove sei?"". Rispose: "Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono
nascosto"" (Gen 3,9-10). Una certa paura appartiene sempre all’essenza stessa della vergogna; nondimeno la

38. Il testo ebraico può avere entrambi i significati, perché suona: "Sa ELOHIM che il giorno in cui ne mangerete [il
frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male] si apriranno i vostri occhi e diventerete come ELOHIM,
conoscenti del bene e del male". Il termine elohim è plurale di eloah ["pluralis excellentiae"]. In relazione a Jahvè, ha
significato singolare; può però indicare il plurale di altri esseri celesti o divinità pagane [p.
es. Sal 8,6; Es 12,12; Gdc 10,16; Os 31,1 e altri]. Riportiamo alcune versioni:
– italiano: "diverreste come Dio, conoscendo il bene e il male" [Pont. Istit. Biblico, 1961];
– francese: "...vous serez comme des dieux, qui connaissent le bien et le mal" [Bible de Jérusalem, 1973];
– inglese: "you will be like God, knowing good and evil" [Revised Standard Version, 1966];
– spagnolo: "seréis como dioses, conocedores del bien y del mal" [S. Ausejo, Barcelona 1964]; "seréis como Dios en el
conocimiento del bien y el mal" [A. Alonso Schökel, Madrid 1970].

50
vergogna originaria rivela in modo particolare il suo carattere: "Ho avuto paura, perché sono nudo". Ci
rendiamo conto che qui è in gioco qualche cosa di più profondo della stessa vergogna corporale, legata ad
una recente presa di coscienza della propria nudità. L’uomo cerca di coprire con la vergogna della propria
nudità l’autentica origine della paura, indicandone piuttosto l’effetto, per non chiamare per nome la sua
causa. Ed è allora che Dio Jahvè lo fa in sua vece: "Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato
dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?" (Gen 3,11).
2. Sconvolgente è la precisione di quel dialogo, sconvolgente è la precisione di tutto il racconto. Essa
manifesta la superficie delle emozioni dell’uomo nel vivere gli avvenimenti, in modo da svelarne al tempo
stesso la profondità. In tutto ciò la "nudità" non ha soltanto un significato letterale, non si riferisce soltanto al
corpo, non è origine di una vergogna riferita solo al corpo. In realtà, attraverso "la nudità", si manifesta
l’uomo privo della partecipazione al Dono, l’uomo alienato da quell’Amore che era stato la sorgente del
dono originario, sorgente della pienezza del bene destinato alla creatura. Quest’uomo, secondo le formule
dell’insegnamento teologico della Chiesa 39 , fu privato dei doni soprannaturali e preternaturali, che facevano
parte della sua "dotazione" prima del peccato; inoltre, subì un danno in ciò che appartiene alla natura stessa,
all’umanità nella pienezza originaria "dell’immagine di Dio". La triplice concupiscenza non corrisponde alla
pienezza di quell’immagine, ma appunto ai danni, alle deficienze, alle limitazioni che apparvero col peccato.
La concupiscenza si spiega come carenza, la quale affonda però le radici nella profondità originaria dello
spirito umano. Se vogliamo studiare questo fenomeno alle sue origini, cioè alla soglia delle esperienze
dell’uomo "storico", dobbiamo prendere in considerazione tutte le parole che Dio-Jahvè rivolse alla donna
(Gen 3,16) e all’uomo (Gen 3,17-19), e inoltre dobbiamo esaminare lo stato della coscienza di entrambi; ed è
il testo jahvista che espressamente ce lo facilita. Già prima abbiamo richiamato l’attenzione sulla specificità
letteraria del testo a tale riguardo.

39. Il magistero della Chiesa si è occupato più da vicino di questi problemi in tre periodi, a seconda dei bisogni
dell’epoca. Le dichiarazioni dei tempi delle controversie con i pelagiani [V-VI sec.] affermano che il primo uomo, in
virtù della grazia divina, possedeva "naturalem possibilitatem et innocentiam" [Denz.-Schön. 239], chiamata anche
"libertà" ["libertas", "libertas arbitrii"] [Denz.-Schön. 371, 242, 383, 622]. Egli permaneva in uno stato, che il Sinodo di
Orange [a. 529] denomina "integritas":
"Natura humana, etiamsi in illa integritate, in qua condita est, permaneret, nullo modo se ipsam, Creatore suo non
adiuvante, servaret..." [Denz.-Schön. 389].
I concetti di "integritas" e, in particolare, quello di "libertas", presuppongono la libertà della concupiscenza, sebbene i
documenti ecclesiastici di quest’epoca non la menzionino in modo esplicito. Il primo uomo era inoltre libero dalla
necessità di morte [Denz.-Schön 222, 372, 1511]. Il Concilio di Trento definisce lo stato del primo uomo, anteriore al
peccato, come "santità e giustizia" ["sanctitas et iustitia": Denz.-Schön 1511, 1512] oppure come "innocenza"
["innocentia": Denz.-Schön 1521].
Le ulteriori dichiarazioni in questa materia difendono l’assoluta gratuità del dono originario della grazia, contro le
affermazioni dei giansenisti. La "integritas primae creationis" era una immeritata elevazione della natura umana
["indebita humanae naturae exaltatio"] e non "lo stato che le era dovuto per natura" ["naturalis eius condicio": Denz.-
Schön 1926]; Dio avrebbe quindi potuto creare l’uomo senza queste grazie e doni [Denz.-Schön 1955); ciò non avrebbe
infranto l’essenza della natura umana né l’avrebbe privata dei suoi privilegi fondamentali [Denz.-Schön 1903-1907,
1909, 1921, 1923, 1924, 1926, 1955, 2434, 2437, 2616, 2617]. In analogia con i Sinodi antipelagiani, il Concilio di
Trento tratta soprattutto il dogma del peccato originale, inserendo nel suo insegnamento i precedenti enunciati in
proposito. Qui, però, fu introdotta una certa precisazione, che in parte cambiò il contenuto compreso nel concetto di
"liberum arbitrium". La "libertà" o "libertà della volontà" dei documenti antipelagiani non significava la possibilità di
scelta, connessa con la natura umana, quindi costante, ma si riferiva soltanto alla possibilità di compiere gli atti
meritevoli, la libertà che scaturisce dalla grazia e che l’uomo può perdere.
Orbene, a causa del peccato, Adamo perse ciò che non apparteneva alla natura umana intesa nel senso stretto della
parola, cioè "integritas", "sanctitas", "innocentia", "iustitia". Il "liberum arbitrium", la libertà della volontà, non fu tolta,
ma si indebolì:
"...liberum arbitrium minime exstinctum... viribus licet attenuatum et inclinatum..." [Denz.-Schön. 1521; Concilio
Tridentino, Decr. de Iustiicatione, Sessio VI, can. 1]. Insieme al peccato appare la concupiscenza e la ineluttabilità della
morte:
"...primum hominem... cum mandatum Dei... fuisset transgressus, statim sanctitatem et iustitiam, in qua constitutus
fuerat, amisisse incurrisseque per offensam praevaricationis huiusmodi iram et indignationem Dei atque ideo mortem...
et cum morte captivitatem sub eius potestate, qui "mortis" deinde "habuit imperium"... "totumque Adam per illam
praevaricationis offensam secundum corpus et animam in deterius commutatum fuisse..."" [Denz.-Schön 1511; Concilio
Tridentino, Decr. de pecc. orig., Sessio V, can. 1]. [Cf.Mysterium Salutis, II, Einsiedeln-Zurich- Köln 1967, pp. 827-
828: W. Seibel, Der Mensch als Gottes übernatürliches Ebenbild und der Urstand des Menschen]).

51
3. Quale stato di coscienza può manifestarsi nelle parole: "Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono
nascosto"? A quale verità interiore corrispondono esse? Quale significato del corpo testimoniano?
Certamente questo nuovo stato differisce grandemente quello originario. Le parole di Genesi 3,10 attestano
direttamente un radicale cambiamento del significato della nudità originaria. Nello stato dell’innocenza
originaria, la nudità, come abbiamo osservato in precedenza, non esprimeva carenza, ma rappresentava la
piena accettazione del corpo in tutta la sua verità umana e quindi personale. Il corpo, come espressione della
persona, era il primo segno della presenza dell’uomo nel mondo visibile. In quel mondo, l’uomo era in
grado, fin dall’inizio, di distinguere se stesso, quasi individuarsi - cioè confermarsi come persona - anche
attraverso il proprio corpo. Esso, infatti, era stato, per così dire, contrassegnato come fattore visibile della
trascendenza, in virtù della quale l’uomo, in quanto persona, supera il mondo visibile degli esseri viventi
(animalia). In tale senso, il corpo umano era dal principio un testimone fedele e una verifica sensibile della
"solitudine" originaria dell’uomo nel mondo, diventando al tempo stesso, mediante la sua mascolinità e
femminilità, una limpida componente della reciproca donazione nella comunione delle persone. Così, il
corpo umano portava in sé, nel mistero della creazione, un indubbio segno dell’"immagine di Dio" e
costituiva anche la specifica fonte della certezza di quell’immagine, presente in tutto l’essere umano.
L’originaria accettazione del corpo era, in un certo senso, la base dell’accettazione di tutto il mondo visibile.
E, a sua volta, era per l’uomo garanzia del suo dominio sul mondo, sulla terra, che avrebbe dovuto
assoggettare (cf. Gen 1,28).
4. Le parole "ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto" (Gen 3,10) testimoniano un radicale
cambiamento di tale rapporto. L’uomo perde, in qualche modo, la certezza originaria dell’"immagine di
Dio", espressa nel suo corpo. Perde anche in certo modo il senso del suo diritto a partecipare alla percezione
del mondo, di cui godeva nel mistero della creazione. Questo diritto trovava il suo fondamento nell’intimo
dell’uomo, nel fatto che egli stesso partecipava alla visione divina del mondo e della propria umanità; il che
gli dava profonda pace e gioia nel vivere la verità e il valore del proprio corpo, in tutta la sua semplicità,
trasmessagli dal Creatore: "Dio vide (che) era cosa molto buona" (Gen 1,31). Le parole di Genesi 3,10: "Ho
avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto" confermano il crollo dell’originaria accettazione del
corpo come segno della persona nel mondo visibile. Insieme, sembra anche vacillare l’accettazione del
mondo materiale in rapporto all’uomo. Le parole di Dio-Jahvè preannunciano quasi l’ostilità del mondo, la
resistenza della natura nei riguardi dell’uomo e dei suoi compiti, preannunciano la fatica che il corpo umano
avrebbe poi provato a contatto con la terra da lui soggiogata: "Maledetto sia il suolo per causa tua! Con
dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba
campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato
tratto" (Gen 3,17-19). Il termine di tale fatica, di tale lotta dell’uomo con la terra, è la morte: "Polvere tu sei e
in polvere tornerai" (Gen 3,19).
In questo contesto, o piuttosto in questa prospettiva, le parole di Adamo in Genesi 3,10: "Ho avuto paura,
perché sono nudo, e mi sono nascosto", sembrano esprimere la consapevolezza di essere inerme, e il senso
di insicurezza della sua struttura somatica di fronte ai processi della natura, operanti con un determinismo
inevitabile. Forse, in questa sconvolgente enunciazione si trova implicita una certa "vergogna cosmica", in
cui si esprime l’essere creato ad "immagine di Dio" e chiamato a soggiogare la terra e a dominarla
(cf. Gen 1,28), proprio mentre, all’inizio delle sue esperienze storiche e in maniera così esplicita, viene
sottomesso alla terra, particolarmente nella "parte" della sua costituzione trascendente rappresentata appunto
dal corpo.
Occorre qui interrompere le nostre riflessioni sul significato della vergogna originaria, nel Libro della
Genesi. Le riprenderemo fra una settimana.

Mercoledì, 28 maggio 1980


Il corpo, non sottomesso allo spirito minaccia l’unità dell’uomo-persona
1. Stiamo leggendo di nuovo i primi capitoli del libro della Genesi, per comprendere come - col peccato
originale - l’"uomo della concupiscenza" abbia preso il posto dell’"uomo della innocenza" originaria. Le
parole della Genesi 3,10: "Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto", che abbiamo considerato
due settimane fa, documentano la prima esperienza di vergogna dell’uomo nei confronti del suo Creatore:

52
una vergogna che potrebbe essere anche chiamata "cosmica".
Tuttavia, questa "vergogna cosmica" - se è possibile scorgerne i tratti nella situazione totale dell’uomo dopo
il peccato originale - nel testo biblico fa posto ad un’altra forma di vergogna. È la vergogna prodottasi
nell’umanità stessa, causata cioè dall’intimo disordine in ciò per cui l’uomo, nel mistero della creazione, era
"l’immagine di Dio", tanto nel suo "io" personale che nella relazione interpersonale, attraverso la primordiale
comunione delle persone, costituita insieme dall’uomo e dalla donna. Quella vergogna, la cui causa si trova
nell’umanità stessa, è immanente e relativa insieme: si manifesta nella dimensione dell’interiorità umana e al
tempo stesso si riferisce all’"altro". Questa è la vergogna della donna "nei riguardi" dell’uomo, e anche
dell’uomo "nei riguardi" della donna: vergogna reciproca, che li costringe a coprire la propria nudità, a
nascondere i propri corpi, a distogliere dalla vista dell’uomo ciò che costituisce il segno visibile della
femminilità, e dalla vista della donna ciò che costituisce il segno visibile della mascolinità. In tale direzione,
si è orientata la vergogna di entrambi dopo il peccato originale, quando si accorsero di "essere nudi", come
attesta Genesi 3,7. Il testo jahvista sembra indicare esplicitamente il carattere "sessuale" di tale vergogna:
"Intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture". Tuttavia, possiamo chiederci se l’aspetto "sessuale"
abbia soltanto un carattere "relativo"; in altre parole: se si tratta di vergogna della propria sessualità solo in
riferimento alla persona dell’altro sesso.
2. Sebbene alla luce di quell’unica frase determinante di Genesi 3,7 la risposta all’interrogativo sembri
sostenere soprattutto il carattere relativo della vergogna originaria, nondimeno la riflessione sull’intero
contesto immediato consente di scoprire il suo sfondo più immanente. Quella vergogna, che senza dubbio si
manifesta nell’ordine "sessuale", rivela una specifica difficoltà di avvertire l’essenzialità umana del proprio
corpo: difficoltà che l’uomo non aveva sperimentato nello stato di innocenza originaria. Così, infatti, si
possono intendere le parole: "Ho avuto paura, perché sono nudo", le quali pongono in evidenza le
conseguenze del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male nell’intimo dell’uomo. Attraverso
queste parole viene svelata una certa costitutiva frattura nell’interno della persona umana, quasi una rottura
della originaria unità spirituale e somatica dell’uomo. Questi si rende conto per la prima volta che il suo
corpo ha cessato di attingere alla forza dello spirito, che lo elevava al livello dell’immagine di Dio. La sua
vergogna originaria porta in sé i segni di una specifica umiliazione mediata dal corpo. Si nasconde in essa il
germe di quella contraddizione, che accompagnerà l’uomo "storico"in tutto il suo cammino terrestre, come
scrive san Paolo: "Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra
legge, che muove guerra alla legge della mia mente" ( Rm 7,22-23 ).
3. Così, dunque, quella vergogna è immanente. Essa contiene una tale acutezza conoscitiva da creare una
inquietudine di fondo in tutta l’esistenza umana, non solo di fronte alla prospettiva della morte, ma anche di
fronte a quella, da cui dipende il valore e la dignità stessi della persona nel suo significato etico. In tal senso
la vergogna originaria del corpo ("sono nudo") è già paura ("ho avuto paura"), e preannunzia l’inquietudine
della coscienza connessa con la concupiscenza. Il corpo che non è sottomesso allo spirito come nello stato
della innocenza originaria, porta in sé un costante focolaio di resistenza allo spirito, e minaccia in qualche
modo l’unità dell’uomo-persona, cioè della natura morale, che affonda solidamente le radici nella stessa
costituzione della persona. La concupiscenza del corpo è una minaccia specifica alla struttura
dell’autopossesso e dell’autodominio, attraverso cui si forma la persona umana. E costituisce per essa anche
una specifica sfida. In ogni caso, l’uomo della concupiscenza non domina il proprio corpo nello stesso
modo, con uguale semplicità e "naturalezza", come faceva l’uomo della innocenza originaria. La struttura
dell’autopossesso, essenziale per la persona, viene in lui, in certo modo, scossa alle fondamenta stesse; egli
di nuovo si identifica con essa in quanto è continuamente pronto a conquistarla.
4. Con tale squilibrio interiore è collegata la vergogna immanente. Ed essa ha un carattere "sessuale", perché
appunto la sfera della sessualità umana sembra porre in particolare evidenza quello squilibrio, che scaturisce
dalla concupiscenza e specialmente dalla "concupiscenza del corpo". Da questo punto di vista, quel primo
impulso, di cui parla Genesi 3,7 ("si accorsero di essere nudi, intrecciarono foglie di fico e se ne fecero
cinture") è molto eloquente; è come se l’"uomo della concupiscenza" (uomo e donna "nell’atto della
conoscenza del bene e del male") provasse di aver semplicemente cessato, anche attraverso il proprio corpo e
sesso, di stare al di sopra del mondo degli esseri viventi o "animalia". È come se provasse una specifica
frattura dell’integrità personale del proprio corpo, particolarmente in ciò che ne determina la sessualità e
che è direttamente collegato con la chiamata a quell’unità, in cui l’uomo e la donna "saranno una sola carne"
( Gen 2,24 ). Perciò, quel pudore immanente ed insieme sessuale è sempre, almeno indirettamente, relativo.

53
È il pudore della propria sessualità "nei riguardi" dell’altro essere umano. In tal modo il pudore viene
manifestato nel racconto di Genesi 3, per cui siamo, in certo senso, testimoni della nascita della
concupiscenza umana. È quindi sufficientemente chiara anche la motivazione per risalire dalle parole di
Cristo sull’uomo (maschio), il quale "guarda una donna per desiderarla" ( Mt 5,27-28 ), a quel primo
momento, in cui il pudore si spiega mediante la concupiscenza, e la concupiscenza mediante il pudore. Così
intendiamo meglio perché - e in quale senso - Cristo parla del desiderio come "adulterio" commesso nel
cuore, perché si rivolge al "cuore" umano.
5. Il cuore umano serba in sé contemporaneamente il desiderio e il pudore. La nascita del pudore ci orienta
verso quel momento, in cui l’uomo interiore, "il cuore", chiudendosi a ciò che "viene dal Padre", si apre a ciò
che "viene dal mondo". La nascita del pudore nel cuore umano va di pari passo con l’inizio della
concupiscenza: della triplice concupiscenza secondo la teologia giovannea (cf. 1Gv 2,16 ), e in particolare
della concupiscenza del corpo. L’uomo ha pudore del corpo a motivo della concupiscenza. Anzi, ha pudore
non tanto del corpo, quanto proprio della concupiscenza: ha pudore del corpo a motivo della concupiscenza.
Ha pudore del corpo a motivo di quello stato del suo spirito, a cui la teologia e la psicologia danno la stessa
denominazione sinonimica: desiderio ovvero concupiscenza, sebbene con significato non del tutto uguale. Il
significato biblico e teologico del desiderio e della concupiscenza differisce da quello usato nella psicologia.
Per quest’ultima, il desiderio proviene dalla mancanza o dalla necessità, che il valore desiderato deve
appagare. La concupiscenza biblica, come deduciamo da 1Gv 2,16, indica lo stato dello spirito umano
allontanato dalla semplicità originaria e dalla pienezza dei valori, che l’uomo e il mondo posseggono "nelle
dimensioni di Dio". Appunto tale semplicità e pienezza del valore del corpo umano nella prima esperienza
della sua mascolinità-femminilità, di cui parla Genesi 2,23-25, ha subito successivamente, "nelle dimensioni
del mondo", una trasformazione radicale. E allora, insieme con la concupiscenza del corpo, nacque il pudore.
6. Il pudore ha un duplice significato: indica la minaccia del valore e al tempo stesso preserva interiormente
tale valore (cf. Karol Wojtyla, Amore e responsabilità, Torino 1978 2 , pp. 161-178). Il fatto che il cuore
umano, dal momento in cui vi nacque la concupiscenza del corpo, serbi in sé anche la vergogna, indica che si
può e si deve far appello ad esso, quando si tratta di garantire quei valori, ai quali la concupiscenza toglie la
loro originaria e piena dimensione. Se teniamo ciò in mente, siamo in grado di comprendere meglio perché
Cristo, parlando della concupiscenza, fa appello al "cuore" umano.

Mercoledì, 4 giugno 1980


Significato della vergogna originale nei rapporti interpersonali uomo-donna
1. Parlando della nascita della concupiscenza nell’uomo, in base al libro della Genesi, abbiamo analizzato il
significato originario della vergogna, che apparve col primo peccato. L’analisi della vergogna, alla luce del
racconto biblico, ci consente di comprendere ancora più a fondo quale significato essa abbia per l’insieme
dei rapporti interpersonali uomo-donna. Il capitolo terzo della Genesi dimostra senza alcun dubbio che quella
vergogna apparve nel reciproco rapporto dell’uomo con la donna e che tale rapporto, per causa della
vergogna stessa subì una radicale trasformazione. E poiché essa nacque nei loro cuori insieme con la
concupiscenza del corpo, l’analisi della vergogna originaria ci permette contemporaneamente di esaminare
in quale rapporto rimane tale concupiscenza rispetto alla comunione delle persone, che dal principio è stata
concessa e assegnata come compito all’uomo e alla donna per il fatto di essere stati creati "ad immagine di
Dio". Quindi, l’ulteriore tappa dello studio sulla concupiscenza, che "al principio" si era manifestata
attraverso la vergogna dell’uomo e della donna, secondo Genesi 3, è l’analisi dell’insaziabilità dell’unione,
cioè della comunione delle persone, che doveva essere espressa anche dai loro corpi, secondo la propria
specifica mascolinità e femminilità.
2. Soprattutto, dunque, questa vergogna che, secondo la narrazione biblica, induce l’uomo e la donna a
nascondere reciprocamente i propri corpi ed in specie la loro differenziazione sessuale, conferma che si è
infranta quella capacità originaria di comunicare reciprocamente se stessi, di cui parla Genesi 2,25. Il
radicale cambiamento del significato della nudità originaria ci lascia supporre trasformazioni negative di
tutto il rapporto interpersonale uomo-donna. Quella reciproca comunione nell’umanità stessa mediante il
corpo e mediante la sua mascolinità e femminilità, che aveva una così forte risonanza nel passo precedente

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della narrazione jahvista (cf. Gen 2,23-25), viene in questo momento sconvolta: come se il corpo, nella sua
mascolinità e femminilità, cessasse di costituire l’"insospettabile" substrato della comunione delle persone,
come se la sua originaria funzione fosse "messa in dubbio" nella coscienza dell’uomo e della donna.
Spariscono la semplicità e la "purezza" dell’esperienza originaria, che facilitava una singolare pienezza nel
reciproco comunicare se stessi. Ovviamente, i progenitori non cessarono di comunicare a vicenda attraverso
il corpo e i suoi movimenti, gesti, espressioni; ma sparì la semplice e diretta comunione di sé connessa con
l’esperienza originaria della reciproca nudità. Quasi all’improvviso, apparve nella loro coscienza una soglia
invalicabile, che limitava l’originaria "donazione di sé" all’altro, in pieno affidamento a tutto ciò che
costituiva la propria identità e, al tempo stesso, diversità, da un lato femminile, dall’altro maschile. La
diversità, ovvero la differenza del sesso maschile e femminile, fu bruscamente sentita e compresa come
elemento di reciproca contrapposizione di persone. Ciò viene attestato dalla concisa espressione di Genesi
3,7: "Si accorsero di essere nudi", e dal suo contesto immediato. Tutto ciò fa parte anche dell’analisi della
prima vergogna. Il libro della Genesi non soltanto ne delinea l’origine nell’essere umano, ma consente anche
di svelare i suoi gradi in entrambi, nell’uomo e nella donna.
3. Il chiudersi della capacità di una piena comunione reciproca, che si manifesta come pudore sessuale, ci
consente di meglio intendere l’originario valore del significato unificante del corpo. Non si può infatti
comprendere altrimenti quel rispettivo chiudersi, ovvero la vergogna, se non in rapporto al significato che il
corpo, nella sua femminilità e mascolinità, aveva anteriormente per l’uomo nello stato di innocenza
originaria. Quel significato unificante va inteso non soltanto riguardo all’unità, che l’uomo e la donna, come
coniugi, dovevano costituire, diventando "una sola carne" (Gen 2,24) attraverso l’atto coniugale, ma anche in
riferimento alla stessa "comunione delle persone", che era stata la dimensione propria dell’esistenza
dell’uomo e della donna nel mistero della creazione. Il corpo nella sua mascolinità e femminilità costituiva il
"substrato" peculiare di tale comunione personale. Il pudore sessuale, di cui tratta Genesi 3,7, attesta la
perdita dell’originaria certezza che il corpo umano, attraverso la sua mascolinità e femminilità, sia proprio
quel "substrato" della comunione delle persone, che "semplicemente" la esprima, che serva alla sua
realizzazione (e così anche al completamento dell’"immagine di Dio" nel mondo visibile). Questo stato di
coscienza di entrambi ha forti ripercussioni nell’ulteriore contesto di Genesi 3, di cui tra breve ci
occuperemo. Se l’uomo, dopo il peccato originale, aveva perduto per così dire il senso dell’immagine di Dio
in sé, ciò si è manifestato con la vergogna del corpo (cf. praesertim Gen 3,10-11). Quella vergogna,
invadendo la relazione uomo-donna nella sua totalità, si è manifestata con lo squilibrio dell’originario
significato dell’unità corporea, cioè del corpo quale "substrato" peculiare della comunione delle persone.
Come se il profilo personale della mascolinità e femminilità, che prima metteva in evidenza il significato del
corpo per una piena comunione delle persone, cedesse il posto soltanto alla sensazione della "sessualità"
rispetto all’altro essere umano. E come se la sessualità diventasse "ostacolo" nel rapporto personale
dell’uomo con la donna. Celandola reciprocamente, secondo Genesi 3,7, entrambi la esprimono quasi per
istinto.
4. Questa è, ad un tempo, come la "seconda" scoperta del sesso, che nella narrazione biblica differisce
radicalmente dalla prima. L’intero contesto del racconto comprova che questa nuova scoperta distingue
l’uomo "storico" della concupiscenza (anzi, della triplice concupiscenza) dall’uomo dell’innocenza
originaria. In quale rapporto si pone la concupiscenza, ed in particolare la concupiscenza della carne, rispetto
alla comunione delle persone mediata dal corpo, dalla sua mascolinità e femminilità, cioè rispetto alla
comunione assegnata, "dal principio", all’uomo dal Creatore? Ecco l’interrogativo che bisogna porsi,
precisamente riguardo "al principio", circa l’esperienza della vergogna, a cui si riferisce il racconto biblico.
La vergogna, come già abbiamo osservato, si manifesta nella narrazione di Genesi 3 come sintomo del
distacco dell’uomo dall’amore, di cui era partecipe nel mistero della creazione secondo l’espressione
giovannea: quello che "viene dal Padre". "Quello che è nel mondo", cioè la concupiscenza, porta con sé una
quasi costitutiva difficoltà di immedesimazione col proprio corpo; e non soltanto nell’ambito della propria
soggettività, ma ancor più riguardo alla soggettività dell’altro essere umano: della donna per l’uomo,
dell’uomo per la donna.
5. Di qui la necessità di nascondersi davanti all’"altro" col proprio corpo, con ciò che determina la propria
femminilità/mascolinità. Questa necessità dimostra la fondamentale mancanza di affidamento, il che di per sé
indica il crollo dell’originario rapporto "di comunione". Appunto il riguardo alla soggettività dell’altro, ed
insieme alla propria soggettività, ha suscitato in questa nuova situazione, cioè nel contesto della

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concupiscenza, l’esigenza di nascondersi, di cui parla Genesi 3,7.
E precisamente qui ci sembra di riscoprire un significato più profondo del pudore "sessuale" ed anche il
pieno significato di quel fenomeno, a cui si richiama il testo biblico per rilevare il confine tra l’uomo della
innocenza originaria e l’uomo "storico" della concupiscenza. Il testo integrale di Genesi 3 ci fornisce
elementi per definire la dimensione più profonda della vergogna; ma ciò esige un’analisi a parte. La
inizieremo nella prossima riflessione.

Mercoledì, 18 giugno 1980


Il dominio “su” l’altro nella relazione interpersonale
1. In Genesi 3 è descritto con sorprendente precisione il fenomeno della vergogna, apparsa nel primo uomo
insieme al peccato originale. Una attenta riflessione su questo testo ci consente di dedurne che la vergogna,
subentrata all’assoluto affidamento connesso con l’anteriore stato dell’innocenza originaria nel reciproco
rapporto tra l’uomo e la donna, ha una dimensione più profonda. Occorre al riguardo rileggere sino alla fine
il capitolo 3 della Genesi, e non limitarsi al versetto 7 né al testo dei versetti 10-11, i quali contengono la
testimonianza circa la prima esperienza della vergogna. Ecco che, in seguito a questa narrazione, si rompe il
dialogo di Dio-Jahvè con l’uomo e la donna, ed inizia un monologo. Jahvè si rivolge alla donna e parla prima
dei dolori del parto, che d’ora in poi l’accompagneranno: "Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con
dolore partorirai figli..." (Gen 3,16).
A ciò fa seguito l’espressione che caratterizza il futuro rapporto di entrambi, dell’uomo e della donna: "Verso
tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà" ( Gen 3,16 ).
2. Queste parole, al pari di quelle di Genesi 2,24, hanno un carattere prospettico. L’incisiva formulazione di
Genesi 3,16 sembra riguardare il complesso dei fatti, che in certo modo sono emersi già nell’originaria
esperienza della vergogna, e che successivamente si manifesteranno in tutta l’esperienza interiore dell’uomo
"storico". La storia delle coscienze e dei cuori umani avrà in sé la continua conferma delle parole contenute
in Genesi 3,16. Le parole pronunziate al principio sembrano riferirsi ad una particolare "menomazione" della
donna nei confronti dell’uomo. Ma non vi è motivo per intenderla come una menomazione o una
disuguaglianza sociale. Immediatamente invece l’espressione: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti
dominerà" indica un’altra forma di disuguaglianza, che la donna risentirà come mancanza di piena unità
appunto nel vasto contesto dell’unione con l’uomo, alla quale tutti e due sono stati chiamati secondo Genesi
2,24.
3. Le parole di Dio-Jahvè: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà" ( Gen 3,16 ) non
riguardano esclusivamente il momento dell’unione dell’uomo e della donna, quando entrambi si uniscono
così da diventare una sola carne (cf. Gen 2,24 ), ma si riferiscono all’ampio contesto dei rapporti anche
indiretti dell’unione coniugale nel suo insieme. Per la prima volta l’uomo viene qui definito quale "marito".
Nell’intero contesto della narrazione jahvista tali parole intendono soprattutto una infrazione, una
fondamentale perdita della primitiva comunità-comunione di persone. Questa avrebbe dovuto render
vicendevolmente felici l’uomo e la donna mediante la ricerca di una semplice e pura unione nell’umanità,
mediante una reciproca offerta di se stessi, cioè l’esperienza del dono della persona espresso con l’anima e
con il corpo, con la mascolinità e la femminilità - "carne dalla mia carne"( Gen 2,23 ) -, ed infine mediante la
subordinazione di tale unione alla benedizione della fecondità con la "procreazione".
4. Sembra quindi che nelle parole rivolte da Dio-Jahvè alla donna, si trovi una risonanza più profonda della
vergogna, che entrambi cominciarono a sperimentare dopo la rottura dell’originaria Alleanza con Dio. Vi
troviamo, inoltre, una più piena motivazione di tale vergogna. In modo molto discreto, e nondimeno
abbastanza decifrabile ed espressivo, Genesi 3,16 attesta come quella originaria beatificante unione
coniugale delle persone sarà deformata nel cuore dell’uomo dalla concupiscenza. Queste parole sono
direttamente rivolte alla donna, ma si riferiscono all’uomo, o piuttosto a tutti e due insieme.
5. Già l’analisi di Genesi 3,7, fatta in precedenza, ha dimostrato che nella nuova situazione, dopo la rottura
dell’originaria Alleanza con Dio, l’uomo e la donna si trovarono fra loro, anziché uniti, maggiormente divisi
o addirittura contrapposti a causa della loro mascolinità e femminilità. Il racconto biblico, mettendo in rilievo
l’impulso istintivo che aveva spinto entrambi a coprire i loro corpi, descrive al tempo stesso la situazione in

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cui l’uomo, come maschio o femmina - prima era piuttosto maschio e femmina - si sente maggiormente
estraniato dal corpo, come dalla sorgente della originaria unione nell’umanità ("carne dalla mia carne"), e più
contrapposto all’altro proprio in base al corpo e al sesso. Tale contrapposizione non distrugge né esclude
l’unione coniugale voluta dal Creatore (cf. Gen 2,24 ), né i suoi effetti procreativi; ma conferisce
all’attuazione di questa unione un’altra direzione, che sarà propria dell’uomo della concupiscenza. Di ciò
parla appunto Genesi 3,16.
La donna, il cui "istinto sarà verso il (proprio) marito" ( Gen 3,16 ), e l’uomo che risponde a tale istinto,
come leggiamo: "ti dominerà", formano indubbiamente la stessa coppia umana, lo stesso matrimonio di
Genesi 2,24, anzi, la stessa comunità di persone: tuttavia, sono ormai qualcosa di diverso. Essi non sono più
soltanto chiamati all’unione e unità, ma anche minacciati dall’insaziabilità di quell’unione e unità, che non
cessa di attrarre l’uomo e la donna proprio perché sono persone, chiamate dall’eternità ad esistere "in
comunione". Alla luce del racconto biblico, il pudore sessuale ha il suo profondo significato, che è collegato
appunto con l’inappagamento dell’aspirazione a realizzare nell’"unione coniugale del corpo" (cf. Gen 2,24 )
la reciproca comunione delle persone.
6. Tutto ciò sembra confermare, sotto vari aspetti, che alla base della vergogna, di cui l’uomo "storico" è
divenuto partecipe, sta la triplice concupiscenza, di cui tratta la prima Lettera di Giovanni 2,16: non
solamente la concupiscenza della carne, ma anche "la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita".
L’espressione relativa al "dominio" ("egli ti dominerà"), di cui leggiamo in Genesi 3,16, non indica forse
quest’ultima forma di concupiscenza? Il dominio "su" l’altro - dell’uomo sulla donna - non cambia forse
essenzialmente la struttura di comunione nella relazione interpersonale? Non traspone forse nella dimensione
di tale struttura qualcosa che fa dell’essere umano un oggetto, in certo senso concupiscibile dagli occhi?
Ecco gli interrogativi che nascono dalla riflessione sulle parole di Dio-Jahvè secondo Genesi 3,16. Quelle
parole, pronunciate quasi alla soglia della storia umana dopo il peccato originale, ci svelano non soltanto la
situazione esteriore dell’uomo e della donna, ma ci consentono anche di penetrare all’interno dei profondi
misteri del loro cuore.

Mercoledì, 25 giugno 1980


La triplice concupiscenza limita il significato sponsale del corpo
1. L’analisi che abbiamo fatta durante la precedente riflessione era incentrata sulle seguenti parole di Genesi
3,16, rivolte da Dio-Jahvè alla prima donna dopo il peccato originale: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto,
ma egli ti dominerà" (Gen 3,16). Siamo giunti a concludere che queste parole contengono un adeguato
chiarimento ed una profonda interpretazione della vergogna originaria (cf. Gen 3,7), divenuta parte
dell’uomo e della donna insieme alla concupiscenza. La spiegazione di questa vergogna non va cercata nel
corpo stesso, nella sessualità somatica di entrambi, ma risale alle trasformazioni più profonde subite dallo
spirito umano. Proprio questo spirito è particolarmente conscio di quanto insaziabile esso sia della mutua
unità tra l’uomo e la donna. E tale coscienza, per così dire, ne fa colpa al corpo, gli toglie la semplicità e
purezza del significato connesso all’innocenza originaria dell’essere umano. In rapporto a tale coscienza, la
vergogna è un’esperienza secondaria: se da un lato essa rivela il momento della concupiscenza, al tempo
stesso può premunire dalle conseguenze della triplice componente della concupiscenza. Si può perfino dire
che l’uomo e la donna, attraverso la vergogna, quasi permangono nello stato dell’innocenza originaria. Di
continuo, infatti, prendono coscienza del significato sponsale del corpo e tendono a tutelarlo, per così dire,
dalla concupiscenza, così come cercano di mantenere il valore della comunione, ossia dell’unione delle
persone nell’"unità del corpo".
2. Genesi 2,24 parla con discrezione ma anche con chiarezza dell’"unione dei corpi" nel senso dell’autentica
unione delle persone: "L’uomo... si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne"; e dal contesto risulta
che questa unione proviene da una scelta, dato che l’uomo "abbandona" padre e madre per unirsi a sua
moglie. Una siffatta unione delle persone comporta che esse diventino "una sola carne". Partendo da questa
espressione "sacramentale", che corrisponde alla comunione delle persone - dell’uomo e della donna - nella
loro originaria chiamata all’unione coniugale, possiamo meglio comprendere il messaggio proprio di Genesi
3, 16; possiamo cioè stabilire e quasi ricostruire in che cosa consista lo squilibrio, anzi la peculiare
deformazione dell’originario rapporto interpersonale di comunione, a cui alludono le parole "sacramentali"
di Genesi 2,24.

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3. Si può quindi dire - approfondendo Genesi 3,16 - che mentre da una parte il "corpo", costituito nell’unità
del soggetto personale, non cessa di stimolare i desideri dell’unione personale, proprio a motivo della
mascolinità e femminilità ("verso tuo marito sarà il tuo istinto"), dall’altra e al tempo stesso la concupiscenza
indirizza a modo suo questi desideri; ciò viene confermato dalla espressione: "Egli ti dominerà". La
concupiscenza della carne indirizza però tali desideri verso l’appagamento del corpo, spesso a prezzo di
un’autentica e piena comunione delle persone. In tal senso, si dovrebbe prestare attenzione alla maniera in
cui vengono distribuite le accentuazioni semantiche nei versetti di Genesi 3; infatti, pur essendo sparse,
rivelano coerenza interna. L’uomo è colui che sembra provar vergogna del proprio corpo con particolare
intensità: "Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto" (Gen 3,10); queste parole pongono in
rilievo il carattere davvero metafisico della vergogna. Al tempo stesso, l’uomo è colui per il quale la
vergogna, unita alla concupiscenza, diventerà impulso a "dominare" la donna ("egli dominerà"). In seguito,
l’esperienza di tale dominio si manifesta più direttamente nella donna come il desiderio insaziabile di
un’unione diversa. Dal momento in cui l’uomo la "domina", alla comunione delle persone - fatta di unità
spirituale dei due soggetti donatisi reciprocamente - succede un diverso rapporto vicendevole, cioè un
rapporto di possesso dell’altro a modo di oggetto del proprio desiderio. Se tale impulso prevale da parte
dell’uomo, gli istinti che la donna volge verso di lui, secondo l’espressione di Genesi 3,16, possono assumere
- e assumono - un carattere analogo. E forse talvolta prevengono il "desiderio" dell’uomo, o tendono perfino
a suscitarlo e a dargli impulso.
4. Il testo di Genesi 3,16 sembra indicare soprattutto l’uomo come colui che "desidera", analogamente al
testo di Matteo 5,27-28, che costituisce il punto di partenza per le presenti meditazioni; nondimeno, sia
l’uomo che la donna sono divenuti un "essere umano" soggetto alla concupiscenza. E perciò entrambi hanno
in sorte la vergogna, che con la sua profonda risonanza tocca l’intimo sia della personalità maschile che di
quella femminile, anche se in diverso modo. Ciò che apprendiamo da Genesi 3 ci consente appena di
delineare questa duplicità, ma anche solo gli accenni sono già molto significativi. Aggiungiamo che,
trattandosi di un testo così arcaico, esso è sorprendentemente eloquente e acuto.
5. Un’adeguata analisi di Genesi 3 conduce quindi alla conclusione, secondo cui la triplice concupiscenza,
inclusa quella del corpo, porta con sé una limitazione del significato sponsale del corpo stesso, di cui l’uomo
e la donna erano partecipi nello stato dell’innocenza originaria. Quando parliamo del significato del corpo,
facciamo anzitutto riferimento alla piena coscienza dell’essere umano, ma includiamo anche ogni effettiva
esperienza del corpo nella sua mascolinità e femminilità, e, in ogni caso, la costante predisposizione a tale
esperienza. Il "significato" del corpo non è soltanto qualcosa di concettuale. Su ciò abbiamo già
sufficientemente richiamato l’attenzione delle precedenti analisi. Il "significato del corpo" è ad un tempo ciò
che determina l’atteggiamento: è il mondo di vivere il corpo. È la misura che l’uomo interiore, cioè quel
"cuore" al quale si richiama Cristo nel discorso della montagna, applica al corpo umano riguardo alla sua
mascolinità/femminilità (dunque riguardo alla sua sessualità).
Quel "significato" non modifica la realtà in se stessa, ciò che il corpo umano è e non cessa di essere nella
sessualità che gli è propria, indipendentemente dagli stati della nostra coscienza e delle nostre esperienze.
Tuttavia, tale significato puramente oggettivo del corpo e del sesso, al di fuori del sistema dei reali concreti
rapporti interpersonali tra l’uomo e la donna, è in un certo senso "storico". Noi, invece, nella presente analisi
- in conformità con le fonti bibliche - teniamo conto della storicità dell’uomo (anche per il fatto che
prendiamo le mosse dalla sua preistoria teologica). Si tratta qui, ovviamente, di una dimensione interiore, che
sfugge ai criteri esterni della storicità, ma che- tuttavia può essere considerata "storica". Anzi, essa sta
proprio alla base di tutti i fatti, che costituiscono la storia dell’uomo - anche la storia del peccato e della
salvezza - e così rivelano la profondità e la radice stessa della sua storicità.
6. Quando, in questo vasto contesto, parliamo della concupiscenza come di limitazione, infrazione o
addirittura deformazione del significato sponsale del corpo, ci riportiamo soprattutto alle precedenti analisi,
che riguardavano lo stato della innocenza originaria, cioè la preistoria teologica dell’uomo. Al tempo stesso,
abbiamo in mente la misura che l’uomo "storico", con il suo "cuore", applica al proprio corpo riguardo alla
sessualità maschile/femminile. Questa misura non è qualcosa di esclusivamente concettuale: è ciò che
determina gli atteggiamenti e decide in linea di massima del modo di vivere del corpo.
Certamente, a ciò si riferisce il Cristo nel Discorso della Montagna. Noi cerchiamo qui di accostare le parole
tratte da Matteo 5,27-28 alla soglia stessa della storia teologica dell’uomo, prendendole quindi in
considerazione già nel contesto di Genesi 3. La concupiscenza come limitazione, infrazione o addirittura

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deformazione del significato sponsale del corpo, può esser verificata in maniera particolarmente chiara
(nonostante la concisione del racconto biblico) nei due progenitori, Adamo e Eva; grazie a loro abbiamo
potuto trovare il significato sponsale del corpo e riscoprire in che cosa esso consista come misura del "cuore"
umano, tale da plasmare la forma originaria della comunione delle persone. Se nella loro esperienza
personale (che il testo biblico ci permette di seguire) quella forma originaria ha subito squilibrio e
deformazione - come abbiamo cercato di dimostrare attraverso l’analisi della vergogna - doveva subire una
deformazione anche il significato sponsale del corpo, che nella situazione della innocenza originaria
costituiva la misura del cuore di entrambi, dell’uomo e della donna. Se riusciremo a ricostruire in che cosa
consista questa deformazione, avremo pure la risposta alla nostra domanda: cioè in che cosa consista la
concupiscenza della carne e che cosa costituisca la sua specificità teologica ed insieme antropologica.
Sembra che una risposta teologicamente ed antropologicamente adeguata, importante per quel che concerne
il significato delle parole di Cristo nel discorso della Montagna, possa già essere ricavata dal contesto di
Genesi 3 e dall’intero racconto jahvista, che in precedenza ci ha permesso di chiarire il significato sponsale
del corpo umano.

Mercoledì, 23 luglio 1980


La concupiscenza del corpo deforma i rapporti uomo-donna
1. Il corpo umano nella sua originaria mascolinità e femminilità, secondo il mistero della creazione - come
sappiamo dall’analisi di Genesi 2,23-25 - non è soltanto fonte di fecondità, cioè di procreazione, ma fin "dal
principio" ha un carattere sponsale: cioè, esso è capace di esprimere l’amore con cui l’uomo-persona diventa
dono avverando così il profondo senso del proprio essere e del proprio esistere. In questa sua peculiarità, il
corpo è l’espressione dello spirito ed è chiamato, nel mistero stesso della creazione, ad esistere nella
comunione delle persone "ad immagine di Dio". Orbene, la concupiscenza "che viene dal mondo" - si tratta
qui direttamente della concupiscenza del corpo - limita e deforma quell’oggettivo modo di esistere del corpo,
di cui l’uomo è divenuto partecipe. Il "cuore umano sperimenta il grado di questa limitazione o
deformazione, soprattutto nell’ambito dei rapporti reciproci uomo-donna. Proprio nell’esperienza del "cuore"
la femminilità e la mascolinità, nei loro vicendevoli rapporti, sembrano non esser più l’espressione dello
spirito che tende alla comunione personale, e restano soltanto oggetto di attrazione, in certo senso come
avviene "nel mondo" degli esseri viventi che, al pari dell’uomo, hanno ricevuto la benedizione della
fecondità (cf. Gen 1).
2. Tale somiglianza è certamente contenuta nell’opera della creazione; lo conferma anche Genesi 2 e
particolarmente il versetto 24. Tuttavia, ciò che costituiva il substrato "naturale", somatico e sessuale, di
quella attrazione, già nel mistero della creazione esprimeva pienamente la chiamata dell’uomo e della donna
alla comunione personale; invece, dopo il peccato, nella nuova situazione di cui parla Genesi 3, tale
espressione si indebolì e si offuscò: come se venisse meno nel delinearsi dei rapporti reciproci, oppure come
se fosse respinta su un altro piano. Il substrato naturale e somatico della sessualità umana si manifestò come
una forza quasi autogena, contrassegnata da una certa "costrizione del corpo", operante secondo una propria
dinamica, che limita l’espressione dello spirito e l’esperienza dello scambio del dono della persona. Le
parole di Genesi 3,15 rivolte alla prima donna sembrano indicarlo in modo abbastanza chiaro ("verso tuo
marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà").
3. Il corpo umano nella sua mascolinità-femminilità ha quasi perduto la capacità di esprimere tale amore, in
cui l’uomo-persona diventa dono, conforme alla più profonda struttura e finalità della sua esistenza
personale, come abbiamo già osservato nelle precedenti analisi. Se qui non formuliamo questo giudizio in
modo assoluto e vi aggiungiamo l’espressione avverbiale "quasi", lo facciamo perché la dimensione del dono
- cioè la capacità di esprimere l’amore con cui l’uomo, mediante la sua femminilità o mascolinità, diventa
dono per l’altro - in qualche misura non ha cessato di permeare e di plasmare l’amore che nasce nel cuore
umano. Il significato sponsale del corpo non è diventato totalmente estraneo a quel cuore: non vi è stato
totalmente soffocato da parte della concupiscenza, ma soltanto abitualmente minacciato. Il "cuore" è
diventato luogo di combattimento tra l’amore e la concupiscenza. Quanto più la concupiscenza domina il
cuore, tanto meno questo sperimenta il significato sponsale del corpo, e tanto meno diviene sensibile al dono
della persona, che nei rapporti reciproci dell’uomo e della donna esprime appunto quel significato.

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Certamente, anche quel "desiderio" di cui Cristo parla in Matteo 5, 27-28, appare nel cuore umano in forme
molteplici: non sempre è evidente e palese, talvolta è nascosto, così che si fa chiamare "amore", sebbene
muti il suo autentico profilo e oscuri la limpidezza del dono nel rapporto reciproco delle persone. Vuol forse
dire, questo, che abbiamo il dovere di diffidare del cuore umano? No! Ciò vuol soltanto dire che dobbiamo
mantenerne il controllo.
4. L’immagine della concupiscenza del corpo, che emerge dalla presente analisi, ha un chiaro riferimento
all’immagine della persona, con la quale abbiamo collegato le nostre precedenti riflessioni sul tema del
significato sponsale del corpo. L’uomo infatti come persona è in terra "la sola creatura che Iddio ha voluto
per se stessa" e, in pari tempo, colui che non può "ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di
sé" 40 . La concupiscenza in generale - e la concupiscenza del corpo in particolare - colpisce appunto questo
"dono sincero": sottrae all’uomo, si potrebbe dire, la dignità del dono, che viene espressa dal suo corpo
mediante la femminilità e la mascolinità, e in certo senso "depersonalizza" l’uomo facendolo oggetto "per
l’altro". Invece di essere "insieme con l’altro" - soggetto nell’unità, anzi nella sacramentale "unità del corpo"
- l’uomo diviene oggetto per l’uomo: la femmina per il maschio e viceversa. Le parole di Genesi 3,16 - e,
prima ancora, di Genesi 3,7 - lo attestano, con tutta la chiarezza del contrasto, rispetto a Genesi 2,23-25.
5. Infrangendo la dimensione del dono reciproco dell’uomo e della donna, la concupiscenza mette anche in
dubbio il fatto che ognuno di essi è voluto dal Creatore "per se stesso". La soggettività della persona cede, in
un certo senso, all’oggettività del corpo. A motivo del corpo l’uomo diviene oggetto per l’uomo: la femmina
per il maschio e viceversa. La concupiscenza significa, per così dire, che i rapporti personali dell’uomo e
della donna vengono unilateralmente e riduttivamente vincolati al corpo e al sesso, nel senso che tali rapporti
divengono quasi inabili ad accogliere il dono reciproco della persona. Non contengono né trattano la
femminilità-mascolinità secondo la piena dimensione della soggettività personale, non costituiscono
l’espressione della comunione, ma permangono unilateralmente determinati "dal sesso".
6. La concupiscenza comporta la perdita della libertà interiore del dono. Il significato sponsale del corpo
umano è legato appunto a questa libertà. L’uomo può diventare dono - ossia l’uomo e la donna possono
esistere nel rapporto del reciproco dono di sé - se ognuno di loro domina se stesso. La concupiscenza, che si
manifesta come una "costrizione "sui generis" del corpo", limita interiormente e restringe l’autodominio di
sé, e per ciò stesso, in certo senso, rende impossibile la libertà interiore del dono. Insieme a ciò, subisce
offuscamento anche la bellezza, che il corpo umano possiede nel suo aspetto maschile e femminile, come
espressione dello spirito. Resta il corpo come oggetto di concupiscenza e quindi come "terreno di
appropriazione" dell’altro essere umano. La concupiscenza, di per sé, non è capace di promuovere l’unione
come comunione di persone. Da sola, essa non unisce, ma si appropria. Il rapporto del dono si muta nel
rapporto di appropriazione.
A questo punto, interrompiamo oggi le nostre riflessioni. L’ultimo problema qui trattato è di così grande
importanza, ed è inoltre tanto sottile, dal punto di vista della differenza tra l’autentico amore (cioè tra la
"comunione delle persone") e la concupiscenza, che dovremo riprenderlo nel nostro prossimo incontro.

Mercoledì, 30 luglio 1980


Nella volontà del dono reciproco la comunione delle persone
1. Le riflessioni che andiamo svolgendo nell’attuale ciclo sono inerenti alle parole, che Cristo pronunziò nel
Discorso della montagna sul "desiderio" della donna da parte dell’uomo. Nel tentativo di procedere a un
esame di fondo su ciò che caratterizza l’"uomo della concupiscenza", siamo nuovamente risaliti al Libro
della Genesi. Quivi, la situazione venutasi a creare nel rapporto reciproco dell’uomo e della donna è
delineata con grande finezza. Le singole frasi di Genesi 3 sono molto eloquenti. Le parole di Dio-Jahvè
rivolte alla donna in Genesi 3,16: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà", sembrano
40. Gaudium et Spes, 24: "Anzi il Signore Gesù quando prega il Padre, perché "tutti siano una cosa sola, come io e te
siamo una cosa sola" [Gv 17,21-22] mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una
certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa
similitudine manifesta che l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa, non possa
ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé".

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rivelare, ad un’analisi approfondita, in che modo il rapporto di reciproco dono, che esisteva tra loro nello
stato di innocenza originaria, si sia mutato, dopo il peccato originale, in un rapporto di reciproca
appropriazione.
Se l’uomo si rapporta alla donna così da considerarla soltanto come oggetto di cui appropriarsi e non come
dono, in pari tempo condanna se stesso a diventare anch’egli, per lei, soltanto oggetto di appropriazione, e
non dono. Pare che le parole di Genesi 3,16 trattino di tale rapporto bilaterale, sebbene direttamente sia detto
soltanto: "egli ti dominerà". Inoltre, nell’appropriazione unilaterale (che indirettamente è bilaterale)
scompare la struttura della comunione tra le persone; entrambi gli esseri umani divengono quasi incapaci di
attingere la misura interiore del cuore, volta verso la libertà del dono e il significato sponsale del corpo, che
le è intrinseco. Le parole di Genesi 3,16 sembrano suggerire che ciò avviene piuttosto a spese della donna, e
che in ogni caso essa lo sente più dell’uomo.
2. Almeno a questo particolare vale la pena di volgere ora l’attenzione. Le parole di Dio-Jahvè secondo
Genesi 3,16: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà", e quelle di Cristo secondo Matteo
5,27-28: "Chiunque guarda una donna per desiderarla...", permettono di scorgere un certo parallelismo.
Forse, qui non si tratta del fatto che soprattutto la donna diviene oggetto di "desiderio" da parte dell’uomo,
ma piuttosto che - come già in precedenza abbiamo messo in rilievo - l’uomo "dal principio" avrebbe dovuto
essere custode della reciprocità del dono e del suo autentico equilibrio. L’analisi di quel "principio" ( Gen
2,23-25 ) mostra appunto la responsabilità dell’uomo nell’accogliere la femminilità quale dono e nel
mutuarla in un vicendevole, bilaterale contraccambio. Con ciò è in aperto contrasto il ritrarre dalla donna il
proprio dono mediante la concupiscenza. Sebbene il mantenimento dell’equilibrio del dono sembri esser
stato affidato ad entrambi, spetta soprattutto all’uomo una speciale responsabilità, come se da lui
maggiormente dipendesse che l’equilibrio sia mantenuto oppure infranto o perfino - se già infranto -
eventualmente ristabilito. Certamente, la diversità dei ruoli secondo questi enunciati, ai quali facciamo qui
riferimento come a testi-chiave, era anche dettata dall’emarginazione sociale della donna nelle condizioni di
allora (e la S. Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento ne fornisce sufficienti prove); nondimeno, vi è
racchiusa una verità, che ha il suo peso indipendentemente da specifici condizionamenti dovuti agli usi di
quella determinata situazione storica.
3. La concupiscenza fa sì che il corpo divenga quasi "terreno" di appropriazione dell’altra persona. Com’è
facile intendere, ciò comporta la perdita del significato sponsale del corpo. Ed insieme a ciò acquista un altro
significato anche la reciproca "appartenenza" delle persone, che unendosi così da essere a "una sola carne" (
Gen 2,24 ) vengono in pari tempo chiamate ad appartenere l’una all’altra. La particolare dimensione
dell’unione personale dell’uomo e della donna attraverso l’amore si esprime nelle parole "mio... mia". Questi
pronomi, che da sempre appartengono al linguaggio dell’amore umano, ricorrono, spesso nelle strofe del
Cantico dei Cantici e anche in altri testi biblici.(cf. ex. gr. Ct 1,9 . 13 . 14 . 15 . 16 ; Ct 2,2 . 3 . 8 . 9 . 10 . 13 .
14 . 16 . 17 ; Ct 3,2 . 4 . 5 ; Ct 4,1 . 10 ; Ct 5,1 . 2 . 4 ; Ct 6,2 . 3 . 4 . 9 ; Ct 7,11 ; Ct 8,12 . 14 ; cf. ex. gr. Ez
16,8 ; Os 2,18 ; Tb 8,7 ). Sono pronomi che nel loro significato "materiale" denotano un rapporto di
possesso, ma nel nostro caso indicano l’analogia personale di tale rapporto. L’appartenenza reciproca
dell’uomo e della donna, specialmente quando si appartengono come coniugi "nell’unità del corpo", si forma
secondo questa analogia personale. L’analogia - come è noto - indica ad un tempo la somiglianza ed anche
la carenza di identità (cioè una sostanziale dissomiglianza). Possiamo parlare dell’appartenenza reciproca
delle persone soltanto se prendiamo in considerazione una tale analogia. Infatti, nel suo significato originario
e specifico, l’appartenenza presuppone il rapporto del soggetto all’oggetto: rapporto di possesso e di
proprietà. È un rapporto non soltanto oggettivo, ma soprattutto "materiale": appartenenza di qualcosa, quindi
di un oggetto a qualcuno.
4. I termini "mio... mia", nell’eterno linguaggio dell’amore umano, non hanno - certamente - tale significato.
Essi indicano la reciprocità della donazione, esprimono l’equilibrio del dono - forse proprio questo in primo
luogo - cioè quell’equilibrio del dono, in cui si instaura la reciproca communio personarum. E se questa
viene instaurata mediante il dono reciproco della mascolinità e della femminilità, si conserva in essa anche il
significato sponsale del corpo. Invero, le parole "mio... mia" nel linguaggio d’amore sembrano una radicale
negazione di appartenenza nel senso in cui un oggetto-cosa materiale appartiene al soggetto-persona.
L’analogia conserva la sua funzione finché non cade nel significato suesposto. La triplice concupiscenza, ed
in particolare la concupiscenza della carne, toglie alla reciproca appartenenza dell’uomo e della donna la
dimensione che è propria dell’analogia personale, in cui i termini "mio... mia" conservano il loro significato

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essenziale. Tale significato essenziale sta al di fuori della "legge di proprietà", al di fuori del significato
dell’"oggetto di possesso"; la concupiscenza, invece, è orientata verso quest’ultimo significato. Dal
possedere, l’ulteriore passo va verso il "godimento": l’oggetto che posseggo acquista per me un certo
significato in quanto ne dispongo e me ne servo, lo uso. È evidente che l’analogia personale
dell’appartenenza si contrappone decisamente a tale significato. E questa opposizione è un segno che ciò che
nel rapporto reciproco dell’uomo e della donna "viene dal Padre" conserva la sua persistenza e continuità nei
confronti di ciò che viene "dal mondo". Tuttavia, la concupiscenza di per sé spinge l’uomo verso il possesso
dell’altro come oggetto, lo spinge verso il "godimento", che porta con sé la negazione del significato
sponsale del corpo. Nella sua essenza, il dono disinteressato viene escluso dal "godimento" egoistico. Non ne
parlano forse già le parole di Dio-Jahvè rivolte alla donna in Genesi 3,16?
5. Secondo la prima lettera di Giovanni 2,16, la concupiscenza mostra soprattutto lo stato dello spirito
umano. Anche la concupiscenza della carne attesta in primo luogo lo stato dello spirito umano. A questo
problema converrà dedicare un’ulteriore analisi.
Applicando la teologia giovannea al terreno delle esperienze descritte in Genesi 3, come pure alle parole
pronunziate da Cristo nel Discorso della montagna ( Mt 5,27-28 ), ritroviamo, per così dire, una dimensione
concreta di quella opposizione che - insieme al peccato - nacque nel cuore umano tra lo spirito e il corpo. Le
sue conseguenze si fanno sentire nel rapporto reciproco delle persone, la cui unità nell’umanità è determinata
fin dal principio dal fatto che sono uomo e donna. Da quando nell’uomo si è installata "un’altra legge, che
muove guerra alla legge della mente" ( Rm 7,23 ), esiste quasi un costante pericolo di tale modo di vedere, di
valutare, di amare, così che "il desiderio del corpo" si manifesta più potente del "desiderio della mente". Ed è
proprio questa verità circa l’uomo, questa componente antropologica che dobbiamo tener sempre presente, se
vogliamo comprendere sino in fondo l’appello rivolto da Cristo al cuore umano nel Discorso della montagna.

Mercoledì, 6 agosto 1980


Il discorso della Montagna agli uomini del nostro tempo
1. Proseguendo il nostro ciclo, riprendiamo oggi il Discorso della montagna, e precisamente l’enunciato:
"Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,28).
Nel suo colloquio con i farisei, Gesù, facendo riferimento al "principio", (cf. le analisi precedenti.) pronunciò
le seguenti parole riguardo al libello di ripudio: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di
ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così" ( Mt 19,8 ). Questa frase comprende indubbiamente
un’accusa. "La durezza di cuore" (Il termine greco sklerokardia è stato foggiato dai Settanta per esprimere
ciè che nell’ebraico significava: "incirconcisione di cuore" [cf. ex. gr Dt 10,16 ; Ger 4,4 ; Sir 3,26ss .] e che,
nella traduzione letterale del Nuovo Testamento, appare una sola volta [ At 7,51 ]. La "incirconcisione"
significava il paganesimo", l’"impudicizia", la "distanza dall’Alleanza con Dio"; la "incirconcisione di
cuore" esprimeva l’indomita ostinazione nell’opporsi a Dio. Lo conferma l’apostrofe del diacono Stefano:
"O gente testarda e pagana nel cuore [letteralmente: non circoncisa di cuore]... voi sempre opponete
resistenza allo Spirito Santo: come i vostri padri, così anche voi" [ At 7,51 ]. Occorre dunque intendere la
"durezza di cuore" in tale contesto filologico) indica ciò che, secondo l’ethos del popolo dell’Antico
Testamento, aveva fondato la situazione contraria all’originario disegno di Dio-Jahvè secondo Genesi 2,24.
Ed è là che bisogna cercare la chiave per interpretare tutta la legislazione di Israele nell’ambito del
matrimonio e, in senso più lato, nell’insieme dei rapporti tra uomo e donna. Parlando della "durezza di
cuore", Cristo accusa, per così dire, l’intero "soggetto interiore" che è responsabile della deformazione della
Legge. Nel Discorso della montagna ( Mt 5,27-28 ), egli fa anche un richiamo al "cuore", ma le parole qui
pronunciate non sembrano soltanto di accusa.
2. Dobbiamo riflettere ancora una volta su di esse, inserendole il più possibile nella loro dimensione
"storica". L’analisi finora fatta, mirante a mettere a fuoco "l’uomo della concupiscenza" nel suo momento
genetico, quasi nel punto iniziale della sua storia intrecciata con la teologia, costituisce un’ampia
introduzione soprattutto antropologica, al lavoro che ancora occorre intraprendere. La successiva tappa della
nostra analisi dovrà essere di carattere etico. Il Discorso della montagna, ed in particolare quel passo che
abbiamo scelto come centro delle nostre analisi, fa parte della proclamazione del nuovo ethos: l’ethos del

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Vangelo. Nell’insegnamento di Cristo, esso è profondamente connesso con la coscienza del "principio",
quindi con il mistero della creazione nella sua originaria semplicità e ricchezza; e, al tempo stesso, l’ethos,
che Cristo proclama nel Discorso della montagna, è realisticamente indirizzato all’"uomo storico", divenuto
l’uomo della concupiscenza. La triplice concupiscenza, infatti, è retaggio di tutta l’umanità, e il "cuore"
umano realmente ne partecipa. Cristo, che sa "quello che c’è in ogni uomo" ( Gv 2,25 ; cf. Ap 2,23 ; At 1,24 ),
non può parlare altrimenti, se non con una simile consapevolezza. Da questo punto di vista, nelle parole di
Matteo 5,27-28 non prevale l’accusa ma il giudizio: un giudizio realistico sul cuore umano, un giudizio che
da una parte ha un fondamento antropologico, e, dall’altra, un carattere direttamente etico. Per l’ethos del
Vangelo è un giudizio costitutivo.
3. Nel Discorso della montagna, Cristo si rivolge direttamente all’uomo che appartiene ad una società ben
definita. Anche il Maestro appartiene a quella società, a quel popolo. Quindi bisogna cercare nelle parole di
Cristo un riferimento ai fatti, alle situazioni, alle istituzioni, alle quali era quotidianamente familiarizzato.
Bisogna che sottoponiamo tali riferimenti ad un’analisi almeno sommaria, affinché emerga più chiaramente
il significato etico delle parole di Matteo 5,27-28. Tuttavia, con queste parole, Cristo si rivolge anche, in
modo indiretto ma reale, ad ogni uomo "storico" (intendendo questo aggettivo soprattutto in funzione
teologica). E quest’uomo è proprio l’"uomo della concupiscenza", il cui mistero e il cui cuore è noto a Cristo
("egli infatti sapeva quello che c’è in ogni uomo") ( Gv 2,25 ). Le parole del Discorso della montagna ci
consentono di stabilire un contatto con l’esperienza interiore di quest’uomo quasi ad ogni latitudine e
longitudine geografica, nelle varie epoche, nei diversi condizionamenti sociali e culturali. L’uomo del nostro
tempo si sente chiamato per nome da questo enunciato di Cristo, non meno dell’uomo di "allora", a cui il
Maestro direttamente si rivolgeva.
4. In ciò risiede l’universalità del Vangelo, che non è affatto una generalizzazione. Forse proprio in questo
enunciato di Cristo, che qui sottoponiamo ad analisi, ciò si manifesta con particolare chiarezza. In virtù di
questo enunciato, l’uomo di ogni tempo e di ogni luogo si sente chiamato, in modo adeguato, concreto,
irripetibile: perché appunto Cristo fa appello al "cuore" umano, che non può essere soggetto ad alcuna
generalizzazione. Con la categoria del "cuore", ognuno è individuato singolarmente ancor più che per nome,
viene raggiunto in ciò che lo determina in modo unico e irripetibile, è definito nella sua umanità
"dall’interno".
5. L’immagine dell’uomo della concupiscenza concerne anzitutto il suo intimo ( Mt 15,19-20 ). La storia del
"cuore" umano dopo il peccato originale è scritta sotto la pressione della triplice concupiscenza, a cui si
collega anche la più profonda immagine dell’ethos nei suoi vari documenti storici. Tuttavia, quell’intimo è
pure la forza che decide del comportamento umano "esteriore", ed anche della forma di molteplici strutture e
istituzioni a livello di vita sociale. Se da queste strutture ed istituzioni deduciamo i contenuti dell’ ethos, nelle
sue varie formulazioni storiche, sempre incontriamo questo aspetto intimo, proprio dell’immagine interiore
dell’uomo. Questa infatti è la componente più essenziale. Le parole di Cristo nel Discorso della montagna, e
specialmente quelle di Matteo 5,27-28, lo indicano in modo inequivocabile. Nessuno studio sull’ethos umano
può passarvi accanto con indifferenza.
Perciò, nelle nostre successive riflessioni, cercheremo di sottoporre ad un’analisi più particolareggiata
quell’enunciato di Cristo, che dice: "Avete inteso che fu detto: Non commetterete adulterio; ma io vi dico:
chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (oppure: "già
l’ha resa adultera nel suo cuore").
Per comprendere meglio questo testo, analizzeremo prima le sue singole parti, al fine di ottenere poi una più
approfondita visione globale. Prenderemo in considerazione non soltanto i destinatari di allora che hanno
ascoltato con i propri orecchi il Discorso della montagna, ma anche, per quanto possibile, quelli
contemporanei, gli uomini del nostro tempo.

Mercoledì, 13 agosto 1980


Il contenuto del comandamento “non commettere adulterio”
1. L’analisi dell’affermazione di Cristo durante il Discorso della montagna, affermazione che si riferisce
all’"adulterio", e al "desiderio" che egli chiama "adulterio commesso nel cuore", bisogna svolgerla iniziando

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dalle prime parole. Cristo dice: "Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio..." ( Mt 5,27). Egli ha in
mente il comandamento di Dio, quello che nel Decalogo si trova al sesto posto, e fa parte della cosiddetta
seconda Tavola della Legge, che Mosè aveva ottenuto da Dio-Jahvè.
Poniamoci dapprima dal punto di vista dei diretti ascoltatori del Discorso della montagna, di quelli che hanno
sentito le parole di Cristo. Essi sono figli e figlie del popolo eletto - popolo che da Dio-Jahvè stesso - aveva
ricevuto la "Legge", aveva ricevuto anche i "Profeti" i quali ripetutamente, lungo i secoli, avevano biasimato
proprio il rapporto mantenuto con quella Legge, le molteplici trasgressioni di essa. Anche Cristo parla di
simili trasgressioni. Ma ancor più Egli parla di una tale interpretazione umana della Legge, in cui si cancella
e sparisce il giusto significato del bene e del male, specificamente voluto dal Divino Legislatore. La legge
infatti è soprattutto un mezzo, mezzo indispensabile affinché "sovrabbondi la giustizia" (parole di Matteo
5,20, nell’antica traduzione). Cristo vuole che tale giustizia "superi quella degli scribi e dei farisei". Egli non
accetta l’interpretazione che lungo i secoli essi hanno dato all’autentico contenuto della Legge, in quanto
hanno sottoposto in certa misura tale contenuto, ossia il disegno e la volontà del Legislatore, alle svariate
debolezze ad ai limiti della volontà umana, derivanti appunto dalla triplice concupiscenza. Era questa una
interpretazione casistica, che si era sovrapposta all’originaria visione del bene e del male, collegata con la
Legge del Decalogo. Se Cristo tende alla trasformazione dell’ethos, lo fa soprattutto per recuperare la
fondamentale chiarezza dell’interpretazione: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti;
non sono venuto per abolire ma per dare compimento" ( Mt 5,17 ). Condizione del compimento è la giusta
comprensione. È questo si applica, tra l’altro, al comandamento: "non commettere adulterio".
2. Chi segue nelle pagine dell’Antico Testamento la storia del popolo eletto dai tempi di Abramo, vi troverà
abbondanti fatti che attestano come questo comandamento era messo in pratica e come, in seguito a tale
pratica veniva elaborata l’interpretazione casistica della legge. Prima di tutto è noto che la storia dell’Antico
Testamento è teatro della sistematica defezione dalla monogamia: il che per la comprensione del divieto:
"non commettere adulterio", doveva avere un significato fondamentale. L’abbandono della monogamia,
specialmente al tempo dei Patriarchi, era stato dettato dal desiderio della prole, di una numerosa prole.
Questo desiderio era così profondo, e la procreazione, quale fine essenziale del matrimonio, era così
evidente, che le mogli, le quali amavano i mariti, quando non erano in grado di dare loro la prole, chiedevano
di loro iniziativa ai mariti, dai quali erano amate, di poter prendere "sulle proprie ginocchia", ossia di
accogliere la prole data alla vita da un’altra donna, ad esempio dalla serva, cioè dalla schiava. Così fu nel
caso di Sara riguardo ad Abramo (cf. Gen 16,2 ), oppure nel caso di Rachele riguardo a Giacobbe (cf. Gen
30,3 ).
Queste due narrazioni rispecchiano il clima morale in cui veniva praticato il Decalogo. Illustrano il modo in
cui l’ethos israelitico era preparato ad accogliere il comandamento "non commettere adulterio", e quale
applicazione trovava tale comandamento nella più antica tradizione di questo popolo. L’autorità dei
patriarchi era, di fatto, la più alta in Israele e possedeva un carattere religioso. Era strettamente legata
all’Alleanza ed alla Promessa.
3. Il comandamento "non commettere adulterio" non cambiò questa tradizione. Tutto indica che l’ulteriore
suo sviluppo non si limitava ai motivi (piuttosto eccezionali) che avevano guidato il comportamento di
Abramo e Sara, o di Giacobbe e Rachele. Se prendiamo come esempio i rappresentanti più illustri di Israele
dopo Mosè, i re di Israele Davide e Salomone, la descrizione della loro vita attesta lo stabilirsi della
poligamia effettiva, e ciò indubbiamente per motivi di concupiscenza.
Nella storia di Davide, il quale pure aveva più mogli, deve colpire non soltanto il fatto che avesse preso la
moglie di un suo suddito, ma anche la chiara coscienza d’aver commesso adulterio. Questo fatto, così come
la penitenza del re, sono descritti in modo dettagliato e suggestivo (cf. 2Sam 11,2-27 ). Per adulterio si
intende soltanto il possesso della moglie altrui, mentre non lo è il possesso di altre donne come mogli
accanto alla prima. Tutta la tradizione dell’Antica Alleanza indica che alla coscienza delle generazioni
susseguitesi nel popolo eletto, al loro ethos non è giunta mai l’esigenza effettiva della monogamia, quale
implicazione essenziale ed indispensabile del comandamento "non commettere adulterio".
4. Su questo sfondo bisogna anche intendere tutti gli sforzi che mirano ad introdurre il contenuto specifico
del comandamento "non commettere adulterio" nel quadro della legislazione promulgata. Lo confermano i
Libri della Bibbia, nei quali si trova ampiamente registrato l’insieme della legislazione antico-testamentaria.
Se si prende in considerazione la lettera di tale legislazione, risulta che essa lotta con l’adulterio in modo
deciso e senza riguardi, usando mezzi radicali, compresa la pena di morte (cf. Lv 20,10 ; Dt 22,22 ). Lo fa

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però sostenendo l’effettiva poligamia, anzi legalizzandola pienamente, almeno in modo indiretto. Così
dunque l’adulterio è combattuto solo nei limiti determinati e nell’ambito delle premesse definitive, che
compongono l’essenziale forma dell’ethos antico-testamentario.
Per adulterio vi si intende soprattutto (e forse esclusivamente) l’infrazione del diritto di proprietà dell’uomo
nei riguardi di ogni donna che sia la propria moglie legale (di solito: una tra tante); non si intende invece
l’adulterio come appare dal punto di vita della monogamia stabilita dal Creatore. Sappiamo, ormai, che
Cristo fece riferimento al "principio" proprio riguardo a questo argomento (cf. Mt 19,8 ).
5. Molto significativa è, inoltre, la circostanza in cui Cristo prende le parti della donna sorpresa in adulterio e
la difende dalla lapidazione. Egli dice agli accusatori: "Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra
contro di lei" ( Gv 8,7 ). Quando essi lasciano le pietre e si allontanano, dice alla donna: "Va’ e d’ora in poi
non peccare più" ( Gv 8,11 ). Cristo identifica dunque chiaramente l’adulterio con il peccato. Quando invece
si rivolge a coloro che volevano lapidare la donna adultera, non fa richiamo alle prescrizioni della legge
israelitica, ma esclusivamente alla coscienza. Il discernimento del bene e del male inscritto nelle coscienze
umane può mostrarsi più profondo e più corretto che non il contenuto di una norma legale.
Come abbiamo visto, la storia del Popolo di Dio nell’Antica Alleanza (che abbiamo cercato di illustrare
soltanto attraverso alcuni esempi) si svolgeva, in notevole misura, al di fuori del contenuto normativo
racchiuso da Dio nel comandamento "non commettere adulterio"; passava, per così dire, accanto ad esso.
Cristo desidera raddrizzare queste storture. Di qui le parole da Lui pronunciate nel Discorso della montagna.

Mercoledì, 20 agosto 1980


L’adulterio secondo la legge e nel linguaggio dei profeti
1. Quando Cristo, nel discorso della montagna, dice: "Avete inteso che fu detto: Non commetterete adulterio"
(Mt 5,27), Egli fa riferimento a ciò che ognuno dei suoi ascoltatori sapeva perfettamente ed a cui si sentiva
obbligato in virtù del comandamento di Dio-Jahvè. Tuttavia, la storia dell’Antico Testamento fa vedere che
sia la vita del popolo - unito a Dio-Jahvè da una particolare alleanza - sia la vita dei singoli uomini, si
discosta spesso da questo comandamento. Lo mostra anche un sommario sguardo gettato sulla legislazione,
di cui vi è una ricca documentazione nei Libri dell’Antico Testamento.
Le prescrizioni della legge antico-testamentaria erano molto severe. Esse erano anche molto
particolareggiate, e penetravano nei più minuziosi dettagli concreti della vita (cf. ex. gr Dt 21,10-13 ; Nm
30,7-16 ; Dt 24,1-4 ; 22,13-21 ; Lv 20,10-21 ecc .). Si può presumere che quanto più la legalizzazione della
poligamia effettiva si faceva evidente in questa legge, tanto più cresceva l’esigenza di sostenere le sue
dimensioni giuridiche e di premunire i suoi limiti legali. Di qui il grande numero di prescrizioni, ed anche la
severità delle pene previste dal legislatore per l’infrazione di tali norme. Sulla base delle analisi, che abbiamo
precedentemente svolto circa il riferimento che Cristo fa al "principio", nel suo discorso sulla dissolubilità
del matrimonio e sull’"atto di ripudio", è evidente che Egli vede con chiarezza la fondamentale
contraddizione che il diritto matrimoniale dell’Antico Testamento nascondeva in sé, accogliendo l’effettiva
poligamia, cioè l’istituzione delle concubine accanto alle mogli legali, oppure il diritto della convivenza con
la schiava. (Sebbene il Libro della Genesi presenti il matrimonio monogamico di Adamo, di Set e di Noè
come modello da imitare, e sembri condannare la bigamia che compare solamente tra i discendenti di Caino
[cf. Gen 4,19 ], nondimeno la vita dei Patriarchi fornisce altri esempi contrari. Abramo osserva le
prescrizioni della legge di Hammurabi, che consentiva di sposare la seconda moglie nel caso di sterilità della
prima; e Giacobbe aveva due mogli e due concubine [cf. Gen 30,1-19 ]. Il Libro del Deuteronomio ammette
l’esistenza legale della bigamia [cf. Dt 21,15-17 ] e perfino della poligamia, ammonendo il re di non aver
troppe mogli [cf. Dt 17,17 ]; conferma anche l’istituzione delle concubine: prigioniere di guerra [cf. Dt
21,10-14 ] oppure schiave [cf. Es 21,7,11 ]. [cf. R. De Vaux, Ancient Israel. Its Life and Institutions, London
1976 3 , Darton, Longman, Todd; pp. 24-25, 83]. Non vi è nell’Antico Testamento alcuna esplicita menzione
sull’obbligo della monogamia, sebbene l’immagine presentata dai libri posteriori mostri che essa prevaleva
nella pratica sociale [cf. ad es. i Libri sapienziali,eccetto Sir 37,11 ;Tob.]) Si può dire che tale diritto, mentre
combatteva il peccato, al tempo stesso conteneva in sé, e anzi proteggeva le "strutture sociali del peccato",
ne costituiva la legalizzazione. In queste circostanze s’imponeva la necessità che il senso etico essenziale del
comandamento "non commettere adulterio" subisse anche una rivalutazione fondamentale. Nel discorso della

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montagna Cristo svela nuovamente quel senso, oltrepassandone cioè le ristrettezze tradizionali e legali.
2. Vale forse la pena di aggiungere che nell’interpretazione antico-testamentaria, quanto la proibizione
dell’adulterio è contrassegnata - si potrebbe dire - dal compromesso con la concupiscenza del corpo, tanto è
chiaramente determinata la posizione nei confronti delle deviazioni sessuali. Il che è confermato dalle
relative prescrizioni, le quali prevedono la pena capitale per l’omosessualità e per la bestialità. In quanto al
comportamento di Onan, figlio di Giuda (da cui ha preso origine la moderna denominazione di "onanismo"),
la Sacra Scrittura dice che "... non fu gradito al Signore, il quale fece morire anche lui" ( Gen 38,10 ).
Il diritto matrimoniale dell’Antico Testamento, nella sua più ampia globalità, pone in primo piano la finalità
procreativa del matrimonio, e in alcuni casi cerca di dimostrare un trattamento giuridico paritario della donna
e dell’uomo - per esempio, riguardo alla pena per l’adulterio è esplicitamente detto: "Se uno commette
adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte" ( Lv 20,10 )
- ma nel complesso pregiudica la donna trattandola con maggiore severità.
3. Occorrerebbe forse porre in rilievo il linguaggio di questa legislazione, il quale, come sempre in tal caso, è
un linguaggio oggettivizzante della sessuologia di quel tempo. E anche un linguaggio importante per
l’insieme delle riflessioni sulla teologia del corpo. Vi incontriamo la specifica conferma del carattere di
pudore che circonda ciò che, nell’uomo, appartiene al sesso. Anzi, ciò che è sessuale, viene in certo senso
considerato come "impuro", specialmente quando si tratta delle manifestazioni fisiologiche della sessualità
umana. Lo "scoprire la nudità" (cf. ex. gr. Lv 20,11 . 17-21 ) è stigmatizzato come l’equivalente di un illecito
atto sessuale compiuto; già la stessa espressione sembra qui abbastanza eloquente. Non vi è dubbio che il
legislatore ha cercato di servirsi della terminologia corrispondente alla coscienza e ai costumi della società
contemporanea. Così dunque il linguaggio della legislazione antico-testamentaria ci deve confermare nella
convinzione che non soltanto sono note al legislatore e alla società la fisiologia del sesso e le manifestazioni
somatiche della vita sessuale, ma anche che queste sono valutate in modo determinato. È difficile sottrarsi
all’impressione che tale valutazione avesse carattere negativo. Ciò non annulla certamente le verità che
conosciamo dal Libro della Genesi, né si può incolpare l’Antico Testamento - e, fra l’altro, anche i Libri
legislativi - d’esser come precursori di un manicheismo. Il giudizio ivi espresso riguardo al corpo e al sesso
non è tanto "negativo" e nemmeno tanto severo, ma piuttosto contrassegnato da un oggettivismo motivato
dall’intento di mettere ordine in questa sfera della vita umana. Non si tratta direttamente dell’ordine del
"cuore", ma dell’ordine dell’intera vita sociale, alla cui base stanno, da sempre, il matrimonio e la famiglia.
4. Se si prende in considerazione la problematica "sessuale" nel suo insieme, conviene forse ancora volgere
brevemente l’attenzione su di un altro aspetto, e cioè sul legame esistente fra la moralità, la legge e la
medicina, messo in evidenza nei rispettivi Libri dell’Antico Testamento. Questi contengono non poche
prescrizioni pratiche riguardanti l’ambito dell’igiene, oppure quello della medicina, contrassegnato più
dall’esperienza che dalla scienza, secondo il livello allora raggiunto (cf. ex. gr. Lv 12,1-6 ; Lv 15,1-28 ; Dt
21,12-13 ). E, del resto, il legame esperienza-scienza è, notoriamente, ancora attuale. In questa vasta sfera di
problemi, la medicina accompagna sempre da vicino l’etica; e l’etica, come anche la teologia, ne cerca la
collaborazione.
5. Quando Cristo nel discorso della montagna pronunzia le parole: "Avete inteso che fu detto: Non
commettere adulterio", e immediatamente aggiunge: "Ma io vi dico...", è chiaro che Egli vuole ricostruire
nella coscienza dei suoi ascoltatori il significato etico proprio di questo comandamento, distaccandosi
dall’interpretazione dei "dottori", esperti ufficiali della legge. Ma, oltre all’interpretazione proveniente dalla
tradizione, l’Antico Testamento ci offre ancora un’altra tradizione per comprendere il comandamento "non
commettere adulterio". Ed è la tradizione dei Profeti. Questi, facendo riferimento all’"adulterio", volevano
ricordare "ad Israele e a Giuda" che il loro peccato più grande era l’abbandono dell’unico e vero Dio in
favore del culto a vari idoli, che il popolo eletto, a contatto con gli altri popoli, aveva fatto propri facilmente
e in modo sconsiderato. Così dunque è caratteristica propria del linguaggio dei Profeti piuttosto l’analogia
con l’adulterio anziché l’adulterio stesso; e tuttavia tale analogia serve a comprendere anche il
comandamento "non commettere adulterio" e la relativa interpretazione, la cui carenza è avvertita nei
documenti legislativi. Negli oracoli dei Profeti, e particolarmente di Isaia, Osea ed Ezechiele, il Dio
dell’Alleanza-Jahvè viene rappresentato spesso come Sposo, e l’amore con cui egli si è congiunto ad Israele
può e deve immedesimarsi con l’amore sponsale dei coniugi. Ed ecco che Israele, a causa della sua idolatria
e dell’abbandono del Dio-Sposo, commette davanti a lui un tradimento che si può paragonare a quello della
donna nei riguardi del marito: commette, appunto, "adulterio".

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6. I Profeti con parole eloquenti e, sovente, mediante immagini e similitudini straordinariamente plastiche,
presentano sia l’amore di Jahvè-Sposo, sia il tradimento di Israele-Sposa che si abbandona all’adulterio. È un
tema, questo, che dovrà essere ancora ripreso nelle nostre riflessioni, quando cioè sottoporremo ad analisi il
problema del "Sacramento"; nondimeno già ora occorre sfiorarlo, in quanto è necessario per intendere le
parole di Cristo, secondo Matteo 5,27-28, e capire quel rinnovamento dell’ethos, che queste parole
implicano: "Ma io vi dico...". Se, da una parte, Isaia (cf. Is 54 ; 62,1-5 ) nei suoi testi si presenta nell’atto di
porre in risalto soprattutto l’amore di Jahvè-Sposo, che, in ogni circostanza, va incontro alla Sposa,
oltrepassando tutte le sue infedeltà, dall’altra parte Osea e Ezechiele abbondano di paragoni, che chiariscono
soprattutto la bruttezza e il male morale dell’adulterio commesso dalla Sposa-Israele.
Nella successiva meditazione cercheremo di penetrare ancor più profondamente nei testi dei Profeti, per
chiarire ulteriormente il contenuto che, nella coscienza degli ascoltatori del discorso della montagna,
corrispondeva al comandamento: "non commettere adulterio".

Mercoledì, 27 agosto 1980


L’adulterio secondo Cristo: falsificazione del segno e rottura dell’alleanza personale
1. Nel discorso della montagna Cristo dice: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti;
non sono venuto per abolire, ma per dare compimento" (Mt 5,17). Per chiarire in che cosa consista tale
compimento, Egli passa poi ai singoli comandamenti, riferendosi anche a quello che dice: "Non commettere
adulterio". La nostra precedente meditazione mirava a far vedere in qual modo il contenuto adeguato di
questo comandamento, voluto da Dio, fosse offuscato da numerosi compromessi nella particolare
legislazione di Israele. I Profeti, che nel loro insegnamento denunciano sovente l’abbandono del vero Dio
Jahvè da parte del popolo, paragonandolo all’"adulterio", pongono in rilievo, nel modo più autentico, tale
contenuto.
Osea non soltanto con le parole, ma (a quanto sembra) anche col comportamento, si preoccupa di rivelarci
(cf. Os 1-3 ) che il tradimento del popolo è simile a quello coniugale, anzi, ancor più, all’adulterio esercitato
come prostituzione: "Va’, prenditi in moglie una prostituta e abbi figli di prostituzione, poiché il paese non fa
che prostituirsi allontanandosi dal Signore" ( Os 1,2 ). Il Profeta avverte in sé questo ordine e lo accetta come
proveniente da Dio-Jahvè: "Il Signore mi disse ancora: ""Va’, ama una donna che è amata da un altro ed è
adultera"" ( Os 3,1 ). Infatti, sebbene Israele sia così infedele nei confronti del suo Dio, come la sposa che
"seguiva i suoi amanti mentre dimenticava me" ( Os 2,15 ), tuttavia Jahvè non cessa di cercare la sua sposa,
non si stanca di attendere la sua conversione e il suo ritorno, confermando questo atteggiamento con le
parole e con le azioni del Profeta: "E avverrà in quel giorno - oracolo del Signore - mi chiamerai: "Marito
mio, e non mi chiamerai più: Mio padrone"... Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e
nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore" ( Os
2,18 . 21-22 ). Questo caldo richiamo alla conversione della infedele sposa-coniuge va di pari passo con la
seguente minaccia: "Si tolga dalla faccia i segni delle sue prostituzioni e i segni del suo adulterio dal suo
petto; altrimenti la spoglierò tutta nuda e la renderò come quando nacque" ( Os 2,4-5 ).
2. Tale immagine della umiliante nudità della nascita, è stata ricordata ad Israele-sposa infedele dal profeta
Ezechiele, ed in misura ancor più ampia: "... come oggetto ripugnante fosti gettata via in piena campagna, il
giorno della tua nascita. Passai vicino a te e ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: Vivi nel tuo
sangue e cresci come l’età del campo. Crescesti e ti facesti grande e giungesti al fiore della giovinezza: il tuo
petto divenne fiorente ed eri giunta ormai alla pubertà; ma eri nuda e scoperta. Passai vicino a te e ti vidi;
ecco, la tua età era l’età dell’amore; io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità; giurai
alleanza con te, dice il Signore Dio, e divenisti mia... misi al tuo naso un anello, orecchini agli orecchi e una
splendida corona sul tuo capo. Così fosti adorna d’oro e d’argento; le tue vesti eran di bisso, di seta e
ricami... La tua fama si diffuse fra le genti per la tua bellezza, che era perfetta, per la gloria che io avevo
posto in te... Tu però, infatuata per la tua bellezza e approfittando della tua fama, ti sei prostituita concedendo
i tuoi favori ad ogni passante... Come è stato abbietto il tuo cuore - dice il Signore Dio - facendo tutte queste
azioni degne di una spudorata sgualdrina!
Quando ti facevi un’altura in ogni piazza, tu non eri come una prostituta in cerca di guadagno, ma come
un’adultera che, invece del marito, accoglie gli stranieri!" (cf. Ez 16,5-8 . 12-15 . 30-32 ).

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3. La citazione è un po’ lunga, ma il testo è però così rilevante che era necessario rievocarlo. L’analogia tra
l’adulterio e l’idolatria vi è espressa in modo particolarmente forte ed esauriente. Il momento similare tra le
due componenti dell’analogia consiste nell’alleanza accompagnata dall’amore. Dio-Jahvè conclude per
amore l’alleanza con Israele, - senza suo merito - diviene per lui come lo sposo e coniuge più affettuoso, più
premuroso e più generoso verso la propria sposa. Per questo amore, che dagli albori della storia accompagna
il popolo eletto, Jahvè-Sposo riceve in cambio numerosi tradimenti: "le alture", ecco i luoghi del culto
idolatrico, nei quali viene commesso "l’adulterio" di Israele-sposa. Nell’analisi che qui stiamo svolgendo,
l’essenziale è il concetto di adulterio, di cui Ezechiele si serve. Si può dire tuttavia che l’insieme della
situazione, nella quale questo concetto è stato inserito (nell’ambito dell’analogia), non è tipico. Si tratta qui
non tanto della scelta vicendevole fatta dagli sposi, che nasce dall’amore reciproco, ma della scelta della
sposa (e ciò già dal momento della sua nascita), una scelta proveniente dall’amore dello sposo, amore che, da
parte dello sposo stesso, è un atto di pura misericordia. In tal senso si delinea questa scelta: essa corrisponde
a quella parte dell’analogia che qualifica l’alleanza di Jahvè con Israele; invece corrisponde meno alla
seconda parte di essa, che qualifica la natura del matrimonio. Certamente, la mentalità di quel tempo non era
molto sensibile a questa realtà - secondo gli Israeliti il matrimonio era piuttosto il risultato di una scelta
unilaterale, spesso fatta dai genitori - tuttavia tale situazione difficilmente rientra nell’ambito delle nostre
concezioni.
4. A prescindere da tale dettaglio è impossibile non accorgersi che nei testi dei Profeti si rileva un significato
dell’adulterio diverso da quello che ne dà la tradizione legislativa. L’adulterio è peccato perché costituisce la
rottura dell’alleanza personale dell’uomo e della donna. Nei testi legislativi viene rilevata la violazione del
diritto di proprietà e, in primo luogo, del diritto di proprietà dell’uomo nei riguardi di quella donna, che è
stata la sua moglie legale: una delle tante. Nei testi dei Profeti lo sfondo dell’effettiva e legalizzata poligamia
non altera il significato etico dell’adulterio. In molti testi la monogamia appare l’unica e giusta analogia del
monoteismo inteso nelle categorie dell’Alleanza, cioè della fedeltà e dell’affidamento all’unico e vero Dio-
Jahvè: Sposo di Israele. L’adulterio è l’antitesi di quella relazione sponsale, è l’antinomia del matrimonio
(anche come istituzione) in quanto il matrimonio monogamico attua in sé l’alleanza interpersonale dell’uomo
e della donna, realizza l’alleanza nata dall’amore e accolta dalle due rispettive parti appunto come
matrimonio (e, come tale, riconosciuto dalla società). Questo genere di alleanza tra due persone costituisce il
fondamento di quell’unione per cui "l’uomo... si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne" ( Gen
2,24 ). Nel contesto, sopra citato, si può dire che tale unità corporea è loro "diritto" (bilaterale), ma
soprattutto che è il segno regolare della comunione delle persone, unità costituita tra l’uomo e la donna in
qualità di coniugi. L’adulterio commesso da parte di ciascuno di essi non soltanto è la violazione di questo
diritto, che è esclusivo dell’altro coniuge, ma al tempo stesso è una radicale falsificazione del segno. Sembra
che negli oracoli dei Profeti appunto questo aspetto dell’adulterio trovi espressione sufficientemente chiara.
5. Nel costatare che l’adulterio è una falsificazione di quel segno, che trova non tanto la sua "normatività",
ma, piuttosto, la sua semplice verità interiore nel matrimonio - cioè nella convivenza dell’uomo e della
donna, che sono diventati coniugi - allora, in certo senso, ci riferiamo di nuovo alle affermazioni
fondamentali, fatte in precedenza, considerandole essenziali ed importanti per la teologia del corpo, dal
punto di vista sia antropologico che etico. L’adulterio è "peccato del corpo". Lo attesta tutta la tradizione
dell’Antico Testamento, e lo conferma Cristo. L’analisi comparata delle sue parole, pronunziate nel discorso
della montagna (cf. Mt 5,27-28 ), come anche delle diverse, relative enunciazioni contenute nei Vangeli e
negli altri passi del Nuovo Testamento, ci consente di stabilire la ragione propria della peccaminosità
dell’adulterio. Ed è ovvio che determiniamo tale ragione di peccaminosità, ossia del male morale, fondandoci
sul principio della contrapposizione nei riguardi di quel bene morale che è la fedeltà coniugale, quel bene che
può essere realizzato adeguatamente soltanto nel rapporto esclusivo di entrambe le parti (cioè nel rapporto
coniugale di un uomo con una donna). L’esigenza di un tale rapporto è propria dell’amore sponsale, la cui
struttura interpersonale (come già abbiamo rilevato) è retta dall’interiore normatività della "comunione delle
persone".È proprio essa a conferire significato essenziale all’Alleanza (sia nel rapporto uomo-donna, come
pure, per analogia, nel rapporto Jahvè-Israele). Dell’adulterio, della sua peccaminosità, del male morale che
esso contiene, si può sentenziare in base al principio della contrapposizione col patto coniugale così inteso.
6. Occorre tener presente tutto ciò, quando diciamo che l’adulterio è un "peccato del corpo"; il "corpo" viene
qui considerato nel legame concettuale con le parole di Genesi, 2,24, le quali infatti parlano dell’uomo e
della donna, che, quale marito e moglie, si uniscono così strettamente fra loro da formare "una sola carne".

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L’adulterio indica l’atto mediante cui un uomo e una donna, che non sono marito e moglie, formano "una
sola carne" (cioè, quelli che non sono marito e moglie nel senso della monogamia quale fu stabilita
all’origine, anziché nel senso della casistica legale dell’Antico Testamento). Il "peccato" del corpo può essere
identificato soltanto rispetto al rapporto delle persone. Si può parlare di bene o di male morale a seconda che
questo rapporto renda vera tale a unità del corpo" e le conferisca o no il carattere di segno veritiero. In
questo caso, possiamo quindi giudicare l’adulterio quale peccato, conformemente all’oggettivo contenuto
dell’atto.
E questo è il contenuto che Cristo ha in mente, quando, nel discorso della montagna, ricorda: "Avete inteso
che fu detto: Non commettere adulterio". Cristo però non si arresta su tale prospettiva del problema.

Mercoledì, 3 settembre 1980


Il significato dell’adulterio trasferito dal corpo al cuore
1. Nel discorso della montagna Cristo si limita a rievocare il comandamento: "Non commettere adulterio",
senza valutare il relativo comportamento dei suoi ascoltatori. Ciò che abbiamo detto in precedenza riguardo a
questo tema proviene da altre fonti (soprattutto dal discorso di Cristo con i farisei, in cui Egli si richiamava al
"principio") (cf. Mt 19,8; Mc 10,6). Nel Discorso della montagna Cristo omette tale valutazione o, piuttosto,
la presuppone. Ciò che dirà nella seconda parte dell’enunciato, che inizia con le parole: "Ma io vi dico...",
sarà qualcosa di più della polemica con i "dottori della Legge", ossia con i moralisti della Tora. E sarà
anche qualcosa di più rispetto alla valutazione dell’ethos anticotestamentario. Sarà un diretto passaggio
all’ethos nuovo. Cristo sembra lasciare da parte tutte le dispute circa il significato etico dell’adulterio sul
piano della legislazione e della casistica, in cui l’essenziale rapporto interpersonale del marito e della moglie
era stato notevolmente offuscato dal rapporto oggettivo di proprietà, ed acquista altra dimensione. Cristo
dice: "Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo
cuore" (Mt 5,28) (dinanzi a questo passo viene sempre in mente l’antica traduzione: "l’ha già resa adultera
nel cuore suo", versione che, forse meglio del testo attuale, esprime il fatto che qui si tratta di un puro atto
interiore ed unilaterale). Così, dunque, "l’adulterio commesso nel cuore" viene in certo senso contrapposto
all’"adulterio commesso nel corpo".
Dobbiamo interrogarci sulle ragioni per cui viene spostato il punto di gravità del peccato, e chiederci inoltre
quale sia l’autentico significato dell’analogia: se infatti l’"adulterio", secondo il suo fondamentale
significato, può essere solamente un "peccato commesso nel corpo", in qual senso ciò che l’uomo commette
nel cuore merita anche di esser denominato adulterio? Le parole, con le quali Cristo pone il fondamento del
nuovo ethos, esigono dal canto loro un profondo radicarsi nell’antropologia. Prima di soddisfare questi
quesiti, soffermiamoci alquanto sull’espressione che, secondo Matteo 5,27-28, effettua in certo modo il
trasferimento ovvero lo spostamento del significato dell’adulterio dal "corpo" al "cuore". Sono parole che
riguardano il desiderio.
2. Cristo parla della concupiscenza: "Chiunque guarda per desiderare". Appunto questa espressione richiede
un’analisi particolare per comprendere l’enunciato nella sua interezza. Occorre qui riportarsi alla precedente
analisi, che mirava, direi, a ricostruire l’immagine a dell’uomo della concupiscenza" già agli inizi della storia
(cf. Gen 3 ). Quell’uomo di cui Cristo parla nel Discorso della montagna - l’uomo che guarda "per
desiderare" - è indubbiamente uomo di concupiscenza. Proprio per questo motivo, perché partecipa della
concupiscenza del corpo, egli "desidera" e "guarda per desiderare". L’immagine dell’uomo di concupiscenza,
ricostruita nella fase precedente, ci aiuterà ora ad interpretare il "desiderio", di cui Cristo parla
secondo Matteo 5,27-28. Si tratta qui non soltanto di una interpretazione psicologica, ma, in pari tempo, di
un’interpretazione teologica. Cristo parla nel contesto dell’esperienza umana e contemporaneamente nel
contesto dell’opera della salvezza. Questi due contesti in certo modo si sovrappongono e si compenetrano
vicendevolmente: e ciò ha un significato essenziale e costitutivo per tutto l’ethos del Vangelo ed in
particolare per il contenuto del verbo "desiderare" o "guardare per desiderare".
3. Servendosi di tali espressioni, il Maestro prima si richiama all’esperienza di quelli che lo stavano ad
ascoltare direttamente, quindi si richiama anche all’esperienza e alla coscienza dell’uomo di ogni tempo e
luogo. Difatti, sebbene il linguaggio evangelico abbia una comunicativa universale, tuttavia per un

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ascoltatore diretto, la cui coscienza era stata formata sulla Bibbia, il "desiderio" doveva collegarsi a numerosi
precetti e moniti, presenti anzitutto nei Libri di carattere "sapienziale", nei quali apparivano ripetuti
avvertimenti sulla concupiscenza del corpo e anche consigli dati al fine di preservarsene.
4. Com’è noto, la tradizione sapienziale aveva un particolare interesse per l’etica e il buon costume della
società israelitica. Ciò che in questi avvertimenti e consigli, presenti ad esempio nel Libro dei Proverbi (cf.
ex. gr., Pr 5,3-6 . 15-20 ; 6,24-27 ,27 ; 21,9 . 19 ; 22,14 ; 30,20 ) o del Siracide (cf. ex. gr., Sir 7,19 . 24-
26 ; 9,1-9 ; 23,22-27 ; 25,13-26 . 18 ; 36,21-25 ; 42,6 . 9-14 ) o perfino di Qoèlet (cf. ex. gr., Qo7,26-
28 ; 9,9 ), ci colpisce in modo immediato è una certa loro unilateralità, in quanto gli ammonimenti sono
soprattutto indirizzati agli uomini. Questo può significare che siano ad essi particolarmente necessari. Quanto
alla donna, è vero che in questi avvertimenti e consigli essa appare più frequentemente come occasione di
peccato o addirittura come seduttrice da cui guardarsi. Occorre, tuttavia, riconoscere che tanto il Libro dei
Proverbi quanto il Libro del Siracide, oltre all’avvertimento di guardarsi dalla donna e dalla seduzione del
suo fascino che trascinano l’uomo a peccare (cf. Pr 5,1-6 ; 6,24-29 ; Sir 26,9-12 ), fanno anche l’elogio della
donna che è "perfetta" compagna di vita del proprio marito (cf. Pr31,10ss ), ed altresì elogiano la bellezza e
la grazia di una buona moglie, che sa render felice il marito.
"Grazia su grazia è una donna pudica, non si può valutare il pregio di un’anima modesta. Il sole risplende
sulle montagne del Signore, la bellezza di una donna virtuosa adorna la sua casa. Lampada che arde sul
candelabro santo, così la bellezza del volto su giusta statura. Colonne d’oro su base d’argento, tali sono
gambe graziose su solidi piedi... La grazia di una donna allieta il marito, la sua scienza gli rinvigorisce le
ossa" ( Sir26,15-18 . 13 ).
5. Nella tradizione sapienziale un frequente monito contrasta col suddetto elogio della donna-moglie, ed è
quello che si riferisce alla bellezza ed alla grazia della donna, che non è la propria moglie, ed è fomite di
tentazione ed occasione di adulterio: "Non desiderare in cuor tuo la sua bellezza..." ( Pr 6,25 ). Nel Siracide
(cf. Sir 9,1-9 ) il medesimo avvertimento viene espresso in modo più perentorio:
"Distogli l’occhio da una donna bella, non fissare una bellezza che non ti appartiene. Per la bellezza di una
donna molti sono periti; per essa l’amore brucia come fuoco" ( Sir 9,8-9 ).
Il senso dei testi sapienziali ha prevalente significato pedagogico. Essi insegnano la virtù e cercano di
proteggere l’ordine morale, riportandosi alla legge di Dio e all’esperienza largamente intesa. Inoltre, si
distinguono per la particolare conoscenza del "cuore" umano. Diremmo che sviluppano una specifica
psicologia morale, pur senza cadere nello psicologismo. In certo senso, sono vicini a quel richiamo di Cristo
al "cuore" che Matteo ci ha tramandato (cf. Mt 5,27-28 ), sebbene non si possa affermare che rivelino
tendenza a trasformare l’ethos in modo fondamentale. Gli autori di questi Libri utilizzano la conoscenza
dell’interiorità umana per insegnare la morale piuttosto nell’ambito dell’ethos storicamente in atto e da loro
sostanzialmente confermato. Talvolta qualcuno di essi, come per esempio Qoèlet, sintetizza tale conferma
con la propria "filosofia" dell’esistenza umana, il che però, se influisce sul metodo con cui formula
avvertimenti e consigli, non cambia la fondamentale struttura portante della valutazione etica.
6. Per tale trasformazione dell’ethos occorrerà attendere fino al Discorso della montagna. Nondimeno, quella
conoscenza molto perspicace della psicologia umana presente nella tradizione "sapienziale" non era
certamente priva di significato per la cerchia di coloro, i quali ascoltavano di persona ed immediatamente
questo discorso. Se, in virtù della tradizione profetica, questi ascoltatori erano in certo senso preparati a
comprendere in modo adeguato il concetto di "adulterio", altresì in virtù della tradizione "sapienziale" erano
preparati a comprendere le parole che si riferiscono allo "sguardo concupiscente" ovvero all’"adulterio
commesso nel cuore".
All’analisi della concupiscenza, nel Discorso della montagna, ci converrà tornare ulteriormente.

Mercoledì, 10 settembre 1980


La concupiscenza come distacco dal significato sponsale del corpo
1. Riflettiamo sulle seguenti parole di Gesù tratte dal Discorso della montagna: "Chiunque guarda una donna
per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" ("l’ha già resa adultera nel suo cuore")
(Mt 5,28). Cristo pronunzia questa frase davanti ad ascoltatori, i quali, in base ai libri dell’Antico

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Testamento, erano, in un certo senso, preparati a comprendere il significato dello sguardo che nasce dalla
concupiscenza. Già mercoledì scorso abbiamo fatto riferimento ai testi tratti dai cosiddetti Libri Sapienziali.
Ecco, ad esempio, un altro passo, in cui l’autore biblico analizza lo stato d’animo dell’uomo dominato dalla
concupiscenza della carne:
"...una passione ardente come fuoco acceso / non si calmerà finché non sarà consumata; / un uomo impudico
nel suo corpo / non smetterà finché non lo divori il fuoco; / per l’uomo impuro ogni pane è appetitoso, / non
si stancherà finché non muoia. / L’uomo infedele al proprio letto / dice fra sé: "Chi mi vede? / Tenebra
intorno a me e le mura mi nascondono; / nessuno mi vede, che devo temere? / Dei miei peccati non si
ricorderà l’Altissimo". / Il suo timore riguarda solo gli occhi degli uomini; / non sa che gli occhi del
Signore / sono miriadi di volte più luminosi del sole; / essi vedono tutte le azioni degli uomini / e penetrano
fin nei luoghi più segreti. / ... / Così della donna che abbandona suo marito, / e gli presenta eredi avuti da un
estraneo..." ( Sir 23,17-22).2. Analoghe descrizioni non mancano nella letteratura mondiale 41. Certo, molte
di esse si distinguono per una più penetrante perspicacia di analisi psicologica e per una più intensa
suggestività e forza espressiva. Tuttavia, la descrizione biblica del Siracide (Sir 23,17-22) comprende alcuni
elementi che possono essere ritenuti "classici" nell’analisi della concupiscenza carnale. Un elemento del
genere è, ad esempio, il paragone tra la concupiscenza della carne e il fuoco: questo, divampando
nell’uomo, ne invade i sensi, eccita il corpo, coinvolge i sentimenti e in certo senso s’impossessa del "cuore".
Tale passione, originata dalla concupiscenza carnale, soffoca nel "cuore" la voce più profonda della
coscienza, il senso di responsabilità davanti a Dio; ed appunto ciò è particolarmente posto in evidenza nel
testo biblico or ora citato. Persiste, d’altra parte, il pudore esteriore rispetto agli uomini - o piuttosto una
parvenza di pudicizia - che si manifesta come timore delle conseguenze anziché del male in se stesso.
Soffocando la voce della coscienza, la passione porta con sé inquietudine di corpo e di sensi: è l’inquietudine
dell’"uomo esteriore". Quando l’uomo interiore è stato ridotto al silenzio, la passione, dopo aver ottenuto,
per così dire, libertà d’azione, si manifesta come insistente tendenza alla soddisfazione dei sensi e del corpo.
Tale appagamento, secondo il criterio dell’uomo dominato dalla passione, dovrebbe estinguere il fuoco; ma,
al contrario, esso non raggiunge le sorgenti della pace interiore e si limita a toccare il livello più esteriore
dell’individuo umano. E qui l’autore biblico giustamente constata che l’uomo, la cui volontà è impegnata nel
soddisfare i sensi, non trova quiete né ritrova se stesso, ma, al contrario, "si consuma". La passione mira al
soddisfacimento; perciò ottunde l’attività riflessiva e disattende la voce della coscienza; così, senza avere in
sé alcun principio di indistruttibilità, essa "si logora". Le è connaturale il dinamismo dell’uso, che tende ad
esaurirsi. È vero che, ove la passione sia inserita nell’insieme delle più profonde energie dello spirito, essa
può anche divenire forza creatrice; in tal caso, però, deve subire una trasformazione radicale. Se, invece,
soffoca le forze più profonde del cuore e della coscienza (come avviene nel racconto del Siracide)
( Sir 23,17-22), "si consuma" e, in modo indiretto, in essa si consuma l’uomo che ne è preda.
3. Quando Cristo nel Discorso della montagna parla dell’uomo che "desidera", che "guarda con desiderio", si
può presumere che abbia davanti agli occhi anche le immagini note ai suoi ascoltatori attraverso la tradizione
"sapienziale". Tuttavia, contemporaneamente, si riferisce ad ogni uomo che, in base alla propria esperienza
interiore, sappia che cosa voglia dire "desiderare", "guardare con desiderio". Il Maestro non analizza tale
esperienza né la descrive, come aveva fatto, per esempio, il Siracide (Sir 23,17-22); egli sembra presupporre,

41. Cf., ex. gr., S. Agostino, Confessiones, lib. VI, cap. XII, 21, 22: "Deligatus morbo carnis mortifera suavitate
trahebam catenam meam, solvi timers, et quasi concusso vulnere repellens verba bene suadentis tamquam manum
solventis. [...] Magna autem ex parte atque vehementer consuetudo satiandae insatiabilis concupiscentiae me captum
excruciabat". "Et non stabam frui Deo meo, sed rapiebar ad te decore tuo; moxque deripiebar abs te pondere meo, et
ruebam in iste cum gemitu: et pondus hoc, consuetudo carnalis" [Ivi, lib. VII, cap. XVII]. "Sic aegrotabam et
excruciabar accusans memetipsum solito acerbius nimis, ac volvens et versans me in vinculo meo, donec abrumperetur
totum, quo iam exiguo tenebar, sed tenebar tamen. Et instabas tu in occultis Domine, severa misericordia, flagella
ingeminans timoris et pudoris, ne rursus cessarem, et non abrumperetur idipsum exiguum et tenue quod remanserat; et
revalesceret iterum et me robustius alligaret..." [Ivi, lib. VIII, cap. XI].
Dante descrive questa frattura interiore e la considera meritevole di pena: "Quando giungon davanti alla ruina / quivi le
strida, il compianto, il lamento; / bestemmian quivi la virtù divina. / Intesi che a così fatto tormento / enno dannati i
peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento. / E come gli stornei ne portan l’ali / nel freddo tempo a schiera
larga e piena, / così quel fiato gli spiriti mali: / di qua, di là, di giù, di su li mena; / nulla speranza li conforta mai, / non
che di posa, ma di minor pena" [Dante Alighieri, La Divina Commedia, "Inferno", V, 37-43]. "Shakespeare has
described the satisfaction of a tyrannous lust as something / Past reason hunted and, no sooner had, / past reason hated"
[C. S. Lewis, The Four Loves, New York 1960, Harcourt, Brace, p. 28].

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direi, una sufficiente conoscenza di quel fatto interiore, verso cui richiama l’attenzione degli ascoltatori,
presenti e potenziali. È possibile che taluno di essi non sappia di che cosa si tratti? Se davvero non ne sapesse
nulla, il contenuto delle parole di Cristo non lo riguarderebbe, né alcuna analisi o descrizione sarebbe in
grado di spiegarglielo. Se invece sa - si tratta infatti in tal caso di una scienza del tutto interiore, intrinseca al
cuore e alla coscienza - capirà subito quando le suddette parole si riferiscono a lui.
4. Cristo, quindi, non descrive né analizza ciò che costituisce l’esperienza del "desiderare", l’esperienza della
concupiscenza della carne. Si ha perfino l’impressione che Egli non penetri questa esperienza in tutta
l’ampiezza del suo interiore dinamismo, come accade, ad esempio, nel testo citato del Siracide, ma piuttosto
si arresti alla sua soglia. Il "desiderio" non si è ancora trasformato in un’azione esteriore, ancora non è
divenuto l’"atto del corpo"; è finora l’atto interiore del cuore: si esprime nello sguardo, nel modo di
"guardare la donna". Tuttavia, già lascia intendere, svela il suo contenuto e la sua qualità essenziali.
Occorre che facciamo ora tale analisi. Lo sguardo esprime ciò che è nel cuore. Lo sguardo esprime, direi,
l’uomo intero. Se in generale si ritiene che l’uomo "agisce conformemente a ciò che è" ( operari sequitur
esse), Cristo in questo caso vuol mettere in evidenza che l’uomo "guarda" conformemente a ciò che
è: intueri sequitur esse. In un certo senso, l’uomo attraverso lo sguardo si rivela all’esterno e agli altri;
soprattutto rivela ciò che percepisce all’"interno" 42.
5. Cristo insegna, dunque, a considerare lo sguardo quasi come soglia della verità interiore. Già nello
sguardo, "nel modo in cui si guarda", è possibile individuare pienamente che cosa sia la concupiscenza.
Cerchiamo di spiegarla. "Desiderare", "guardare con desiderio" indica un’esperienza del valore del corpo, in
cui il suo significato sponsale cessa di essere tale proprio a motivo della concupiscenza. Cessa, altresì, il suo
significato procreativo, di cui abbiamo parlato nelle nostre precedenti considerazioni, il quale - quando
riguarda l’unione coniugale dell’uomo e della donna - è radicato nel significato sponsale del corpo e quasi
organicamente ne emerge. Orbene, l’uomo, "desiderando", "guardando per desiderare" (Mt 5,27-
28), sperimenta in modo più o meno esplicito il distacco da quel significato del corpo, che (come abbiamo
già osservato nelle nostre riflessioni) sta alla base della comunione delle persone: sia fuori del matrimonio,
sia - in modo particolare - quando l’uomo e la donna sono chiamati a costruire l’unione "nel corpo" (come
proclama il "vangelo del principio" nel classico testo di Genesi 2,24). L’esperienza del significato sponsale
del corpo è subordinata in modo particolare alla chiamata sacramentale, ma non si limita ad essa. Tale
significato qualifica la libertà del dono, che - come vedremo con più precisione nelle ulteriori analisi - può
realizzarsi non solo nel matrimonio, ma anche in modo diverso.
Cristo dice: "Chiunque guarda la donna per desiderarla (cioè chi guarda con concupiscenza) ha già
commesso adulterio con lei nel suo cuore" ("l’ha resa adultera nel cuore") ( Mt 5,28). Non vuole forse egli
dire con ciò che proprio la concupiscenza - come l’adulterio - è un distacco interiore dal significato sponsale
del corpo? Non vuole rimandare i suoi ascoltatori alle loro esperienze interiori di tale distacco? Non è forse
per questo che lo definisce "adulterio commesso nel cuore"?

Mercoledì, 17 settembre 1980


Il desiderio, riduzione intenzionale dell’orizzonte della mente e del cuore
1. Durante l’ultima riflessione, ci siamo chiesti che cosa è il "desiderio", di cui parlava Cristo nel Discorso
della montagna (Mt 5,27-28). Ricordiamo che egli ne parlava in rapporto al comandamento: "Non
commettere adulterio". Lo stesso "desiderare" (precisamente: "guardare per desiderare") è definito un
"adulterio commesso nel cuore". Ciò fa molto pensare. Nelle precedenti riflessioni abbiamo detto che Cristo,
nell’esprimersi in quel modo, voleva indicare ai suoi ascoltatori il distacco dal significato sponsale del corpo,
sperimentato dall’uomo (nel caso, il maschio), quando asseconda la concupiscenza della carne con l’atto

42. L’analisi filologica conferma il significato dell’espressione ho blépõn "il guardante" o "chiunque guarda": Mt 5,28.
Se "blépon" di Mt 5,28 ha il valore di percezione interna, equivalente a "penso, fermo l’attenzione, bado", più severo e
più elevato risulta l’insegnamento evangelico nei riguardi dei rapporti interpersonali dei discepoli di Cristo. "Secondo
Gesù non è necessario neppure uno sguardo lussurioso per far diventare adultera una persona. Basta anche un pensiero
del cuore" [M. Adinolfi, Il desiderio della donna in Matteo 5, 28, in Fondamenti biblici della teologia morale, Atti della
XXII Settimana Biblica Italiana, Paideia, Brescia 1973, p. 279].

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interiore del "desiderio". Il distacco dal significato sponsale del corpo comporta al tempo stesso un conflitto
con la sua dignità di persona: un autentico conflitto di coscienza.
A questo punto appare che il significato biblico (quindi anche teologico del "desiderio" è diverso da quello
puramente psicologico. Lo psicologo descriverà il "desiderio" come un intenso orientamento verso l’oggetto,
a causa del suo peculiare valore: nel caso qui considerato, per il suo valore "sessuale". A quanto sembra,
troveremo tale definizione nella maggior parte delle opere dedicate a simili temi. Tuttavia, la descrizione
biblica, pur senza sottovalutare l’aspetto psicologico, pone in rilievo soprattutto quello etico, dato che c’è un
valore che viene leso. Il "desiderio" è, direi, l’inganno del cuore umano nei confronti della perenne chiamata
dell’uomo e della donna - una chiamata che è stata rivelata nel mistero stesso della creazione - alla
comunione attraverso un dono reciproco. Così, dunque, quando Cristo nel Discorso della montagna
( Mt 5,27-28 ) fa riferimento "al cuore" o all’uomo interiore, le sue parole non cessano di esser cariche di
quella verità circa il "principio", alla quale, rispondendo ai farisei (cf. Mt 19,8 ), egli aveva riportato tutto il
problema dell’uomo, della donna e del matrimonio.
2. La perenne chiamata, di cui abbiamo cercato di fare l’analisi seguendo il Libro della Genesi ( Gen 2,23-
25 ) e, in certo senso, la perenne attrazione reciproca da parte dell’uomo verso la femminilità e da parte della
donna verso la mascolinità, è un invito mediato dal corpo, ma non è il desiderio nel senso delle parole
di Matteo 5,27-28. Il "desiderio", come attuazione della concupiscenza della carne (anche e soprattutto
nell’atto puramente interiore), sminuisce il significato di ciò che erano - e che sostanzialmente non cessano
di essere - quell’invito e quella reciproca attrazione. L’eterno "femminino" (das ewig weibliche), così come,
del resto, l’eterno "mascolino", anche sul piano della storicità tende a liberarsi dalla pura concupiscenza, e
cerca un posto di affermazione sul livello proprio del mondo delle persone. Ne dà testimonianza quella
vergogna originaria, di cui parla Genesi 3. La dimensione dell’intenzionalità dei pensieri e dei cuori
costituisce uno dei principali filoni della universale cultura umana. Le parole di Cristo nel Discorso della
montagna confermano appunto tale dimensione.
3. Nondimeno, queste parole esprimono chiaramente che il "desiderio" fa parte della realtà del cuore umano.
Quando affermiamo che il "desiderio", nei confronti della originaria attrazione reciproca della mascolinità e
della femminilità, rappresenta una "riduzione", abbiamo in mente una"riduzione" intenzionale, quasi una
restrizione o chiusura dell’orizzonte della mente e del cuore. Una cosa, infatti, è aver coscienza che il valore
del sesso fa parte di tutta la ricchezza di valori, con cui al maschio appare l’essere femminile; e un’altra cosa
è "ridurre" tutta la ricchezza personale della femminilità a quell’unico valore, cioè al sesso, come oggetto
idoneo all’appagamento della propria sessualità. Lo stesso ragionamento si può fare nei riguardi di ciò che è
la mascolinità per la donna, sebbene le parole di Matteo 5,27-28 si riferiscano direttamente soltanto all’altro
rapporto. La "riduzione" intenzionale è, come si vede, di natura soprattutto assiologica. Da una parte l’eterna
attrazione dell’uomo verso la femminilità (cf. Gen 2,23 ) libera in lui - o forse dovrebbe liberare - una
gamma di desideri spirituali-carnali di natura soprattutto personale e "di comunione" (cf. l’analisi del
"principio"), ai quali corrisponde una proporzionale gerarchia di valori. Dall’altra, il "desiderio" limita tale
gamma, offuscando la gerarchia dei valori che contrassegna l’attrazione perenne della mascolinità e della
femminilità.
4. Il desiderio fa sì che all’interno, cioè nel "cuore", nell’orizzonte interiore dell’uomo e della donna, si
offuschi il significato del corpo, proprio della persona. La femminilità cessa così di essere per la mascolinità
soprattutto soggetto; cessa di essere uno specifico linguaggio dello spirito; perde il carattere di segno. Cessa,
direi, di portare su di sé lo stupendo significato sponsale del corpo. Cessa di essere collocato nel contesto
della coscienza e della esperienza di tale significato. Il "desiderio" che nasce dalla stessa concupiscenza della
carne, dal primo momento dell’esistenza all’interno dell’uomo - dell’esistenza nel suo "cuore" - passa in un
certo senso accanto a tale contesto (si potrebbe dire, con una immagine, che passa sulle macerie del
significato sponsale del corpo e di tutte le sue componenti soggettive), e in virtù della propria intenzionalità
assiologica tende direttamente verso un fine esclusivo: a soddisfare solo il bisogno sessuale del corpo, come
proprio oggetto.
5. Tale riduzione intenzionale ed assiologica può verificarsi, secondo le parole di Cristo ( Mt 5,27-28 ), già
nell’ambito dello "sguardo" (del "guardare") o piuttosto nell’ambito di un atto puramente interiore espresso
dallo sguardo. Lo sguardo (o piuttosto il "guardare"), in se stesso, è un atto conoscitivo. Quando nella sua
struttura interiore entra la concupiscenza, lo sguardo assume un carattere di "conoscenza desiderosa".
L’espressione biblica "guarda per desiderare" può indicare sia un atto conoscitivo, di cui "si serve" l’uomo

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desiderando (cioè conferendogli il carattere proprio del desiderio teso verso un oggetto), sia un atto
conoscitivo che suscita il desiderio nell’altro soggetto e soprattutto nella sua volontà e nel suo "cuore". Come
si vede, è possibile attribuire una interpretazione intenzionale ad un atto interiore, avendo presente l’uno o
l’altro polo della psicologia dell’uomo: la conoscenza o il desiderio inteso come appetitus. L’appetitus è
qualcosa di più ampio del "desiderio", poiché indica tutto ciò che si manifesta nel soggetto come
"aspirazione", e come tale si orienta sempre verso un fine, cioè verso un oggetto conosciuto sotto l’aspetto
del valore). Tuttavia, un’adeguata interpretazione delle parole di Matteo 5,27-28 richiede che - attraverso
l’intenzionalità propria della conoscenza o dell’"appetitus" - scorgiamo qualcosa di più, cioè l’intenzionalità
dell’esistenza stessa dell’uomo in rapporto con l’altro uomo; nel nostro caso: dell’uomo in rapporto alla
donna e della donna in rapporto all’uomo.
Su questo argomento ci converrà ritornare. Concludendo l’odierna riflessione, bisogna ancora aggiungere
che in quel "desiderio", nel "guardare per desiderare", di cui tratta il Discorso della montagna, la donna, per
l’uomo che "guarda" così, cessa di esistere come soggetto dell’eterna attrazione e comincia ad essere solo
oggetto di concupiscenza carnale. A ciò è collegato il profondo distacco interno dal significato sponsale del
corpo, di cui abbiamo parlato già nella precedente riflessione.

Mercoledì, 24 settembre 1980


La concupiscenza allontana l’uomo e la donna dalle prospettive personali e “di comunione”
1. Nel discorso della montagna Cristo dice: "Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi
dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" ( Mt 5,27-
28). Da qualche tempo cerchiamo di penetrare nel significato di questa enunciazione, analizzandone le
singole componenti per comprendere meglio l’insieme del testo.
Quando Cristo parla dell’uomo, che "guarda per desiderare", non indica soltanto la dimensione
dell’intenzionalità del "guardare", quindi della conoscenza concupiscente, la dimensione "psicologica", ma
indica anche la dimensione della intenzionalità della esistenza stessa dell’uomo. Dimostra, cioè, chi "è" o
piuttosto chi "diventa", per l’uomo, la donna che egli "guarda con concupiscenza". In questo caso,
l’intenzionalità della conoscenza determina e definisce l’intenzionalità stessa dell’esistenza. Nella situazione
descritta da Cristo quella dimensione intercorre unilateralmente dall’uomo, che è soggetto, verso la donna,
che è divenuta oggetto (ciò però non vuol dire che tale dimensione sia soltanto unilaterale); per ora non
capovolgiamo la situazione analizzata, né la estendiamo ad entrambe le parti, ad ambedue i soggetti.
Soffermiamoci sulla situazione tracciata da Cristo, sottolineando che si tratta di un atto "puramente
interiore", nascosto nel cuore e fermo alla soglia dello sguardo.
Basta costatare che in tal caso la donna - la quale, a motivo della soggettività personale esiste perennemente
"per l’uomo" attendendo che anche lui, per lo stesso motivo, esista "per lei" - resta privata del significato
della sua attrazione in quanto persona, la quale, pur essendo propria dell’"eterno femminino", nello stesso
tempo per l’uomo diviene solo oggetto: comincia, cioè, ad esistere intenzionalmente come oggetto di
potenziale appagamento del bisogno sessuale inerente alla sua mascolinità. Sebbene l’atto sia del tutto
interiore, nascosto nel "cuore" ed espresso solo dallo "sguardo", in lui avviene già un cambiamento
(soggettivamente unilaterale) dell’esistenza. Se non fosse così, se non si trattasse di un cambiamento così
profondo, non avrebbero senso le seguenti parole della stessa frase: "Ha già commesso adulterio con lei nel
suo cuore" ( Mt5,28 ).
2. Quel cambiamento della intenzionalità della esistenza, mediante cui una certa donna comincia ad esistere
per un certo uomo non come soggetto di chiamata e di attrazione personale o soggetto "di comunione", ma
esclusivamente come oggetto di potenziale appagamento del bisogno sessuale,si attua nel "cuore" in quanto
si è attuato nella volontà. La stessa intenzionalità conoscitiva non vuol dire ancora asservimento del "cuore".
Solo quando la riduzione intenzionale, illustrata in precedenza, trascina la volontà nel suo ristretto orizzonte,
quando ne suscita la decisione di un rapporto con un altro essere umano (nel nostro caso: con la donna)
secondo la scala dei valori propria della "concupiscenza" solo allora si può dire che il "desiderio" si è anche
impadronito del "cuore". Solo quando la "concupiscenza" si è impadronita della volontà, è possibile dire che
essa domina sulla soggettività della persona e che sta alla base della volontà e della possibilità di scegliere e
decidere, attraverso cui - in virtù dell’autodecisione o autodeterminazione - viene stabilito il modo stesso di

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esistere nei riguardi di un’altra persona. L’intenzionalità di siffatta esistenza acquista allora una piena
dimensione soggettiva.
3. Solo allora - cioè da quel momento soggettivo e sul suo prolungamento soggettivo - è possibile
confermare ciò che abbiamo letto, per esempio, nel Siracide ( Sir 23,17-22 ) circa l’uomo dominato dalla
concupiscenza, e che leggiamo in descrizioni ancor più eloquenti nella letteratura mondiale. Allora possiamo
anche parlare di quella "costrizione" più o meno completa, che altrove viene chiamata "costrizione del
corpo" e che porta con sé la perdita della "libertà del dono", connaturale alla profonda coscienza del
significato sponsale del corpo, di cui abbiamo anche parlato nelle precedenti analisi.
4. Quando parliamo del "desiderio" come trasformazione dell’intenzionalità di una concreta esistenza, per es.
dell’uomo, per il quale secondo Matteo5,27-28, una certa donna diviene solo oggetto di potenziale
appagamento del "bisogno sessuale" inerente alla sua mascolinità, non si tratta in alcun modo di mettere in
questione quel bisogno, quale dimensione oggettiva della natura umana con la finalità procreativa che le è
propria. Le parole di Cristo nel Discorso della montagna (in tutto il suo ampio contesto) sono lontane dal
manicheismo, come lo è anche l’autentica tradizione cristiana. In questo caso, non possono quindi sorgere
obiezioni del genere. Si tratta, invece, del modo di esistere dell’uomo e della donna come persone, ossia di
quell’esistere in un reciproco "per", il quale - anche in base a ciò che secondo l’oggettiva dimensione della
natura umana è definibile come "bisogno sessuale" - può e deve servire alla costruzione dell’unità "di
comunione" nei loro reciproci rapporti. Tale, infatti, è il fondamentale significato proprio della perenne e
reciproca attrazione della mascolinità e della femminilità, contenuta nella realtà stessa della costituzione
dell’uomo come persona, corpo e sesso insieme.
5. All’unione o "comunione" personale, cui l’uomo e la donna sono reciprocamente chiamati "dal principio",
non corrisponde, anzi è in contrasto la eventuale circostanza che una delle due persone esista solo come
soggetto di appagamento del bisogno sessuale, e l’altra divenga esclusivamente oggetto di tale soddisfazione.
Inoltre, non corrisponde a tale unità di "comunione" - anzi la contrasta - il caso che entrambi, l’uomo e la
donna, esistano vicendevolmente quale oggetto di appagamento del bisogno sessuale, e ciascuna da parte sua
sia soltanto soggetto di quell’appagamento. Tale "riduzione" di un così ricco contenuto della reciproca e
perenne attrazione delle persone umane, nella loro mascolinità o femminilità, non corrisponde appunto alla
"natura" dell’attrazione in questione. Tale "riduzione", infatti, spegne il significato personale e "di
comunione", proprio dell’uomo e della donna, attraverso cui, secondo Genesi 2,24, "l’uomo... si unirà a sua
moglie e i due saranno una sola carne". La "concupiscenza" allontana la dimensione intenzionale della
reciproca esistenza dell’uomo e della donna dalle prospettive personali e "di comunione", proprie della loro
perenne e reciproca attrazione, riducendola e, per così dire, sospingendola verso dimensioni utilitaristiche,
nel cui ambito l’essere umano "si serve" dell’altro essere umano, "usandolo" soltanto per appagare i propri
"bisogni".
6. Sembra di poter appunto ritrovare tale contenuto, carico di esperienza interiore umana propria di epoche
ed ambienti diversi, nella concisa affermazione di Cristo nel Discorso della montagna. Al tempo stesso, non
si può in alcun caso perdere di vista il significato che tale affermazione attribuisce all’"interiorità" dell’uomo,
all’integrale dimensione del "cuore" come dimensione dell’uomo interiore. Qui sta il nucleo stesso della
trasformazione dell’ethos, verso cui tendono le parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28, espresse con
potente forza ed insieme con mirabile semplicità.

Mercoledì, 1 ottobre 1980


Costruire il nuovo senso etico attraverso la riscoperta dei valori
1. Arriviamo nella nostra analisi alla terza parte dell’enunciato di Cristo nel Discorso della Montagna
(Mt 5,27-28). La prima parte era: "Avete inteso che fu detto: non commetterete adulterio". La seconda: "Ma
io vi dico, chiunque guarda una donna per desiderarla", è grammaticalmente connessa alla terza: "ha già
commesso adulterio con lei nel suo cuore".
Il metodo qui applicato, che è quello di dividere, di "spezzare" l’enunciato di Cristo in tre parti, che si
susseguono, può sembrare artificioso. Tuttavia, quando cerchiamo il senso etico dell’intero enunciato, nella

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sua globalità, può esser utile appunto la divisione del testo da noi usata, a patto che non venga applicata solo
in modo disgiuntivo ma congiuntivo. Ed è quello che intendiamo fare. Ognuna delle distinte parti ha un
proprio contenuto e connotazioni che le sono specifiche, ed è appunto quanto vogliamo mettere in rilievo,
mediante la divisione del testo; ma al tempo stesso va segnalato che ognuna delle parti si spiega nel rapporto
diretto con le altre. Ciò si riferisce in primo luogo ai principali elementi semantici, mediante i quali
l’enunciato costituisce un insieme. Ecco questi elementi: commettere adulterio, desiderare, commettere
adulterio nel corpo, commettere adulterio nel cuore. Sarebbe particolarmente difficile stabilire il senso etico
del "desiderare" senza l’elemento indicato qui per ultimo, cioè l’"adulterio nel cuore". Già l’analisi
precedente ha in un certo grado preso in considerazione questo elemento; tuttavia una più piena
comprensione della componente: "commettere adulterio nel cuore" è possibile solo dopo un’apposita analisi.
2. Come già abbiamo accennato all’inizio, si tratta qui di stabilire il senso etico. L’enunciato di Cristo,
in Matteo 5,27-28, prende inizio dal comandamento: "non commettere adulterio", per mostrare come occorra
intenderlo e metterlo in pratica, affinché abbondi in esso la "giustizia" che Dio Jahvè come Legislatore ha
voluto: affinché essa abbondi in misura maggiore di quanto risultasse dall’interpretazione e dalla casistica
dei dottori dell’Antico Testamento. Se le parole di Cristo in tale senso tendono a costruire il nuovo ethos (e
in base allo stesso comandamento), la via a ciò passa attraverso la riscoperta dei valori, che - nella
comprensione generale anticotestamentaria e nell’applicazione di questo comandamento - sono andate
perdute.
3. Da questo punto di vista è significativa anche la formulazione del testo di Matteo 5,27-28. Il
comandamento "non commettere adulterio" è formulato come una interdizione che esclude in modo
categorico un determinato male morale. È noto che la stessa Legge (Decalogo), oltre alla interdizione "non
commettere adulterio" comprende anche l’interdizione "non desiderare la moglie del tuo prossimo"
( Es 20,14 . 17 ; Dt 5,18 .21 ). Cristo non vanifica un divieto rispetto all’altro. Sebbene parli del "desiderio",
tende ad una chiarificazione più profonda dell’"adulterio". È significativo che dopo aver citato il divieto "non
commettere adulterio", come noto agli ascoltatori, in seguito, nel corso del suo enunciato cambia il suo stile e
la struttura logica da normativa in quella narrativo-affermativa. Quando dice: "Chiunque guarda una donna
per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore", descrive un fatto interiore, la cui realtà può
essere facilmente compresa dagli ascoltatori. Al tempo stesso, attraverso il fatto così descritto e qualificato,
egli indica come occorre intendere e mettere in pratica il comandamento: "non commettere adulterio",
affinché conduca alla "giustizia" voluta dal Legislatore.
4. In tal modo siamo giunti all’espressione "ha commesso adulterio nel cuore", espressione-chiave, come
pare, per intendere il suo giusto senso etico. Questa espressione è in pari tempo la fonte principale per
rivelare i valori essenziali del nuovo ethos: dell’ethos del Discorso della Montagna. Come accade spesso nel
Vangelo, anche qui riscontriamo un certo paradosso. Come, infatti, può aver luogo l’"adulterio" senza
"commettere adulterio", cioè senza l’atto esteriore, che consente di individuare l’atto vietato dalla Legge?
Abbiamo visto quanto si impegnasse la casistica dei "dottori della Legge" nel precisare questo problema. Ma
anche indipendentemente dalla casistica, sembra evidente che l’adulterio possa essere individuato solo "nella
carne" (cf. Gen 2,24 ), cioè quando i due: l’uomo e la donna, che si uniscono fra loro così: da diventare una
sola carne, non sono coniugi legali: marito e moglie. Quale significato può quindi avere l’"adulterio
commesso nel cuore"? Non è questa forse una espressione soltanto metaforica, adoperata dal Maestro per
mettere in risalto la peccaminosità della concupiscenza?
5. Se ammettessimo tale lettura semantica dell’enunciato di Cristo ( Mt 5,27-28 ) occorrerebbe riflettere
profondamente sulle conseguenze etiche che ne deriverebbero, cioè sulle conclusioni circa la regolarità etica
del comportamento. L’adulterio avviene quando l’uomo e la donna, che si uniscono fra loro così da diventare
una sola carne (cf. Gen 2,24 ), cioè nel modo proprio dei coniugi, non sono coniugi legali. L’individuazione
dell’adulterio come peccato commesso "nel corpo" è strettamente ed esclusivamente unita all’atto
"esteriore", alla convivenza coniugale che si riferisce anche allo stato delle persone agenti, riconosciuto dalla
società. Nel caso in questione questo stato è improprio e non autorizza a tale atto (di qui, appunto, la
denominazione: "adulterio").
6. Passando alla seconda parte dell’enunciato di Cristo (cioè a quello in cui inizia a configurarsi il
nuovo ethos) bisognerebbe intendere l’espressione: "chiunque guarda una donna per desiderare", nel
riferimento esclusivo alle persone secondo il loro stato civile, riconosciuto cioè dalla società, siano o no
coniugi. Qui cominciano a moltiplicarsi gli interrogativi. Siccome non può creare dubbi il fatto che Cristo

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indichi la peccaminosità dell’atto interiore della concupiscenza espressa attraverso lo sguardo rivolto ad ogni
donna che non sia la moglie di colui che la guardi in tal modo, pertanto possiamo e perfino dobbiamo
chiederci se con la stessa espressione Cristo ammetta e comprovi tale sguardo, tale atto interiore della
concupiscenza, diretto verso la donna che è moglie dell’uomo, che così la guarda. In favore della risposta
affermativa a tale domanda sembra essere la seguente premessa logica: (nel caso in questione) può
commettere l’"adulterio nel cuore" soltanto l’uomo che è soggetto potenziale dell’"adulterio nella carne".
Dato che questo soggetto non può essere l’uomo-marito nei riguardi della propria legittima moglie, dunque
l’"adulterio nel cuore" non può riferirsi a lui, ma può addebitarsi a colpa di ogni altro uomo. Se marito, egli
non può commetterlo nei riguardi della propria moglie. Egli soltanto ha il diritto esclusivo di "desiderare", di
"guardare con concupiscenza" la donna che è sua moglie, e mai si potrà dire che a motivo di un tale atto
interiore meriti d’esser accusato dell’"adulterio commesso nel cuore". Se in virtù del matrimonio ha il diritto
di "unirsi con sua moglie", così che "i due saranno una sola carne", questo atto non può mai essere chiamato
"adulterio"; analogamente non può essere definito "adulterio commesso nel cuore" l’atto interiore del
"desiderio" di cui tratta il Discorso della Montagna.
7. Tale interpretazione delle parole di Cristo in Matteo 5,27-28, sembra corrispondere alla logica del
Decalogo, in cui, oltre al comandamento "non commettere adulterio" (VI), c’è anche il comandamento "non
desiderare la moglie del tuo prossimo" (IX). Inoltre il ragionamento che è stato fatto a suo sostegno ha tutte
le caratteristiche della correttezza obiettiva e dell’esattezza. Nondimeno, resta fondatamente in dubbio se
questo ragionamento tiene conto di tutti gli aspetti della rivelazione nonché della teologia del corpo che
debbono essere considerati, soprattutto quando vogliamo comprendere le parole di Cristo. Abbiamo già visto
in precedenza qual è il "peso specifico" di questa locuzione, quanto ricche sono le implicazioni
antropologiche e teologiche dell’unica frase in cui Cristo si riporta "all’origine" (cf. Mt 19,8 ). Le
implicazioni antropologiche e teologiche dell’enunciato del Discorso della Montagna, in cui Cristo si
richiama al cuore umano conferiscono all’enunciato stesso anche un "peso specifico" proprio, e in pari tempo
ne determinano la coerenza con l’insieme dell’insegnamento evangelico. E perciò dobbiamo ammettere che
l’interpretazione sopra presentata, con tutta la sua oggettiva correttezza e precisione logica, richiede un certo
ampliamento e, soprattutto, un approfondimento. Dobbiamo ricordare che il richiamo al cuore umano,
espresso forse in modo paradossale (cf. Mt 5,27-28 ), proviene da Colui che "sapeva quel che c’è in ogni
uomo" ( Gv 2,25 ). E se le sue parole confermano i comandamenti del Decalogo (non soltanto il sesto, ma
anche il nono), al tempo stesso esprimono quella scienza sull’uomo, che - come abbiamo altrove rilevato - ci
consente di unire la consapevolezza della peccaminosità umana con la prospettiva della "redenzione del
corpo" (cf. Rm 8,23 ). Appunto tale "scienza sta alle basi del nuovo ethos" che emerge dalle parole del
Discorso della Montagna.
Prendendo in considerazione tutto ciò, concludiamo che, come nell’intendere l’"adulterio nella carne" Cristo
sottopone a critica l’interpretazione erronea e unilaterale dell’adulterio che deriva dalla mancata osservanza
della monogamia (cioè del matrimonio inteso come l’alleanza indefettibile delle persone), così anche
nell’intendere l’"adulterio nel cuore" Cristo prende in considerazione non soltanto il reale stato giuridico
dell’uomo e della donna in questione. Cristo fa dipendere la valutazione morale del "desiderio"
soprattutto dalla stessa dignità personale dell’uomo e della donna; e questo ha la sua importanza sia quando
si tratta di persone non sposate, sia - e forse ancor più - quando sono coniugi, moglie e marito. Da questo
punto di vista ci converrà completare l’analisi delle parole del Discorso della Montagna, e lo faremo la
prossima volta.

Mercoledì, 8 ottobre 1980


Interpretazione psicologica e teologica del concetto di concupiscenza
1. Desidero oggi portare a termine l’analisi delle parole pronunziate da Cristo, nel discorso della montagna,
sull’"adulterio" e sulla "concupiscenza", e in particolare dell’ultima componente dell’enunciato, in cui si
definisce specificamente la "concupiscenza dello sguardo", come "adulterio commesso nel cuore".
Già in precedenza abbiamo constatato che le suddette parole vengono di solito intese come desiderio della
moglie altrui (cioè secondo lo spirito del IX comandamento del Decalogo). Sembra però che questa

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interpretazione - più restrittiva - possa e debba essere allargata alla luce del contesto globale. Sembra che la
valutazione morale della concupiscenza (del "guardare per desiderare") che Cristo chiama "adulterio
commesso nel cuore", dipenda soprattutto dalla stessa dignità personale dell’uomo e della donna; ciò vale sia
per coloro che non sono congiunti in matrimonio, sia - e forse ancor più - per quelli che sono marito e
moglie.
2. L’analisi, che finora abbiamo fatto dell’enunciato di Matteo 5,27-28: "Avete inteso che fu detto: Non
commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio
con lei nel suo cuore", indica la necessità di ampliare e soprattutto di approfondire l’interpretazione
anteriormente presentata, riguardo al senso etico che tale enunciato contiene. Ci soffermiamo sulla situazione
descritta dal Maestro, situazione nella quale colui che "commette adulterio nel cuore", mediante un atto
interiore di concupiscenza (espresso dallo sguardo), è l’uomo. È significativo che Cristo, parlando
dell’oggetto di tale atto, non sottolinea che è "la moglie altrui", o la donna che non è la propria moglie, ma
dice genericamente: la donna. L’adulterio commesso "nel cuore" non è circoscritto nei limiti del rapporto
interpersonale, i quali consentono di individuare l’adulterio commesso "nel corpo". Non sono tali limiti a
decidere esclusivamente ed essenzialmente dell’adulterio commesso "nel cuore", ma la natura stessa della
concupiscenza, espressa in questo caso attraverso lo sguardo, cioè per il fatto che quell’uomo - di cui, a titolo
di esempio, parla Cristo - "guarda per desiderare". L’adulterio "nel cuore" viene commesso non soltanto
perché l’uomo "guarda" in tal modo la donna che non è sua moglie, ma appunto perché guarda così una
donna. Anche se guardasse in questo modo la donna che è sua moglie commetterebbe lo stesso adulterio "nel
cuore".
3. Questa interpretazione sembra prendere in considerazione, in modo più ampio, ciò che nell’insieme delle
presenti analisi è stato detto sulla concupiscenza, e in primo luogo sulla concupiscenza della carne, quale
elemento permanente della peccaminosità dell’uomo (status naturae lapsae). La concupiscenza che, come
atto interiore, nasce da questa base (come abbiamo cercato di indicare nella precedente analisi), muta
l’intenzionalità stessa dell’esistere della donna "per" l’uomo, riducendo la ricchezza della perenne chiamata
alla comunione delle persone, la ricchezza della profonda attrattiva della mascolinità e della femminilità, al
solo appagamento del "bisogno" sessuale del corpo (a cui sembra collegarsi più da vicino il concetto di
"istinto"). Una tale riduzione fa sì che la persona (in questo caso, la donna) diventa per l’altra persona (per
l’uomo) soprattutto l’oggetto dell’appagamento potenziale del proprio "bisogno" sessuale. Si deforma così
quel reciproco "per", che perde il suo carattere di comunione delle persone a favore della funzione
utilitaristica. L’uomo che "guarda" in tal modo, come scrive Matteo 5,27-28, "si serve" della donna, della sua
femminilità, per appagare il proprio "istinto". Sebbene non lo faccia con un atto esteriore, già nel suo intimo
ha assunto tale atteggiamento, interiormente così decidendo rispetto ad una determinata donna. In ciò
consiste appunto l’adulterio "commesso nel cuore". Tale adulterio "nel cuore" può commettere l’uomo anche
nei riguardi della propria moglie, se la tratta soltanto come oggetto di appagamento dell’istinto.
4. Non è possibile giungere alla seconda interpretazione delle parole di Matteo 5,27-28, se ci limitiamo
all’interpretazione puramente psicologica della concupiscenza, senza tener conto di ciò che costituisce il suo
specifico carattere teologico, cioè il rapporto organico tra la concupiscenza (come atto) e la concupiscenza
della carne, come, per così dire, disposizione permanente che deriva dalla peccaminosità dell’uomo. Sembra
che l’interpretazione puramente psicologica (ovvero "sessuologica") della "concupiscenza" non costituisca
una base sufficiente per comprendere il relativo testo del discorso della montagna. Se invece ci riferiamo
all’interpretazione teologica, - senza sottovalutare ciò che nella prima interpretazione (quella
psicologica) resta immutabile - essa, cioè la seconda interpretazione (quella teologica) ci appare come più
completa. Grazie ad essa, infatti, diviene più chiaro anche il significato etico dell’enunciato-chiave del
discorso della montagna a cui dobbiamo l’adeguata dimensione dell’ethos del Vangelo.
5. Nel delineare questa dimensione, Cristo resta fedele alla Legge: "Non pensate che io sia venuto ad abolire
la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento" ( Mt 5,17 ). Di conseguenza
dimostra quanto ci sia bisogno di scendere in profondità, quanto ci sia bisogno di svelare a fondo le latebre
del cuore umano, affinché questo cuore possa diventare un luogo di "adempimento" alla Legge. L’enunciato
di Matteo5,27-28, che rende manifesta la prospettiva interiore dell’adulterio commesso "nel cuore" - e in
questa prospettiva addita le giuste vie per adempiere il comandamento: "Non commettere adulterio" - ne è un
singolare argomento. Questo enunciato ( Mt 5,27-28 ) si riferisce infatti, alla sfera in cui si tratta in modo
particolare della "purezza del cuore" (cf. Mt 5,8 ) (espressione che nella Bibbia - come è noto - ha un

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significato ampio). Anche altrove avremo occasione di considerare in che modo il comandamento "Non
commettere adulterio" - il quale, quanto al modo in cui viene espresso ed al contenuto, è un divieto univoco e
severo (come il comandamento "Non desiderare la moglie del tuo prossimo") ( Es20,17 ) - si compie appunto
mediante la "purezza di cuore". Della severità e forza della proibizione testimoniano indirettamente le
successive parole del testo del discorso della montagna, in cui Cristo parla figuratamente del "cavare
l’occhio" e del "tagliare la mano", allorché queste membra fossero causa di peccato (cf. Mt 5,29-30 ).
Abbiamo constatato in precedenza che la legislazione dell’Antico Testamento, pur abbondando di punizioni
improntate a severità tuttavia essa non contribuiva "a dare compimento alla Legge", perché la sua casistica
era contrassegnata da molteplici compromessi con la concupiscenza della carne. Cristo invece insegna che il
comandamento si adempie attraverso la "purezza di cuore", la quale non viene partecipata all’uomo se non a
prezzo di fermezza nei confronti di tutto ciò che ha origine dalla concupiscenza della carne. Acquista la
"purezza di cuore" chi sa esigere coerentemente dal suo "cuore": dal suo "cuore" e dal suo "corpo".
6. Il comandamento "Non commettere adulterio" trova la sua giusta motivazione nell’indissolubilità del
matrimonio, in cui l’uomo e la donna, in virtù dell’originario disegno del Creatore, si uniscono in modo che
"i due diventano una sola carne" (cf. Gen 2,24 ). L’adulterio, per sua essenza, contrasta con tale unità, nel
senso in cui questa unità corrisponde alla dignità delle persone. Cristo non soltanto conferma questo
essenziale significato etico del comandamento, ma tende a consolidarlo nella stessa profondità della persona
umana. La nuova dimensione dell’ethos è collegata sempre con la rivelazione di quel profondo, che viene
chiamato "cuore" e con la liberazione di esso dalla "concupiscenza", in modo che in quel cuore possa
risplendere più pienamente l’uomo: maschio e femmina in tutta la verità interiore del reciproco "per".
Liberato dalla costrizione e dalla menomazione dello spirito che porta con sé la concupiscenza della carne,
l’essere umano: maschio e femmina, si ritrova reciprocamente nella libertà del dono che è la condizione di
ogni convivenza nella verità, ed, in particolare, nella libertà del reciproco donarsi, poiché entrambi, come
marito e moglie, debbono formare l’unità sacramentale voluta, come dice Genesi 2,24, dallo stesso Creatore.
7. Come è evidente, l’esigenza, che nel discorso della montagna Cristo pone a tutti i suoi ascoltatori attuali e
potenziali, appartiene allo spazio interiore in cui l’uomo - proprio colui che lo ascolta - deve scorgere di
nuovo la pienezza perduta della sua umanità, e volerla riacquistare. Quella pienezza nel rapporto reciproco
delle persone: dell’uomo e della donna, il Maestro la rivendica in Matteo 5,27-28, avendo in mente
soprattutto l’indissolubilità del matrimonio, ma anche ogni altra forma di convivenza degli uomini e delle
donne, di quella convivenza che costituisce la pura e semplice trama dell’esistenza. La vita umana, per sua
natura, è "coeducativa", e la sua dignità, il suo equilibrio dipendono, ogni momento della storia e in ogni
punto di longitudine e latitudine geografica, da "chi" sarà lei per lui, e lui per lei.
Le parole pronunziate da Cristo nel discorso della montagna hanno indubbiamente tale portata universale e
insieme profonda. Solo così possono essere intese nella bocca di Colui, che sino in fondo "sapeva quello che
c’è in ogni uomo" ( Gv 2,25 ), e che, nello stesso tempo, portava in sé il mistero della "redenzione del corpo"
come si esprimerà S. Paolo. Dobbiamo temere la severità di queste parole, o piuttosto aver fiducia nel loro
contenuto salvifico, nella loro potenza?
In ogni caso, l’analisi compiuta delle parole pronunziate da Cristo nel discorso della montagna apre la strada
ad ulteriori riflessioni indispensabili per avere piena consapevolezza dell’uomo "storico", e soprattutto
dell’uomo contemporaneo: della sua coscienza e del suo "cuore".

Mercoledì, 15 ottobre 1980


Valori evangelici e doveri del cuore umano
1. Durante i nostri numerosi incontri del mercoledì abbiamo fatto una particolareggiata analisi delle parole
del discorso della montagna, in cui Cristo fa riferimento al "cuore" umano. Come ormai sappiamo, le sue
parole sono impegnative. Cristo dice: "Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico:
chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,27-28).
Tale richiamo al cuore mette in luce la dimensione dell’interiorità umana, la dimensione dell’uomo interiore,
propria dell’etica, e ancor più della teologia del corpo. Il desiderio, che sorge nell’ambito della

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concupiscenza della carne, è al tempo stesso una realtà interiore e teologica, la quale, in certo modo, viene
sperimentata da ogni uomo "storico". Ed è appunto quest’uomo - anche se non conosce le parole di Cristo - a
porsi di continuo la domanda circa il proprio "cuore". Le parole di Cristo rendono tale domanda
particolarmente esplicita: il cuore è accusato oppure è chiamato al bene? E questa domanda intendiamo ora
prendere in considerazione, verso la fine delle nostre riflessioni ed analisi, collegate con la frase così concisa
ed insieme categorica del Vangelo, così carica di contenuto teologico, antropologico ed etico.
Di pari passo va una seconda domanda, più "pratica": come "può" e "deve" agire l’uomo, che accoglie le
parole di Cristo nel discorso della montagna, l’uomo che accetta l’"ethos" del Vangelo, e, in particolare, lo
accetta in questo campo?
2. Quest’uomo trova nelle considerazioni finora fatte la risposta, almeno indiretta, alle due domande: come
"può" agire, cioè su che cosa può contare nel suo "intimo, alla sorgente dei suoi atti "interiori" o "esteriori"?
E inoltre: come "dovrebbe" agire, cioè in che modo i valori conosciuti secondo la "scala" rivelata nel
discorso della montagna costituiscono un dovere della sua volontà e del suo "cuore", dei suoi desideri e delle
sue scelte? In che modo lo "obbligano" nell’azione, nel comportamento, se, accolte mediante la conoscenza,
lo "impegnano" già nel pensare e, in certa qual maniera, nel "sentire"? Queste domande sono significative
per la "praxis" umana, ed indicano un legame organico della "praxis" stessa con l’"ethos". La morale viva è
sempre "ethos" della prassi umana.
3. Alle suddette domande si può rispondere in vario modo. Infatti, sia nel passato, sia oggi vengono date
risposte diverse. Ciò è confermato da un’ampia letteratura. Oltre alle risposte che troviamo in essa, occorre
prendere in considerazione l’infinito numero di risposte, che l’uomo concreto dà a queste domande da se
stesso, quelle che, nella vita di ciascuno, dà ripetutamente la sua coscienza, la sua consapevolezza e
sensibilità morale. Proprio in questo ambito si attua continuamente una compenetrazione dell’"ethos" e della
"praxis". Qui vivono la propria vita (non esclusivamente "teorica") i singoli principi, cioè le norme della
morale con le loro motivazioni, elaborate e divulgate da moralisti, ma anche quelle che elaborano -
sicuramente non senza un legame col lavoro dei moralisti e degli scienziati - i singoli uomini, come autori e
soggetti diretti della morale reale, come co-autori della sua storia, dai quali dipende anche il livello della
morale stessa, il suo progresso o la sua decadenza. In tutto ciò si riconferma dappertutto e sempre,
quell’"uomo storico" al quale una volta Cristo ha parlato, annunziando la buona novella evangelica con il
discorso della montagna, ove tra l’altro ha detto la frase che leggiamo in Matteo 5,27-28: "Avete inteso che
fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già
commesso adulterio con lei nel suo cuore".
4. L’enunciato di Matteo si presenta stupendamente conciso riguardo a tutto ciò che su questo tema è stato
scritto nella letteratura mondiale. E forse appunto in questo consiste la sua forza nella storia dell’"ethos".
Occorre nello stesso tempo rendersi conto del fatto che la storia dell’"ethos" scorre in un alveo multiforme,
in cui le singole correnti si avvicinano o allontanano vicendevolmente. L’uomo "storico" valuta sempre, a
modo suo, il proprio "cuore", così come giudica anche il proprio "corpo": e così trapassa dal polo del
pessimismo al polo dell’ottimismo, dalla severità puritana al permissivismo contemporaneo. È necessario
rendersene conto, affinché l’"ethos" del discorso della montagna possa sempre avere una debita trasparenza
nei confronti delle azioni e dei comportamenti dell’uomo. A tale fine occorre fare ancora alcune analisi.
5. Le nostre riflessioni sul significato delle parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28 non sarebbero complete,
se non ci soffermassimo - almeno brevemente - su ciò che si può chiamare la risonanza di queste parole nella
storia del pensiero umano e della valutazione dell’"ethos". La risonanza è sempre una trasformazione della
voce e delle parole che la voce esprime. Sappiamo dall’esperienza che tale trasformazione è talvolta piena di
misterioso fascino. Nel caso in questione, è accaduto piuttosto qualcosa di contrario. Infatti, alle parole di
Cristo è stata piuttosto tolta la loro semplicità e profondità ed è stato conferito un significato lontano da
quello in esse espresso, un significato in fin dei conti persino contrastante con esse. Abbiamo qui in mente
tutto ciò che è apparso al margine del cristianesimo sotto il nome di manicheismo (1) e che ha anche cercato
di entrare nel terreno del cristianesimo per quanto riguarda appunto la teologia e l’"ethos" del corpo. È noto
che, nella forma originaria, il manicheismo, sorto nell’oriente al di fuori dell’ambiente biblico è scaturito dal
dualismo mazdeista, individuava la sorgente del male nella materia, nel corpo e proclamava quindi la
condanna di tutto ciò che nell’uomo è corporeo. E poiché nell’uomo la corporeità si manifesta soprattutto
attraverso il sesso, allora la condanna veniva estesa al matrimonio e alla convivenza coniugale, oltre che alle
altre sfere dell’essere e dell’agire, in cui si esprime la corporeità.

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6. Ad un orecchio non adusato, l’evidente severità di quel sistema poteva sembrare in sintonia con le severe
parole di Matteo 5,29-30, in cui Cristo parla del "cavare l’occhio" o del "tagliare la mano", se queste membra
fossero la causa dello scandalo. Attraverso l’interpretazione puramente "materiale" di queste locuzioni, era
anche possibile ottenere un’ottica manichea dell’enunciato di Cristo, in cui si parla dell’uomo che ha
"commesso adulterio nel cuore... guardando la donna per desiderarla". Anche in questo caso,
l’interpretazione manichea tende alla condanna del corpo, come reale sorgente del male, dato che in esso,
secondo il manicheismo, si cela e insieme si manifesta il principio "ontologico" del male. Si cercava dunque
di scorgere e talvolta si percepiva tale condanna nel Vangelo, trovandola ove è invece stata espressa
esclusivamente una esigenza particolare indirizzata allo spirito umano.
Si noti che la condanna poteva - e può sempre essere - una scappatoia per sottrarsi alle esigenze poste nel
Vangelo da colui che "sapeva quello che c’è in ogni uomo" ( Gv 2,25 ). Non ne mancano prove nella storia.
Abbiamo già avuto in parte l’occasione (e certamente l’avremo ancora) per dimostrare in quale misura tale
esigenza possa sorgere unicamente da una affermazione - e non da una negazione o da una condanna - se
deve portare ad un’affermazione ancor più matura ed approfondita oggettivamente e soggettivamente. E a
una tale affermazione della femminilità e mascolinità dell’essere umano, come dimensione personale
dell’"essere corpo", debbono condurre le parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28. Tale è il giusto significato
etico di queste parole. Esse imprimono, sulle pagine del Vangelo, una peculiare dimensione dell’" ethos" al
fine di imprimerla successivamente nella vita umana.
Cercheremo di riprendere questo tema nelle nostre ulteriori riflessioni.

Mercoledì, 22 ottobre 1980


Realizzazione del valore del corpo secondo il disegno del Creatore
1. Al centro delle nostre riflessioni, negli incontri del mercoledì, sta ormai da lungo tempo ii seguente
enunciato di Cristo nel discorso della montagna: "Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io
vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei (verso di lei) nel suo
cuore" (Mt 5,27-28). Queste parole hanno un significato essenziale per tutta la teologia del corpo contenuta
nell’insegnamento di Cristo. Pertanto, attribuiamo giustamente grande importanza alla loro corretta
comprensione ed interpretazione. Già nella nostra precedente riflessione abbiamo constatato che la dottrina
manichea, nelle sue espressioni sia primitive sia posteriori, è in contrasto con queste parole.
Non è infatti possibile cogliere nella frase del discorso della montagna, qui analizzata, una "condanna"
oppure un’accusa del corpo. Semmai, vi si potrebbe intravedere una condanna del cuore umano. Tuttavia, le
nostre riflessioni finora fatte manifestano che, se le parole di Matteo 5,27-28 contengono un’accusa, oggetto
di questa è soprattutto l’uomo della concupiscenza. Con quelle parole il cuore viene non tanto accusato
quanto sottoposto ad un giudizio o, meglio, chiamato ad un esame critico, anzi, autocritico: se soccomba o no
alla concupiscenza della carne. Penetrando nel significato profondo della enunciazione di Matteo 5,27-28,
dobbiamo tuttavia costatare che il giudizio ivi racchiuso circa il "desiderio", come atto di concupiscenza
della carne, contiene in sé non la negazione, ma piuttosto l’affermazione del corpo, come elemento che
insieme allo spirito determina la soggettività ontologica dell’uomo e partecipa alla sua dignità di persona.
Così dunque, il giudizio sulla concupiscenza della carne ha un significato essenzialmente diverso da quello
che può presupporre l’ontologia manichea del corpo e che necessariamente ne scaturisce.
2. Il corpo, nella sua mascolinità e femminilità, è "dal principio" chiamato a diventare la manifestazione
dello spirito. Lo diviene anche mediante l’unione coniugale dell’uomo e della donna, quando si uniscono in
modo da formare "una sola carne". Altrove (cf. Mt 19,5-6 ) Cristo difende i diritti inviolabili di tale unità,
mediante la quale il corpo, nella sua mascolinità e femminilità, assume il valore di segno - segno in certo
qual senso - sacramentale; e inoltre, mettendo in guardia contro la concupiscenza della carne, esprime la
stessa verità circa la dimensione ontologica del corpo e ne conferma il significato etico, coerente con
l’insieme del suo insegnamento. Questo significato etico non ha nulla in comune con la condanna manichea,
ed è invece profondamente compenetrato del mistero della "redenzione del corpo", di cui san Paolo scriverà
nella lettera ai Romani (cf. Rm 8,23 ). La "redenzione del corpo" non indica, tuttavia, il male ontologico
come attributo costitutivo del corpo umano, ma addita soltanto la peccaminosità dell’uomo, per cui

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questi ha, tra l’altro, perduto il senso limpido del significato sponsale del corpo, in cui si esprime il dominio
interiore e la libertà dello spirito. Si tratta qui - come già abbiamo rilevato in precedenza - di una perdita
"parziale", potenziale, dove il senso del significato sponsale del corpo si confonde, in certo qual modo, con la
concupiscenza e consente facilmente di esserne assorbito.
3. L’interpretazione appropriata delle parole di Cristo secondo Matteo 5, 27-28, come pure la "praxis" in cui
si attuerà successivamente l’autentico "ethos" del discorso della montagna, debbono essere assolutamente
liberati da elementi manichei nel pensiero e nell’atteggiamento. Un atteggiamento manicheo dovrebbe
portare ad un "annientamento", se non reale, almeno intenzionale del corpo, ad una negazione del valore del
sesso umano, della mascolinità e femminilità della persona umana, o perlomeno soltanto alla loro
"tolleranza" nei limiti del "bisogno" delimitato dalla necessità della procreazione. Invece, in base alle parole
di Cristo nel discorso della montagna, l’"ethos" cristiano è caratterizzato da una trasformazione della
coscienza e degli atteggiamenti della persona umana, sia dell’uomo sia della donna, tale da manifestare e
realizzare il valore del corpo e del sesso, secondo il disegno originario del Creatore, posti al servizio della
"comunione delle persone" che è il substrato più profondo dell’etica e della cultura umana. Mentre per la
mentalità manichea il corpo e la sessualità costituiscono, per così dire, un "anti-valore", per il cristianesimo,
invece, essi rimangono sempre un "valore non abbastanza apprezzato", come meglio spiegherò oltre. Il
secondo atteggiamento indica quale debba essere la forma dell’"ethos", in cui il mistero della "redenzione del
corpo" si radica, per così dire, nel suolo "storico" della peccaminosità dell’uomo. Ciò viene espresso dalla
formula teologica, che definisce lo "stato" dell’uomo "storico" come "status naturae lapsae simul ac
redemptae".
4. Bisogna interpretare le parole di Cristo nel discorso della montagna ( Mt 5,27-28 ) alla luce di questa
complessa verità sull’uomo. Se esse contengono una certa "accusa" al cuore umano, tanto maggiormente gli
rivolgono un appello. L’accusa del male morale, che il "desiderio" nato dalla concupiscenza carnale
intemperante cela in sé, è al tempo stesso una chiamata a vincere questo male. E se la vittoria sul male deve
consistere nel distacco da esso (di qui le severe parole nel contesto di Matteo 5,27-28), tuttavia si tratta
soltanto di distaccarsi dal male dell’atto(nel caso in questione, dell’atto interiore della "concupiscenza"), e
non mai di trasferire la negatività di tale atto sul suo oggetto. Un simile trasferimento significherebbe una
certa accettazione - forse non pienamente cosciente - dell’"anti-valore" manicheo. Esso non costituirebbe una
vera e profonda vittoria sul male dell’atto, che è male per essenza morale, quindi male di natura spirituale;
anzi, vi si nasconderebbe il grande pericolo di giustificare l’atto a scapito dell’oggetto (ciò in cui consiste
propriamente l’errore essenziale dell’"ethos" manicheo). È evidente che Cristo in Matteo 5,27-28 esige un
distacco dal male della "concupiscenza" (o dello sguardo di desiderio disordinato), ma il suo enunciato non
lascia in alcun modo supporre che sia un male l’oggetto di quel desiderio, cioè la donna che si "guarda per
desiderarla" (Questa precisazione sembra talvolta mancare in alcuni testi "sapienziali").
5. Dobbiamo, dunque, precisare la differenza tra l’"accusa" e l’"appello". Dato che l’accusa rivolta al male
della concupiscenza è al tempo stesso un appello a vincerlo, di conseguenza questa vittoria deve unirsi ad
uno sforzo per scoprire l’autentico valore dell’oggetto, affinché nell’uomo, nella sua coscienza e nella sua
volontà, non attecchisca l’"anti-valore" manicheo. Infatti, il male della "concupiscenza", cioè dell’atto di cui
parla Cristo in Matteo 5,27-28, fa sì che l’oggetto, al quale esso si rivolge, costituisca per il soggetto umano
un "valore non abbastanza apprezzato". Se nelle parole analizzate del discorso della montagna ( Mt 5,27-28 )
il cuore umano è "accusato" di concupiscenza (oppure se è messo in guardia contro quella concupiscenza), in
pari tempo mediante le stesse parole esso è chiamato a scoprire il pieno senso di ciò che nell’atto di
concupiscenza costituisce per lui un "valore non abbastanza apprezzato". Come sappiamo, Cristo disse:
"Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore". L’"adulterio
commesso nel cuore" si può e si deve intendere come "devalorizzazione", ovvero come depauperamento di
un valore autentico, come intenzionale privazione di quella dignità, a cui nella persona in questione risponde
il valore integrale della sua femminilità. Le parole di Matteo 5,27-28 contengono un richiamo a scoprire tale
valore e tale dignità, e a riaffermarli. Sembra che soltanto intendendo così le citate parole di Matteo si rispetti
la loro portata semantica.
Per concludere queste concise considerazioni, occorre ancora una volta costatare che il modo manicheo di
intendere e di valutare il corpo e la sessualità dell’uomo è essenzialmente estraneo al Vangelo, non conforme
al significato esatto delle parole del discorso della montagna, pronunziate da Cristo. Il richiamo a dominare
la concupiscenza della carne scaturisce appunto dall’affermazione della dignità personale del corpo e del

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sesso, ed a tale dignità unicamente serve. Commetterebbe un errore essenziale colui che volesse cogliere in
queste parole una prospettiva manichea.

Mercoledì, 29 ottobre 1980


La forza originaria della creazione diventi per l’uomo forza di redenzione
1. Già da lungo tempo, ormai, le nostre riflessioni del mercoledì s’incentrano sul seguente enunciato di Gesù
Cristo nel Discorso della montagna: "Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico:
chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei (nei suoi confronti) nel suo
cuore" (Mt 5,27-28). Ultimamente abbiamo chiarito che le suddette parole non possono essere intese né
interpretate in chiave manichea. Esse non contengono, in alcun modo, la condanna del corpo e della
sessualità. Racchiudono soltanto un richiamo a vincere la triplice concupiscenza, ed in particolare la
concupiscenza della carne: ciò che appunto scaturisce dall’affermazione della dignità personale del corpo e
della sessualità, e unicamente convalida tale affermazione.
Precisare tale formulazione, ossia determinare il significato proprio delle parole del Discorso della montagna,
in cui Cristo fa richiamo al cuore umano (cf. Mt 5,27-28 ), è importante non soltanto a motivo di "abitudini
inveterate", sorte dal manicheismo, nel modo di pensare e di valutare le cose, ma anche a motivo di
alcune posizioni contemporanee che interpretano il senso dell’uomo e della morale. Ricceur ha qualificato
Freud, Marx e Nietzsche come "maestri del sospetto"(1) ("maitres du soupçon"), avendo in mente l’insieme
dei sistemi che ciascuno di essi rappresenta, e forse soprattutto la base nascosta e l’orientamento di ciascuno
di essi nell’intendere ed interpretare l’humanum stesso.
Sembra necessario accennare, almeno brevemente, a questa base e a questo orientamento. Occorre farlo per
scoprire da una parte una significativa convergenza, e dall’altra anche una divergenza fondamentale con
l’ermeneutica, che ha la sua sorgente nella Bibbia, a cui tentiamo di dare espressione nelle nostre analisi. In
che cosa consiste la convergenza? Consiste nel fatto che i pensatori sopra menzionati, i quali hanno
esercitato ed esercitano grande influsso sul modo di pensare e di valutare degli uomini del nostro tempo,
sembrano in sostanza anche giudicare ed accusare il "cuore" dell’uomo. Ancor più, sembrano giudicarlo ed
accusarlo a motivo di ciò che nel linguaggio biblico, soprattutto giovanneo, viene chiamato concupiscenza,
la triplice concupiscenza.
2. Si potrebbe far qui una certa distribuzione delle parti. Nell’ermeneutica nietzschiana il giudizio e l’accusa
del cuore umano corrispondono, in certo modo, a ciò che nel linguaggio biblico è chiamato "superbia della
vita"; nell’ermeneutica marxista, a ciò che è stato chiamato "concupiscenza degli occhi"; nell’ermeneutica
freudiana, invece, a ciò che viene chiamato "concupiscenza della carne". La convergenza di queste
concezioni con l’ermeneutica dell’uomo fondata sulla Bibbia consiste nel fatto che, scoprendo nel cuore
umano la triplice concupiscenza, avremmo potuto anche noi limitarci a porre quel cuore in stato di continuo
sospetto. Tuttavia, la Bibbia non ci permette di fermarci qui. Le parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28,
sono tali che, pur manifestando tutta la realtà del desiderio e della concupiscenza, non consentono che si
faccia di tale concupiscenza il criterio assoluto dell’antropologia e dell’etica, ossia il nucleo stesso
dell’ermeneutica dell’uomo. Nella Bibbia, la triplice concupiscenza non costituisce il criterio
fondamentale e magari unico ed assoluto dell’antropologia e dell’etica, sebbene sia indubbiamente un
coefficiente importante per comprendere l’uomo, le sue azioni e il loro valore morale. Anche l’analisi finora
da noi fatta lo mostra.
3. Pur volendo arrivare ad una completa interpretazione delle parole di Cristo sull’uomo che "guarda con
concupiscenza" (cf. Mt 5,27-28 ), noi non possiamo accontentarci di qualunque concezione della
"concupiscenza", anche nel caso che si raggiungesse la pienezza della verità "psicologica" a noi accessibile;
dobbiamo, invece, attingere alla Prima Lettera di Giovanni 2,15-16 ed alla "teologia della concupiscenza"
che vi è racchiusa. L’uomo che "guarda per desiderare"; è infatti l’uomo della triplice concupiscenza, è
l’uomo della concupiscenza della carne. Perciò egli "può" guardare in tal modo e perfino deve esser
conscio che, abbandonando questo atto interiore in balia delle forze della natura, non può evitare l’influsso
della concupiscenza della carne. In Matteo 5,27-28 Cristo tratta anche di questo e vi richiama l’attenzione.

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Le sue parole si riferiscono non soltanto all’atto concreto di "concupiscenza", ma, indirettamente, anche
all’"uomo di concupiscenza".
4. Perché queste parole del Discorso della montagna, malgrado la convergenza di ciò che dicono riguardo al
cuore umano (cf. Mt 5,19-20 ) con ciò che è stato espresso nell’ermeneutica dei "maestri del sospetto", non
possono essere considerate come base nella suddetta ermeneutica o di una analoga? E perché costituiscono,
esse, una espressione, una configurazione di un ethos totalmente diverso? - diverso non soltanto da quello
manicheo, ma anche da quello freudiano? Penso che l’insieme delle analisi e riflessioni, finora fatte, dia
risposta a questo interrogativo. Riassumendo, si può dire brevemente che le parole di Cristo
secondo Matteo 5,27-28 non consentono di arrestarci all’accusa del cuore umano e metterlo in stato di
continuo sospetto, ma debbono essere intese ed interpretate soprattutto come un richiamo rivolto al
cuore. Ciò deriva dalla natura stessa dell’ethos della redenzione. Sul fondamento di questo mistero, che San
Paolo ( Rm 8,23 ) definisce "redenzione del corpo", sul fondamento della realtà denominata "redenzione" e,
di conseguenza, sul fondamento dell’ethos della redenzione del corpo, non possiamo fermarci soltanto
all’accusa del cuore umano in base al desiderio e alla concupiscenza della carne. L’uomo non può fermarsi a
porre il "cuore" in stato di continuo ed irreversibile sospetto a causa delle manifestazioni della
concupiscenza della carne e della libido, che, fra l’altro, uno psicanalista rileva mediante le analisi
dell’inconscio(2). La redenzione è una verità, una realtà, nel cui nome l’uomo deve sentirsi chiamato, e
"chiamato con efficacia". Deve rendersi conto di tale chiamata anche mediante le parole di Cristo
secondo Matteo 5,27-28, riflette nel pieno contesto della rivelazione del corpo. L’uomo deve sentirsi
chiamato a riscoprire, anzi, a realizzare il significato sponsale del corpo e ad esprimere in tal modo la libertà
interiore del dono, cioè di quello stato e di quella forza spirituali, che derivano dal dominio della
concupiscenza della carne.
5. L’uomo è chiamato a questo dalla parola del Vangelo, quindi dall’"esterno", ma contemporaneamente è
chiamato dall’"interno". Le parole di Cristo, il quale nel Discorso della Montagna si richiama al "cuore",
inducono, in certo senso, l’ascoltatore a tale chiamata interiore. Se egli consentirà a che esse agiscano in lui,
potrà udire al tempo stesso nel suo intimo quasi l’eco di quel "principio", di quel buon "principio" al quale
Cristo fece riferimento un’altra volta, per ricordare ai propri ascoltatori chi sia l’uomo, chi sia la donna e chi
siano reciprocamente l’uno per l’altro nell’opera della creazione. Le parole di Cristo pronunziate nel
Discorso della Montagna non sono un richiamo lanciato nel vuoto. Non sono rivolte all’uomo del tutto
impegnato nella concupiscenza della carne, incapace di cercare un’altra forma di rapporti reciproci
nell’ambito della perenne attrattiva, che accompagna la storia dell’uomo e della donna appunto "dal
principio". Le parole di Cristo testimoniano che la forza originaria (quindi anche la grazia)- del mistero
della creazione diventa per ognuno di loro forza (cioè grazia) del mistero della redenzione. Ciò riguarda la
stessa "natura", lo stesso substrato dell’umanità della persona, i più profondi impulsi del "cuore". Non sente
forse l’uomo, insieme alla concupiscenza, un profondo bisogno di conservare la dignità dei rapporti
reciproci, che trovano la loro espressione nel corpo, grazie alla sua mascolinità e femminilità? Non sente
forse il bisogno di impregnarli di tutto ciò che è nobile e bello? Non sente forse il bisogno di conferire loro il
supremo valore che è l’amore?
6. A rileggerlo, questo appello racchiuso nelle parole di Cristo nel Discorso della Montagna non può essere
un atto staccato dal contesto dell’esistenza concreta. Esso significa sempre - sebbene soltanto nella
dimensione dell’atto a cui si riferisce - la riscoperta del significato di tutta l’esistenza, del significato della
vita, in cui è compreso anche quel significato del corpo, che qui chiamiamo a sponsale". Il significato del
corpo è, in certo senso, l’antitesi della libido freudiana. Il significato della vita è l’antitesi dell’ermeneutica
"del sospetto". Tale ermeneutica è molto differente, è radicalmente differente da quella che riscopriamo nelle
parole di Cristo nel Discorso della Montagna. Queste parole svelano non solamente un altro ethos, ma pure
un’altra visione delle possibilità dell’uomo. È importante che egli, proprio nel suo "cuore", non si senta
soltanto irrevocabilmente accusato e dato in preda alla concupiscenza della carne, ma che nello stesso cuore
si senta chiamato con energia. Chiamato appunto a quel supremo valore che è l’amore. Chiamato come
persona nella verità della sua umanità, dunque anche nella verità della sua mascolinità e femminilità, nella
verità del suo corpo. Chiamato in quella verità che è patrimonio "del principio", patrimonio del suo cuore,
più profondo della peccaminosità ereditata, più profondo della triplice concupiscenza. Le parole di Cristo,
inquadrate nell’intera realtà della creazione e della redenzione, riattualizzano quella eredità più profonda e le
donano una reale forza nella vita dell’uomo.

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Mercoledì, 5 novembre 1980
“Eros” ed “Ethos” si incontrano e fruttificano nel cuore umano
1. Nel corso delle nostre riflessioni settimanali sull’enunciato di Cristo nel Discorso della Montagna, in cui
Egli, in riferimento al comandamento "Non commettere adulterio", paragona la "concupiscenza" ("lo
sguardo concupiscente") all’"adulterio commesso nel cuore", cerchiamo di rispondere alla domanda: queste
parole accusano soltanto il "cuore" umano oppure sono innanzitutto un appello che gli viene rivolto? Un
appello, s’intende, di carattere etico; un appello importante ed essenziale per lo stesso ethos del Vangelo.
Rispondiamo che le suddette parole sono soprattutto un appello.
Al tempo stesso, cerchiamo di avvicinare le nostre riflessioni agli "itinerari" che percorre, nel suo ambito, la
coscienza degli uomini contemporanei. Già nel precedente ciclo delle nostre considerazioni abbiamo
accennato all’"eros". Questo termine greco, che dalla mitologia è passato alla filosofia, poi alla lingua
letteraria e infine alla lingua parlata, contrariamente alla parola "ethos" è estraneo e sconosciuto al
linguaggio biblico. Se nelle presenti analisi dei testi biblici adoperiamo il termine "ethos", sconosciuto ai
Settanta e al Nuovo Testamento, lo facciamo a motivo del significato generale che esso ha acquistato nella
filosofia e nella teologia, abbracciando nel suo contenuto le complesse sfere del bene e del male, dipendenti
dalla volontà umana e sottoposte alle leggi della coscienza e della sensibilità del "cuore" umano. Il termine
"eros", oltre ad essere nome proprio del personaggio mitologico, ha negli scritti di Platone un significato
filosofico 43, che sembra esser differente dal significato comune ed anche da quello che, di solito, gli viene
attribuito nella letteratura. Ovviamente, dobbiamo qui prendere in considerazione la vasta gamma di
significati, che si differenziano tra loro in modo sfumato, per quanto riguarda sia il personaggio mitologico,
sia il contenuto filosofico, sia soprattutto il punto di vista "somatico" o "sessuale". Tenendo conto di una
gamma così vasta di significati, conviene valutare, in modo altrettanto differenziato, ciò che si pone in
rapporto con l’"eros" 44 e viene definito come "erotico".
2. Secondo Platone, l’"eros" rappresenta la forza interiore, che trascina l’uomo verso tutto ciò che è buono,
vero e bello. Questa "attrazione" indica, in tal caso, l’intensità di un atto soggettivo dello spirito umano. Nel
significato comune, invece - come anche nella letteratura - questa"attrazione" sembra essere anzitutto di
natura sensuale. Esso suscita il reciproco tendere di entrambi, dell’uomo e della donna, all’avvicinamento,
all’unione dei corpi, a quell’unione di cui parla Genesi 2,24. Si tratta qui di rispondere alla domanda sé
l’"eros" connoti lo stesso significato che c’è nella narrazione biblica ( Gen 2,23-25 ), la quale indubbiamente
43. Secondo Platone l’uomo, posto tra il mondo dei sensi e il mondo delle Idee, ha il destino di passare dal primo al
secondo. Il mondo delle Idee non è però in grado, da solo, di superare il mondo dei sensi: può fare ciò soltanto l’Eros,
congenito dell’uomo. Quando l’uomo comincia a presentire l’esistenza delle Idee, grazie alla contemplazione degli
oggetti esistenti nel mondo dei sensi, riceve l’impulso da Eros ossia dal desiderio delle Idee pure. Eros è infatti
l’orientamento dell’uomo "sensuale" o "sensibile" verso ciò che è trascendente: la forza che indirizza l’anima verso il
mondo delle Idee. Nel "Simposio" Platone descrive le tappe di tale influsso di Eros: questi eleva l’anima dell’uomo dal
bello di un singolo corpo a quello di tutti i corpi, quindi al bello della scienza ed infine alla stessa Idea del Bello
[cf. Simposio 211, Repubblica 514]. Eros non è né puramente umano né divino: è qualcosa di intermedio [daimonion] e
di intermediario. La sua principale caratteristica è l’aspirazione e il desiderio permanenti. Perfino quando sembra
donare, Eros persiste quale "desiderio di possedere", e tuttavia si differenzia dall’amore puramente sensuale, essendo
l’amore che tende al sublime. Secondo Platone, gli dèi non amano perché non sentono desideri, in quanto i loro desideri
sono tutti appagati. Possono quindi essere soltanto oggetto, ma non soggetto di amore [Simposio 200-201]. Non hanno
quindi un diretto rapporto con l’uomo; solo la mediazione di Eros consente l’allacciamento di un rapporto
[Simposio 203]. Eros è quindi la via che conduce l’uomo alla divinità, ma non viceversa. L’aspirazione alla
trascendenza è quindi un elemento costitutivo della concezione platonica di Eros, concezione che supera il dualismo
radicale del mondo delle Idee e del mondo dei sensi. Eros consente di passare dall’uno all’altro. Egli è dunque una
forma di fuga oltre il mondo materiale, al quale l’anima è tenuta a rinunziare, perché il bello del soggetto sensibile ha
valore solo in quanto conduce più in alto. Tuttavia, Eros rimane sempre, per Platone, l’amore egocentrico: esso tende a
conquistare e possedere l’oggetto che, per l’uomo, rappresenta un valore. Amare il bene significa desiderare di
possederlo per sempre. L’amore è quindi sempre un desiderio di immortalità e anche ciò dimostra il carattere
egocentrico di Eros [cf. A. Nygren, Eros et Agapé. La notion chrétienne de l’amour et ses transformations, I, Aubier,
Paris 1962, pp. 180-200]. Per Platone, Eros è un passaggio dalla scienza più elementare a quella più profonda; è al
tempo stesso l’aspirazione a passare da "ciò che non è", ed è il male, a ciò che "esiste in pienezza", ed è il bene [cf. M.
Scheler, Amour et connaissance, in "Le sens de la souffrance, suivi de deux autres essais", Aubier, Paris, s. d. p. 145].
44. cf. p. es. C. S. Lewis, Eros, in "The Four Loves", Harcourt, Brace, New York 1960, pp. 131-133. 152. 159-160; P.
Chauchard, Vices des vertus, vertus des vices, Mame, Paris 1965, p. 147

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attesta la reciproca attrattiva e la perenne chiamata della persona umana - attraverso la mascolinità e la
femminilità - a quella "unità della carne" che, ad un tempo, deve realizzare l’unione-comunione delle
persone. È proprio per questa interpretazione dell’"eros" (ed insieme del suo rapporto con l’ethos) che
acquista importanza fondamentale anche il modo in cui intendiamo la "concupiscenza", di cui si parla nel
Discorso della Montagna.
3. A quanto sembra, il linguaggio comune prende soprattutto in considerazione quel significato della
"concupiscenza", che precedentemente abbiamo definito come "psicologico" e che potrebbe anche essere
denominato "sessuologico": e ciò in base a premesse, che si limitano anzitutto all’interpretazione
naturalistica, "somatica" e sensualistica dell’erotismo umano. (Non si tratta qui, in alcun modo, di diminuire
il valore delle ricerche scientifiche in questo campo, ma si vuol richiamare l’attenzione sul pericolo del
riduttivismo e dell’esclusivismo). Orbene, in senso psicologico e sessuologico, la concupiscenza indica la
soggettiva intensità del tendere all’oggetto a motivo del suo carattere sessuale (valore sessuale). Quel tendere
ha la sua soggettiva intensità a causa della specifica "attrazione" che estende il suo dominio sulla sfera
emotiva dell’uomo e coinvolge la sua "corporeità" (la sua mascolinità o femminilità somatica). Quando nel
Discorso della Montagna sentiamo parlare della "concupiscenza" dell’uomo che "guarda la donna per
desiderarla", queste parole - intese in senso "psicologico" (sessuologico) - si riferiscono alla sfera dei
fenomeni, che nel linguaggio comune vengono appunto qualificati "erotici". Nei limiti dell’enunciato
di Matteo 5,27-28 si tratta soltanto dell’atto interiore, mentre "erotici" vengono definiti soprattutto quei modi
di agire e di reciproco comportamento dell’uomo e della donna, che sono manifestazione esterna propria di
tali atti interiori. Nondimeno, sembra essere fuori dubbio che - ragionando così - si debba mettere quasi il
segno di uguaglianza tra "erotico" e ciò che "deriva dal desiderio" (e serve ad appagare la concupiscenza
stessa della carne). Se fosse così, allora, le parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28 esprimerebbero un
giudizio negativo su ciò che è "erotico" e, rivolte al cuore umano, costituirebbero ad un tempo un severo
avvertimento contro l’"eros".
4. Tuttavia, abbiamo già accennato che il termine "eros" ha molte sfumature semantiche. E perciò, volendo
definire il rapporto dell’enunciato del Discorso della montagna ( Mt 5,27-28 ) con l’ampia sfera dei fenomeni
"erotici", cioè di quelle azioni e di quei comportamenti reciproci mediante i quali l’uomo e la donna si
avvicinano e si uniscono così da essere "una sola carne" (cf. Gen 2,24 ), occorre tener conto della
molteplicità delle sfumature semantiche dell’"eros". Sembra possibile, infatti, che nell’ambito del concetto di
"eros" - tenendo conto del suo significato platonico - si trovi il posto per quell’ethos, per quei contenuti etici
e indirettamente anche teologici, i quali, nel corso delle nostre analisi, sono stati rilevati dall’appello di
Cristo al "cuore" umano nel Discorso della montagna. Anche la conoscenza delle molteplici sfumature
semantiche dell’"eros" e di ciò che, nell’esperienza e descrizione differenziata dell’uomo, in varie epoche e
in vari punti di longitudine e di latitudine geografica e culturale, viene definito come "erotico", può aiutare a
capire la specifica e complessa ricchezza del "cuore", a cui Cristo si richiamò nel suo enunciato
di Matteo 5,27-28.
5. Se ammettiamo che l’"eros" significa la forza interiore che "attira" l’uomo verso il vero, il buono e il bello,
allora, nell’ambito di questo concetto si vede anche aprirsi la via verso ciò che Cristo ha voluto esprimere nel
Discorso della montagna. Le parole di Matteo 5,27-28, se sono "accusa" del cuore umano, al tempo stesso
sono ancor più un appello ad esso rivolto. Tale appello è la categoria propria dell’ethos della redenzione. La
chiamata a ciò che è vero, buono e bello significa contemporaneamente, nell’ethos della redenzione, la
necessità di vincere ciò che deriva dalla triplice concupiscenza. Significa pure la possibilità e la necessità di
trasformare ciò che è stato appesantito dalla concupiscenza della carne. Inoltre, se le parole di Matteo 5,27-
28 rappresentano tale chiamata allora significano che, nell’ambito erotico, l’"eros" e l’"ethos" non divergono
tra di loro, non si contrappongono a vicenda, ma sono chiamati ad incontrarsi nel cuore umano, ed, in
questo incontro, a fruttificare. Ben degno del "cuore" umano è che la forma di ciò che è "erotico" sia
contemporaneamente forma dell’ethos, cioè di ciò che è "etico".
6. Tale affermazione è molto importante per l’ethos ed insieme per l’etica. Infatti, con questo ultimo concetto
viene molto spesso collegato un significato "negativo", perché l’etica porta con sé norme, comandamenti ed
anche divieti. Noi siamo comunemente propensi a considerare le parole del Discorso della montagna sulla
"concupiscenza" (sul "guardare per desiderare") esclusivamente come un divieto, un divieto nella sfera
dell’"eros" cioè nella sfera "erotica". E molto spesso ci contentiamo soltanto di tale comprensione, senza
cercare di svelare i valori veramente profondi ed essenziali che questo divieto copre, cioè assicura. Esso non

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soltanto li protegge, ma li rende anche accessibili e li libera, se noi impariamo ad aprire il nostro "cuore"
verso di essi.
Nel Discorso della montagna Cristo ce lo insegna e verso tali valori dirige il cuore dell’uomo.

Mercoledì, 12 novembre 1980


La spontaneità è veramente umana quando è il frutto maturo della coscienza
1. Oggi riprendiamo la nostra analisi, iniziata una settimana fa, sul rapporto reciproco tra ciò che è "etico" e
ciò che è "erotico". Le nostre riflessioni si svolgono sulla trama delle parole pronunziate da Cristo nel
Discorso della Montagna, con le quali Egli si riallacciò al comandamento "Non commettere adulterio" e, in
pari tempo, definì la "concupiscenza" (lo "sguardo concupiscente") come "adulterio commesso nel cuore".
Da queste riflessioni risulta che l’"ethos" è collegato con la scoperta di un nuovo ordine di valori. Occorre
ritrovare continuamente in ciò che è a erotico" il significato sponsale del corpo e l’autentica dignità del dono.
Questo è il compito dello spirito umano, compito di natura etica. Se non si assume tale compito, la stessa
attrazione dei sensi e la passione del corpo possono fermarsi alla pura concupiscenza priva di valore etico, e
l’uomo, maschio e femmina, non sperimenta quella pienezza dell’"eros", che significa lo slancio dello spirito
umano verso ciò che è vero, buono e bello, per cui anche ciò che è "erotico" diventa vero, buono e bello. È
indispensabile, dunque, che l’ethos diventi la forma costitutiva dell’eros.
2. Le suddette riflessioni sono strettamente connesse col problema della spontaneità. Assai spesso si ritiene
che sia proprio l’ethos a sottrarre spontaneità a ciò che è erotico nella vita e nel comportamento dell’uomo; e
per questo motivo si esige il distacco dall’ethos "a vantaggio" dell’eros. Anche le parole del Discorso della
montagna sembrerebbero ostacolare questo "bene". Sennonché, tale opinione è erronea e, in ogni caso,
superficiale. Accettandola e sostenendola con ostinazione, non giungeremo mai alle piene dimensioni
dell’eros, e ciò inevitabilmente si ripercuote nell’ambito della relativa "praxis", cioè nel nostro
comportamento ed anche nella concreta esperienza dei valori. Infatti, colui che accetta l’ethos dell’enunciato
di Matteo 5,27-28 deve sapere che è anche chiamato alla piena e matura spontaneità dei rapporti, che
nascono dalla perenne attrattiva della mascolinità e della femminilità. Appunto una tale spontaneità è il
graduale frutto del discernimento degli impulsi del proprio cuore.
3. Le parole di Cristo sono rigorose. Esigono dall’uomo che egli, nell’ambito in cui si formano i rapporti con
le persone dell’altro sesso, abbia piena e profonda coscienza dei propri atti e soprattutto degli atti interiori;
che egli abbia coscienza degli impulsi interni del suo "cuore", così da essere capace di individuarli e di
qualificarli in modo maturo. Le parole di Cristo esigono che in questa sfera, che sembra appartenere
esclusivamente al corpo e ai sensi, cioè all’uomo esteriore, egli sappia essere veramente uomo interiore;
sappia obbedire alla retta coscienza; sappia essere l’autentico padrone dei propri intimi impulsi, come un
custode che sorveglia una sorgente nascosta; e sappia infine trarre da tutti quegli impulsi ciò che è
conveniente alla "purezza del cuore", costruendo con coscienza e coerenza quel senso personale del
significato sponsale del corpo, che apre lo spazio interiore della libertà del dono.
4. Orbene, se l’uomo vuole rispondere alla chiamata espressa da Matteo 5,27-28, deve con perseveranza e
coerenza imparare che cosa è il significato del corpo, il significato della femminilità e della mascolinità.
Deve impararlo non soltanto attraverso un’astrazione oggettivizzante (sebbene anche ciò sia necessario), ma
soprattutto nella sfera delle reazioni interiori del proprio "cuore". Questa è una "scienza", che non può essere
veramente appresa dai soli libri, perché si tratta qui in primo luogo della profonda "conoscenza"
dell’interiorità umana.
Nell’ambito di questa conoscenza, l’uomo impara a discernere tra ciò che, da una parte, compone la
multiforme ricchezza della mascolinità e della femminilità nei segni che provengono dalla loro perenne
chiamata e attrattiva creatrice, e ciò che, dall’altra, porta solo il segno della concupiscenza. E sebbene queste
varianti e sfumature degli interni moti del "cuore" entro un certo limite si confondano tra loro, va tuttavia
detto che l’uomo interiore è stato chiamato da Cristo ad acquisire una valutazione matura e compiuta, che
lo porti a discernere e giudicare i vari moti del suo stesso cuore. Ed occorre aggiungere che questo compito
si può realizzare ed è davvero degno dell’uomo.

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Infatti, il discernimento di cui stiamo parlando è in rapporto essenziale con la spontaneità. La struttura
soggettiva dell’uomo dimostra, in questo campo, una specifica ricchezza e una chiara differenziazione. Di
conseguenza, una cosa è, ad esempio, un nobile compiacimento, un’altra invece il desiderio sessuale; quando
il desiderio sessuale è collegato con un nobile compiacimento, è diverso da un desiderio puro e semplice.
Analogamente, per quanto riguarda la sfera delle reazioni immediate del "cuore", l’eccitazione sensuale è
ben diversa dalla emozione profonda, con cui non soltanto la sensibilità interiore, ma la stessa sessualità
reagisce all’integrale espressione della femminilità e della mascolinità. Non si può qui sviluppare più
ampiamente questo argomento. Ma è certo che, se affermiamo che le parole di Cristo secondo Matteo 5,27-
28 sono rigorose, esse lo sono anche nel senso che contengono in sé le esigenze profonde riguardanti
l’umana spontaneità.
5. Non vi può essere una tale spontaneità in tutti i moti ed impulsi che nascono dalla pura concupiscenza
carnale, priva com’è di una scelta e di una gerarchia adeguata. È proprio a prezzo del dominio su di essi che
l’uomo raggiunge quella spontaneità più profonda e matura, con cui il suo "cuore", padroneggiando gli
istinti, riscopre la bellezza spirituale del segno costituito dal corpo umano nella sua mascolinità e
femminilità. In quanto questa scoperta si consolida nella coscienza come convinzione e nella volontà come
orientamento sia delle possibili scelte che dei semplici desideri, il cuore umano diviene partecipe, per così
dire, di un’altra spontaneità, di cui nulla o pochissimo sa l’"uomo carnale". Non vi è alcun dubbio che
mediante le parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28, siamo chiamati appunto ad una tale spontaneità. E
forse la più importante sfera della "praxis" - relativa agli atti più "interiori" - è appunto quella che traccia
gradualmente la strada verso siffatta spontaneità.
Questo è un argomento vasto che ci converrà riprendere ancora una volta in avvenire, quando ci dedicheremo
a dimostrare quale sia la vera natura della evangelica "purezza di cuore". Per ora terminiamo dicendo che le
parole del Discorso della montagna, con cui Cristo richiama l’attenzione dei suoi ascoltatori - di allora e di
oggi - sulla "concupiscenza" ("sguardo concupiscente"), indicano indirettamente la via verso una matura
spontaneità del "cuore" umano, che non soffoca i suoi nobili desideri ed aspirazioni, anzi, al contrario, li
libera e, in certo senso, li agevola.
Basti per ora quello che abbiamo detto sul reciproco rapporto tra ciò che è "etico" e ciò che è "erotico",
secondo l’ethos del Discorso della montagna.

Mercoledì, 3 dicembre 1980


Cristo ci chiama a ritrovare le forze vive dell’uomo nuovo
1. All’inizio delle nostre considerazioni sulle parole di Cristo nel Discorso della montagna ( Mt 5,27-28),
abbiamo costatato che esse contengono un profondo significato etico ed antropologico. Si tratta qui del passo
in cui Cristo ricorda il comandamento: "Non commettere adulterio", e aggiunge: "Chiunque guarda una
donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei (o verso di lei) nel suo cuore". Parliamo di
significato etico ed antropologico di tali parole, perché esse alludono alle due dimensioni strettamente
connesse dell’ethos e dell’uomo "storico". Abbiamo cercato, nel corso delle precedenti analisi, di seguire
queste due dimensioni, avendo sempre in mente che le parole di Cristo sono rivolte al "cuore", cioè all’uomo
interiore. L’uomo interiore è il soggetto specifico dell’ethos del corpo, e di questo il Cristo vuole impregnare
la coscienza e la volontà dei suoi ascoltatori e discepoli. È indubbiamente un ethos "nuovo". È "nuovo", in
confronto all’ethos degli uomini dell’Antico Testamento, come abbiamo già cercato di mostrare in analisi più
particolareggiate. Esso è "nuovo" anche rispetto allo stato dell’uomo "storico",posteriore al peccato
originale, cioè rispetto all’"uomo della concupiscenza".
È quindi un ethos "nuovo" in un senso e in una portata universali. È "nuovo" rispetto ad ogni uomo,
indipendentemente da qualsiasi longitudine e latitudine geografica e storica.
2. Questo "nuovo" ethos, che emerge dalla prospettiva delle parole di Cristo pronunziate nel Discorso de]la
montagna, lo abbiamo più volte chiamato "ethos della redenzione" e, più precisamente, ethos della
redenzione del corpo. Abbiamo qui seguito san Paolo, che nella lettera ai Romani contrappone "la schiavitù
della corruzione" ( Rm 8,21 ) e la sottomissione "alla caducità" ( Rm 8,20 ) - di cui è divenuta partecipe tutta

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la creazione a causa del peccato - al desiderio della "redenzione del nostro corpo" ( Rm 8,23 ). In questo
contesto, l’apostolo parla dei gemiti di "tutta la creazione", che "nutre la speranza di essere lei pure liberata
dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" ( Rm 8,20-21 ). In tal
modo S. Paolo svela la situazione di tutto il creato e in particolare quella dell’uomo dopo il peccato.
Significativa per questa situazione è l’aspirazione che - insieme con la nuova "adozione a figli" ( Rm 8,23 ) -
tende proprio alla "redenzione del corpo", presentata come il fine, come il frutto escatologico e maturo del
mistero della redenzione dell’uomo e del mondo, compiuta da Cristo.
3. In che senso, dunque, possiamo parlare dell’ethos della redenzione e specialmente dell’ethos della
redenzione del corpo? Dobbiamo riconoscere che nel contesto delle parole del Discorso della montagna
( Mt 5,27-28 ), da noi analizzate, questo significato non appare ancora in tutta la sua pienezza. Esso si
manifesterà più completamente quando esamineremo altre parole di Cristo, quelle cioè in cui Egli fa
riferimento alla risurrezione (cf. Mt 22,30 ; Mc 12,25 ; Lc 20,35-36 ).
Tuttavia non vi è dubbio alcuno che anche nel Discorso della montagna Cristo parla nella prospettiva della
redenzione dell’uomo e del mondo (e quindi appunto della "redenzione del corpo"). È questa, di fatto, la
prospettiva dell’intero Vangelo, di tutto l’insegnamento, anzi di tutta la missione di Cristo. E sebbene il
contesto immediato del Discorso della montagna indichi la Legge e i Profeti come il punto di riferimento
storico, proprio del popolo di Dio dell’Antica Alleanza, tuttavia non possiamo dimenticare che
nell’insegnamento di Cristo, il fondamentale riferimento alla questione del matrimonio e al problema delle
relazioni tra l’uomo e la donna, si richiama al "principio". Un tale richiamo può essere giustificato soltanto
dalla realtà della Redenzione; al di fuori di essa, infatti, rimarrebbe unicamente la triplice concupiscenza
oppure quella "schiavitù della corruzione", di cui scrive l’apostolo Paolo ( Rm 8,21 ). Soltanto la prospettiva
della Redenzione giustifica il richiamo al "principio", ossia la prospettiva del mistero della creazione nella
totalità dell’insegnamento di Cristo circa i problemi del matrimonio, dell’uomo e della donna e del loro
rapporto reciproco. Le parole di Matteo 5,27-28 si pongono, in definitiva, nella stessa prospettiva teologica.
4. Nel Discorso della montagna Cristo non invita l’uomo a ritornare allo stato dell’innocenza originaria,
perché l’umanità l’ha irrevocabilmente lasciato dietro di sé, ma lo chiama a ritrovare - sul fondamento dei
significati perenni e, per così dire, indistruttibili di ciò che è "umano" - leforme vive dell’"uomo nuovo". In
tal modo si allaccia un legame, anzi, una continuità fra il "principio" e la prospettiva della Redenzione.
Nell’ethos della redenzione del corpo dovrà esser nuovamente ripreso l’originario ethos della creazione.
Cristo non cambia la Legge, ma conferma il comandamento: "Non commettere adulterio"; però, al tempo
stesso, conduce l’intelletto e il cuore degli ascoltatori verso quella "pienezza della giustizia" voluta da Dio
creatore e legislatore, che questo comandamento racchiude in sé. Tale pienezza va scoperta: prima con una
interiore visione "del cuore", e poi con un adeguato modo di essere e di agire. La forma dell’"uomo nuovo"
può emergere da questo modo di essere e di agire, nella misura in cui l’ethos della redenzione del corpo
domina la concupiscenza della carne e tutto l’uomo della concupiscenza. Cristo indica con chiarezza che la
via per giungervi deve essere via di temperanza e di padronanza dei desideri, e ciò alla radice stessa, già nella
sfera puramente interiore ("chiunque guarda per desiderare"). L’ethos della redenzione contiene in ogni
ambito - e direttamente nella sfera della concupiscenza della carne - l’imperativo del dominio di sé, la
necessità di un’immediata continenza e di un’abituale temperanza.
5. Tuttavia, la temperanza e la continenza non significano - se così è possibile esprimersi - una sospensione
nel vuoto: né nel vuoto dei valori né nel vuoto del soggetto. L’ethos della redenzione si realizza nella
padronanza di sé, mediante la temperanza, cioè la continenza dei desideri. In questo comportamento il cuore
umano resta vincolato al valore dal quale, attraverso il desiderio, si sarebbe altrimenti allontanato,
orientandosi verso la pura concupiscenza priva di valore etico (come abbiamo detto nella precedente analisi).
Sul terreno dell’ethos della redenzione l’unione con quel valore, mediante un atto di dominio, viene
confermata oppure ristabilita con una forza ed una fermezza ancor più profonde. E si tratta qui del valore del
significato sponsale del corpo, del valore di un segno trasparente, mediante il quale il Creatore - insieme con
la perenne attrattiva reciproca dell’uomo e della donna attraverso la mascolinità e la femminilità - ha scritto
nel cuore di entrambi il dono della comunione, cioè la misteriosa realtà della sua immagine e somiglianza. Di
tale valore si tratta nell’atto del dominio di sé e della temperanza, a cui richiama Cristo nel Discorso della
montagna ( Mt 5,27-28 ).
6. Questo atto può dare l’impressione della sospensione "nel vuoto del soggetto". Esso può dare tale
impressione particolarmente quando è necessario decidersi a compierlo per la prima volta, oppure, ancor più,

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quando si è creata l’abitudine contraria, quando l’uomo si è abituato a cedere alla concupiscenza della carne.
Tuttavia, perfino già la prima volta, e tanto più se ne acquista poi la capacità, l’uomo fa la graduale
esperienza della propria dignità e, mediante la temperanza, attesta il proprio autodominio e dimostra
di compiere ciò che in lui è essenzialmente personale. E, inoltre, sperimenta gradualmente la libertà del
dono, che per un verso è la condizione, e per altro verso è la risposta del soggetto al valore sponsale del
corpo umano, nella sua femminilità e nella sua mascolinità. Così, dunque, l’ethos della redenzione del corpo
si realizza attraverso il dominio di sé, attraverso la temperanza dei "desideri", quando il cuore umano stringe
alleanza con tale ethos, o piuttosto la conferma mediante la propria soggettività integrale: quando si
manifestano le possibilità e le disposizioni più profonde e nondimeno più reali della persona, quando
acquistano voce gli strati più profondi della sua potenzialità, ai quali la concupiscenza della carne, per così
dire, non consentirebbe di manifestarsi. Questi strati non possono emergere nemmeno quando il cuore umano
è fermo in un permanente sospetto, come risulta dall’ermeneutica freudiana. Non possono manifestarsi
neppure quando nella coscienza domina l’"antivalore" manicheo. Invece l’ethos della redenzione si basa
sulla stretta alleanza con quegli strati.
7. Ulteriori riflessioni ce ne daranno altre prove. Terminando le nostre analisi sull’enunciazione così
significativa di Cristo secondo Matteo 5,27-28, vediamo che in essa il "cuore" umano è soprattutto oggetto di
una chiamata e non di un’accusa. In pari tempo, dobbiamo ammettere che la coscienza della peccaminosità è
nell’uomo "storico" non soltanto un necessario punto di partenza, ma anche una indispensabile condizione
della sua aspirazione alla virtù, alla "purezza di cuore", alla perfezione. L’ethos della redenzione del corpo
rimane profondamente radicato nel realismo antropologico ed assiologico della rivelazione. Richiamandosi,
in questo caso, al "cuore", Cristo formula le sue parole nel più concreto dei modi: l’uomo, infatti, è unico ed
irripetibile soprattutto a motivo del suo "cuore", che decide di lui "dall’interno". La categoria del "cuore" è,
in certo senso, l’equivalente della soggettività personale. La via del richiamo alla purezza del cuore, così
come è stato espresso nel Discorso della montagna, è in ogni caso reminiscenza della solitudine originaria,
da cui l’uomo-maschio fu liberato mediante l’apertura all’altro essere umano, alla donna. La purezza di cuore
si spiega, in fin dei conti, con il riguardo verso l’altro soggetto, che è originariamente e perennemente "con-
chiamato".
La purezza è esigenza dell’amore. È la dimensione della sua verità interiore nel "cuore" dell’uomo.

Mercoledì, 10 dicembre 1980


Tradizione anticotestamentaria e nuovo significato di “purezza”
1. Un indispensabile completamento delle parole pronunziate da Cristo nel Discorso della montagna sulle
quali abbiamo centrato il ciclo delle nostre presenti riflessioni, dovrà essere l’analisi della purezza. Quando
Cristo, spiegando il giusto significato del comandamento "Non commettere adulterio", fece richiamo
all’uomo interiore, specificò al tempo stesso la dimensione fondamentale della purezza, con cui vanno
contrassegnati i reciproci rapporti tra l’uomo e la donna nel matrimonio e fuori del matrimonio. Le parole:
"Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore"
(Mt 5,27-28) esprimono ciò che contrasta con la purezza. Ad un tempo, queste parole esigono la purezza che
nel Discorso della montagna è compresa nell’enunciato delle beatitudini: "Beati i puri di cuore, perché
vedranno Dio" (Mt 5,8). In tal modo Cristo rivolge al cuore umano un appello: lo invita, non lo accusa, come
già abbiamo precedentemente chiarito.
2. Cristo vede nel cuore, nell’intimo dell’uomo la sorgente della purezza - ma anche dell’impurità morale -
nel significato fondamentale e più generico della parola. Ciò è confermato, ad esempio, dalla risposta data ai
farisei, scandalizzati per il fatto che i suoi discepoli "trasgrediscono la tradizione degli antichi, poiché non si
lavano le mani quando prendono cibo" (Mt 15,2). Gesù disse allora ai presenti: "Non quello che entra nella
bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo" ( Mt 15,11). Ai suoi
discepoli, invece, rispondendo alla domanda di Pietro, così spiegò queste parole: "...ciò che esce dalla bocca
proviene dal cuore. Questo rende immondo l’uomo. Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli
omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. Queste sono le cose che

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rendono immondo l’uomo, ma il mangiare senza lavarsi le mani non rende immondo l’uomo" (cf. Mt 15,18-
20; cf. Mc 7,20-23).
Quando diciamo "purezza", "puro", nel significato primo di questi termini, indichiamo ciò che contrasta con
lo sporco. "Sporcare" significa "rendete immondo", "inquinare". Ciò si riferisce ai diversi ambiti del mondo
fisico. Si parla, ad esempio, di una "strada sporca", di una "stanza sporca", si parla anche dell’"aria
inquinata". È così pure, anche l’uomo può essere "immondo", quando il suo corpo non è pulito. Per togliere
le lordure del corpo, bisogna lavarlo. Nella tradizione dell’Antico Testamento si attribuiva una grande
importanza alle abluzioni rituali, ad esempio il lavarsi le mani prima di mangiare, di cui parla il testo citato.
Numerose e particolareggiate prescrizioni riguardavano le abluzioni del corpo in rapporto all’impurità
sessuale, intesa in senso esclusivamente fisiologico, a cui abbiamo accennato in precedenza (cf. Lv 15 ).
Secondo lo stato della scienza medica del tempo, le varie abluzioni potevano corrispondere a prescrizioni
igieniche. In quanto erano imposte in nome di Dio e contenute nei Libri Sacri della legislazione
anticotestamentaria, l’osservanza di esse acquistava, indirettamente, un significato religioso; erano abluzioni
rituali e, nella vita dell’uomo dell’Antica Alleanza, servivano alla "purezza" rituale.
3. In rapporto alla suddetta tradizione giuridico-religiosa dell’Antica Alleanza si è formato un modo erroneo
di intendere la purezza morale 45. La si capiva spesso in modo esclusivamente esteriore e "materiale". In ogni
caso, si diffuse una tendenza esplicita ad una tale interpretazione. Cristo vi si oppone in modo radicale: nulla
rende l’uomo immondo "dall’esterno", nessuna sporcizia "materiale" rende l’uomo impuro in senso morale,
ossia interiore. Nessuna abluzione, neppure rituale, è idonea di per sé a produrre la purezza morale. Questa
ha la sua sorgente esclusiva nell’interno dell’uomo: essa proviene dal cuore. È probabile che le rispettive
prescrizioni dell’Antico Testamento (quelle, ad esempio, che si trovano nel Levitico) ( Lv 15,16-
24 ; 18,1ss ; 12,1-5 ) servissero, oltre che a fini igienici, anche ad attribuire una certa dimensione di
interiorità a ciò che nella persona umana è corporeo e sessuale. In ogni caso Cristo si è ben guardato dal
collegare la purezza in senso morale (etico) con la fisiologia e con i relativi processi organici. Alla luce delle
parole di Matteo 15,18-20, sopra citate, nessuno degli aspetti dell’"immondezza" sessuale, nel senso
strettamente somatico, biofisiologico, entra di per sé nella definizione della purezza o della impurità in senso
morale (etico).
4. Il suddetto enunciato ( Mt 15,18-20 ) è soprattutto importante per ragioni semantiche. Parlando
della purezza in senso morale, cioè della virtù della purezza, ci serviamo di un’analogia, secondo la quale il
male morale viene paragonato appunto alla immondezza. Certamente tale analogia è entrata a far parte, fin
dai tempi più remoti, dell’ambito dei concetti etici. Cristo la riprende e la conferma in tutta la sua estensione:
"Ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l’uomo". Qui Cristo parla di ogni male
morale, di ogni peccato, cioè di trasgressioni dei vari comandamenti, ed enumera "i propositi malvagi, gli
omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie", senza limitarsi ad uno
specifico genere di peccato. Ne deriva che il concetto di "purezza" e di "impurità" in senso morale è anzitutto
un concetto generale, non specifico: per cui ogni bene morale è manifestazione di purezza, ed ogni male
morale è manifestazione di impurità. L’enunciato di Matteo 15,18-20 non restringe la purezza ad un unico
settore della morale, ossia a quello connesso al comandamento "Non commettere adulterio" e "Non
desiderare la moglie del tuo prossimo", cioè a quello che riguarda i rapporti reciproci tra l’uomo e la donna,
legati al corpo e alla relativa concupiscenza. Analogamente possiamo anche intendere la beatitudine del
Discorso della montagna, rivolta agli uomini "puri di cuore", sia in senso generico, sia in quello più
specifico. Soltanto gli eventuali contesti permetteranno di delimitare e di precisare tale significato.

45. Accanto a un sistema complesso di prescrizioni riguardanti la purezza rituale in base al quale si è svolta la casuistica
legale, esisteva tuttavia nell’Artico Testamento il concetto di una purezza morale, che veniva tramandato mediante due
correnti. I Profeti esigevano un comportamento conforme alla volontà di Dio, il che suppone la conversione del cuore,
l’ubbidienza interiore e la totale rettitudine dinanzi a lui [cf. per es Is 1,10-20; Ger 4,14; 24,7; Ez 36,25ss.]. Un simile
atteggiamento viene richiesto anche dal Salmista: "Chi salirà al monte del Signore...? / Chi ha mani innocenti e cuore
puro... / Otterrà benedizione dal Signore" [Sal 24 (23),3-5]. Secondo la tradizione sacerdotale, l’uomo che è cosciente
della sua profonda peccaminosità, non essendo capace di compiere con le proprie forze la purificazione, supplica Dio
perché realizzi quella trasformazione del cuore, che può unicamente essere opera di un suo atto creatore: "Crea in me, o
Dio un cuore puro... / lavami e sarò più bianco della neve... / un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi" [Sal 51
(50),12.9.19]. Entrambe le correnti dell’Antico Testamento s’incontrano nella beatitudine dei "puri di cuore" [ Mt 5,8],
anche se la sua formulazione verbale sembra essere più vicina al Salmo 24 [cf. J. Dupont, Les Béatitudes,vol. III: Les
Evangelistes, Paris 1973, Gabalda, pp. 603-604].

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5. Il significato più ampio e generale della purezza è presente anche nelle lettere di San Paolo, in cui
gradualmente individueremo i contesti che, in modo esplicito, restringono il significato della purezza
all’ambito "somatico" e "sessuale", cioè a quel significato che possiamo cogliere dalle parole pronunziate da
Cristo nel Discorso della montagna sulla concupiscenza, che si esprime già nel "guardare la donna", e viene
equiparata ad un "adulterio commesso nel cuore" (cf. Mt 5,27-28 ).
Non è San Paolo l’autore delle parole sulla triplice concupiscenza. Esse, come sappiamo, si trovano nella
prima lettera di Giovanni. Si può, tuttavia, dire che analogamente a quella che per Giovanni ( 1Gv 2,16-17 ) è
contrapposizione all’interno dell’uomo tra Dio e il mondo (tra ciò che viene "dal Padre" e ciò che viene "dal
mondo") - contrapposizione che nasce nel cuore e penetra nelle azioni dell’uomo come"concupiscenza degli
occhi, concupiscenza della carne e superbia della vita" - San Paolo rileva nel cristiano un’altra
contraddizione: l’opposizione e insieme la tensione tra la "carne" e lo "Spirito" (scritto con la maiuscola,
cioè lo Spirito Santo): "Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i
desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla
carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste" ( Gal 5,16-17 ). Ne
consegue che la vita "secondo la carne" è in opposizione alla vita "secondo lo Spirito". "Quelli infatti che
vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose
dello Spirito" ( Rm 8,5 ).
Nelle successive analisi cercheremo di mostrare che la purezza - la purezza di cuore, di cui ha parlato Cristo
nel Discorso della montagna - si realizza propriamente nella vita "secondo lo Spirito".

Mercoledì, 17 dicembre 1980


Vita secondo la carne e giustificazione in Cristo
1. "La carne... ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne". Vogliamo oggi
approfondire queste parole di San Paolo nella lettera ai Galati (Gal 5,17), con cui la settimana scorsa
abbiamo terminato le nostre riflessioni sul tema del giusto significato della purezza. Paolo ha in mente la
tensione esistente nell’intimo dell’uomo, appunto nel suo "cuore". Non si tratta qui soltanto del corpo (la
materia) e dello spirito (l’anima), come di due componenti antropologiche essenzialmente diverse, che
costituiscono dal "principio" l’essenza stessa dell’uomo. Però viene presupposta quella disposizione di forze
formatasi nell’uomo col peccato originale e a cui partecipa ogni uomo "storico". In tale disposizione,
formatasi nell’intimo dell’uomo, il corpo si contrappone allo spirito e facilmente prende il sopravvento su di
esso 46. La terminologia paolina, tuttavia, significa qualcosa di più: qui il predominio della "carne" sembra
quasi coincidere con quella che, secondo la terminologia giovannea, è la triplice concupiscenza che "viene
dal mondo". La "carne", nel linguaggio delle lettere di San Paolo 47, indica non soltanto l’uomo "esteriore",
46. "Paul never, like the Greeks, identified "sinful flesh" with the physical body... Flesh, then, in Paul is not to be
identified with sex or with the physical body. It is closer to the Hebrew thought of the physical personality - the self
including physical and psychical elements as vehicle of the outward life and the lower levels of experience. It is man in
his humanness with all the limitations, moral weakness, vulnerability, creatureliness and mortality, which being human
implies... Man is vulnerable both to evil and to good; he is a vehicle, a channel, a dwellingplace, a temple, a battlefield
[Paul uses each metaphor] for good and evil. Which shall possess, indwell, master him-whether sin, evil, the spirit that
now worketh in the children of disobedience, or Christ, the Holy Spirit, faith, grace-it is for each man to choose. That he
can so choose, brings to view the other side of Paul’s conception of human nature, man’s conscience and the human
spirit" [R. E. O. White, Biblical Ethics, Exeter 1979, Paternoster Press, pp. 135-138].
47. L’interpretazione della parola greca "sarx" "carne" nelle Lettere di Paolo dipende dal contesto della Lettera. Nella
Lettera ai Galati, per est, si possono specificare almeno due distinti significati di "sarx". Scrivendo ai Galati, Paolo
combatteva con due pericoli, che minacciavano la giovane comunità cristiana. Da una parte, i convertiti dal giudaismo
tentavano di convincere i convertiti dal paganesimo ad accettare la circoncisione, che era obbligatoria nel Giudaismo.
Paolo rimprovera loro "di vantarsi della carne", cioè di rimettere la speranza nella circoncisione della carne. "Carne" in
questo contesto [Gal 3,1-5.12; 6,12-18] significa quindi "circoncisione", come simbolo di una nuova sottomissione alle
leggi del giudaismo. Il secondo pericolo, nella giovane chiesa galata, proveniva dall’influsso dei "Pneumatici" i quali
intendevano l’opera dello Spirito Santo piuttosto come divinizzazione dell’uomo che come potenza operante in senso
etico. Ciò li conduceva a sottovalutare i principii morali. Scrivendo loro, Paolo chiama "carne" tutto ciò che avvicina

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ma anche l’uomo "interiormente" assoggettato al "mondo" 48, in certo senso chiuso nell’ambito di quei valori
che appartengono solo al mondo e di quei fini che esso è capace di imporre all’uomo: valori, pertanto, ai
quali l’uomo in quanto "carne" è appunto sensibile. Così il linguaggio di Paolo sembra allacciarsi ai
contenuti essenziali di Giovanni, ed il linguaggio di entrambi denota ciò che viene definito da vari termini
dell’etica e dell’antropologia contemporanee, come ad esempio: "Autarchia umanistica", "secolarismo" o
anche, con significato generale, "sensualismo". L’uomo che vive "secondo la carne" è l’uomo disposto
soltanto a ciò che viene "dal mondo": è l’uomo dei "sensi", l’uomo della triplice concupiscenza. Lo
confermano le sue azioni, come diremo fra poco.
2. Tale uomo vive quasi al polo opposto rispetto a ciò che "vuole lo Spirito". Lo Spirito di Dio vuole una
realtà diversa da quella voluta dalla carne, ambisce una realtà diversa da quella che la carne ambisce e ciò già
all’interno dell’uomo, già alla sorgente interiore delle aspirazioni e delle azioni dell’uomo: "Sicché voi non
fate quello che vorreste" (Gal 5,17).
Paolo esprime ciò in modo ancor più esplicito, scrivendo altrove del male che fa, sebbene non lo voglia, e
dell’impossibilità - o piuttosto della possibilità limitata - nel compiere il bene che "vuole" (cf. Rm 7,19 ).
Senza entrare nei problemi di una esegesi particolareggiata di questo testo, si potrebbe dire che la tensione
tra la "carne" e lo "spirito" è, prima, immanente, anche se non si riduce a questo livello. Essa si manifesta nel
suo cuore quale "combattimento" tra il bene e il male. Quel desiderio, di cui Cristo parla nel discorso della
montagna (cf. Mt 5,27-28 ), sebbene sia un atto "interiore", rimane certamente - secondo il linguaggio
paolino - una manifestazione della vita "secondo la carne". Nello stesso tempo, quel desiderio ci consente di
costatare come all’interno dell’uomo la vita "secondo la carne" si opponga alla vita "secondo lo Spirito", e
come quest’ultima, nello stato attuale dell’uomo, data la sua peccaminosità ereditaria, sia costantemente
esposta alla debolezza ed insufficienza della prima, alla quale spesso cede, se non viene interiormente
rafforzata per fare appunto ciò "che vuole lo Spirito". Possiamo dedurne che le parole di Paolo, che trattano
della vita "secondo la carne" e "secondo lo Spirito", siano al tempo stesso una sintesi ed un programma; ed
occorre intenderle in questa chiave.
3. Troviamo la medesima contrapposizione della vita a secondo la carne" alla vita "secondo lo Spirito" nella
Lettera ai Romani. Anche qui (come del resto nella lettera ai Galati) essa viene collocata nel contesto della
dottrina paolina circa la giustificazione mediante la fede, cioè mediante la potenza di Cristo stesso operante
nell’intimo dell’uomo per mezzo dello Spirito Santo. In tale contesto Paolo porta quella contrapposizione alle

l’uomo all’oggetto della sua concupiscenza e lo alletta con la promessa seduttrice di una vita apparentemente più
piena [cf. Gal 5,13-6,10]. La "sarx", quindi, "si vanta" ugualmente della "Legge" come della sua infrazione, ed in
entrambi i casi promette ciò che non può mantenere. Paolo distingue esplicitamente tra l’oggetto dell’azione e la sarx. Il
centro della decisione non è nella "carne": "Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri
della carne" [Gal 5,16]. L’uomo cade nella schiavitù della carne quando si affida alla "carne" e a ciò che essa promette
[nel senso della "Legge" o della infrazione della legge]. [cf. F. Mussner, Der Galaterbrief, Herders Theolog.
Kommentar zum NT, IX Freiburg 1974, Herder, p. 367; R. Jewett, Paul’s Anthropological Terms, A Study of Their Use
in Confict Settings, Arbeiten zur Geschichte des antiken Judentums und des Urchristentums, X, Leiden 1971 Brill, pp.
95-106].
48. Paolo sottolinea nelle sue Lettere il carattere drammatico di ciò che si svolge nel mondo. Poiché gli uomini,
per la loro colpa, hanno scordato Dio, "perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore
[Rm 1,24], da cui proviene anche tutto il disordine morale, che deforma sia la vita sessuale [Rm 1,24-27] che il
funzionamento della vita sociale ed economica[Rm 1,29-32] e perfino culturale": infatti, "pur conoscendo il giudizio di
Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farlo, ma anche approvano chi le fa"
[Rm1,32]. Dal momento che a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo [Rm 5,12], "il dio di questo mondo
ha accecato la mente incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo" [2Cor 4,4] e perciò
anche "l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità
nell’ingiustizia" [Rm 1,18]. Perciò "la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio... e nutre la
speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio"
[Rm 8,19-21], quella libertà per la quale "Cristo ci ha liberati" [Gal 5,1]. Il concetto di "mondo" in S. Giovanni ha
diversi significati: nella sua prima Lettera, il mondo è il luogo in cui si manifesta la triplice concupiscenza [ 1Gv 2,15-
16] e in cui i falsi profeti e gli avversari di Cristo cercano di sedurre i fedeli; ma i cristiani vincono il mondo grazie alla
loro fede [1Gv 5,4]; il mondo, infatti, tramonta insieme con le sue concupiscenze, e chi realizza la volontà di Dio vive in
eterno [cf. 1Gv 2,17].[cf. P. Grelot, "Monde": Dictionnaire de Spiritualité, Ascétique et mystique, doctrine et
histoire, fascicules 68-69, Beauchesne, pp. 1628ss. Inoltre: J. Mateos, J. Barreto, Vocabolario teologico del Evangelio
de Juan, Madrid 1980, Edic. Cristiandad, pp. 211-215].

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sue conseguenze estreme quando scrive: "Quelli... che vivono secondo la carne, pensano alle cose della
carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri della carne portano
alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. Infatti i desideri della carne sono in
rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. Quelli che vivono
secondo la carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito,
dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. E
se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della
giustificazione" ( Rm 8,5-10 ).
4. Si vedono con chiarezza gli orizzonti che Paolo delinea in questo testo: egli risale al "principio" - cioè, in
questo caso, al primo peccato da cui ebbe origine la vita "secondo la carne" e che ha creato nell’uomo il
retaggio di una predisposizione a vivere unicamente siffatta vita, insieme all’eredità della morte. Al tempo
stesso Paolo prospetta la vittoria finale sul peccato e sulla morte, di cui è segno e preannunzio la
risurrezione di Cristo: "Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per
mezzo del suo Spirito che abita in voi" ( Rm 8,11 ). E in questa prospettiva escatologica, San Paolo pone in
rilievo la "giustificazione in Cristo, destinata già all’uomo "storico"", ad ogni uomo di "ieri, oggi e domani"
della storia del mondo ed anche della storia della salvezza: giustificazione che è essenziale per l’uomo
interiore, ed è destinata appunto a quel "cuore" al quale Cristo si è richiamato, parlando della "purezza" e
dell’"impurità" in senso morale. Questa "giustificazione" per fede non costituisce semplicemente una
dimensione del piano divino della salvezza e della santificazione dell’uomo, ma è, secondo San
Paolo, un’autentica forza che opera nell’uomo e che si rivela ed afferma nelle sue azioni.
5. Ecco, di nuovo, le parole della lettera ai Galati: "Del resto le opere della carne sono ben note:
fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni,
fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere..." ( Gal 5,19-21 ). "Il frutto dello Spirito invece è
amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé..." ( Gal 5,22-23 ). Nella
dottrina paolina, la vita "secondo la carne" si oppone alla vita "secondo lo Spirito" non soltanto all’interno
dell’uomo, nel suo "cuore", ma, come si vede, trova un ampio e differenziato campo per tradursi in opere.
Paolo parla, da un lato, delle "opere" che nascono dalla "carne" - si potrebbe dire: dalle opere in cui si
manifesta l’uomo che vive "secondo la carne" - e, d’altro lato, egli parla del "frutto dello Spirito", cioè delle
azioni 49, dei modi di comportarsi, delle virtù, in cui si manifesta l’uomo che vive "secondo lo Spirito".
Mentre nel primo caso abbiamo a che fare con l’uomo abbandonato alla triplice concupiscenza, della quale
Giovanni dice che viene "dal mondo", nel secondo caso siamo di fronte a ciò, che già prima abbiamo
chiamato l’ethos della Redenzione. Ora soltanto siamo in grado di chiarire pienamente la natura e la
struttura di quell’ethos. Esso si esprime e si afferma attraverso ciò che nell’uomo, in tutto il suo "operare",
nelle azioni e nel comportamento, è frutto del dominio sulla triplice concupiscenza: della carne, degli occhi e
della superbia della vita (di tutto ciò di cui può essere giustamente "accusato" il cuore umano e di cui
possono essere continuamente "sospettati" l’uomo e la sua interiorità).

49. Gli esegeti fanno osservare che sebbene, a volte, per Paolo il concetto di "frutto" si applichi anche alle "opere della
carne" [p. es: Rm 6,21;7,5], tuttavia "il frutto dello Spirito" non viene mai chiamato "opera". Infatti per Paolo "le opere"
sono gli atti propri dell’uomo [o ciò in cui Israele ripone, senza ragione, la speranza], di cui egli risponderà davanti a
Dio. Paolo evita anche il termine "virtù", "areté"; esso si trova una sola volta in senso molto generale, in Phil. 4, 8. Nel
mondo greco questa parola aveva un significato troppo antropocentrico; particolarmente gli stoici mettevano in rilievo
l’autosufficienza o autarchia della virtù. Invece il termine "frutto dello Spirito" sottolinea l’azione di Dio nell’uomo.
Questo "frutto" cresce in esso come il dono di una vita, il cui unico Autore è Dio; l’uomo può, al massimo, favorire le
condizioni adatte, affinché il frutto possa crescere e maturare. Il frutto dello Spirito, in forma singolare, corrisponde in
qualche modo alla "giustizia" dell’Antico Testamento, che abbraccia l’insieme della vita conforme alla volontà di Dio;
corrisponde anche, in un certo senso, alla "virtù" degli stoici, che era indivisibile. Lo vediamo p. es. in Ef 5, 9. 11: "Il
frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità... non partecipate alle opere infruttuose delle
tenebre...".Tuttavia "il frutto dello Spirito" è differente sia dalla "giustizia" che dalla "virtù", perché esso [in tutte le sue
manifestazioni e differenziazioni che si vedono nei cataloghi delle virtù] contiene l’effetto dell’azione dello Spirito, che
nella Chiesa è fondamento e attuazione della vita del cristiano. [cf. H. Schlier, Der Brief an die Galater, Meyer’s
Kommentar Göttingen 19715 Vandenhoeck-Ruprecht, pp. 255-264; O. Bauerfeind, areté: Theological Dictionary of
The New Testament, ed. G. Kittel G. Bromley, vol. 1, Grand Rapids 19789, Erdmans, p. 460; W. Tatarkiewicz, Historia
Filozofii, t. 1, Warszawa 1970, PWN pp. 121; E. Kamlah, Die Form der katalogischen Paränese im Neuen
Testament,Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testament, 7, Tübingen 1964, Mhr, p. 14].

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6. Se la padronanza nella sfera dell’ethos si manifesta e realizza come "amore, gioia, pace, pazienza,
benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" - come leggiamo nella lettera ai Galati - allora dietro a
ciascuna di queste realizzazioni, di questi comportamenti, di queste virtù morali sta una specifica scelta, cioè
uno sforzo della volontà, frutto dello spirito umano permeato dallo Spirito di Dio, che si manifesta nello
scegliere il bene. Parlando col linguaggio di Paolo: "Lo Spirito ha desideri contrari alla carne" ( Gal 5,17 ) e
in questi suoi "desideri" si dimostra più forte della "carne" e dei desideri generati dalla triplice
concupiscenza. In questa lotta tra il bene e il male, l’uomo si dimostra più forte grazie alla potenza dello
Spirito Santo, che operando dentro lo spirito umano fa sì che i suoi desideri fruttifichino in bene. Queste
sono quindi non soltanto - e non tanto - "opere" dell’uomo, quanto "frutto", cioè effetto dell’azione dello
"Spirito" nell’uomo. E perciò Paolo parla del "frutto dello "Spirito"", intendendo questa parola con la
maiuscola.
Senza penetrare nelle strutture dell’interiorità umana mediante le sottili differenziazioni forniteci dalla
teologia sistematica (specialmente a partire da Tommaso d’Aquino) ci limitiamo all’esposizione sintetica
della dottrina biblica, che ci consente di comprendere, in modo essenziale e sufficiente, la distinzione e la
contrapposizione della "carne" e dello "Spirito".
Abbiamo osservato che tra i frutti dello Spirito l’apostolo pone anche il "dominio di sé". Occorre non
dimenticarlo, perché nelle ulteriori nostre riflessioni riprenderemo questo tema per trattarlo in modo più
particolareggiato.

Mercoledì, 7 gennaio 1981


La contrapposizione tra carne e spirito e la “giustificazione” nella fede
Dopo la pausa dovuta alle recenti festività ricominciamo oggi i nostri incontri del mercoledì portando ancora
nel cuore la serena letizia del mistero della nascita del Cristo, che la liturgia della Chiesa in questo periodo ci
ha fatto celebrare ed attualizzare nella nostra vita. Gesù di Nazaret, il Bimbo che vagisce nella mangiatoia di
Betlemme, è il Verbo eterno di Dio che si è incarnato per amore dell’uomo ( Gv 1,14). Questa è la grande
verità alla quale il cristiano aderisce con profonda fede. Con la fede di Maria Santissima che, nella gloria
della sua intatta verginità, concepì e generò il Figlio di Dio fatto uomo. Con la fede di San Giuseppe che lo
custodì e lo protesse con immensa dedizione d’amore. Con la fede dei pastori che accorsero subito alla grotta
della natività. Con la fede dei Magi che lo intravidero nel segno della stella e, dopo lunghe ricerche, poterono
contemplarlo e adorarlo nelle braccia della Vergine Madre.
Che il nuovo anno sia vissuto da tutti sotto il segno di questa grande gioia interiore, frutto della certezza che
Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma
abbia la vita eterna.
È l’augurio che rivolgo a tutti voi che siete presenti a questa prima udienza generale del 1981 ed a tutti i
vostri cari.
1. Che cosa significa l’affermazione: "La carne... ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri
contrari alla carne"? (Gal5,17) Questa domanda sembra importante, anzi fondamentale nel contesto delle
nostre riflessioni sulla purezza di cuore, di cui parla il Vangelo. Tuttavia, l’Autore della lettera ai Galati apre
davanti a noi, a questo riguardo, orizzonti ancor più vasti. In questa contrapposizione della "carne" allo
Spirito (Spirito di Dio), e della vita "secondo la carne" alla vita "secondo lo Spirito" è contenuta la teologia
paolina circa la giustificazione, cioè l’espressione della fede nel realismo antropologico ed etico della
redenzione compiuta da Cristo, che Paolo, nel contesto a noi già noto, chiama anche "redenzione del corpo".
Secondo la Lettera ai Romani (Rm 8,23), la "redenzione del corpo" ha anche una dimensione "cosmica"
(riferita a tutta la creazione), ma al centro di essa vi è l’uomo: l’uomo costituito nell’unità personale dello
spirito e del corpo. E appunto in questo uomo, nel suo "cuore", e conseguentemente in tutto il suo
comportamento, fruttifica la redenzione di Cristo, grazie a quelle forze dello Spirito che attuano la
"giustificazione", cioè fanno sì che la giustizia "abbondi" nell’uomo come è inculcato nel discorso della
montagna: Matteo (Mt 5,20), cioè "abbondi" nella misura che Dio stesso ha voluto e che Egli attende.

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2. È significativo che Paolo, parlando delle "opere della carne" (cf. Gal 5,11-21), menziona non soltanto
"fornicazione, impurità, libertinaggio... ubriachezza, orge" – quindi, tutto ciò che, secondo un modo di
comprendere oggettivo, riveste il carattere dei "peccati carnali" e del godimento sensuale collegato con la
carne – ma nomina anche altri peccati, ai quali non saremmo portati ad attribuire un carattere anche "carnale"
e "sensuale": "idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie..."
(Gal 5,20-21). Secondo le nostre categorie antropologiche (ed etiche) noi saremmo propensi piuttosto a
chiamare tutte le "opere" qui elencate "peccati dello spirito" umano, anziché peccati della "carne". Non
senza motivo avremmo potuto intravedere in esse piuttosto gli effetti della "concupiscenza degli occhi" o
della "superbia della vita" che non gli effetti della "concupiscenza della carne". Tuttavia, Paolo le qualifica
tutte come "opere della carne". Ciò s’intende esclusivamente sullo sfondo di quel significato più ampio (in
certo senso metonimico), che nelle lettere paoline assume il termine "carne", contrapposto non soltanto e non
tanto allo "spirito" umano quanto allo Spirito Santo che opera nell’anima (nello spirito) dell’uomo.
3. Esiste, dunque, una significativa analogia tra ciò che Paolo definisce come "opere della carne" e le parole
con cui Cristo spiega ai suoi discepoli ciò che prima aveva detto ai farisei circa la "purezza" e l’"impurità"
rituale (cf. Mt 15,2-20). Secondo le parole di Cristo, la vera "purezza" (come anche l’"impurità") in senso
morale sta nel "cuore" e proviene "dal cuore" umano. Come "opere impure" nello stesso senso, sono definiti
non soltanto gli "adulteri" e le "prostituzioni", quindi i "peccati della carne" in senso stretto, ma anche i
"propositi malvagi... i furti, le false testimonianze, le bestemmie". Cristo, come abbiamo già potuto costatare,
si serve qui del significato tanto generale quanto specifico dell’"impurità" (e quindi indirettamente anche
della "purezza"). San Paolo si esprime in maniera analoga: le opere "della carne" sono intese nel testo
paolino in senso tanto generale quanto specifico. Tutti i peccati sono espressione della "vita secondo la
carne", che è in contrasto con la "vita secondo lo Spirito". Quello che, conformemente alla nostra
convenzione linguistica (del resto parzialmente giustificata), viene considerato come "peccato della carne",
nell’elenco paolino è una delle tante manifestazioni (o specie) di ciò che egli denomina "opere della carne",
e, in questo senso, uno dei sintomi, cioè delle attualizzazioni della vita "secondo la carne" e non "secondo lo
Spirito".
4. Le parole di Paolo scritte ai Romani: "Così dunque, fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per
vivere secondo la carne; poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito
voi fate morire le opere del corpo, vivrete" (Rm8,12-13), c’introducono nuovamente nella ricca e
differenziata sfera dei significati, che i termini "corpo" e "spirito" hanno per lui. Tuttavia, il significato
definitivo di quell’enunciato è parenetico, esortativo, quindi valido per l’ethos evangelico. Paolo, quando
parla della necessità di far morire le opere del corpo con l’aiuto dello Spirito, esprime appunto ciò di cui
Cristo ha parlato nel Discorso della Montagna, facendo richiamo al cuore umano ed esortandolo al dominio
dei desideri, anche di quelli che si esprimono nello "sguardo" dell’uomo rivolto verso la donna al fine di
appagare la concupiscenza della carne. Tale superamento, ossia, come scrive Paolo, il "far morire le opere
del corpo con l’aiuto dello Spirito", è condizione indispensabile della "vita secondo lo Spirito", cioè della
"vita" che è antitesi della "morte" di cui si parla nello stesso contesto. La vita "secondo la carne" fruttifica
infatti la "morte", cioè comporta come effetto la "morte" dello Spirito.
Dunque, il termine "morte" non significa soltanto morte corporale, ma anche il peccato, che la teologia
morale chiamerà mortale. Nelle Lettere ai Romani e ai Galati l’Apostolo allarga continuamente l’orizzonte
del "peccato-morte", sia verso il "principio" della storia dell’uomo, sia verso il suo termine. E perciò, dopo
aver elencato le multiformi "opere della carne", afferma che "chi le compie non erediterà il regno di Dio"
( Gal 5,21). Altrove scriverà con simile fermezza: "Sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro –
che è roba da idolatri – avrà parte al regno di Cristo e di Dio" ( Ef 5,5). Anche in questo caso, le opere che
escludono dall’aver "parte al regno di Cristo e di Dio" – cioè le "opere della carne" – vengono elencate
come esempio e con valore generale, sebbene al primo posto stiano qui i peccati contro la "purezza" nel
senso specifico (cf. Ef 5,3-7).
5. Per completare il quadro della contrapposizione tra il "corpo" e il "frutto dello Spirito" bisogna osservare
che in tutto ciò che è manifestazione della vita e del comportamento secondo lo Spirito, Paolo vede ad un
tempo la manifestazione di quella libertà, per la quale Cristo "ci ha liberati" (Gal 5,1). Così egli scrive
appunto: "Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per
vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la
sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso" ( Gal 5,13-14). Come già in

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precedenza abbiamo rilevato, la contrapposizione "corpo-Spirito", vita "secondo la carne", vita "secondo lo
Spirito", permea profondamente tutta la dottrina paolina sulla giustificazione. L’Apostolo delle Genti, con
eccezionale forza di convinzione, proclama che la giustificazione dell’uomo si compie in Cristo e per Cristo.
L’uomo consegue la giustificazione nella "fede che opera per mezzo della carità" (Gal5,6), e non solo
mediante l’osservanza delle singole prescrizioni della Legge anticotestamentaria (in particolare, della
circoncisione). La giustificazione viene quindi "dallo Spirito" (di Dio) e non "dalla carne". Egli esorta,
perciò, i destinatari della sua lettera a liberarsi dalla erronea concezione "carnale" della giustificazione, per
seguire quella vera, cioè, quella "spirituale", in questo senso li esorta a ritenersi liberi dalla Legge, e ancor
più ad esser liberi della libertà, per la quale Cristo "ci ha liberati".
Così, dunque, seguendo il pensiero dell’Apostolo, ci conviene considerare e soprattutto realizzare la purezza
evangelica, cioè la purezza di cuore, secondo la misura di quella libertà per la quale Cristo "ci ha liberati".

Mercoledì, 14 gennaio 1981


La vita secondo lo spirito, fondata nella vera libertà
1. San Paolo scrive nella Lettera ai Galati: "Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa
libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni
degli altri. Tutta la legge, infatti, trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te
stesso" (Gal 5,13-14). Già una settimana fa ci siamo soffermati su questo enunciato; tuttavia lo riprendiamo
oggi, in rapporto all’argomento principale delle nostre riflessioni.
Sebbene il passo citato si riferisca anzitutto al tema della giustificazione, tuttavia l’Apostolo tende qui
esplicitamente a far capire la dimensione etica della contrapposizione "corpo-spirito", cioè tra la vita secondo
la carne e la vita secondo lo Spirito. Anzi, proprio qui egli tocca il punto essenziale, svelando quasi le stesse
radici antropologiche dell’ethos evangelico. Se, infatti, "tutta la Legge" (legge morale dell’Antico
Testamento) "trova la sua pienezza" nel comandamento della carità, la dimensione del nuovo ethos
evangelico non è nient’altro che un appello rivolto alla libertà umana, un appello alla sua più piena
attuazione e, in certo senso, alla più piena "utilizzazione" della potenzialità dello spirito umano.
2. Potrebbe sembrare che Paolo contrapponga solamente la libertà alla Legge e la Legge alla libertà. Tuttavia
un’analisi approfondita del testo dimostra che San Paolo nella Lettera ai Galati sottolinea anzitutto la
subordinazione etica della libertà a quell’elemento in cui si compie tutta la Legge, ossia all’amore, che è il
contenuto del più grande comandamento del Vangelo. "Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi", proprio
nel senso che Egli ci ha manifestato la subordinazione etica (e teologica) della libertà alla carità e che ha
collegato la libertà con il comandamento dell’amore. Intendere così la vocazione alla libertà ("Voi,... fratelli,
siete stati chiamati alla libertà" (Gal 5,13) significa configurare l’ethos, in cui si realizza la vita "secondo lo
Spirito". Esiste infatti anche il pericolo di intendere la libertà in modo erroneo, e Paolo lo addita con
chiarezza, scrivendo nello stesso contesto: "Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo
la carne, ma, mediante la carità, siate a servizio gli uni degli altri" (Gal 5,13).
3. In altre parole: Paolo ci mette in guardia dalla possibilità di fare uso cattivo della libertà, un uso che
contrasti con la liberazione dello spirito umano compiuta da Cristo e che contraddica quella libertà con cui
"Cristo ci ha liberati". Difatti, Cristo ha realizzato e manifestato la libertà che trova la pienezza nella carità,
la libertà grazie alla quale siamo "a servizio gli uni degli altri"; in altre parole: la libertà che diviene sorgente
di "opere" nuove e di "vita" secondo lo Spirito. L’antitesi e, in certo qual modo, la negazione di tale uso della
libertà ha luogo quando essa diventa per l’uomo "un pretesto per vivere secondo la carne". La libertà diventa
allora una sorgente di "opere" e di "vita" secondo la carne. Cessa di essere l’autentica libertà, per la quale
"Cristo ci ha liberati" e diviene "un pretesto per vivere secondo la carne", sorgente (oppure strumento) di uno
specifico "giogo" da parte della superbia della vita, della concupiscenza degli occhi e della concupiscenza
della carne. Chi in questo modo vive "secondo la carne", cioè si assoggetta – sebbene in modo non del tutto
cosciente, ma nondimeno effettivo – alla triplice concupiscenza, e in particolare alla concupiscenza della
carne, cessa di essere capace di quella libertà per cui "Cristo ci ha liberati"; cessa anche di essere idoneo al
vero dono di sé, che è frutto ed espressione di tale libertà. Cessa, inoltre, di essere capace di quel dono, che è

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organicamente connesso col significato sponsale del corpo umano, di cui abbiamo trattato nelle precedenti
analisi del Libro della Genesi (cf. Gen 2,23-25)
4. In questo modo, la dottrina paolina circa la purezza, dottrina in cui troviamo la fedele ed autentica eco del
Discorso della Montagna, ci consente di vedere la "purezza di cuore" evangelica e cristiana, in una
prospettiva più ampia, e soprattutto ci permette di collegarla con la carità in cui tutta "la legge trova la sua
pienezza". Paolo, in modo analogo a Cristo, conosce un duplice significato della "purezza" e dell’"impurità":
un senso generico ed uno specifico. Nel primo caso è "puro" tutto ciò che è moralmente buono, "impuro"
invece ciò che è moralmente cattivo. Lo affermano con chiarezza le parole di Cristo secondo Matteo 15, 18-
20, citate in precedenza. Negli enunciati di Paolo circa le "opere della carne", che egli contrappone al "frutto
dello Spirito", troviamo la base per un analogo modo di intendere questo problema. Tra le "opere della carne"
Paolo colloca ciò che è moralmente cattivo, mentre ogni bene morale viene collegato con la vita "secondo lo
Spirito". Così, una delle manifestazioni della vita "secondo lo Spirito" è il comportamento conforme a quella
virtù, che Paolo, nella Lettera ai Galati, sembra definire piuttosto indirettamente, ma di cui parla in modo
diretto nella prima Lettera ai Tessalonicesi.
5. Nei brani della Lettera ai Galati, che già anteriormente abbiamo sottoposto ad analisi dettagliata,
l’Apostolo elenca al primo posto fra le "opere della carne": "fornicazione, impurità, libertinaggio"; tuttavia,
in seguito, quando a queste opere contrappone il "frutto dello Spirito", non parla direttamente della
"purezza", ma nomina solo il "dominio di sé", la enkráteia. Questo "dominio" si può riconoscere come virtù
che riguarda la continenza nell’ambito di tutti i desideri dei sensi, soprattutto nella sfera sessuale; è quindi in
contrapposizione alla "fornicazione, all’impurità, al libertinaggio", e anche all’"ubriachezza", alle "orge". Si
potrebbe quindi ammettere che il paolino "dominio di sé" contiene ciò che viene espresso nel termine
"continenza" o "temperanza", che corrisponde al termine latino temperantia. In tal caso, ci troveremmo di
fronte al noto sistema delle virtù, che la teologia posteriore, specie la scolastica, prenderà in prestito, in certo
senso, dall’etica di Aristotele. Tuttavia, Paolo certamente non si serve, nel suo testo, di questo sistema. Dato
che per "purezza" si deve intendere il giusto modo di trattare la sfera sessuale a seconda dello stato personale
(e non necessariamente un astenersi assoluto dalla vita sessuale), allora indubbiamente tale "purezza" è
compresa nel concetto paolino di "dominio" o enkráteia. Perciò, nell’ambito del testo paolino troviamo solo
una generica ed indiretta menzione della purezza, in tanto in quanto a tali "opere della carne", come
"fornicazione, impurità, libertinaggio", l’autore contrappone il "frutto dello Spirito", cioè opere nuove, in cui
si manifesta "la vita secondo lo Spirito". Si può dedurre che una di queste opere nuove sia proprio la
"purezza": quella, cioè, che si contrappone all’"impurità" e anche alla "fornicazione" e al "libertinaggio".
6. Ma già nella prima Lettera ai Tessalonicesi, Paolo scrive su questo argomento in modo esplicito e
inequivoco. Vi leggiamo: "Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dalla
impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo [Senza entrare nelle discussioni
particolareggiate degli esegeti, occorre tuttavia segnalare che l’espressione greca tò heautoû skeûos può
riferirsi anche alla moglie (cf. 1Pt 3,7)] con santità e rispetto, non come oggetto di passioni e libidine, come i
pagani che non conoscono Dio" (1Ts 4,3-5). E poi: "Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla
santificazione. Perciò chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso che vi dona il suo
Santo Spirito" (1Ts 4,7-8). Sebbene anche in questo testo abbiamo a che fare col significato generico della
"purezza", identificata in questo caso con la "santificazione" (in quanto si nomina l’"impurità" come antitesi
della "santificazione"), nondimeno tutto il contesto indica chiaramente di quale "purezza" o di quale
"impurità" si tratti, cioè in che cosa consista ciò che Paolo chiama qui "impurità", e in qual modo la
"purezza" contribuisca alla "santificazione"dell’uomo.
E perciò, nelle successive riflessioni, converrà riprendere il testo della prima lettera ai Tessalonicesi, or ora
citato.

Mercoledì, 28 gennaio 1981


Santità e rispetto del corpo nella dottrina di san Paolo
1. Scrive san Paolo nella I Lettera ai Tessalonicesi: "... questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione:
che vi asteniate dalla impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non

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come oggetto di passioni libidinose, come i pagani che non conoscono Dio" (1Ts 4,3-5). E dopo qualche
versetto, continua: "Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste
norme non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito" (1Ts 4,7-8). A queste frasi
dell’Apostolo abbiamo fatto riferimento durante il nostro incontro del 14 gennaio scorso. Tuttavia oggi le
riprendiamo perché sono particolarmente importanti per il tema delle nostre meditazioni.
2. La purezza, di cui parla Paolo nella I Lettera ai Tessalonicesi (cf. 1Ts 4,3-5.7-8), si manifesta nel fatto che
l’uomo "sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passioni libidinose". In
questa formulazione ogni parola ha un significato particolare e merita pertanto un commento adeguato.
In primo luogo, la purezza è una "capacità", ossia, nel tradizionale linguaggio dell’antropologia e dell’etica:
un’attitudine. Ed in questo senso, è virtù. Se questa abilità, cioè virtù, porta ad astenersi "dalla impudicizia",
ciò avviene perché l’uomo che la possiede sa "mantenere il proprio corpo con santità e rispetto e non come
oggetto di passioni libidinose". Si tratta qui di una capacità pratica, che rende l’uomo atto ad agire in un
determinato modo e nello stesso tempo a non agire nel modo contrario. La purezza, per essere una tale
capacità o attitudine, deve ovviamente essere radicata nella volontà, nel fondamento stesso del volere e
dell’agire cosciente dell’uomo. Tommaso d’Aquino, nella sua dottrina sulle virtù, vede in modo ancor più
diretto l’oggetto della purezza nella facoltà del desiderio sensibile, che egli chiama "appetitus
concupiscibilis". Appunto questa facoltà deve essere particolarmente "dominata", ordinata e resa capace di
agire in modo conforme alla virtù, affinché la "purezza" possa essere attribuita all’uomo. Secondo tale
concezione, la purezza consiste anzitutto nel contenere gli impulsi del desiderio sensibile, che ha come
oggetto ciò che nell’uomo è corporale e sessuale. La purezza è una variante della virtù della temperanza.
3. Il testo della I Lettera ai Tessalonicesi (cf. 1Ts 4,3-5) dimostra che la virtù della purezza, nella concezione
di Paolo, consiste anche nel dominio e nel superamento di "passioni libidinose"; ciò vuol dire che alla sua
natura appartiene necessariamente la capacità di contenere gli impulsi del desiderio sensibile, cioè la virtù
della temperanza. Contemporaneamente, però, lo stesso testo paolino rivolge la nostra attenzione verso
un’altra funzione della virtù della purezza, verso un’altra sua dimensione – si potrebbe dire – più positiva che
negativa.
Ecco, il compito della purezza, che l’Autore della lettera sembra porre soprattutto in risalto, è non solo (e non
tanto) l’astensione dalla "impudicizia" e da ciò che vi conduce, quindi l’astensione da "passioni libidinose",
ma, in pari tempo, il mantenimento del proprio corpo e, indirettamente anche di quello altrui in "santità e
rispetto".
Queste due funzioni, l’ "astensione" e il "mantenimento", sono strettamente connesse e reciprocamente
dipendenti. Poiché, infatti, non si può "mantenere il corpo con santità e rispetto", se manchi quell’astensione
"dalla impudicizia" e da ciò a cui essa conduce, di conseguenza si può ammettere che il mantenimento del
corpo (proprio e, indirettamente, altrui) "con santità e rispetto" conferisce adeguato significato e valore a
quell’astensione. Questa richiede di per sé il superamento di qualche cosa che è nell’uomo e che nasce
spontaneamente in lui come inclinazione, come attrattiva e anche come valore che agisce soprattutto
nell’ambito dei sensi, ma molto spesso non senza ripercussioni sulle altre dimensioni della soggettività
umana, e particolarmente sulla dimensione affettivo-emotiva.
4. Considerando tutto ciò, sembra che l’immagine paolina della virtù della purezza – immagine che emerge
dal confronto molto eloquente della funzione dell’"astensione" (cioè della temperanza) con quella del
"mantenimento del corpo con santità e rispetto" – sia profondamente giusta, completa e adeguata. Dobbiamo
forse questa completezza non ad altro se non al fatto che Paolo considera la purezza non soltanto come
capacità (cioè attitudine) delle facoltà soggettive dell’uomo, ma, nello stesso tempo, come una concreta
manifestazione della vita "secondo lo Spirito", in cui la capacità umana viene interiormente fecondata ed
arricchita da ciò che Paolo, nella Lettera ai Galati (Gal 5,22), chiama "frutto dello Spirito". Il rispetto, che
nasce nell’uomo verso tutto ciò che è corporeo e sessuale, sia in lui sia in ogni altro uomo, maschio e
femmina, si dimostra la forza più essenziale per mantenere il corpo "con santità". Per comprendere la
dottrina paolina sulla purezza, bisogna entrare a fondo nel significato del termine "rispetto", ovviamente qui
inteso quale forza di ordine spirituale. È appunto questa forza interiore che conferisce piena dimensione alla
purezza come virtù, cioè come capacità di agire in tutto quel campo in cui l’uomo scopre, nel proprio intimo,
i molteplici impulsi di "passioni libidinose", e talvolta, per vari motivi, si arrende ad essi.
5. Per intendere meglio il pensiero dell’Autore della prima Lettera ai Tessalonicesi sarà bene avere presente
ancora un altro testo, che troviamo nella prima Lettera ai Corinzi. Paolo vi espone la sua grande dottrina

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ecclesiologica, secondo cui la Chiesa è Corpo di Cristo; egli coglie l’occasione per formulare la seguente
argomentazione circa il corpo umano: "... Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli
ha voluto" (1Cor 12,18); e più oltre: "Anzi, quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più
necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e
quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio
ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel
corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre" (1Cor 12,22-25).
6. Sebbene l’argomento proprio del testo in questione sia la teologia della Chiesa quale Corpo di Cristo,
tuttavia in margine a questo passo si può dire che Paolo, mediante la sua grande analogia ecclesiologica (che
ricorre in altre lettere, e che riprenderemo a suo tempo), contribuisce, al tempo stesso, ad approfondire la
teologia del corpo. Mentre nella prima Lettera ai Tessalonicesi egli scrive circa il mantenimento del corpo
"con santità e rispetto", nel passo ora citato dalla prima Lettera ai Corinzi vuole mostrare questo corpo
umano come appunto degno di rispetto; si potrebbe anche dire che vuole insegnare ai destinatari della sua
lettera la giusta concezione del corpo umano.
Perciò questa descrizione paolina del corpo umano nella prima Lettera ai Corinzi sembra essere strettamente
connessa alle raccomandazioni della prima Lettera ai Tessalonicesi: "Che ciascuno sappia mantenere il
proprio corpo con santità e rispetto" ( 1Ts4,4). Questo è un filo importante, forse quello essenziale, della
dottrina paolina sulla purezza.

Mercoledì, 4 febbraio 1981


Descrizione paolina del corpo e dottrina sulla purezza
1. Nelle nostre considerazioni di mercoledì scorso sulla purezza secondo l’insegnamento di san Paolo,
abbiamo richiamato l’attenzione sul testo della prima Lettera ai Corinzi. L’Apostolo vi presenta la Chiesa
come Corpo di Cristo, e ciò gli offre l’opportunità di fare il seguente ragionamento circa il corpo umano: "...
Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto... Anzi quelle membra del corpo
che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le
circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle
decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne
mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre"
(1Cor12,18.22-25).
2. La "descrizione" paolina del corpo umano corrisponde alla realtà che lo costituisce: è quindi una
descrizione "realistica". Nel realismo di tale descrizione viene intrecciato, al tempo stesso, un sottilissimo
filo di valutazione che le conferisce un valore profondamente evangelico, cristiano. Certo è possibile
"descrivere" il corpo umano, esprimere la sua verità con l’oggettività propria delle scienze naturali; ma
siffatta descrizione – con tutta la sua precisione – non può essere adeguata (cioè commensurabile con il suo
oggetto), dato che non si tratta soltanto del corpo (inteso come organismo, nel senso "somatico"),
bensì dell’uomo, che esprime se stesso per mezzo di quel corpo e in tal senso è, direi, quel corpo. Così
dunquequel filo di valutazione, considerato che si tratta dell’uomo come persona, è indispensabile nel
descrivere il corpo umano. Inoltre va detto quanto giusta sia tale valutazione. Questo è uno dei compiti e dei
temi perenni di tutta la cultura: della letteratura, scultura, pittura e anche della danza, delle opere teatrali e
infine della cultura della vita quotidiana, privata o sociale. Argomento che varrebbe la pena di trattare
separatamente.
3. La descrizione paolina della prima Lettera ai Corinzi (1Cor 12,18-25) non ha certamente un significato
"scientifico": non presenta uno studio biologico sull’organismo umano oppure sulla "somatica" umana; da
questo punto di vista è una semplice descrizione "prescientifica", peraltro concisa, fatta appena di poche
frasi. Essa ha tutte le caratteristiche del realismo comune ed è, senza dubbio, sufficientemente "realistica".
Tuttavia, ciò che determina il suo carattere specifico, ciò che in modo particolare giustifica la sua presenza
nella Sacra Scrittura, è appunto quella valutazione intrecciata nella descrizione ed espressa nella sua stessa
trama "narrativo-realistica". Si può dire con certezza che tale descrizione non sarebbe possibile senza tutta

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la verità della creazione e anche senza tutta la verità della "redenzione del corpo", che Paolo professa e
proclama. Si può anche affermare che la descrizione paolina del corpo corrisponde proprio
all’atteggiamento spirituale di "rispetto" verso il corpo umano, dovuto a motivo della "santità" (cf. 1Ts 4,3-
5.7-8) che scaturisce dai misteri della creazione e della redenzione. La descrizione paolina è ugualmente
lontana sia dal disprezzo manicheo del corpo, sia dalle varie manifestazioni di un naturalistico "culto del
corpo".
4. L’Autore della prima Lettera ai Corinzi (1Cor 12,18-25) ha davanti agli occhi il corpo umano in tutta la
sua verità; dunque, il corpo permeato anzitutto (se così ci si può esprimere) da tutta la realtà della persona e
dalla sua dignità. Esso è, al tempo stesso, il corpo dell’uomo "storico", maschio e femmina, cioè di
quell’uomo che, dopo il peccato, fu concepito, per così dire, entro e dalla realtà dell’uomo che aveva fatto
l’esperienza della innocenza originaria. Nelle espressioni di Paolo circa le "membra indecorose" del corpo
umano, come anche circa quelle che "sembrano più deboli" oppure quelle "che riteniamo meno onorevoli", ci
pare di ritrovare la testimonianza della stessa vergogna che i primi esseri umani, maschio e femmina,
avevano sperimentato dopo il peccato originale. Questa vergogna si è impressa in loro e in tutte le
generazioni dell’uomo "storico" come frutto della triplice concupiscenza (con particolare riferimento alla
concupiscenza della carne). E contemporaneamente in questa vergogna – come fu già posto in rilievo nelle
precedenti analisi – si è impressa una certa "eco" della stessa innocenza originaria dell’uomo: quasi un
"negativo" dell’immagine, il cui "positivo" era stata appunto l’innocenza originaria.
5. La "descrizione" paolina del corpo umano sembra confermare perfettamente le nostre anteriori analisi. Vi
sono, nel corpo umano, le "membra indecorose" non a motivo della loro natura "somatica" (giacché una
descrizione scientifica e fisiologica tratta tutte le membra e gli organi del corpo umano in modo "neutrale",
con la stessa oggettività), ma soltanto ed esclusivamente perché nell’uomo stesso esiste quella vergogna che
percepisce alcune membra del corpo come "indecorose" e induce a considerarle tali. La stessa vergogna
sembra, in pari tempo, essere alla base di ciò che scrive l’Apostolo nella prima Lettera ai Corinzi: "Quelle
parti del corpo che riteniamo meno onorevoli, le circondiamo di maggior rispetto e quelle indecorose sono
trattate con maggior decenza" (1Cor 12,23). Così, dunque, si può dire che dalla vergogna nasce appunto
il "rispetto"per il proprio corpo: rispetto, il cui mantenimento Paolo sollecita nella prima Lettera ai
Tessalonicesi (1Ts 4,4). Appunto tale mantenimento del corpo "con santità e rispetto" va ritenuto come
essenziale per la virtù della purezza.
6. Ritornando ancora alla "descrizione" paolina del corpo nella prima Lettera ai Corinzi (1Cor 12,18-25),
vogliamo richiamare l’attenzione sul fatto che, secondo l’Autore della Lettera, quel particolare sforzo che
tende a rispettare il corpo umano e specialmente le sue membra più "deboli" o "indecorose", corrisponde al
disegno originario del Creatore ovvero a quella visione, di cui parla il Libro della Genesi: "Dio vide quanto
aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gen 1,31). Paolo scrive: "Dio ha composto il corpo, conferendo
maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra
avessero cura le une delle altre" (1Cor 12,24-25). La "disunione nel corpo", il cui risultato è che alcune
membra sono ritenute "più deboli", "meno onorevoli", quindi "indecorose", è una ulteriore espressione
della visione dello stato interiore dell’uomo dopo il peccato originale, cioè dell’uomo "storico". L’uomo
dell’innocenza originaria, maschio e femmina, di cui leggiamo in Genesi 2, 25 che "erano nudi... ma non ne
provavano vergogna", non provava nemmeno quella "disunione nel corpo". All’oggettiva armonia, di cui il
Creatore ha dotato il corpo e che Paolo precisa come reciproca cura delle varie membra (1Cor 12,25),
corrispondeva un’analoga armonia nell’intimo dell’uomo: l’armonia del "cuore". Quest’armonia, ossia
precisamente la "purezza di cuore", consentiva all’uomo e alla donna nello stato dell’innocenza originaria di
sperimentare semplicemente (e in un modo che originariamente li rendeva felici entrambi) la forza unitiva
dei loro corpi, che era, per così dire, l’"insospettabile" substrato della loro unione personale o "communio
personarum".
7. Come si vede, l’Apostolo nella prima Lettera ai Corinzi (cf. 1Cor 12,18-25) collega la sua descrizione del
corpo umano allo stato dell’uomo "storico". Alla soglia della storia di quest’uomo sta l’esperienza della
vergogna connessa con la "disunione nel corpo", col senso di pudore per quel corpo (e in specie per quelle
sue membra che somaticamente determinano la mascolinità e la femminilità). Tuttavia, nella stessa
"descrizione", Paolo indica anche la via che (appunto sulla base del senso di vergogna) conduce alla
trasformazione di tale stato fino alla graduale vittoria su quella "disunione nel corpo", vittoria che può e
deve attuarsi nel cuore dell’uomo. Questa è appunto la via della purezza, ossia del "mantenere il proprio

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corpo con santità e rispetto". Al "rispetto", di cui tratta la prima Lettera ai Tessalonicesi (cf. 1Ts 4,3-5), Paolo
si riallaccia nella prima Lettera ai Corinzi (cf. 1Cor 12,18-25) usando alcune locuzioni equivalenti, quando
parla del "rispetto" ossia della stima verso le membra "meno onorevoli", "più deboli" del corpo, e quando
raccomanda maggior "decenza" nei riguardi di ciò che nell’uomo è ritenuto "indecoroso". Queste locuzioni
caratterizzano più da vicino quel "rispetto" soprattutto nell’ambito dei rapporti e comportamenti umani nei
confronti del corpo; il che è importante sia riguardo al "proprio" corpo, sia evidentemente anche nei rapporti
reciproci (specialmente tra l’uomo e la donna, sebbene non limitatamente ad essi).
Non abbiamo alcun dubbio che la "descrizione" del corpo umano nella prima Lettera ai Corinzi abbia un
significato fondamentale per l’insieme della dottrina paolina sulla purezza.

Mercoledì, 11 febbraio 1981


La virtù della purezza attua la vita secondo lo spirito
1. Durante i nostri ultimi incontri del mercoledì abbiamo analizzato due passi tratti dalla prima Lettera ai
Tessalonicesi (1Ts 4,3-5) e dalla prima Lettera ai Corinzi (1Cor 12,18-25), al fine di mostrare ciò che sembra
essere essenziale nella dottrina di san Paolo sulla purezza, intesa in senso morale, ossia come virtù. Se nel
testo citato della prima Lettera ai Tessalonicesi si può costatare che la purezza consiste nella temperanza,
tuttavia in questo testo, come pure nella prima Lettera ai Corinzi, è anche posto in rilievo il momento del
"rispetto". Mediante tale rispetto dovuto al corpo umano (e aggiungiamo che, secondo la prima Lettera ai
Corinzi, il rispetto è appunto visto in relazione alla sua componente di pudore), la purezza, come virtù
cristiana, si rivela nelle Lettere paoline una via efficace per distaccarsi da ciò che nel cuore umano è frutto
della concupiscenza della carne. L’astensione "dalla impudicizia", che implica il mantenimento del corpo
"con santità e rispetto", permette di dedurre che, secondo la dottrina dell’Apostolo, la purezza è una
"capacità" incentrata sulla dignità del corpo, cioè sulla dignità della persona in relazione al proprio corpo,
alla femminilità o mascolinità che in questo corpo si manifesta. La purezza, intesa come "capacità", è
appunto espressione e frutto della vita "secondo lo Spirito" nel pieno significato dell’espressione, cioè come
nuova capacità dell’essere umano, in cui porta frutto il dono dello Spirito Santo. Queste due dimensioni della
purezza – la dimensione morale, ossia la virtù, e la dimensione carismatica, ossia il dono dello Spirito Santo
– sono presenti e strettamente connesse nel messaggio di Paolo. Ciò viene posto in particolare rilievo
dall’Apostolo nella prima Lettera ai Corinzi, in cui egli chiama il corpo "tempio (quindi: dimora e
santuario) dello Spirito Santo".
2. "O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio e non
appartenete a voi stessi?" – chiede Paolo ai Corinzi (1Cor 6,19), dopo averli prima istruiti con molta severità
circa le esigenze morali della purezza. "Fuggite la prostituzione! Qualsiasi peccato l’uomo commetta è fuori
del suo corpo (1Cor 6,8) ma chi si dà all’impudicizia, pecca contro il proprio corpo". La nota peculiare del
peccato che l’Apostolo qui stigmatizza sta nel fatto che tale peccato, diversamente da tutti gli altri, è "contro
il corpo" (mentre gli altri peccati sono "fuori del corpo"). Così, dunque, nella terminologia paolina troviamo
la motivazione per le espressioni: "i peccati del corpo" o i "peccati carnali". Peccati che sono in
contrapposizione appunto con quella virtù, in forza della quale l’uomo mantiene "il proprio corpo con santità
e rispetto" (cf. 1Ts 4,3-5).
3. Tali peccati portano con sé la "profanazione" del corpo: privano il corpo della donna o dell’uomo del
rispetto ad esso dovuto a motivo della dignità della persona. Tuttavia, l’Apostolo va oltre: secondo lui il
peccato contro il corpo è pure "profanazione del tempio". Della dignità del corpo umano, agli occhi di Paolo,
decide non soltanto lo spirito umano, grazie a cui l’uomo si costituisce come soggetto personale, ma ancor
più la realtà soprannaturale che è la dimora e la continua presenza dello Spirito Santo nell’uomo – nella sua
anima e nel suo corpo – come frutto della redenzione compiuta da Cristo. Ne consegue che il "corpo"
dell’uomo ormai non è più soltanto "proprio". E non soltanto per il motivo che è corpo della persona, esso
merita quel rispetto, la cui manifestazione nella condotta reciproca degli uomini, maschi e femmine,
costituisce la virtù della purezza. Quando l’Apostolo scrive: "Il vostro corpo è tempio dello Spirito che è in

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voi e che avete da Dio" (1Cor 6,19), intende indicare ancora un’altra fonte della dignità del corpo, appunto
lo Spirito Santo, che è anche fonte del dovere morale derivante da tale dignità.
4. È la realtà della redenzione, che è pure "redenzione del corpo", a costituire questa fonte. Per Paolo, questo
mistero della fede è una realtà viva, orientata direttamente ad ogni uomo. Per mezzo della redenzione, ogni
uomo ha ricevuto da Dio quasi nuovamente se stesso e il proprio corpo. Cristo ha iscritto nel corpo umano –
nel corpo di ogni uomo e di ogni donna – una nuova dignità, dato che in lui stesso il corpo umano è stato
ammesso, insieme all’anima, all’unione con la Persona del Figlio-Verbo. Con questa nuova dignità, mediante
la "redenzione del corpo" nacque al tempo stesso anche un nuovo obbligo, di cui scrive Paolo in modo
conciso, ma quanto mai toccante: "Siete stati comprati a caro prezzo" (1Cor6,20). Il frutto della redenzione è
infatti lo Spirito Santo, che abita nell’uomo e nel suo corpo come in un tempio. In questo Dono, che santifica
ogni uomo, il cristiano riceve nuovamente se stesso in dono da Dio. E questo nuovo, duplice dono obbliga.
L’Apostolo fa riferimento a questa dimensione dell’obbligo quando scrive ai credenti, consapevoli del Dono,
per convincerli che non si deve commettere l’"impudicizia", non si deve "peccare contro il proprio corpo"
(1Cor 6,18). Egli scrive: "Il corpo... non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo"
(1Cor 6,13). È difficile esprimere in modo più conciso Ciò che porta con sé per ogni credente il mistero
dell’Incarnazione. Il fatto che il corpo umano divenga in Gesù Cristo corpo di Dio-Uomo ottiene per tale
motivo, in ciascun uomo, una nuova soprannaturale elevazione, di cui ogni cristiano deve tener conto nel suo
comportamento nei riguardi del "proprio" corpo e, evidentemente, nei riguardi del corpo altrui: l’uomo verso
la donna e la donna verso l’uomo. La redenzione del corpo comporta l’istituzione in Cristo e per Cristo di
una nuova misura della santità del corpo. Proprio a questa "santità" fa richiamo Paolo nella prima Lettera ai
Tessalonicesi (1Ts 4,3-5), quando scrive di "mantenere il proprio corpo con santità e rispetto".
5. Nel capitolo 6 della prima Lettera ai Corinzi, Paolo precisa invece la verità sulla santità del corpo,
stigmatizzando con parole perfino drastiche l’"impudicizia", cioè il peccato contro la santità del corpo, il
peccato dell’impurità: "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di
Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta
forma con essa un corpo solo? I due saranno, è detto, un corpo solo. Ma chi si unisce al Signore forma con
lui un solo spirito" (1Cor 6,15-17). Se la purezza è, secondo l’insegnamento paolino, un aspetto della "vita
secondo lo Spirito", ciò vuol dire che fruttifica in essa il mistero della redenzione del corpo come parte del
mistero di Cristo, iniziato nell’Incarnazione e già attraverso di essa rivolto ad ogni uomo. Questo mistero
fruttifica anche nella purezza, intesa come un particolare impegno fondato sull’etica. Il fatto che siamo "stati
comprati a caro prezzo" (1Cor6,20), cioè a prezzo della redenzione di Cristo, fa scaturire appunto un
impegno speciale, ossia il dovere di "mantenere il proprio corpo con santità e rispetto". La consapevolezza
della redenzione del corpo opera nella volontà umana in favore dell’astensione dalla "impudicizia", anzi,
agisce al fine di far acquisire un’appropriata abilità o capacità, detta virtù della purezza.
Ciò che risulta dalle parole della prima Lettera ai Corinzi ( 1Cor 6,15-17 ) circa l’insegnamento di Paolo
sulla virtù cristiana della purezza come attuazione della vita "secondo lo Spirito", è di una particolare
profondità e ha la forza del realismo soprannaturale della fede. È necessario che ritorniamo a riflettere su
questo tema più di una volta.

Mercoledì, 18 marzo 1981


Dottrina paolina della purezza come “vita secondo lo spirito”
1. Nel nostro incontro di alcune settimane fa, abbiamo concentrato l’attenzione sul passo della prima Lettera
ai Corinzi, in cui san Paolo chiama il corpo umano "tempio dello Spirito Santo". Egli scrive: "O non sapete
che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi
stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo" (1Cor 6,19-20). "Non sapete che i vostri corpi sono membra
di Cristo?" (1Cor 6,15). L’Apostolo indica il mistero della "redenzione del corpo", compiuta da Cristo, come
una sorgente di un particolare dovere morale, che impegna i cristiani alla purezza, a quella che lo stesso
Paolo definisce altrove l’esigenza di "mantenere il proprio corpo con santità e rispetto" (1Ts 4,4).

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2. Tuttavia, non scopriremmo sino in fondo la ricchezza del pensiero contenuto nei testi paolini, se non
notassimo che il mistero della redenzione fruttifica nell’uomo anche in modo carismatico. Lo Spirito Santo
che, secondo le parole dell’Apostolo, entra nel corpo umano come nel proprio "tempio", vi abita ed opera
insieme ai suoi doni spirituali. Fra questi doni, noti alla storia della spiritualità come i sette doni dello Spirito
Santo (cf. Is 11,2), il più congeniale alla virtù della purezza sembra essere il dono della
"pietà" (eusébeia; donum pietatis) 50. Se la purezza dispone l’uomo a "mantenere il proprio corpo con santità
e rispetto", come leggiamo nella prima Lettera ai Tessalonicesi (1Ts 4,3-5), la pietà, che è dono dello Spirito
Santo, sembra servire in modo particolare la purezza, sensibilizzando il soggetto umano a quella dignità, che
è propria del corpo umano in virtù del mistero della creazione e della redenzione. Grazie al dono della pietà,
le parole di Paolo: "Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi... e che non
appartenete a voi stessi" (1Cor 6,19), acquistano l’eloquenza di un’esperienza e divengono viva e vissuta
verità nelle azioni. Esse aprono pure l’accesso più pieno all’esperienza del significato sponsale del corpo e
della libertà del dono collegata con esso, nella quale si svela il volto profondo della purezza e il suo organico
legame con l’amore.
3. Sebbene il mantenimento del proprio corpo "con santità e rispetto" si formi mediante l’astensione dalla
"impudicizia" – e tale via è indispensabile – tuttavia fruttifica sempre nell’esperienza più profonda di
quell’amore, che è stato iscritto dal "principio", secondo l’immagine e somiglianza di Dio stesso, in tutto
l’essere umano e quindi anche nel suo corpo. Perciò san Paolo termina la sua argomentazione della prima
Lettera ai Corinzi nel capitolo 6 con una significativa esortazione: "Glorificate dunque Dio nel vostro corpo"
(1Cor 6,20). La purezza, quale virtù ossia capacità di "mantenere il proprio corpo con santità e rispetto",
alleata con il dono della pietà, quale frutto della dimora dello Spirito Santo nel "tempio" del corpo, attua in
esso una tale pienezza di dignità nei rapporti interpersonali, che Dio stesso vi è glorificato. La purezza è
gloria del corpo umano davanti a Dio. È la gloria di Dio nel corpo umano attraverso il quale si manifestano la
mascolinità e la femminilità. Dalla purezza scaturisce quella singolare bellezza, che permea ogni sfera della
reciproca convivenza degli uomini e consente di esprimervi la semplicità e la profondità, la cordialità e
l’autenticità irripetibile dell’affidamento personale (forse si darà più tardi un’altra occasione per trattare più
ampiamente questo tema. Il legame della purezza con l’amore e anche il legame della stessa purezza
nell’amore con quel dono dello Spirito Santo che è la pietà, costituisce una trama poco conosciuta della
teologia del corpo, che tuttavia merita un approfondimento particolare. Ciò potrà essere realizzato nel corso
delle analisi riguardanti la sacramentalità del matrimonio).
4. Ed ora un breve riferimento all’Antico Testamento. La dottrina paolina circa la purezza, intesa come "vita
secondo lo Spirito", sembra indicare una certa continuità nei confronti dei Libri "sapienziali" dell’Antico
Testamento. Vi riscontriamo, ad esempio, la seguente preghiera per ottenere la purezza nei pensieri, parole ed
opere: "Signore, padre e Dio della mia vita... Sensualità e libidine non s’impadroniscano di me, a desideri
vergognosi non mi abbandonare" (Sir 23,4-6). La purezza è infatti condizione per trovare la sapienza e per
seguirla, come leggiamo nello stesso Libro: "A lei (cioè alla sapienza) rivolsi il mio desiderio, e la trovai
nella purezza" (Sir 51,20). Inoltre, si potrebbe anche in qualche modo prendere in considerazione il testo del
Libro della Sapienza (Sap 8,21) conosciuto dalla liturgia nella versione della volgata: "Scrivi quoniam aliter
non possum esse continens, nisi Deus det; et hoc ipsum erat sapientiae, scire, cuius esset hoc donum"
(Questa versione della volgata, conservata dalla Neo-Volgata e dalla liturgia, citata parecchie volte da
Agostino [De sacra virginitate, par. 43; Confessiones, VI, 11; X, 29; SermoCLX, 7], cambia tuttavia il senso
dell’originale greco, che si traduce così: "Sapendo che non l’avrei altrimenti ottenuta [= la Sapienza], se Dio
non me l’avesse concessa...".
Secondo un tale concetto, non tanto la purezza è condizione della sapienza quanto la sapienza sarebbe
condizione della purezza, come di un dono particolare di Dio. Sembra che già nei sopracitati testi sapienziali
si delinei il duplice significato della purezza: come virtù e come dono. La virtù è a servizio della sapienza, e

50. L’eusébeia o pietas nel periodo ellenistico-romano si riferiva generalmente alla venerazione degli Dei (come
"devozione"), ma conserva ancora il senso primitivo più largo del rispetto verso le strutture vitali. L’eusébeia definiva il
comportamento reciproco dei consanguinei, i rapporti tra i coniugi, e anche l’atteggiamento dovuto dalle legioni verso
Cesare o degli schiavi verso i padroni. Nel Nuovo Testamento, soltanto gli scritti più tardivi applicano l’eusébeia ai
cristiani; negli scritti più antichi tale termine caratterizza i "buoni pagani" (At 10,2.7; 17,23). E così l’eusébeia ellenica,
come pure il "donum pietatis", pur riferendosi indubbiamente alla venerazione divina, hanno una larga base nella
connotazione dei rapporti interumani (cf. W. Forester, art Eusébeia, in Theological Dichionary of the New Testament,
ed. G. Kittel-G. Bromiley, vol. VII, Grand Rapids 1971, Eedermans, pp. 177-182).

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la sapienza predispone ad accogliere il dono che proviene da Dio. Questo dono fortifica la virtù e consente di
godere, nella sapienza, i frutti di una condotta e di una vita che siano pure.
5. Come Cristo nella sua beatitudine del Discorso della montagna, la quale si riferisce ai "puri di cuore",
pone in risalto la "visione di Dio", frutto della purezza e in prospettiva escatologica, così Paolo a sua volta
mette in luce la sua irradiazione nelle dimensioni della temporalità, quando scrive: "Tutto è puro per i puri;
ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro; sono contaminate la loro mente e la loro coscienza.
Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti..." ( Tt 1,15ss .). Queste parole possono riferirsi
anche alla purezza in senso tanto generale quanto specifico, come alla nota caratteristica di ogni bene morale.
Per la concezione paolina della purezza, nel senso di cui parlano la prima Lettera ai Tessalonicesi ( 1Ts 4,3-
5 ) e la prima Lettera ai Corinzi ( 1Cor 6,13-20 ), cioè nel senso della "vita secondo lo Spirito", sembra
essere fondamentale – come risulta dall’insieme di queste nostre considerazioni – l’antropologia della
rinascita nello Spirito Santo (cf. Gv 3,5ss .). Essa cresce dalle radici messe nella realtà della redenzione del
corpo, operata da Cristo: redenzione, la cui espressione ultima è la risurrezione. Vi sono profonde ragioni per
collegare l’intera tematica della purezza alle parole del Vangelo nelle quali Cristo si richiama alla
risurrezione (e ciò costituirà il tema della ulteriore tappa delle nostre considerazioni). Qui l’abbiamo
soprattutto posta in rapporto con l’ethos della redenzione del corpo.
6. Il modo di intendere e di presentare la purezza – ereditata dalla tradizione dell’Antico Testamento e
caratteristico dei Libri "sapienziali" – era certamente una indiretta, ma nondimeno reale preparazione alla
dottrina paolina circa la purezza intesa come "vita secondo lo Spirito". Senza dubbio quel modo facilitava
pure a molti ascoltatori del Discorso della montagna la comprensione delle parole di Cristo, quando egli,
spiegando il comandamento "Non commettere adulterio", si richiamava al "cuore" umano. L’insieme delle
nostre riflessioni ha potuto in questo modo dimostrare, almeno in una certa misura, con quale ricchezza e con
quale profondità si distingue la dottrina sulla purezza nelle sue stesse fonti bibliche ed evangeliche.

Mercoledì, 1 aprile 1981


La funzione positiva della purezza di cuore
1. Prima di concludere il ciclo di considerazioni concernenti le parole pronunziate da Gesù Cristo nel
Discorso della Montagna, occorre ricordare queste parole ancora una volta e riprendere sommariamente il
filo delle idee, del quale esse costituirono la base. Ecco il tenore delle parole di Gesù: "Avete inteso che fu
detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già
commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5, 27-28) Sono parole sintetiche, che esigono una
approfondita riflessione, analogamente alle parole, in cui Cristo si richiamò al "principio". Ai Farisei, i quali
– rifacendosi alla legge di Mosè che ammetteva il cosiddetto atto di ripudio – gli avevano chiesto: "È lecito
ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?", egli rispose: "Non avete letto che il Creatore
da principio li creò maschio e femmina?... Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua
moglie e i due saranno una carne sola... Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi" ( Mt 19,
3-6). Anche queste parole hanno richiesto una riflessione approfondita, per trarne tutta la ricchezza in esse
racchiusa. Una riflessione di questo genere ci ha consentito di delineare l’autentica teologia del corpo.
2. Seguendo il richiamo fatto da Cristo al "principio", abbiamo dedicato una serie di riflessioni ai relativi
testi del Libro della Genesi, che trattano appunto di quel "principio". Dalle analisi fatte è emersa non soltanto
una immagine della situazione dell’uomo – maschio e femmina – nello stato di innocenza originaria, ma
anche la base teologica della verità dell’uomo e sulla sua particolare vocazione che scaturisce dall’eterno
mistero della persona: immagine di Dio, incarnata nel fatto visibile e corporeo della mascolinità o
femminilità della persona umana. Questa verità sta alla base della risposta data da Cristo in rapporto al
carattere del matrimonio, e in particolare alla sua indissolubilità. È verità sull’uomo, verità che affonda le
radici nello stato di innocenza originaria, verità che bisogna quindi intendere nel contesto di quella situazione
anteriore al peccato, così come abbiamo cercato di fare nel ciclo precedente delle nostre riflessioni.

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3. Contemporaneamente, tuttavia, occorre considerare, intendere ed interpretare la medesima verità
fondamentale sull’uomo il suo esser maschio e femmina, nel prisma di un’altra situazione: cioè, di quella che
si è formata mediante la rottura della prima alleanza col Creatore, ossia mediante il peccato originale.
Conviene vedere tale verità sull’uomo – maschio e femmina – nel contesto della sua peccaminosità
ereditaria. Ed è proprio qui che c’incontriamo con l’enunciato di Cristo nel Discorso della Montagna. È
ovvio che nella Sacra Scrittura dell’Antica e della Nuova Alleanza vi sono molte narrazioni, frasi e parole
che confermano la stessa verità, cioè che l’uomo "storico" porta in sé l’eredità del peccato originale;
nondimeno, le parole di Cristo, pronunziate nel Discorso della Montagna, sembrano avere – con tutta la loro
concisa enunciazione – un’eloquenza particolarmente densa. Lo dimostrano le analisi fatte in precedenza che
hanno svelato gradualmente ciò che si racchiude in quelle parole. Per chiarire le affermazioni concernenti la
concupiscenza, occorre cogliere il significato biblico della concupiscenza stessa – della triplice
concupiscenza – e principalmente di quella della carne. Allora, poco a poco, si giunge a capire perché Gesù
definisce quella concupiscenza (precisamente: il "guardare per desiderare") come "adulterio commesso nel
cuore". Compiendo le relative analisi abbiamo cercato, al tempo stesso, di comprendere quale significato
avevano le parole di Cristo per i suoi immediati ascoltatori, educati nella tradizione dell’Antico Testamento,
cioè nella tradizione dei testi legislativi, come pure profetici e "sapienziali"; e inoltre, quale significato
possono avere le parole di Cristo per l’uomo di ogni altra epoca, e in particolare per l’uomo contemporaneo,
considerando i suoi vari condizionamenti culturali. Siamo persuasi, infatti, che queste parole, nel loro
contenuto essenziale, si riferiscono all’uomo di ogni luogo e di ogni tempo. In ciò consiste anche il loro
valore sintetico: a ciascuno annunziano la verità che è per lui valida e sostanziale.
4. Qual è questa verità? Indubbiamente, è una verità di carattere etico e quindi, in definitiva, una verità di
carattere normativo, così come normativa è la verità contenuta nel comandamento: "Non commettere
adulterio". L’interpretazione di questo comandamento, fatto da Cristo, indica il male che bisogna evitare e
vincere – appunto il male della concupiscenza della carne – e in pari tempo addita il bene al quale il
superamento dei desideri apre la strada. Questo bene è la "purezza di cuore", di cui parla Cristo nello stesso
contesto del Discorso della Montagna. Dal punto di vista biblico, la "purezza del cuore" significa la libertà
da ogni genere di peccato o di colpa e non soltanto dai peccati che riguardano la "concupiscenza della carne".
Tuttavia, qui ci occupiamo in modo particolare di uno degli aspetti di quella "purezza", il quale costituisce il
contrario dell’adulterio "commesso nel cuore". Se quella "purezza di cuore", di cui trattiamo, va intesa
secondo il pensiero di san Paolo come "vita secondo lo Spirito", allora il contesto paolino ci offre una
completa immagine del contenuto racchiuso nelle parole pronunziate da Cristo nel Discorso della Montagna.
Esse contengono una verità di natura etica, mettono in guardia contro il male ed indicano il bene morale della
condotta umana, anzi, indirizzano gli ascoltatori ad evitare il male della concupiscenza e ad acquisire la
purezza di cuore. Queste parole hanno quindi un significato normativo ed insieme indicatore. Indirizzando
verso il bene della "purezza di cuore" esse indicano, al tempo stesso, i valori a cui il cuore umano può e deve
aspirare.
5. Di qui la domanda: quale verità, valida per ogni uomo, e contenuta nelle parole di Cristo? Dobbiamo
rispondere che vi è racchiusa non soltanto una verità etica, ma anche la verità essenziale sull’uomo, la verità
antropologica. Perciò, appunto, risaliamo a queste parole nel formulare qui la teologia del corpo, in stretto
rapporto e, per così dire, nella prospettiva delle parole precedenti, in cui Cristo si era riferito al "principio".
Si può affermare che, con la loro espressiva eloquenza evangelica, alla coscienza dell’uomo della
concupiscenza viene in un certo senso richiamato l’uomo della innocenza originaria. Ma le parole di Cristo
sono realistiche. Non cercano di far tornare il cuore umano allo stato di innocenza originaria, che l’uomo ha
ormai lasciato dietro di sé nel momento in cui ha commesso il peccato originale; invece, esse gli indicano la
strada verso una purezza di cuore, che gli è possibile ed accessibile anche nello stato della peccaminosità
ereditaria. È questa, purezza dell’"uomo della concupiscenza", che tuttavia è ispirato dalla parola del Vangelo
ed aperto alla "vita secondo lo Spirito" (in conformità alle parole di san Paolo), cioè la purezza dell’uomo
della concupiscenza che è avvolto interamente dalla "redenzione del corpo" compiuta da Cristo. Proprio per
questo nelle parole del Discorso della Montagna troviamo il richiamo al "cuore", cioè all’uomo interiore.
L’uomo interiore deve aprirsi alla vita secondo lo Spirito, affinché la purezza di cuore evangelica venga da
lui partecipata: affinché egli ritrovi e realizzi il valore del corpo, liberato mediante la redenzione dai vincoli
della concupiscenza.
Il significato normativo delle parole di Cristo è profondamente radicato nel loro significato antropologico,
nella dimensione della interiorità umana.

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6. Secondo la dottrina evangelica, sviluppata in modo così stupendo nelle Lettere paoline, la purezza non è
soltanto l’astenersi dalla impudicizia (cf. 1Ts 4,3) ossia la temperanza, ma essa, al tempo stesso, apre anche
la strada ad una scoperta sempre più perfetta della dignità del corpo umano; il che è organicamente connesso
con la libertà del dono della persona nell’autenticità integrale della sua soggettività personale, maschile o
femminile. In tal modo la purezza, nel senso della temperanza, matura nel cuore dell’uomo che la coltiva
e tende a scoprire e ad affermare il senso sponsale del corpo nella sua verità integrale. Proprio questa verità
deve essere conosciuta interiormente; essa deve, in certo senso, essere "sentita col cuore", affinché i rapporti
reciproci dell’uomo e della donna – e perfino il semplice sguardo – riacquistino quel contenuto
autenticamente sponsale dei loro significati. Ed è proprio questo contenuto che nel Vangelo viene indicato
dalla "purezza di cuore".
7. Se nell’esperienza interiore dell’uomo (cioè dell’uomo della concupiscenza) la "temperanza" si delinea,
per così dire, come funzione negativa, l’analisi delle parole di Cristo pronunziate nel Discorso della
Montagna e collegate con i testi di san Paolo ci consente di spostare tale significato verso la
funzione positiva della purezza di cuore. Nella purezza matura l’uomo gode dei frutti della vittoria riportata
sulla concupiscenza, vittoria di cui scrive san Paolo, esortando a "mantenere il proprio corpo con santità e
rispetto" (1 Ts 4,4). Anzi, proprio in una purezza così matura si manifesta in parte l’efficacia del dono dello
Spirito Santo, di cui il corpo umano "è tempio" (cf. 1 Cor 6,19). Questo dono è soprattutto quello della pietà
("donum pietatis"), che restituisce all’esperienza del corpo – specialmente quando si tratta della sfera dei
reciproci rapporti dell’uomo e della donna – tutta la sua semplicità, la sua limpidezza e anche la sua gioia
interiore. Questo è, come si vede, un clima spirituale, assai diverso dalla "passione e libidine", di cui scrive
Paolo, e che d’altronde conosciamo dalle precedenti analisi; basti ricordare il Siracide ( Sir 26, 13.15-18).
Una cosa è, infatti, l’appagamento delle passioni, altra la gioia che l’uomo trova nel possedere più
pienamente se stesso, potendo in questo modo diventare anche più pienamente un vero dono per un’altra
persona.
Le parole pronunziate da Cristo nel Discorso della Montagna dirigono il cuore umano appunto verso una tale
gioia. Ad esse occorre affidare se stessi, i propri pensieri e le proprie azioni, per trovare la gioia e per donarla
agli altri.

Mercoledì, 8 aprile 1981


Pedagogia del corpo, ordine morale, manifestazioni affettive
1. Ci conviene ormai concludere le riflessioni e le analisi basate sulle parole pronunziate da Cristo nel
Discorso della Montagna, con le quali Egli si richiamò al cuore umano, esortandolo alla purezza: "Avete
inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha
già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,27-28). Abbiamo detto a più riprese che queste parole,
pronunziate una volta ai delimitati ascoltatori di quel Discorso, si riferiscono all’uomo di tutti i tempi e
luoghi, e fanno appello al cuore umano, in cui si iscrive la più interiore e, in certo senso, la più
essenziale trama della storia. È la storia del bene e del male (il cui inizio è collegato, nel Libro della Genesi,
col misterioso albero della conoscenza del bene e del male) e, ad un tempo, è la storia della salvezza, la cui
parola è il Vangelo, e la cui forza è lo Spirito Santo, dato a coloro che accolgono il Vangelo con cuore
sincero.
2. Se l’appello di Cristo al "cuore" umano e, ancor prima, il suo richiamo al "principio" ci consente di
costruire o almeno di delineare un’antropologia, che possiamo chiamare "teologia del corpo", una tale
teologia è, nello stesso tempo, pedagogia. La pedagogia tende ad educare l’uomo, ponendo davanti a lui le
esigenze, motivandole, ed indicando le vie che conducono alla loro realizzazione. Gli enunciati di Cristo
hanno anche questo fine; sono enunciati "pedagogici". Essi contengono una pedagogia del corpo, espressa in
modo conciso e, in pari tempo, quanto mai completo. Sia la risposta data ai Farisei in merito
all’indissolubilità del matrimonio, sia le parole del Discorso della Montagna riguardanti il dominio della
concupiscenza, dimostrano – almeno indirettamente – che il Creatore ha assegnato come compito all’uomo
il corpo, la sua mascolinità e femminilità; e che nella mascolinità e femminilità gli ha assegnato in certo

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senso come compito la sua umanità, la dignità della persona, e anche il segno trasparente della "comunione"
interpersonale, in cui l’uomo realizza se stesso attraverso l’autentico dono di sé. Ponendo davanti all’uomo le
esigenze conformi ai compiti affidatigli, il Creatore indica nello stesso tempo all’uomo, maschio e femmina,
le vie che portano ad assumerli e ad eseguirli.
3. Analizzando questi testi-chiave della Bibbia, fino alla radice stessa dei significati che racchiudono,
scopriamo appunto quell’antropologia che può essere denominata "teologia del corpo". Ed è
questa teologia del corpo che fonda poi il più appropriato metodo della pedagogia del corpo, cioè
dell’educazione (anzi dell’autoeducazione) dell’uomo. Ciò acquista una particolare attualità per l’uomo
contemporaneo, la cui scienza nel campo della biofisiologia e della biomedicina è molto progredita. Tuttavia
questa scienza tratta l’uomo sotto un determinato "aspetto" e quindi è piuttosto parziale, anziché globale.
Conosciamo bene le funzioni del corpo come organismo, le funzioni collegate alla mascolinità e alla
femminilità della persona umana. Ma tale scienza, di per sé, non sviluppa ancora la coscienza del corpo
come segno della persona, come manifestazione dello spirito. Tutto lo sviluppo della scienza contemporanea,
riguardante il corpo come organismo, ha piuttosto il carattere della conoscenza biologica, perché è basato
sulla disgiunzione, nell’uomo, di ciò che in lui è corporeo da ciò che è spirituale. Servendosi di una
conoscenza così unilaterale delle funzioni del corpo come organismo, non è difficile giungere a trattare il
corpo, in modo più o meno sistematico, come oggetto di manipolazioni; in tal caso l’uomo cessa, per così
dire, di identificarsi soggettivamente col proprio corpo, perché privato del significato e della dignità derivanti
dal fatto che questo corpo è proprio della persona. Ci troviamo qui al limite di problemi, che spesso esigono
soluzioni fondamentali, le quali sono impossibili senza una visione integrale dell’uomo.
4. Proprio qui appare chiaro che la teologia del corpo, quale ricaviamo da quei testi-chiave delle parole di
Cristo, diventa il metodo fondamentale della pedagogia, ossia dell’educazione dell’uomo dal punto di vista
del corpo, nella piena considerazione della sua mascolinità e femminilità. Quella pedagogia può essere
intesa sotto l’aspetto di una specifica "spiritualità del corpo"; il corpo, infatti, nella sua mascolinità o
femminilità è dato come compito allo spirito umano (ciò che in modo stupendo è stato espresso da San Paolo
nel linguaggio che gli è proprio) e per mezzo di una adeguata maturità dello spirito diventa anch’esso segno
della persona, di cui la persona è conscia, ed autentica "materia" nella comunione delle persone. In altri
termini: l’uomo, attraverso la sua maturità spirituale, scopre il significato sponsale proprio del corpo.
Le parole di Cristo nel Discorso della Montagna indicano che la concupiscenza di per sé non svela all’uomo
quel significato, anzi, al contrario, lo offusca ed oscura. La conoscenza puramente "biologica" delle funzioni
del corpo come organismo, connesse con la mascolinità e femminilità della persona umana, è capace di
aiutare a scoprire l’autentico significato sponsale del corpo, soltanto se va di pari passo con un’adeguata
maturità spirituale della persona umana. Senza di ciò, tale conoscenza può avere effetti addirittura opposti; e
ciò viene confermato da molteplici esperienze del nostro tempo.
5. Da questo punto di vista bisogna considerare con perspicacia le enunciazioni della Chiesa contemporanea.
Una loro adeguata comprensione ed interpretazione, come pure la loro applicazione pratica (cioè, appunto, la
pedagogia) richiede quella approfondita teologia del corpo che, in definitiva, rileviamo soprattutto dalle
parole-chiave di Cristo. Quanto alle enunciazioni contemporanee della Chiesa, bisogna prendere conoscenza
del capitolo intitolato "Dignità del matrimonio e della famiglia e sua valorizzazione", della Costituzione
pastorale del Concilio Vaticano Secondo (Gaudium et Spes, pars. II, cap. I) e, successivamente,
dell’Enciclica Humanae Vitae di Paolo VI. Senza alcun dubbio, le parole di Cristo, all’analisi delle quali
abbiamo dedicato molto spazio, non avevano altro fine che la valorizzazione della dignità del matrimonio e
della famiglia; donde la fondamentale convergenza tra esse e il contenuto di entrambe le enunciazioni
menzionate della Chiesa contemporanea. Cristo parlava all’uomo di tutti i tempi e luoghi; le enunciazioni
della Chiesa tendono ad attualizzare le parole di Cristo, e perciò debbono essere rilette secondo la chiave di
quella teologia e di quella pedagogia, che nelle parole di Cristo trovano radice e sostegno.
È difficile compiere qui un’analisi globale delle citate enunciazioni del magistero supremo della Chiesa. Ci
limiteremo a riportarne alcuni passi. Ecco in qual modo il Vaticano Secondo – ponendo tra i più urgenti
problemi della Chiesa nel mondo contemporaneo "la valorizzazione della dignità del matrimonio e della
famiglia" – caratterizza la situazione esistente in questo ambito: "Non dappertutto la dignità di questa
istituzione (cioè del matrimonio e della famiglia) brilla con identica chiarezza poiché è oscurata dalla
poligamia, dalla piaga del divorzio, dal cosiddetto libero amore e da altre deformazioni. Per di più l’amore
coniugale è molto spesso profanato dall’egoismo, dall’edonismo e da usi illeciti contro la generazione" ( Ivi,

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47). Paolo VI, esponendo nella enciclica Humanae Vitae quest’ultimo problema, scrive tra l’altro: "Si può
anche temere che l’uomo, abituandosi all’uso delle pratiche anticoncezionali, finisca per perdere il rispetto
della donna e... arrivi a considerarla come semplice strumento di godimento egoistico e non più come la sua
compagna, rispettata e amata" (Paolo VI, Humanae Vitae, 17).
Non ci troviamo forse qui nell’orbita della stessa premura, che una volta aveva dettato le parole di
Cristo sull’unità e l’indissolubilità del matrimonio, come anche quelle del Discorso della Montagna, relative
alla purezza di cuore e al dominio della concupiscenza della carne, parole sviluppate più tardi con tanta
perspicacia dall’apostolo Paolo?
6. Nello stesso spirito l’Autore dell’enciclica Humanae Vitae, parlando delle esigenze proprie della morale
cristiana, presenta, al tempo stesso, la possibilità di adempierle, quando scrive: "Il dominio dell’istinto,
mediante la ragione e la libera volontà, impone indubbiamente una ascesi – Paolo VI usa questo termine –
affinché le manifestazioni affettive della vita coniugale siano secondo il retto ordine e in particolare per
l’osservanza della continenza periodica. Ma questa disciplina, propria della purezza degli sposi, ben lungi dal
nuocere all’amore coniugale, gli conferisce invece un più alto valore umano. Esige un continuo sforzo
(appunto tale sforzo è stato sopra chiamato "ascesi"), ma grazie al suo benefico influsso i
coniugi sviluppano integralmente la loro personalità arricchendosi di valori spirituali. Essa... favorisce
l’attenzione verso l’altro coniuge, aiuta gli sposi a bandire l’egoismo, nemico del vero amore, ed
approfondisce il loro senso di responsabilità..." (Paolo VI, Humanae Vitae, 21).
7. Fermiamoci su questi pochi brani. Essi – particolarmente l’ultimo – dimostrano in modo chiaro quanto
indispensabile sia, per un’adeguata comprensione dell’enunciato del magistero della Chiesa contemporanea,
quella teologia del corpo, le cui basi abbiamo cercato soprattutto nelle parole di Cristo stesso. È proprio essa
– come già abbiamo detto – che diventa il metodo fondamentale di tutta la pedagogia cristiana del corpo.
Facendo riferimento alle parole citate, si può affermare che il fine della pedagogia del corpo sta proprio nel
far sì che "le manifestazioni affettive"– soprattutto quelle "proprie della vita coniugale" – siano conformi
all’ordine morale, ossia, in definitiva, alla dignità delle persone. In queste parole ritorna il problema del
reciproco rapporto tra l’"eros" e l’"ethos" di cui già abbiamo trattato. La teologia, intesa come metodo della
pedagogia del corpo, ci prepara anche alle ulteriori riflessioni sulla sacramentalità della vita umana e, in
particolare, della vita matrimoniale.
Il Vangelo della purezza di cuore, ieri ed oggi: concludendo con questa frase il presente ciclo delle nostre
considerazioni – prima di passare al ciclo successivo, in cui la base delle analisi saranno le parole di Cristo
sulla risurrezione del corpo – desideriamo ancora dedicare un po’ di attenzione alla "necessità di creare un
clima favorevole all’educazione della castità", di cui tratta l’Enciclica di Paolo VI, e vogliamo incentrare
queste osservazioni sul problema dell’ethos del corpo nelle opere della cultura artistica, con particolare
riferimento alle situazioni che incontriamo nella vita contemporanea.

Mercoledì, 15 aprile 1981


Il corpo umano “tema” dell’opera d’arte
1. Nelle nostre precedenti riflessioni – sia nell’ambito delle parole di Cristo, in cui Egli fa riferimento al
"principio", sia nell’ambito del Discorso della Montagna, cioè quando Egli si richiama al "cuore" umano –
abbiamo cercato, in modo sistematico, di far vedere come la dimensione della soggettività personale
dell’uomo sia elemento indispensabile presente nell’ermeneutica teologica, che dobbiamo scoprire e
presupporre alle basi del problema del corpo umano. Quindi non soltanto la realtà oggettiva del corpo, ma
ancor molto di più, come sembra, la coscienza soggettiva e anche l’"esperienza" soggettiva del corpo
entrano, ad ogni passo, nella struttura dei testi biblici, e perciò richiedono di essere presi in considerazione e
di trovare il loro riflesso nella teologia. Di conseguenza l’ermeneutica teologica deve tener sempre conto di
tali due aspetti. Non possiamo considerare il corpo come una realtà oggettiva al di fuori della soggettività
personale dell’uomo, degli esseri umani: maschi e femmine. Quasi tutti i problemi dell’"ethos del corpo"
sono legati contemporaneamente alla sua identificazione ontologica quale corpo della persona, e al
contenuto e qualità dell’esperienza soggettiva, cioè al tempo stesso del "vivere" sia del proprio corpo sia

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nelle relazioni interumane, e in particolare in questa perenne relazione "uomo-donna". Anche le parole della
prima Lettera ai Tessalonicesi, in cui l’Autore esorta a "mantenere il proprio corpo con santità e rispetto"
(cioè tutto il problema della "purezza di cuore") indicano, senza alcun dubbio, queste due dimensioni.
2. Sono dimensioni che riguardano direttamente gli uomini concreti, vivi, i loro atteggiamenti e
comportamenti. Le opere della cultura, specialmente dell’arte, fanno sì che quelle dimensioni di "essere
corpo" e di "sperimentare il corpo", si estendano, in certo senso, al di fuori di questi uomini vivi. L’uomo si
incontra con la "realtà del corpo" e "sperimenta il corpo" anche quando esso diventa un tema dell’attività
creativa, un’opera d’arte, un contenuto della cultura. Sebbene, in linea di massima, bisogna riconoscere che
questo contatto avviene sul piano dell’esperienza estetica, in cui si tratta di prendere visione dell’opera d’arte
(in greco aisthánomai: guardo, osservo) – e quindi che, nel determinato caso, si tratta del corpo
oggettivizzato, al di fuori della sua identità ontologica, in modo diverso e secondo i criteri propri dell’attività
artistica – tuttavia l’uomo che viene ammesso a prendere questa visione è a priori troppo profondamente
legato al significato del prototipo, ovvero modello, che in questo caso è lui stesso: – l’uomo vivo e il vivo
corpo umano – perché egli possa distaccare e separare completamente quell’atto, sostanzialmente estetico,
dell’opera in sé e della sua contemplazione da quei dinamismi o reazioni di comportamento e dalle
valutazioni, che dirigono quella prima esperienza e quel primo modo di vivere. Questo guardare, per la sua
natura, "estetico" non può, nella coscienza soggettiva dell’uomo, essere totalmente isolato da quel
"guardare" di cui parla Cristo nel Discorso della Montagna: mettendo in guardia contro la concupiscenza.
3. Così, dunque, l’intera sfera delle esperienze estetiche si trova, ad un tempo, nell’ambito dell’ethos del
corpo. Giustamente quindi bisogna pensare anche qui alla necessità di creare un clima favorevole alla
purezza: questo clima può infatti essere minacciato non soltanto nel modo stesso in cui si svolgono i rapporti
e la convivenza degli uomini vivi, ma anche nell’ambito delle oggettivazioni proprie delle opere di cultura,
nell’ambito delle comunicazioni sociali: quando si tratta della parola viva o scritta; nell’ambito
dell’immagine, cioè della rappresentazione e della visione, sia nel significato tradizionale di questo termine
sia in quello contemporaneo. In questo modo raggiungiamo i diversi campi e prodotti della cultura artistica,
plastica, di spettacolo, anche quella che si basa sulle tecniche audiovisive contemporanee. In quest’area,
vasta e assai differenziata, occorre che ci poniamo una domanda alla luce dell’ethos del corpo, delineato
nelle analisi finora condotte, sul corpo umano quale oggetto di cultura.
4. Prima di tutto va costatato che il corpo umano è perenne oggetto di cultura, nel più ampio significato del
termine, per la semplice ragione che l’uomo stesso è soggetto di cultura, e nella sua attività culturale e
creativa egli impegna la sua umanità includendo perciò in questa attività anche il suo corpo. Nelle presenti
riflessioni dobbiamo però restringere il concetto di "oggetto di cultura", limitandoci al concetto inteso quale
"tema" delle opere di cultura e in particolare delle opere d’arte. Si tratta insomma della tematizzazione, ossia
della "oggettivazione" del corpo in tali opere. Tuttavia occorre qui far subito alcune distinzioni, sia pure a
modo di esempio. Una cosa è il corpo vivo umano: dell’uomo e della donna, che di per sé crea l’oggetto
d’arte e l’opera d’arte (come ad es. nel teatro, nel balletto e, fino a un certo punto, anche nel corso di un
concerto), e altra cosa è il corpo come modello dell’opera d’arte, come nelle arti plastiche, scultura o pittura.
È possibile porre sullo stesso rango anche il film o l’arte fotografica in senso ampio? Sembra di sì, sebbene
dal punto di vista del corpo quale oggetto-tema si verifichi in questo caso una differenza abbastanza
essenziale. Nella pittura o scultura l’uomo-corpo resta sempre un modello, sottoposto alla specifica
elaborazione da parte dell’artista. Nel film, e ancor più nell’arte fotografica, non il modello viene
trasfigurato, ma viene riprodotto l’uomo vivo: e in tal caso l’uomo, il corpo umano, non è modello per
l’opera d’arte, ma oggetto di una riproduzione ottenuta mediante tecniche appropriate.
5. Bisogna segnalare già fin d’adesso, che la suddetta distinzione è importante dal punto di vista dell’ethos
del corpo, nelle opere di cultura. E va anche subito aggiunto che la riproduzione artistica, quando diviene
contenuto della rappresentazione e della trasmissione (televisiva o cinematografica), perde, in un certo senso,
il suo contatto fondamentale coll’uomo-corpo, di cui è riproduzione, e molto spesso diventa un oggetto
"anonimo", così come è, ad es., un anonimo atto fotografico pubblicato sulle riviste illustrate, oppure
un’immagine diffusa sugli schermi di tutto il mondo. Un tale anonimato è l’effetto della "propagazione"
dell’immagine-riproduzione del corpo umano, oggettivizzato prima con l’aiuto delle tecniche di
riproduzione, che – come è stato sopra ricordato – sembra differenziarsi essenzialmente dalla trasfigurazione
del modello tipico dell’opera d’arte, soprattutto nelle arti plastiche. Orbene, tale anonimato (che d’altronde è
un modo di "velare" o "nascondere" l’identità della persona riprodotta), costituisce anche un problema

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specifico dal punto di vista dell’ethos del corpo umano nelle opere di cultura e particolarmente nelle opere
contemporanee della cosiddetta cultura di massa.
Limitiamoci oggi a queste considerazioni preliminari, che hanno un significato fondamentale per l’ethos del
corpo umano nelle opere della cultura artistica. In seguito queste considerazioni ci renderanno consapevoli di
quanto esse siano strettamente legate alle parole, che Cristo ha pronunciato nel Discorso della Montagna,
paragonando il "guardare per desiderare" con l’"adulterio commesso nel cuore". L’estensione di queste
parole all’ambito della cultura artistica è di particolare importanza, per quanto si tratta di "creare un clima
favorevole alla castità" di cui parla Paolo VI nella sua enciclica Humanae Vitae. Cerchiamo di comprendere
questo argomento in modo molto approfondito ed essenziale.

Mercoledì, 22 aprile 1981


L’opera d’arte deve sempre osservare la regolarità del dono e del reciproco donarsi
1. Riflettiamo ora – in relazione alle parole di Cristo pronunziate nel Discorso della Montagna – sul
problema dell’ethos del corpo umano nelle opere della cultura artistica. Questo problema ha radici molto
profonde. Conviene qui ricordare la serie di analisi eseguite in relazione al richiamo di Cristo al "principio",
e successivamente al richiamo da Lui fatto al "cuore" umano, nel Discorso della Montagna. Il corpo umano –
il nudo corpo umano in tutta la verità della sua mascolinità e femminilità – ha un significato di dono della
persona alla persona. L’ethos del corpo, cioè la regolarità etica della sua nudità, a motivo della dignità del
soggetto personale, è strettamente connesso a quel sistema di riferimento, inteso qualesistema sponsale, in
cui il donare dell’una parte si incontra con l’appropriata ed adeguata risposta dell’altra al dono. Tale risposta
decide della reciprocità del dono. L’oggettivazione artistica del corpo umano nella sua nudità maschile e
femminile, al fine di fare di esso prima un modello e, poi, tema dell’opera d’arte, è sempre un certo
trasferimento al di fuori di questa originaria e ad esso specifica configurazione della donazione
interpersonale. Ciò costituisce, in certo senso, uno sradicamento del corpo umano da questa configurazione
ed un suo trasferimento nella dimensione dell’oggettivazione artistica: dimensione specifica all’opera d’arte
oppure alla riproduzione tipica delle tecniche cinematografiche e fotografiche del nostro tempo.
In ciascuna di queste dimensioni – e in ciascuna in modo diverso – il corpo umano perde quel significato
profondamente soggettivo del dono, e diventa oggetto destinato ad una molteplice cognizione, mediante la
quale quelli che guardano, assimilano o addirittura, in certo senso, s’impadroniscono di ciò che
evidentemente esiste, anzi deve esistere essenzialmente a livello di dono, fatto dalla persona alla persona,
non più già nell’immagine bensì nell’uomo vivo. A dire il vero, quell’"impadronirsi" avviene già ad un altro
livello, cioè al livello dell’oggetto della trasfigurazione o riproduzione artistica; tuttavia è impossibile non
accorgersi che dal punto di vista dell’ethos del corpo, profondamente inteso, sorge qui un problema.
Problema molto delicato, che ha i suoi livelli d’intensità a seconda dei vari motivi e circostanze sia da parte
dell’attività artistica, sia da parte della conoscenza dell’opera d’arte o della sua riproduzione. Dal fatto che si
ponga questo problema non risulta affatto che il corpo umano, nella sua nudità, non possa diventare tema
dell’opera d’arte, ma soltanto che questo problema non è puramente estetico, né moralmente indifferente.
2. Nelle nostre precedenti analisi (soprattutto in rapporto al richiamarsi di Cristo al "principio"), abbiamo
dedicato molto spazio al significato della vergogna, cercando di comprendere la differenza tra la situazione –
e lo stato – dell’innocenza originaria, in cui "tutti e due erano nudi... ma non ne provavano vergogna"
( Gen 2,25 ) e, successivamente, tra la situazione – e lo stato – della peccaminosità, in cui tra l’uomo e la
donna nacque,insieme alla vergogna, la specifica necessità dell’intimità verso il proprio corpo. Nel cuore
dell’uomo soggetto alla concupiscenza questa necessità serve, anche indirettamente, ad assicurare il dono e
la possibilità del reciproco donarsi. Tale necessità forma anche il modo di agire dell’uomo come "oggetto
della cultura", nel più ampio significato del termine. Se la cultura dimostra una esplicita tendenza a coprire la
nudità del corpo umano, certo lo fa non soltanto per motivi climatici, ma anche in relazione al processo di
crescita della sensibilità personale dell’uomo. L’anonima nudità dell’uomo-oggetto contrasta col progresso
della cultura autenticamente umana dei costumi. Probabilmente è possibile confermare ciò anche nella vita
delle popolazioni cosiddette primitive. Il processo di affinare la personale sensibilità umana è certamente
fattore e frutto della cultura.

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Dietro il bisogno della vergogna, cioè dell’intimità del proprio corpo (sul quale informano con tanta
precisione le fonti bibliche in Genesi, 3), si nasconde una norma più profonda: quella del dono orientata
verso le profondità stesse del soggetto personale o verso l’altra persona, specialmente nella relazione uomo-
donna secondo la perenne regolarità del reciproco donarsi. In tal modo, nei processi della cultura umana,
intesa in senso ampio, costatiamo – anche nello stato della peccaminosità ereditaria dell’uomo –
una continuità abbastanza esplicita del significato sponsale del corpo nella sua mascolinità e femminilità.
Quella vergogna originaria, nota già dai primi capitoli della Bibbia, è un elemento permanente della cultura e
dei costumi. Esso appartiene alla genesi dell’ethos del corpo umano.
3. L’uomo di sensibilità sviluppata supera, con difficoltà ed interiore resistenza, il limite di quella vergogna.
Il che si pone in evidenza perfino nelle situazioni, che d’altronde giustificano la necessità di spogliare il
corpo, come ad es. nel caso degli esami o degli interventi medici.
Singolarmente occorre anche ricordare altre circostanze, come ad es. quelle dei campi di concentramento o
dei luoghi di sterminio, dove la violazione del pudore corporeo è un metodo consapevolmente usato per
distruggere la sensibilità personale e il senso della dignità umana. Ovunque – sebbene in modi diversi – si
riconferma la stessa linea di regolarità. Seguendo la sensibilità personale, l’uomo non vuole diventare
oggetto per gli altri attraverso la propria nudità anonima, né vuole che l’altro diventi per lui oggetto in modo
simile. Evidentemente in tanto "non vuole" in quanto si lascia guidare dal senso della dignità del corpo
umano. Vari, infatti, sono i motivi che possono indurre, incitare, perfino premere l’uomo ad agire
contrariamente a ciò che esige la dignità del corpo umano, connessa con la sensibilità personale. Non si può
dimenticare che la fondamentale "situazione" interiore dell’uomo "storico" è lo stato della triplice
concupiscenza (cf. 1Gv 2,16 ). Questo stato – è, in particolare, la concupiscenza della carne – si fa sentire in
diversi modi, sia negli impulsi interiori del cuore umano sia in tutto il clima dei rapporti interumani e nei
costumi sociali.
4. Non possiamo dimenticare ciò, nemmeno quando si tratta dell’ampia sfera della cultura artistica,
soprattutto quella di carattere visivo e spettacolare, come pure quando si tratta della cultura di "massa", così
significativa per i nostri tempi e collegata con l’uso delle tecniche divulgative della comunicazione
audiovisiva. Si pone un interrogativo: quando e in quale caso questa sfera di attività dell’uomo – dal punto di
vista dell’ethos del corpo – venga messa sotto accusa di "pornovisione", così come l’attività letteraria, che
veniva e viene spesso accusata di"pornografia" (questo secondo termine è più antico). L’uno e l’altro si
verifica quando viene oltrepassato il limite della vergogna, ossia della sensibilità personale rispetto a ciò che
si collega con il corpo umano, con la sua nudità, quando nell’opera artistica o mediante le tecniche della
riproduzione audiovisiva viene violato il diritto all’intimità del corpo nella sua mascolinità o femminilità – e
in ultima analisi – quando viene violata quella profonda regolarità del dono e del reciproco donarsi, che è
iscritta in questa femminilità e mascolinità attraverso l’intera struttura dell’essere uomo. Questa profonda
iscrizione – anzi incisione – decide del significato sponsale del corpo umano, cioè della fondamentale
chiamata che esso riceve a formare la "comunione delle persone" e a parteciparvi.
Interrompendo a questo punto la nostra considerazione, che intendiamo continuare mercoledì prossimo,
conviene costatare che l’osservanza o la non osservanza di queste regolarità, così profondamente connesse
con la sensibilità personale dell’uomo, non può essere indifferente per il problema di "creare un clima
favorevole alla castità" nella vita e nell’educazione sociale

Mercoledì, 29 aprile 1981


I limiti etici nelle opere d’arte e nella produzione audiovisiva
1. Abbiamo già dedicato una serie di riflessioni al significato delle parole pronunziate da Cristo nel Discorso
della Montagna, in cui Egli esorta alla purezza di cuore, richiamando l’attenzione perfino sullo "sguardo
concupiscente". Non possiamo dimenticare queste parole di Cristo anche quando si tratta della vasta sfera
della cultura artistica, soprattutto quella di carattere visivo e spettacolare, come pure quando si tratta della
sfera della cultura "di massa" – così significativa per i nostri tempi – collegata con l’uso delle tecniche
divulgative della comunicazione audiovisiva. Abbiamo detto ultimamente che la sunnominata sfera

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dell’attività dell’uomo viene talvolta messa sotto accusa di "pornovisione", così come nei confronti della
letteratura viene avanzata l’accusa di "pornografia". L’uno e l’altro fatto ha luogo quando si oltrepassa il
limite della vergogna, ossia della sensibilità personale rispetto a ciò che si collega con il corpo umano, con la
sua nudità, quando nell’opera artistica mediante le tecniche di produzione audiovisiva viene violato il diritto
all’intimità del corpo nella sua mascolinità o femminilità, e – in ultima analisi – quando viene violata quella
intima e costante destinazione al dono e del reciproco donarsi, che è iscritta in quella femminilità e
mascolinità attraverso l’intera struttura dell’essere-uomo. Quella profonda iscrizione, anzi, incisione, decide
del significato sponsale del corpo, cioè della fondamentale chiamata che esso riceve a formare una
"comunione di persone" e a parteciparvi.
2. È ovvio che nelle opere d’arte, oppure nei prodotti della riproduzione artistica audiovisiva, la suddetta
costante destinazione al dopo, cioè quella profonda iscrizione del significato del corpo umano, possa essere
violata soltanto nell’ordine intenzionale della riproduzione e della rappresentazione; si tratta infatti – come
già in precedenza è stato detto – del corpo umano quale modello o tema. Tuttavia, se il senso della vergogna
e la sensibilità personale vengono in tali casi offesi, ciò avviene a causa del loro trasferimento
nella dimensione della "comunicazione sociale", quindi a causa del fatto che si rende, per così dire, pubblica
proprietà ciò che, nel giusto sentire dell’uomo, appartiene e deve appartenere strettamente al rapporto
interpersonale, ciò che è legato – come già prima è stato rilevato – alla "comunione stessa delle persone", e
nel suo ambito corrisponde alla verità interiore dell’uomo, dunque anche alla verità integrale sull’uomo.
In questo punto non è possibile consentire con i rappresentanti del cosiddetto naturalismo, i quali richiamano
il diritto a "tutto ciò che è umano", nelle opere d’arte e nei prodotti della riproduzione artistica, affermando di
agire in tal modo nel nome della verità realistica circa l’uomo. E appunto questa verità sull’uomo – la verità
intera sull’uomo – che esige di prendere in considerazione sia il senso dell’intimità del corpo sia la coerenza
del dono connesso alla mascolinità e femminilità del corpo stesso, nel quale si rispecchia il mistero
dell’uomo, proprio della struttura interiore della persona. Tale verità sull’uomo deve essere presa in
considerazione anche nell’ordine artistico, se vogliamo parlare di un pieno realismo.
3. In questo caso si costata quindi che la regolarità propria della "comunione delle persone" concorda
profondamente con l’area vasta e differenziata della "comunicazione". Il corpo umano nella sua nudità –
come abbiamo affermato nelle precedenti analisi (in cui ci siamo riferiti a Genesi 2, 25) – inteso come una
manifestazione della persona e come suo dono, ossia segno di affidamento e di donazione all’altra persona,
consapevole del dono, scelta e decisa a rispondervi in modo altrettanto personale, diventa sorgente di una
particolare "comunicazione" interpersonale. Come è stato già detto, questa è una particolare comunicazione
nella umanità stessa. Quella comunicazione interpersonale penetra profondamente nel sistema della
comunione ("communio personarum"), nello stesso tempo cresce da esso e si sviluppa correttamente nel suo
ambito. Appunto a motivo del grande valore del corpo in tale sistema di "comunione" interpersonale, il fare
del corpo nella sua nudità – che esprime appunto "l’elemento" del dono – l’oggetto-tema dell’opera d’arte o
della riproduzione audiovisiva, è un problema non soltanto di natura estetica, ma, nello stesso tempo, anche
di natura etica. Infatti, quell’"elemento del dono" viene, per così dire, sospeso nella dimensione di una
recezione incognita e di una risposta imprevista, e con ciò viene in qualche modo intenzionalmente
"minacciato", nel senso che può diventare oggetto anonimo di "appropriazione", oggetto di abuso. Proprio
per ciò la verità integrale sull’uomo costituisce, in questo caso, la base della norma secondo la quale si
modella il bene o il male delle determinate azioni, dei comportamenti, dei costumi e delle situazioni. La
verità sull’uomo, su ciò che in lui – appunto a motivo del suo corpo e del suo sesso (femminilità –
mascolinità) – è particolarmente personale ed interiore, crea qui precisi limiti che non è lecito oltrepassare.
4. Questi limiti debbono essere riconosciuti e osservati dall’artista che fa del corpo umano oggetto, modello
o tema dell’opera d’arte o della riproduzione audiovisiva. Né lui né altri responsabili in questo campo hanno
il diritto di esigere, proporre o fare sì che altri uomini, invitati, esortati o ammessi a vedere, a contempla. e
l’immagine, violino quei limiti insieme con loro, oppure a causa loro. Si tratta dell’immagine, nella quale ciò
che in se stesso costituisce il contenuto e il valore profondamente personale, ciò che appartiene all’ordine del
dono e del vicendevole donarsi della persona alla persona, viene, come tema, sradicato dal proprio autentico
substrato, per divenire, per mezzo della "comunicazione sociale" oggetto e per di più, in certo senso, oggetto
anonimo.
5. Tutto il problema della "pornovisione" e della "pornografia" come risulta da ciò che è detto sopra, non è
effetto di mentalità puritana né di un angusto moralismo, come pure non è prodotto di un pensiero carico di

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manicheismo. Si tratta in esso di una importantissima, fondamentale sfera di valori di fronte ai quali l’uomo
non può rimanere indifferente a motivo della dignità dell’umanità, del carattere personale e dell’eloquenza
del corpo umano. Tutti quei contenuti e valori, attraverso le opere d’arte e l’attività di mezzi audiovisivi,
possono essere modellati ed approfonditi, ma altresì essere deformati e distrutti "nel cuore" dell’uomo. Come
si vede, ci troviamo di continuo nell’orbita delle parole pronunziate da Cristo nel Discorso della Montagna.
Anche i problemi, che stiamo qui trattando, debbono essere esaminati alla luce di quelle parole, che
considerano il "guardare" nato dalla concupiscenza come un "adulterio commesso nel cuore".
E perciò sembra che la riflessione su questi problemi, importanti per "creare un clima favorevole
all’educazione della castità", costituisca un annesso indispensabile a tutte le precedenti analisi, quali, nel
corso dei numerosi incontri del mercoledì, abbiamo dedicato a questo tema.

Mercoledì, 6 maggio 1981


Responsabilità etica dell’artista nella trattazione del tema del corpo umano
1. Nel discorso della Montagna Cristo pronunziò le parole alle quali abbiamo dedicato una serie di
riflessioni nell’arco di quasi un anno. Spiegando ai suoi ascoltatori il significato proprio del comandamento:
"Non commettere adulterio", Cristo così si esprime: "Ma io vi dico: Chiunque guarda una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,28). Sembra che le suddette parole si
riferiscano anche ai vasti ambiti della cultura umana, soprattutto a quelli dell’attività artistica, di cui si è già
trattato ultimamente, nel corso di alcuni incontri del mercoledì. Oggi ci conviene dedicare la parte finale di
queste riflessioni al problema del rapporto tra l’ethos dell’immagine – o della descrizione – e l’ethos della
visione o dell’ascolto, della lettura o di altre forme di ricezione cognitiva, con cui si incontra il contenuto
dell’opera d’arte o dell’audiovisione intesa in senso lato.
2. E qui ritorniamo ancora una volta al problema già anteriormente segnalato: se e in quale misura il corpo
umano, in tutta la visibile verità della sua mascolinità e femminilità, possa essere un tema dell’opera d’arte e,
per ciò stesso, un tema di quella specifica "comunicazione", sociale, a cui tale opera è destinata. Questa
domanda si riferisce ancor più alla cultura contemporanea di "massa", connessa con le tecniche audiovisive.
Può il corpo umano essere un tale modello-tema, dato che noi sappiamo che con ciò è connessa quella
oggettività "senza scelta" che prima abbiamo chiamata anonimità, e che sembra portare con sé una grave,
potenziale minaccia della sfera intera dei significati, propria del corpo dell’uomo e della donna, a motivo del
carattere personale del soggetto umano e del carattere di "comunione" dei rapporti interpersonali?
Si può aggiungere a questo punto che le espressioni "pornografia" o "pornovisione" – malgrado la loro antica
etimologia – sono apparse nel linguaggio relativamente tardi. La tradizionale terminologia latina si serviva
del vocabolo ob-scaena, indicando in tal modo tutto ciò che non deve trovarsi davanti agli occhi degli
spettatori, ciò che deve essere circondato di conveniente discrezione, ciò che non può essere presentato allo
sguardo umano senza scelta alcuna.
3. Ponendo la precedente domanda ci rendiamo conto che, de facto, nel corso di epoche intere della cultura
umana e dell’attività artistica, il corpo umano è stato ed è un tale modello-tema delle opere d’arte visive, così
come tutta la sfera dell’amore tra l’uomo e la donna, e, collegato con esso, anche il "donarsi reciproco" della
mascolinità e femminilità nella loro espressione corporea, è stato, è e sarà tema della narrativa letteraria. Tale
narrazione trovò il suo posto anche nella Bibbia, soprattutto nel testo del "Cantico dei cantici", che ci
converrà riprendere in un’altra circostanza. Anzi, bisogna costatare che nella storia della letteratura o
dell’arte, nella storia della cultura umana, questo tema appare particolarmente frequente ed è
particolarmente importante. Difatti, esso riguarda un problema che in se stesso è grande e importante. Lo
manifestammo sin dall’inizio delle nostre riflessioni, seguendo le orme dei testi biblici, che ci rivelano la
giusta dimensione di questo problema: cioè la dignità dell’uomo nella sua corporeità maschile e femminile, e
il significato sponsale della femminilità e mascolinità, iscritto nell’intera struttura interiore – e nello stesso
tempo visibile – della persona umana.
4. Le nostre precedenti riflessioni non intendevano mettere in dubbio il diritto a questo tema. Esse mirano
soltanto a dimostrare che la sua trattazione è collegata con una particolare responsabilità di natura non
soltanto artistica, ma anche etica. L’artista, che intraprende quel tema in qualunque sfera dell’arte o mediante

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le tecniche audiovisive, deve essere cosciente della piena verità dell’oggetto, di tutta la scala di
valori collegati con esso; deve non soltanto tener conto di essi in abstracto, ma anche viverli lui stesso
correttamente. Questo corrisponde ugualmente a quel principio della "purezza di cuore", che in determinati
casi occorre trasferire dalla sfera esistenziale degli atteggiamenti e comportamenti alla sfera intenzionale
della creazione o riproduzione artistiche.
Sembra che il processo di tale creazione tenda non soltanto alla oggettivazione (e in certo senso ad una
nuova "materializzazione") del modello, ma, in pari tempo, ad esprimere in tale oggettivazione ciò che può
chiamarsi l’idea creativa dell’artista, in cui appunto si manifesta il suo mondo interiore dei valori, quindi
anche il vivere la verità del suo oggetto. In questo processo si compie una caratteristica trasfigurazione del
modello o della materia e, in particolare, di ciò che è l’uomo, il corpo umano in tutta la verità della sua
mascolinità o femminilità (da questo punto di vista, come già abbiamo menzionato, c’è una ben rilevante
differenza, ad esempio, tra il quadro o la scultura e tra la fotografia o il film). Lo spettatore, invitato
dall’artista a guardare la sua opera, comunica non soltanto con l’oggettivazione, e quindi, in certo senso, con
una nuova "materializzazione" del modello o della materia, ma al tempo stesso comunica con la verità
dell’oggetto che l’autore, nella sua "materializzazione" artistica, è riuscito ad esprimere con i mezzi a lui
propri.
5. Nel decorso delle varie epoche, cominciando dall’antichità – e soprattutto nella grande stagione dell’arte
classica greca – vi sono opere d’arte, il cui tema è il corpo umano nella sua nudità, e la cui contemplazione
consente di concentrarci, in certo senso, sulla verità intera dell’uomo, sulla dignità e sulla bellezza – anche
quella "soprasensuale" – della sua mascolinità e femminilità. Queste opere portano in sé, quasi nascosto, un
elemento di sublimazione, che conduce lo spettatore, attraverso il corpo, all’intero mistero personale
dell’uomo. In contatto con tali opere, dove non ci sentiamo determinati dal loro contenuto verso il "guardare
per desiderare", di cui parla il Discorso della Montagna, impariamo in certo senso quel significato sponsale
del corpo, che è il corrispondente e la misura della "purezza di cuore". Ma ci sono anche opere d’arte, e forse
ancor più spesso riproduzioni, che suscitano obiezione nella sfera della sensibilità personale dell’uomo – non
a motivo del loro oggetto, poiché il corpo umano in se stesso ha sempre una sua inalienabile dignità – ma a
motivo della qualità o del modo della sua riproduzione, raffigurazione, rappresentazione artistica. Di quel
modo e di quella qualità possono decidere i vari coefficienti dell’opera o della riproduzione, come pure
molteplici circostanze, spesso più di natura tecnica che non artistica.
È noto che attraverso tutti questi elementi diventa, in un certo senso, accessibile allo spettatore, come
all’ascoltatore o al lettore, la stessa intenzionalità fondamentale dell’opera d’arte o del prodotto di relative
tecniche. Se la nostra sensibilità personale reagisce con obiezione e disapprovazione, lo è perché in quella
fondamentale intenzionalità, insieme all’oggettivazione dell’uomo e del suo corpo, scopriamo indispensabile
per l’opera d’arte, o la sua riproduzione, la sua contemporanea riduzione al rango di oggetto, di oggetto di
"godimento", destinato all’appagamento della concupiscenza stessa. E ciò si pone contro la dignità
dell’uomo anche nell’ordine intenzionale dell’arte e della riproduzione. Per analogia, occorre riferire la
stessa cosa ai vari campi dell’attività artistica – secondo la rispettiva specificità – come anche alle varie
tecniche audiovisive.
6. L’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI (Paolo VI, Humanae Vitae, 22) sottolinea la necessità di "creare un
clima favorevole all’educazione della castità"; e con questo intende affermare che il vivere il corpo umano in
tutta la verità della sua mascolinità e femminilità deve corrispondere alla dignità di questo corpo e al suo
significato nel costruire la comunione delle persone. Si può dire che questa è una delle dimensioni
fondamentali della cultura umana, intesa come affermazione che nobilita tutto ciò che è umano. Perciò
abbiamo dedicato questo breve tracciato al problema che, in sintesi, potrebbe essere chiamato
dell’ethos dell’immagine. Si tratta dell’immagine che serve ad una singolare "visibilizzazione" dell’uomo, e
che bisogna comprendere in senso più o meno diretto. L’immagine scolpita o dipinta "esprime visivamente"
l’uomo; in altro modo lo "esprime visivamente" la rappresentazione teatrale o lo spettacolo di balletto, in
altro modo il film; anche l’opera letteraria, a modo suo, tende a suscitare immagini interiori, servendosi delle
ricchezze della fantasia o della memoria umana. Quindi ciò che qui abbiamo denominato l’"ethos
dell’immagine" non può essere considerato astraendo dalla componente correlativa, che bisognerebbe
chiamare l’"ethos del vedere". Tra l’una e l’altra componente si contiene tutto il processo di comunicazione,
indipendentemente dalla vastità dei cerchi che descrive questa comunicazione, la quale in questo caso è
sempre "sociale".

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7. La creazione del clima favorevole alla educazione della castità contiene queste due componenti; riguarda,
per così dire, un circuito reciproco che avviene tra l’immagine e il vedere, tra l’ethos dell’immagine e l’ethos
del vedere. Come la creazione dell’immagine nel senso ampio e differenziato del termine, impone all’autore,
artista o riproduttore, obblighi di natura non soltanto estetica ma anche etica, così il "guardare", inteso
secondo la stessa larga analogia, impone obblighi a colui che dell’opera è recettore.
L’autentica e responsabile attività artistica tende a superare l’anonimità del corpo umano come oggetto
"senza scelta", cercando (come già è stato in precedenza), attraverso lo sforzo creativo, una siffatta
espressione artistica della verità sull’uomo nella sua corporeità femminile e maschile, chevenga per così dire
assegnata in compito allo spettatore e, nel raggio più ampio, a ciascun recettore dell’opera. Da lui, a sua
volta, dipende se deciderà di compiere il proprio sforzo per avvicinarsi a tale verità, oppure se resterà
soltanto un "consumatore" superficiale delle impressioni, cioè uno che sfrutta l’incontro con l’anonimo tema-
corpo solo a livello della sensualità che, di per sé, reagisce al suo oggetto appunto "senza scelta".
Qui terminiamo questo importante capitolo delle nostre riflessioni sulla teologia del corpo, il cui punto di
partenza sono state le parole pronunziate da Cristo nel Discorso della Montagna: parole valide per l’uomo di
tutti i tempi, per l’uomo "storico", e valide per ciascuno di noi.
Le riflessioni sulla teologia del corpo non sarebbero tuttavia complete, se non considerassimo altre parole di
Cristo, e cioè quelle in cui egli si richiama alla futura risurrezione. Ad esse dunque ci proponiamo di dedicare
il prossimo ciclo delle nostre considerazioni.

Mercoledì, 11 novembre 1981


Le parole del “colloquio con i sadducei” essenziali per la teologia del corpo
1. Riprendiamo quest’oggi, dopo una pausa piuttosto lunga, le meditazioni tenute già da tempo e che
abbiamo definito riflessioni sulla teologia del corpo.
Nel continuare, conviene, questa volta, riportarci alle parole del Vangelo, in cui Cristo fa riferimento alla
risurrezione: parole che hanno un’importanza fondamentale per intendere il matrimonio nel senso cristiano e
anche "la rinuncia" alla vita coniugale "per il regno dei cieli".
La complessa casistica dell’Antico Testamento nel campo matrimoniale non soltanto spinse i Farisei a recarsi
da Cristo per porgli il problema dell’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19,3-9 ; Mc 10,2-12 ) ma anche,
un’altra volta, i Sadducei, per interrogarlo sulla legge del cosiddetto levirato (questa legge, contenuta
nel Dt 25,7-10 , riguarda i fratelli che abitavano sotto lo stesso tetto. Se uno di essi moriva senza lasciare
figli, il fratello del defunto doveva prendere in moglie la vedova del fratello morto. Il bambino nato da
questo matrimonio era riconosciuto figlio del defunto, affinché non fosse estinta la sua stirpe e venisse
conservata in famiglia l’eredità [cf. Dt 3,9-4,12 ]). Tale colloquio è riportato concordemente dai sinottici
(cf. Mt 22,24-30 ; Mc 12,18-27 ; Lc 20,27-40 ). Sebbene tutte e tre le redazioni siano quasi identiche, tuttavia
si notano tra loro alcune differenze lievi, ma, nello stesso tempo, significative. Poiché il colloquio è riferito
in tre versioni, quelle di Matteo, Marco e Luca, si richiede un’analisi più approfondita, in quanto esso
comprende contenuti che hanno un significato essenziale per la teologia del corpo.
Accanto agli altri due importanti colloqui, cioè: quello in cui Cristo fa riferimento al "principio" (cf. Mt 19,3-
9 ; Mc 10,2-12 ), e l’altro in cui si richiama all’intimità dell’uomo (al "cuore"), indicando il desiderio e la
concupiscenza della carne come sorgente del peccato (cf. Mt 5,27-32 ), il colloquio, che ci proponiamo ora di
sottoporre ad analisi, costituisce, direi, la terza componente del trittico delle enunciazioni di Cristo stesso:
trittico di parole essenziali e costitutive per la teologia del corpo. In questo colloquio Gesù si richiama alla
risurrezione, svelando così una dimensione completamente nuova del mistero dell’uomo.
2. La rivelazione di questa dimensione del corpo, stupenda nel suo contenuto – e pur collegata col Vangelo
riletto nel suo insieme e fino in fondo – emerge nel colloquio con i Sadducei, "i quali affermano che non c’è
risurrezione" (1); essi sono venuti da Cristo per esporgli un argomento che – a loro giudizio – convalida la
ragionevolezza della loro posizione. Tale argomento doveva contraddire "l’ipotesi della risurrezione". Il
ragionamento dei Sadducei è il seguente: "Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che se muore il fratello di uno
e lascia la moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie per dare discendenti al fratello" ( Mc 12,19 ). I
Sadducei si richiamano qui alla cosiddetta legge del levirato (cf. Dt25,5-10 ), e riallacciandosi alla

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prescrizione di questa antica legge, presentano il seguente "caso": "C’erano sette fratelli: il primo prese
moglie e morì senza lasciare discendenza; allora la prese il secondo, ma morì senza lasciare discendenza; e il
terzo ugualmente, e nessuno dei sette lasciò discendenza. Infine, dopo tutti morì anche la donna. Nella
risurrezione, quando risorgeranno, a chi di loro apparterrà la donna? Poiché in sette l’hanno avuta come
moglie" ( Mc 12,20-23 . I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo
stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la
fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio.).
3. La risposta di Cristo è una delle risposte-chiave del Vangelo, in cui viene rivelata – appunto a partire dai
ragionamenti puramente umani e in contrasto con essi – un’altra dimensione della questione, cioè quella che
corrisponde alla sapienza e alla potenza di Dio stesso. Analogamente, ad esempio, si era presentato il caso
della moneta del tributo con l’immagine di Cesare e del rapporto corretto fra ciò che nell’ambito della
potestà è divino e ciò che è umano ("di Cesare") (cf. Mt 22,15-22 ). Questa volta Gesù risponde così: "Non
siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio? Quando
risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli"
( Mc 12,24-25 ). Questa è la risposta basilare del "caso", cioè al problema che vi è racchiuso. Cristo,
conoscendo le concezioni dei Sadducei, ed intuendo le loro autentiche intenzioni, riprende, in seguito, il
problema della possibilità della risurrezione, negata dai Sadducei stessi: "A riguardo poi dei morti che
devono risorgere, non avete letto nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io
sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti, ma dei viventi" ( Mc 12,26-
27 ). Come si vede, Cristo cita lo stesso Mosè a cui hanno fatto riferimento i Sadducei, e termina con
l’affermare: "Voi siete in grande errore" ( Mc 12,27 ).
4. Questa affermazione conclusiva, Cristo la ripete anche una seconda volta. Infatti la prima volta la
pronunciò all’inizio della sua esposizione. Disse allora: "Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture, né
la potenza di Dio": così leggiamo in Matteo ( Mt 22,29 ). E in Marco: "Non siete voi forse in errore dal
momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio?" ( Mc 12,24 ). Invece, la stessa risposta di
Cristo, nella versione di Luca ( Lc 20,27-36 ), è priva di accento polemico, di quel "siete in grande errore".
D’altronde egli proclama la stessa cosa in quanto introduce nella risposta alcuni elementi che non si trovano
né in Matteo né in Marco. Ecco il testo: "Gesù risponde: i figli di questo mondo prendono moglie e prendono
marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono
moglie né marito: e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della
risurrezione, sono figli di Dio" ( Lc 20,34-36 ). Riguardo alla possibilità stessa della risurrezione, Luca –
come i due altri sinottici – si riferisce a Mosè, ossia al passo del Libro dell’Esodo 3,2-6, in cui infatti si narra
che il grande legislatore dell’Antica Alleanza aveva udito dal roveto, che "ardeva nel fuoco e non si
consumava", le seguenti parole: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di
Giacobbe" ( Es 3,6 ). Nello stesso luogo, quando Mosè aveva chiesto il nome di Dio, aveva udito la risposta:
"Io sono colui che sono" ( Es 3,14 ).
Così dunque, parlando della futura risurrezione dei corpi, Cristo si richiama alla potenza stessa del Dio
vivente. In seguito dovremo considerare in modo più particolareggiato questo argomento.

Mercoledì, 18 novembre 1981


Il Dio vivente, stringendo l’alleanza con gli uomini, rinnova continuamente la realtà stessa della vita
1. "Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture né la potenza di Dio" (Mt 22,29), così disse Cristo ai
Sadducei, i quali – rifiutando la fede nella futura risurrezione dei corpi – Gli avevano esposto il caso
seguente: "C’erano tra noi sette fratelli; il primo appena sposato morì e, non avendo discendenza, lasciò la
moglie a suo fratello" (secondo la legge mosaica del "levirato"); "così anche il secondo, e il terzo, fino al
settimo. Alla fine, dopo tutti, morì anche la donna. Alla risurrezione, di quale dei sette essa sarà moglie?"
(Mt 22,25-28). Cristo replica ai Sadducei affermando, all’inizio e alla fine della sua risposta, che essi sono in
grande errore, non conoscendo né le Scritture né la potenza di Dio (cf. Mc 12,24 ; Mt 22,29 ). Dato che il
colloquio con i Sadducei è riportato da tutti e tre i Vangeli Sinottici, confrontiamo brevemente i relativi testi.

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2. La versione di Matteo ( Mt 22,24-30 ), benché non faccia riferimento al roveto, concorda quasi
interamente con quella di Marco ( Mc 12,18-25). Entrambe le versioni contengono due elementi essenziali:
1) l’enunciazione sulla futura risurrezione dei corpi, 2) l’enunciazione sullo stato dei corpi degli uomini
risorti (1). Il primo elemento, concernente la futura risurrezione dei corpi, è congiunto, specialmente in
Matteo e in Marco, con le parole indirizzate ai Sadducei, secondo cui essi non conoscono "né le Scritture né
la potenza di Dio". Tale affermazione merita un’attenzione particolare, perché proprio in essa Cristo
puntualizza le basi stesse della fede nella risurrezione, a cui aveva fatto riferimento nel rispondere alla
questione posta dai Sadducei con l’esempio concreto della legge mosaica del levirato.
3. Senza dubbio, i Sadducei trattano la questione della risurrezione come un tipo di teoria o di ipotesi,
suscettibile di superamento (2). Gesù dimostra loro prima un errore di metodo: non conoscono le Scritture; e
poi un errore di merito: non accettano ciò che viene rivelato dalle Scritture – non conoscono la potenza di
Dio – non credono in Colui che si è rivelato a Mosè nel roveto ardente.
È una risposta molto significativa e molto precisa. Cristo s’incontra qui con uomini, che si reputano esperti e
competenti interpreti delle Scritture. A questi uomini – cioè ai Sadducei – Gesù risponde che la sola
conoscenza letterale della Scrittura non è sufficiente. La Scrittura infatti è soprattutto un mezzo per
conoscere la potenza del Dio vivo, che in essa rivela se stesso, così come si è rivelato a Mosè nel roveto. In
questa rivelazione Egli ha chiamato se stesso "il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe" (3) – di
coloro dunque che erano stati i capostipiti di Mosè nella fede che scaturisce dalla rivelazione del Dio vivente.
Tutti quanti sono ormai morti da molto tempo; tuttavia Cristo completa il riferimento a loro con
l’affermazione che Dio "Non è Dio dei morti, ma dei vivi". Questa affermazione-chiave, in cui Cristo
interpreta le parole rivolte a Mosè dal roveto ardente, può essere compresa solo se si ammette la realtà di
una vita, a cui la morte non pone fine. I padri di Mosè nella fede, Abramo, Isacco e Giacobbe, sono per Dio
persone viventi (cf. Lc 20,38 : "perché tutti vivono per Lui") sebbene, secondo i criteri umani, debbano
essere annoverati fra i morti. Rileggere correttamente la Scrittura, e in particolare le suddette parole di Dio,
vuol dire conoscere e accogliere con la fede la potenza del Datore della vita, il quale non è vincolato dalla
legge della morte, dominatrice nella storia terrena dell’uomo.
4. Sembra che in tal modo sia da interpretare la risposta di Cristo sulla possibilità della risurrezione(4), data
ai Sadducei, secondo la versione di tutti e tre i Sinottici. Verrà il momento in cui Cristo darà la risposta, in
questa materia, con la propria risurrezione; per ora, tuttavia, Egli si richiama alla testimonianza dell’Antico
Testamento, dimostrando come scoprirvi la verità sull’immortalità e sulla risurrezione. Bisogna farlo non
soffermandosi soltanto al suono delle parole, ma risalendo anche alla potenza di Dio, che da quelle parole
viene rivelata. Il richiamarsi ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe in quella teofania concessa a Mosè, di cui
leggiamo nel Libro dell’Esodo ( Es 3,2-6 ), costituisce una testimonianza che il Dio vivo dà a coloro che
vivono "per Lui": a coloro che grazie alla sua potenza hanno la vita, anche se, stando alle dimensioni della
storia, occorrerebbe da molto tempo annoverarli tra i morti.
5. Il significato pieno di questa testimonianza, a cui Gesù si riferisce nel suo colloquio con i Sadducei, si
potrebbe (sempre soltanto alla luce dell’Antico Testamento) cogliere nel modo seguente: Colui che è – Colui
che vive e che è la Vita – costituisce l’inesauribile fonte dell’esistenza e della vita, così come si è rivelato in
"principio", nella Genesi (cf. Gen 1-3 ). Sebbene, a causa del peccato, la morte corporale sia divenuta la sorte
dell’uomo(5), e sebbene l’accesso all’albero della Vita (grande simbolo del Libro della Genesi) gli sia stato
interdetto (cf. Gen 3,22 ), tuttavia il Dio vivente, stringendo la sua Alleanza con gli uomini (Abramo –
patriarchi, Mosè, Israele), rinnova continuamente, in questa alleanza, la realtà stessa della Vita, ne svela di
nuovo la prospettiva e in un certo senso apre nuovamente l’accesso all’albero della Vita. Insieme con
l’Alleanza, questa vita, la cui sorgente è Dio stesso, viene partecipata a quegli stessi uomini che, in
conseguenza della rottura della prima Alleanza, avevano perduto l’accesso all’albero della Vita, e nelle
dimensioni della loro storia terrena erano stati sottoposti alla morte.
6. Cristo è l’ultima parola di Dio su questo argomento; infatti l’Alleanza, che con Lui e per Lui viene
stabilita tra Dio e l’umanità, apre una infinita prospettiva di Vita: e l’accesso all’albero della Vita – secondo
l’originario piano del Dio dell’Alleanza – viene rivelato ad ogni uomo nella sua definitiva pienezza. Sarà
questo il significato della morte e della risurrezione di Cristo, sarà questa la testimonianza del mistero
pasquale. Tuttavia il colloquio con i Sadducei si svolge nella fase pre-pasquale della missione messianica di
Cristo. Il corso del colloquio secondo Matteo ( Mt22,24-30 ), Marco ( Mc 12,27-28 ), e Luca ( Lc 20,27-36 )
manifesta che Cristo – il quale più volte, in particolare nei colloqui con i suoi discepoli, aveva parlato della

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futura risurrezione del Figlio dell’uomo (cf. Mt 17,9 . 23 ; 20,19 ) – nel colloquio con i Sadducei invece non
si richiama a questo argomento. Le ragioni sono ovvie e chiare. Il colloquio si svolge con i Sadducei, "i quali
affermano che non c’è risurrezione" (come sottolinea l’evangelista), cioè mettono in dubbio la stessa sua
possibilità, e nel contempo si considerano esperti della Scrittura dell’Antico Testamento, e suoi interpreti
qualificati. Ed è perciò che Gesù si riferisce all’Antico Testamento e in base ad esso dimostra loro che "non
conoscono la potenza di Dio" (6).
7. Riguardo alla possibilità della risurrezione, Cristo si richiama appunto a quella potenza, che va di pari
passo con la testimonianza del Dio vivo, che è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, e il Dio di Mosè. Il
Dio, che i Sadducei "privano" di questa potenza, non è più il Dio vero dei loro Padri, ma il Dio delle loro
ipotesi ed interpretazioni. Cristo invece è venuto per dare testimonianza al Dio della Vita in tutta la verità
della sua potenza che si dispiega sulla vita dell’uomo.

Mercoledì, 2 dicembre 1981


La dottrina sulla Risurrezione e la formazione dell’antropologia teologica
1. "Quando risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito" (Mc 12,25). Cristo
pronunzia queste parole, che hanno un significato-chiave per la teologia del corpo, dopo aver affermato, nel
colloquio con i Sadducei, che la risurrezione è conforme alla potenza del Dio vivente. Tutti e tre i Vangeli
Sinottici riportano lo stesso enunciato, solo che la versione di Luca si differenzia in alcuni particolari da
quella di Matteo e di Marco. Essenziale è per tutti la constatazione che, nella futura risurrezione, gli uomini,
dopo aver riacquistato i loro corpi nella pienezza della perfezione propria dell’immagine e somiglianza a Dio
– dopo averli riacquistati nella loro mascolinità e femminilità – "non prenderanno moglie né marito". Luca
nel capitolo 20,34-35 esprime la stessa idea con le parole seguenti: "I figli di questo mondo prendono moglie
e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non
prendono moglie né marito".
2. Come risulta da queste parole, il matrimonio, quella unione in cui, come dice il libro della Genesi,
"l’uomo... si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne" ( Gen 2,25) – unione propria dell’uomo fin
dal "principio" – appartiene esclusivamente "a questo mondo". Il matrimonio e la procreazione non
costituiscono invece il futuro escatologico dell’uomo. Nella risurrezione perdono, per così dire, la loro ragion
d’essere. Quell’"altro mondo", di cui parla Luca ( Lc 20,35), significa il compimento definitivo del genere
umano, la chiusura quantitativa di quella cerchia di esseri, che furono creati ad immagine e somiglianza di
Dio, affinché moltiplicandosi attraverso la coniugale "unità del corpo" di uomini e donne, soggiogassero a sé
la terra. Quell’"altro mondo" non è il mondo della terra, ma il mondo di Dio, il quale, come sappiamo dalla
prima lettera di Paolo ai Corinzi, lo riempirà interamente, divenendo "tutto in tutti" ( 1Cor 15,28).
3. Contemporaneamente quell’"altro mondo", che secondo la rivelazione è "il regno di Dio", è anche la
definitiva ed eterna "patria" dell’uomo (cf. Fil 3,20), è la "casa del Padre" (Gv 14,2). Quell’"altro mondo",
come nuova patria dell’uomo, emerge definitivamente dal mondo attuale, che è temporale – sottoposto alla
morte, ossia alla distruzione del corpo (cf. Gen 3,19) ["in polvere tornerai"] – attraverso la risurrezione. La
risurrezione, secondo le parole di Cristo riportate dai Sinottici, significa non soltanto il ricupero della
corporeità e il ristabilimento della vita umana nella sua integrità, mediante l’unione del corpo con l’anima,
ma anche uno stato del tutto nuovo della vita umana stessa. Troviamo la conferma di questo nuovo stato del
corpo nella risurrezione di Cristo (cf. Rm 6,5-11). Le parole riportate dai Sinottici
(Mt 22,30; Mc 12,25; Lc 20,34-35) risoneranno allora (cioè dopo la risurrezione di Cristo) a coloro che le
avevano udite, direi quasi con una nuova forza probativa, e nello stesso tempo acquisteranno il carattere di
una promessa convincente. Tuttavia per ora ci soffermiamo su queste parole nella loro fase "prepasquale",
basandoci soltanto sulla situazione in cui furono pronunziate. Non c’è alcun dubbio che già nella risposta
data ai Sadducei, Cristo svela la nuova condizione del corpo umano nella risurrezione, e lo fa proponendo
appunto un riferimento e un paragone con la condizione di cui l’uomo era stato partecipe fin dal "principio".

119
4. Le parole: "Non prenderanno moglie né marito", sembrano nello stesso tempo affermare che i corpi
umani, recuperati e insieme rinnovati nella risurrezione, manterranno la loro peculiarità maschile o
femminile e che il senso di essere nel corpo maschio o femmina verrà nell’"altro mondo" costituito e inteso
in modo diverso da quello che fu "da principio" e poi in tutta la dimensione dell’esistenza terrena. Le parole
della Genesi, "l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola
carne" (Gen 2,24), hanno costituito fin dal principio quella condizione e relazione di mascolinità e
femminilità, estendentesi anche al corpo, che giustamente bisogna definire "coniugale" e insieme
"procreativa" e "generativa"; essa infatti è connessa con la benedizione della fecondità, pronunciata da Dio
(Elohim) alla creazione dell’uomo "maschio e femmina" (Gen 1,27). Le parole pronunziate da Cristo sulla
risurrezione ci consentono di dedurre che la dimensione di mascolinità e femminilità – cioè l’essere nel
corpo maschio e femmina – verrà nuovamente costituita insieme con la risurrezione del corpo nell’"altro
mondo".
5. È possibile dire qualcosa di ancor più dettagliato su questo tema? Senza dubbio, le parole di Cristo
riportate dai Sinottici (Lc20,27-40) ci autorizzano a questo. Vi leggiamo, infatti, che "quelli che sono
giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti... nemmeno possono più morire perché sono
uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio" (Matteo e Marco riferiscono soltanto
che "saranno come angeli nei cieli"). Questo enunciato consente soprattutto di dedurre una spiritualizzazione
dell’uomo secondo una dimensione diversa da quella della vita terrena (e perfino diversa da quella dello
stesso "principio"). È ovvio che non si tratta qui di trasformazione della natura dell’uomo in quella angelica,
cioè puramente spirituale. Il contesto indica chiaramente che l’uomo conserverà nell’"altro mondo" la
propria natura umana psicosomatica. Se fosse diversamente, sarebbe privo di senso parlare di risurrezione.
Risurrezione significa restituzione alla vera vita della corporeità umana, che fu assoggettata alla morte nella
sua fase temporale. Nell’espressione di Luca ( Lc 20,36) appena citata (cf. Mt 22,30; Mc 12,25) si tratta
certamente della natura umana, cioè psicosomatica. Il paragone con gli esseri celesti, usato nel contesto, non
costituisce alcuna novità nella Bibbia. Fra l’altro, già il Salmo, esaltando l’uomo come opera del Creatore,
dice: "Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli" ( Sal 8,6). Bisogna supporre che nella risurrezione questa
somiglianza diverrà maggiore: non attraverso una disincarnazione dell’uomo, ma mediante un altro genere
(si potrebbe anche dire: un altro grado) di spiritualizzazione della sua natura somatica, cioè mediante un altro
"sistema di forze" all’interno dell’uomo. La risurrezione significa una nuova sottomissione del corpo allo
spirito.
6. Prima di accingerci a sviluppare questo argomento, conviene ricordare che la verità sulla risurrezione ebbe
un significato-chiave per la formazione di tutta l’antropologia teologica, che potrebbe essere considerata
semplicemente quale "antropologia della risurrezione". La riflessione sulla risurrezione ha fatto sì che
Tommaso d’Aquino abbia tralasciato nella sua antropologia metafisica (ed insieme teologica) la concezione
filosofica di Platone sul rapporto tra l’anima e il corpo e si sia avvicinato alla concezione di Aristotele 51.
La risurrezione infatti attesta, almeno indirettamente, che il corpo, nell’insieme del composto umano, non è
soltanto temporaneamente connesso all’anima (quale sua "prigione" terrena, come riteneva Platone) 52, ma
che insieme all’anima costituisce l’unità ed integrità dell’essere umano. Così appunto insegnava Aristotele 53,
diversamente da Platone. Se san Tommaso nella sua antropologia accettò la concezione di Aristotele, lo fece
avendo riguardo alla verità sulla risurrezione. La verità sulla risurrezione afferma infatti con chiarezza che la
perfezione escatologica e la felicità dell’uomo non possono esser intese come uno stato dell’anima sola,
separata (secondo Platone: liberata) dal corpo, ma bisogna intenderla come lo stato dell’uomo

51. Cf., ad esempio, "Habet autem anima alium modum essendi cum unitur corpori, et cum fuerit a corpore separata,
manente tamen eadem animae natura; non ita quod uniri corpori sit ei accidentale, sed per rationem suae naturae corpori
unitur..." [S. Tommaso, Summa theologiae, 1 a, q. 89, a. 1]. "Si autem hoc non est ex natura animae, sed per accidens
hoc convenit ei ex eo quod corpori alligatur, sicut Platonici posuerunt... remoto impedimento corporis, rediret anima ad
suam naturam... Sed, secundum hoc, non esset anima corpori unita propter melius animae...; sed hoc esset solum propter
melius corporis: quod est irrationabile, cum materia sit propter formam, et non e converso..." [Ivi]. "Secundum se
convenit animae corpori uniri... Anima humana manet in suo esse cum fuerit a corpore separata, habent aptitudinem et
inclinationem naturalem ad corporis unionem" [Ivi, 1a, q. 76 a. 1 ad 6].
52. Tò mèn sômá estin hemîn sêma [Platone, Gorgia 493 A; cf. anche Fedone 66B; Cratilo 400 C.
53. Aristotele, De Anima, II, 412a, 19-22; cf. anche Metaph. 1029 b 11 – 1030 b 14.

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definitivamente e perfettamente "integrato" attraverso una unione tale dell’anima col corpo, che qualifica e
assicura definitivamente siffatta integrità perfetta.
A questo punto interrompiamo la nostra riflessione sulle parole pronunziate da Cristo sulla risurrezione. La
grande ricchezza dei contenuti racchiusi in queste parole ci induce a riprenderle nelle ulteriori
considerazioni.

Mercoledì, 9 dicembre 1981


La risurrezione realizzerà perfettamente la persona
1. "Alla risurrezione... non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo"
(Mt 22,30; Mc 12,25). "Sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio"
(Lc 20,36).
Cerchiamo di comprendere queste parole di Cristo riguardanti la futura risurrezione, per trarne una
conclusione sulla spiritualizzazione dell’uomo, differente da quella della vita terrena. Si potrebbe qui parlare
anche di un perfetto sistema di forze nei rapporti reciproci tra ciò che nell’uomo è spirituale e ciò che è
corporeo. L’uomo "storico", in seguito al peccato originale, sperimenta una molteplice imperfezione di
questo sistema di forze, che si manifesta nelle ben note parole di San Paolo: "Nelle mie membra vedo
un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente" ( Rm 7,23).
L’uomo "escatologico" sarà libero da quella "opposizione". Nella risurrezione il corpo tornerà alla perfetta
unità ed armonia con lo spirito: l’uomo non sperimenterà più l’opposizione tra ciò che in lui è spirituale e ciò
che è corporeo. La "spiritualizzazione" significa non soltanto che lo spirito dominerà il corpo, ma, direi, che
esso permeerà pienamente il corpo, e che le forze dello spirito permeeranno le energie del corpo.
2. Nella vita terrena, il dominio dello spirito sul corpo – e la simultanea subordinazione del corpo allo spirito
– può, come frutto di un perseverante lavoro su se stessi, esprimere una personalità spiritualmente matura;
tuttavia, il fatto che le energie dello spirito riescano a dominare le forze del corpo non toglie la possibilità
stessa della loro reciproca opposizione. La "spiritualizzazione", a cui alludono i Vangeli sinottici
(Mt 22,30; Mc 12,25; Lc 20,34-35) nei testi qui analizzati, si trova già fuori di tale possibilità. È dunque una
spiritualizzazione perfetta, in cui viene completamente eliminata la possibilità che "un’altra legge muova
guerra alla legge della... mente" (cf. Rm 7,23). Questo stato che – come è evidente – si differenzia
essenzialmente (e non soltanto riguardo al grado) da ciò che sperimentiamo nella vita terrena, non significa
tuttavia alcuna "disincarnazione" del corpo né, di conseguenza, una "disumanizzazione" dell’uomo. Anzi, al
contrario, significa la sua perfetta "realizzazione". Infatti, nell’essere composto, psicosomatico, che è
l’uomo, la perfezione non può consistere in una reciproca opposizione dello spirito e del corpo, ma in una
profonda armonia fra loro, nella salvaguardia del primato dello spirito. Nell’"altro mondo", tale primato
verrà realizzato e si manifesterà in una perfetta spontaneità, priva di alcuna opposizione da parte del corpo.
Tuttavia ciò non va inteso come una definitiva "vittoria" dello spirito sul corpo. La risurrezione consisterà
nella perfetta partecipazione di tutto ciò che nell’uomo è corporeo a ciò che in lui è spirituale. Al tempo
stesso consisterà nella perfetta realizzazione di ciò che nell’uomo è personale.
3. Le parole dei Sinottici attestano che lo stato dell’uomo nell’"altro mondo" sarà non soltanto uno stato di
perfetta spiritualizzazione, ma anche di fondamentale "divinizzazione" della sua umanità. I "figli della
risurrezione" – come leggiamo in Luca 20,36 – non soltanto "sono uguali agli angeli", ma anche "sono figli
di Dio". Si può trarne la conclusione che il grado della spiritualizzazione, proprio dell’uomo "escatologico",
avrà la sua fonte nel grado della sua "divinizzazione", incomparabilmente superiore a quella raggiungibile
nella vita terrena. Bisogna aggiungere che qui si tratta non soltanto di un grado diverso, ma in certo senso di
un altro genere di "divinizzazione". La partecipazione alla natura divina, la partecipazione alla vita interiore
di Dio stesso, penetrazione e permeazione di ciò che è essenzialmente umano da parte di ciò che è
essenzialmente divino, raggiungerà allora il suo vertice, per cui la vita dello spirito umano perverrà ad una
tale pienezza, che prima gli era assolutamente inaccessibile. Questa nuova spiritualizzazione sarà
quindi frutto della grazia, cioè del comunicarsi di Dio, nella sua stessa divinità, non soltanto all’anima, ma a
tutta la soggettività psicosomatica dell’uomo. Parliamo qui della "soggettività" (e non solo della "natura"),

121
perché quella divinizzazione va intesa non soltanto come uno "stato interiore" dell’uomo (cioè: del soggetto),
capace di vedere Dio "a faccia a faccia", ma anche come una nuova formazione di tutta la soggettività
personale dell’uomo a misura dell’unione con Dio nel suo mistero trinitario e dell’intimità con Lui nella
perfetta comunione delle persone. Questa intimità – con tutta la sua intensità soggettiva – non assorbirà la
soggettività personale dell’uomo, anzi, al contrario, la farà risaltare in misura incomparabilmente maggiore e
più piena.
4. La "divinizzazione" nell’"altro mondo", indicata dalle parole di Cristo, apporterà allo spirito umano una
tale "gamma di esperienza" della verità e dell’amore che l’uomo non avrebbe mai potuto raggiungere nella
vita terrena. Quando Cristo parla della risurrezione, dimostra al tempo stesso che a questa esperienza
escatologica della verità e dell’amore, unita alla visione di Dio "a faccia a faccia", parteciperà anche, a modo
suo, il corpo umano. Quando Cristo dice che coloro i quali parteciperanno alla futura risurrezione "non
prenderanno moglie né marito" (Mc 12,25), le sue parole – come già prima fu osservato – affermano non
soltanto la fine della storia terrena, legata al matrimonio e alla procreazione, ma sembrano anche svelare il
nuovo significato del corpo. È forse possibile, in questo caso, pensare – a livello di escatologia biblica – alla
scoperta del significato "sponsale" del corpo, soprattutto come significato "verginale" di essere, quanto al
corpo, maschio e femmina? Per rispondere a questa domanda, che emerge dalle parole riportate dai Sinottici,
conviene penetrare più a fondo nell’essenza stessa di ciò che sarà la visione beatifica dell’Essere Divino,
visione di Dio "a faccia a faccia" nella vita futura. Occorre anche farsi guidare da quella "gamma di
esperienza" della verità e dell’amore, che oltrepassa i limiti delle possibilità conoscitive e spirituali
dell’uomo nella temporalità, e di cui egli diverrà partecipe nell’"altro mondo".
5. Questa "esperienza escatologica" del Dio Vivente concentrerà in sé non soltanto tutte le energie spirituali
dell’uomo, ma, allo stesso tempo, svelerà a lui, in modo vivo e sperimentale, il "comunicarsi" di Dio a tutto
il creato e, in particolare, all’uomo; il che è il più personale "donarsi" di Dio, nella sua stessa divinità,
all’uomo: a quell’essere, che dal principio porta in sé l’immagine e somiglianza di Lui. Così, dunque,
nell’"altro mondo" l’oggetto della "visione" sarà quel mistero nascosto dall’eternità nel Padre, mistero che
nel tempo è stato rivelato in Cristo, per compiersi incessantemente per opera dello Spirito Santo; quel
mistero diverrà, se così ci si può esprimere, il contenuto dell’esperienza escatologica e la "forma" dell’intera
esistenza umana nella dimensione dell’"altro mondo". La vita eterna va intesa in senso escatologico, cioè
come piena e perfetta esperienza di quella grazia (= charis) di Dio, della quale l’uomo diviene partecipe
mediante la fede durante la vita terrena, e che invece dovrà non soltanto rivelarsi a coloro i quali
parteciperanno dell’"altro mondo" in tutta la sua penetrante profondità, ma esser anche sperimentata nella
sua realtà beatificante.
Qui sospendiamo la nostra riflessione centrata sulle parole di Cristo relative alla futura risurrezione dei corpi.
In questa "spiritualizzazione" e "divinizzazione", a cui l’uomo parteciperà nella risurrezione, scopriamo – in
una dimensione escatologica – le stesse caratteristiche che qualificavano il significato "sponsale" del corpo;
le scopriamo nell’incontro col mistero del Dio vivente, che si svela mediante la visione di Lui "a faccia a
faccia".

Mercoledì, 16 dicembre 1981


Le parole di Cristo sulla risurrezione completano la rivelazione del corpo
1. "Alla risurrezione.., non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel Cielo"
(Mt 22,30; Mc 12,25). "...Sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio"
(Lc 20,36).
La comunione ("communio") escatologica dell’uomo con Dio, costituita grazie all’amore di una perfetta
unione, sarà alimentata dalla visione, "a faccia a faccia", della contemplazione di quella comunione più
perfetta, perché puramente divina, che è la comunione trinitaria delle Persone divine nell’unità della
medesima divinità.
2. Le parole di Cristo, riportate dai Vangeli sinottici, ci consentono di dedurre che i partecipi dell’"altro
mondo" conserveranno – in questa unione col Dio vivo, che scaturisce dalla visione beatifica della sua unità

122
e comunione trinitaria – non soltanto la loro autentica soggettività, ma lo acquisteranno in misura molto più
perfetta che nella vita terrena. In ciò verrà inoltre confermata la legge dell’ordine integrale della persona,
secondo cui la perfezione della comunione non soltanto è condizionata dalla perfezione o maturità spirituale
del soggetto, ma anche, a sua volta, la determina. Coloro che parteciperanno al "mondo futuro", cioè alla
perfetta comunione col Dio vivo, godranno di una soggettività perfettamente matura. Se in questa perfetta
soggettività, pur conservando nel loro corpo risorto, cioè glorioso, la mascolinità e la femminilità, "non
prenderanno moglie né marito", ciò si spiega non soltanto con la fine della storia, ma anche – e soprattutto –
con l’"autenticità escatologica" della risposta a quel "comunicarsi" del Soggetto Divino, che costituirà la
beatificante esperienza del dono di se stesso da parte di Dio, assolutamente superiore ad ogni esperienza
propria della vita terrena.
3. Il reciproco dono di se stesso a Dio – dono, in cui l’uomo concentrerà ed esprimerà tutte le energie della
propria soggettività personale ed insieme psicosomatica – sarà la risposta al dono di se stesso da parte di Dio
all’uomo 54. In questo reciproco dono di sé da parte dell’uomo, dono che diverrà, fino in fondo e
definitivamente, beatificante, come risposta degna di un soggetto personale al dono di sé da parte di Dio, la
"verginità" o piuttosto lo stato verginale del corpo si manifesterà pienamente come compimento escatologico
del significato "sponsale" del corpo, come il segno specifico e l’espressione autentica di tutta la soggettività
personale. Così, dunque, quella situazione escatologica, in cui "non prenderanno moglie né marito", ha il suo
solido fondamento nello stato futuro del soggetto personale, quando, in seguito alla visione di Dio "a faccia a
faccia", nascerà in lui un amore di tale profondità e forza di concentrazione su Dio stesso, da assorbire
completamente l’intera sua soggettività psicosomatica.
4. Questa concentrazione della conoscenza ("visione") e dell’amore su Dio stesso – concentrazione che non
può essere altro che la piena partecipazione alla vita interiore di Dio, cioè alla stessa Realtà Trinitaria – sarà
in pari tempo la scoperta, in Dio, di tutto il "mondo" delle relazioni, costitutive del suo perenne ordine
( "cosmo"). Tale concentrazione sarà soprattutto la riscoperta di sé da parte dell’uomo, non soltanto nella
profondità della propria persona, ma anche in quella unione che è propria del mondo delle persone nella loro
costituzione psicosomatica. Certamente questa è una unione di comunione. La concentrazione della
conoscenza e dell’amore su Dio stesso nella comunione trinitaria delle Persone può trovare una risposta
beatificante in coloro che diverranno partecipi dell’"altro mondo", solo attraverso il realizzarsi della
comunione reciproca commisurata a persone create. E per questo professiamo la fede nella "comunione dei
Santi" ("communio sanctorum") e la professiamo in connessione organica con la fede nella "risurrezione dei
morti". Le parole con cui Cristo afferma che nell’"altro mondo... non prenderanno moglie né marito", stanno
alla base di questi contenuti della nostra fede, e, al tempo stesso, richiedono una adeguata interpretazione
appunto alla sua luce. Dobbiamo pensare alla realtà dell’"altro mondo" nelle categorie della riscoperta di una
nuova, perfetta soggettività di ognuno, ed insieme della riscoperta di una nuova, perfetta intersoggettività di
tutti. In tal modo, questa realtà significa il vero e definitivo compimento della soggettività umana, e, su
questa base, il definitivo compimento del significato "sponsale" del corpo. La totale concentrazione della
soggettività creata, redenta e glorificata, su Dio stesso non distoglierà l’uomo da questo compimento, anzi –
al contrario – ve lo introdurrà e ve lo consoliderà. Si può dire, infine, che così la realtà escatologica diverrà
fonte della perfetta attuazione dell’"ordine trinitario" nel mondo creato delle persone.
5. Le parole con cui Cristo si richiama alla futura risurrezione – parole confermate in modo singolare dalla
sua risurrezione – completano ciò che nelle presenti riflessioni siamo soliti chiamare "rivelazione del corpo".
Tale rivelazione penetra in un certo senso nel cuore stesso della realtà che sperimentiamo, e questa realtà è
soprattutto l’uomo, il suo corpo, il corpo dell’uomo "storico". In pari tempo, questa rivelazione ci consente di
oltrepassare la sfera di questa esperienza in due direzioni. Innanzitutto, nella direzione di quel "principio", al
quale Cristo fa riferimento nel suo colloquio con i Farisei riguardo alla indissolubilità del matrimonio
(cf. Mt 19,3-9 ); in secondo luogo, nella direzione dell’"altro mondo", al quale il Maestro richiama
l’attenzione dei suoi ascoltatori in presenza dei Sadducei, che "affermano che non c’è la risurrezione"
54. "Nella concezione biblica... si tratta di una immortalità "dialogica" [risuscitazione!], vale a dire che l’immortalità
non deriva semplicemente dalla ovvia verità che l’indivisibile non può morire, ma dall’atto salvatore di colui che ama,
che ha il potere di farlo; perciò l’uomo non può scomparire totalmente, perché è conosciuto ed amato da Dio. Se ogni
amore postula l’eternità, l’amore di Dio non solo la vuole, ma la attua e la è... Dato che l’immortalità presentata dalla
Bibbia non deriva dalla forza propria di quanto di per sé è indistruttibile, ma dall’essere accolto nel dialogo con il
Creatore, per questo fatto si deve chiamare risuscitazione..." [J. Ratzinger, Risurrezione della carne – aspetto teologico,
in Sacramentum Mundi, vol. 7, Brescia 1977, Morcelliana, pp. 160-161].

123
( Mt 22,23 ). Questi due "ampliamenti della sfera" dell’esperienza del corpo (se così si può dire) non sono del
tutto irraggiungibili per la nostra comprensione (ovviamente teologica) del corpo. Ciò che il corpo umano è
nell’ambito dell’esperienza storica dell’uomo, non viene del tutto reciso da quelle due dimensioni della sua
esistenza, rivelate mediante la parola di Cristo.
6. È chiaro che qui si tratta non tanto del "corpo" in astratto, ma dell’uomo che è spirituale e corporeo
insieme. Proseguendo nelle due direzioni, indicate dalla parola di Cristo, e riallacciandosi all’esperienza del
corpo nella dimensione della nostra esistenza terrena (quindi nella dimensione storica), possiamo fare una
certa ricostruzione teologica di ciò che avrebbe potuto essere l’esperienza del corpo in base al "principio"
rivelato dell’uomo, e anche di ciò che esso sarà nella dimensione dell’"altro mondo". La possibilità di tale
ricostruzione, che amplia la nostra esperienza dell’uomo-corpo, indica, almeno indirettamente, la coerenza
dell’immagine teologica dell’uomo in queste tre dimensioni, che insieme concorrono alla costituzione della
teologia del corpo.

Mercoledì, 13 gennaio 1982

1. “Alla Risurrezione . . . non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli” (Mc 12, 25;
et Mt 22, 30). “. . . Sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio” (Lc 20, 36).
Le parole, con cui Cristo si richiama alla futura risurrezione - parole confermate in modo singolare dalla sua
propria risurrezione -, completano ciò che nelle presenti riflessioni siamo soliti chiamare “rivelazione del
corpo”. Tale rivelazione penetra per così dire nel cuore stesso della realtà che sperimentiamo, e questa realtà
è soprattutto l’uomo, il suo corpo: il corpo dell’uomo “storico”. In pari tempo, tale rivelazione ci consente di
oltrepassare la sfera di questa esperienza in due direzioni. Prima, nella direzione di quel “principio” al quale
Cristo fa riferimento nel suo colloquio con i Farisei riguardo all’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19, 3-
8); poi, nella direzione del “mondo futuro”, al quale il Maestro indirizza gli animi dei suoi ascoltatori in
presenza dei Sadducei, che “affermano che non c’è la risurrezione” (cf. Mt 22, 23).
2. Né la verità su quel “principio” di cui parla Cristo, né la verità escatologica possono essere raggiunte
dall’uomo con i soli metodi empirici e razionalistici. Tuttavia, non è forse possibile affermare che l’uomo
porta, in un certo senso, queste due dimensioni nel profondo dell’esperienza del proprio essere, o piuttosto
che egli in qualche modo è incamminato verso di esse come verso dimensioni che giustificano pienamente il
significato stesso del suo essere corpo, cioè del suo essere uomo “carnale”? In quanto poi alla dimensione
escatologica, non è forse vero che la morte stessa e la distruzione del corpo possono conferire all’uomo un
eloquente significato circa l’esperienza in cui si realizza il senso personale dell’esistenza? Quando Cristo
parla della futura risurrezione, le sue parole non cadono nel vuoto. L’esperienza dell’umanità, e specialmente
l’esperienza del corpo, permettono all’ascoltatore di unire a quelle parole l’immagine della nuova esistenza
nel “mondo futuro”, a cui l’esperienza terrena fornisce il substrato e la base. Una corrispettiva ricostruzione
teologica è possibile.
3. Alla costruzione di questa immagine - che, quanto al contenuto, corrisponde all’articolo della nostra
professione di fede: “credo nella risurrezione dei morti” - concorre grandemente la consapevolezza che esiste
una connessione tra l’esperienza terrena e tutta la dimensione del “principio” biblico dell’uomo nel mondo.
Se in principio Dio “maschio e femmina li creò” (Gen 1, 27), se in questa dualità relativa al corpo previde
anche una tale unità per cui “saranno una sola carne” (Gen 2, 24), se questa unità legò alla benedizione della
fecondità ossia della procreazione (cf. Gen 1, 29), e se ora, parlando di fronte ai Sadducei della futura
risurrezione, Cristo spiega che nell’“altro mondo” . . . “non prenderanno moglie né marito” - allora è chiaro
che si tratta qui di uno sviluppo della verità sullo stesso uomo. Cristo indica la sua identità, sebbene questa
identità si realizzi nella esperienza escatologica in modo diverso rispetto all’esperienza del “principio”
stesso e di tutta la storia. E tuttavia l’uomo sarà sempre lo stesso, tale quale è uscito dalle mani del suo
Creatore e Padre. Cristo dice: “Non prenderanno moglie né marito”, ma non afferma che quest’uomo del
“mondo futuro” non sarà più maschio e femmina come lo fu “dal principio”. È quindi evidente che il

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significato di essere, quanto al corpo, maschio o femmina nel “mondo futuro” vada cercato fuori del
matrimonio e della procreazione, ma non vi è alcuna ragione di cercarlo fuori di ciò che (indipendentemente
dalla benedizione della procreazione) deriva dal mistero stesso della creazione e che in seguito forma anche
la più profonda struttura della storia dell’uomo sulla terra, dato che questa storia è stata profondamente
compenetrata dal mistero della redenzione.
4. Nella sua situazione originaria, l’uomo dunque è solo e nello stesso tempo diviene maschio e femmina:
unità dei due. Nella sua solitudine “si rivela” a sé come persona, per “rivelare”, ad un tempo, nell’unità dei
due la comunione delle persone. Nell’uno o nell’altro stato, l’essere umano si costituisce quale immagine e
somiglianza di Dio. Dal principio l’uomo è anche corpo tra i corpi, e nell’unità dei due diviene maschio e
femmina, scoprendo il significato “sponsale” del suo corpo a misura di soggetto personale. In seguito, il
senso di essere-corpo e, in particolare, di essere nel corpo maschio e femmina, viene collegato con il
matrimonio e la procreazione (e cioè con la paternità e la maternità). Tuttavia il significato originario e
fondamentale di essere corpo, come anche di essere, in quanto corpo, maschio e femmina - cioè appunto quel
significato “sponsale” - è unito al fatto che l’uomo viene creato come persona e chiamato alla vita “in
communione personarum”. Il matrimonio e la procreazione in se stessa non determinano definitivamente il
significato originario e fondamentale dell’essere corpo né dell’essere, in quanto corpo, maschio e femmina. Il
matrimonio e la procreazione danno soltanto realtà concreta a quel significato nelle dimensioni della storia.
La risurrezione indica la chiusura della dimensione storica. Ed ecco che le parole “quando risusciteranno dai
morti . . . non prenderanno moglie né marito” (Mc 12, 25) esprimono univocamente non soltanto quale
significato non avrà il corpo umano nel “mondo futuro”, ma ci consentono anche di dedurre che quel
significato “sponsale” del corpo nella risurrezione alla vita futura corrisponderà in modo perfetto sia al fatto
che l’uomo, come maschio-femmina, è persona creata a “immagine e somiglianza di Dio”, sia al fatto che
questa immagine si realizza nella comunione delle persone. Quel significato “sponsale” di essere corpo si
realizzerà, dunque, come significato perfettamente personale e comunitario insieme.
5. Parlando del corpo glorificato attraverso la risurrezione alla vita futura, abbiamo in mente l’uomo,
maschio-femmina, in tutta la verità della sua umanità: l’uomo che, insieme all’esperienza escatologica del
Dio vivo (alla visione “a faccia a faccia”), sperimenterà appunto tale significato del proprio corpo. Sarà
questa una esperienza del tutto nuova, e contemporaneamente non sarà in nessun modo alienata da ciò a cui
l’uomo “da principio” ha avuto parte e neppure da ciò che, nella dimensione storica della sua esistenza, ha
costituito in lui la sorgente della tensione tra lo spirito e il corpo, concernente per lo più proprio il significato
procreativo del corpo e del sesso. L’uomo del “mondo futuro” ritroverà in tale nuova esperienza del proprio
corpo appunto il compimento di ciò che portava in sé perennemente e storicamente, in certo senso, come
eredità e ancor più come compito e obiettivo, come contenuto dell’ethos.
6. La glorificazione del corpo, quale frutto escatologico della sua spiritualizzazione divinizzante, rivelerà il
valore definitivo di ciò che dal principio doveva essere un segno distintivo della persona creata nel mondo
visibile, come pure un mezzo del reciproco comunicarsi tra le persone e un’autentica espressione della verità
e dell’amore, per cui si costruisce la “communio personarum”. Quel perenne significato del corpo umano, a
cui l’esistenza di ogni uomo, gravato dall’eredità della concupiscenza, ha necessariamente arrecato una serie
di limitazioni, lotte e sofferenze, allora si svelerà di nuovo, e si svelerà in tale semplicità e splendore insieme
che ogni partecipante dell’“altro mondo” ritroverà nel suo corpo glorificato la fonte della libertà del dono. La
perfetta “libertà dei figli di Dio” (cf. Rm 8, 14) alimenterà con quel dono anche ciascuna delle comunioni che
costituiranno la grande comunità della comunione dei santi.
7. È troppo evidente che - sulla base delle esperienze e conoscenze dell’uomo nella temporalità, cioè in
“questo mondo” - è difficile costruire una immagine pienamente adeguata del “mondo futuro”. Tuttavia al
tempo stesso non c’è dubbio che, con l’aiuto delle parole di Cristo, è possibile e raggiungibile almeno una
certa approssimazione a questa immagine. Ci serviamo di questa approssimazione teologica, professando la
nostra fede nella “risurrezione dei morti” e nella “vita eterna”, come anche la fede nella “comunione dei
santi”, che appartiene alla realtà del “mondo futuro”.
8. Nel concludere questa parte delle nostre riflessioni, conviene costatare ancora una volta che le parole di
Cristo riportate dai Vangeli sinottici (Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 34-35) hanno un significato
determinante non soltanto per quel che concerne le parole del libro della Genesi (alle quali Cristo fa
riferimento in un’altra circostanza), ma anche in quel che concerne tutta la Bibbia. Queste parole ci
consentono, in certo senso, di rileggere nuovamente - cioè fino in fondo - tutto il significato rivelato del

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corpo, il significato di essere uomo, cioè persona “incarnata”, di essere in quanto corpo maschio-femmina.
Queste parole ci permettono di comprendere che cosa può significare, nella dimensione escatologica
dell’“altro mondo”, quella unità nell’umanità, che è stata costituita “in principio” e che le parole
della Genesi 2, 24 (“L’uomo . . . si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”), pronunziate nell’atto
della creazione dell’uomo come maschio e femmina, sembravano orientare - se non completamente, almeno,
in ogni caso, soprattutto verso “questo mondo”. Dato che le parole del Libro della Genesi erano quasi la
soglia di tutta la teologia del corpo - soglia su cui si è basato Cristo nel suo insegnamento sul matrimonio e
sulla sua indissolubilità - allora bisogna ammettere che le sue parole riportate dai Sinottici sono come una
nuova soglia di questa verità integrale sull’uomo, che ritroviamo nella Parola rivelata di Dio. È
indispensabile che ci soffermiamo su questa soglia, se vogliamo che la nostra teologia del corpo - e anche la
nostra “spiritualità del corpo” cristiana - possano servirsene come di una completa immagine.

Mercoledì, 27 gennaio 1982

1. Durante le precedenti Udienze abbiamo riflettuto sulle parole di Cristo circa “l’altro mondo”, che
emergerà insieme alla risurrezione dei corpi.
Quelle parole ebbero una risonanza singolarmente intensa nell’insegnamento di san Paolo. Tra la risposta
data ai Sadducei, trasmessa dai Vangeli sinottici (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35-36) e l’apostolato di
Paolo ebbe luogo prima di tutto il fatto della risurrezione di Cristo stesso e una serie di incontri con il
Risorto, tra i quali occorre annoverare, come ultimo anello, l’evento occorso nei pressi di Damasco. Saulo o
Paolo di Tarso che, convertito, divenne l’“apostolo dei gentili”, ebbe anche la propria esperienza post-
pasquale, analoga a quella degli altri Apostoli. Alla base della sua fede nella risurrezione, che egli esprime
soprattutto nella prima lettera ai Corinzi (cf. 1 Cor 15), sta certamente quell’incontro con il Risorto, che
divenne inizio e fondamento del suo apostolato.
2. È difficile qui riassumere e commentare adeguatamente la stupenda ed ampia argomentazione del 15°
capitolo della prima lettera ai Corinzi in tutti i suoi particolari. È significativo che, mentre Cristo con le
parole riportate dai Vangeli sinottici rispondeva ai Sadducei, i quali “negano che vi sia la risurrezione”
(Lc 20, 27), Paolo, da parte sua, risponde o piuttosto polemizza (conformemente al suo temperamento) con
coloro che lo contestano (I Corinzi erano probabilmente travagliati da correnti di pensiero improntate al
dualismo platonico e al neopitagorismo di sfumatura religiosa, allo stoicismo e all'epicureismo: tutte le
filosofie greche, del resto, negavano la risurrezione del corpo. Paolo aveva già sperimentato ad Atene la
reazione dei Greci alla dottrina della risurrezione, durante il suo discorso all'Areopago - cfr. Act. 17, 32).
Cristo, nella sua risposta (pre-pasquale) non faceva riferimento alla propria risurrezione, ma si richiamava
alla fondamentale realtà dell’alleanza veterotestamentaria, alla realtà del Dio vivo, che è a base del
convincimento circa la possibilità della risurrezione: il Dio vivo “non è un Dio dei morti ma dei viventi”
(Mc 12, 27). Paolo nella sua argomentazione post-pasquale sulla futura risurrezione si richiama soprattutto
alla realtà e alla verità della risurrezione di Cristo. Anzi, difende tale verità persino quale fondamento della
fede nella sua integrità: “. . . Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche
la nostra fede . . . Ora invece, Cristo è risuscitato dai morti” (1 Cor 15, 14. 20).
3. Qui ci troviamo sulla stessa linea della rivelazione: la risurrezione di Cristo è l’ultima e la più piena
parola dell’autorivelazione del Dio vivo quale “Dio non dei morti ma dei viventi” (Mc 12, 27). Essa è
l’ultima e più piena conferma della verità su Dio che fin dal principio si esprime attraverso questa
rivelazione. La risurrezione, inoltre, è la risposta del Dio della vita all’inevitabilità storica della morte, a cui
l’uomo è stato sottoposto dal momento della rottura della prima alleanza, e che, insieme al peccato, è entrata
nella sua storia. Tale risposta circa la vittoria riportata sulla morte, è illustrata dalla prima lettera ai Corinzi
(cf. 1 Cor 15) con una singolare perspicacia, presentando la risurrezione di Cristo come l’inizio di quel
compimento escatologico, in cui per lui ed in lui tutto ritornerà al Padre, tutto gli sarà sottomesso, cioè
riconsegnato definitivamente, perché “Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15, 28). Ed allora - in questa definitiva

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vittoria sul peccato, su ciò che contrapponeva la creatura al Creatore - verrà anche vinta la morte: “L’ultimo
nemico ad essere annientato sarà la morte” (1 Cor 15, 26).
4. In tale contesto sono inserite le parole che possono esser ritenute sintesi dell’antropologia
paolina concernente la risurrezione. Ed è su queste parole che ci converrà soffermarci qui più a lungo.
Leggiamo, infatti, nella prima lettera ai Corinzi 15, 42-46, circa la risurrezione dai morti: “Si semina
corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di
forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale. Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo
spirituale, poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo
divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale”.
5. Tra questa antropologia paolina della risurrezione e quella che emerge dal testo dei Vangeli sinottici
(Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35-36), esiste una coerenza essenziale, solo che il testo della prima lettera ai
Corinzi è maggiormente sviluppato. Paolo approfondisce ciò che aveva annunciato Cristo, penetrando, ad un
tempo, nei vari aspetti di quella verità che nelle parole scritte dai sinottici era stata espressa in modo conciso
e sostanziale. È inoltre significativo per il testo paolino che la prospettiva escatologicadell’uomo, basata
sulla fede “nella risurrezione dai morti”, è unita con il riferimento al “principio” come pure con la profonda
coscienza della situazione “storica” dell’uomo. L’uomo, al quale Paolo si rivolge nella prima lettera ai
Corinzi e che si oppone (come i Sadducei) alla possibilità della risurrezione, ha anche la sua (“storica”)
esperienza del corpo, e da questa esperienza risulta con tutta chiarezza che il corpo è “corruttibile”, “debole”,
“animale”, “ignobile”.
6. Un tale uomo, destinatario del suo scritto - sia nella comunità di Corinto sia pure, direi, in tutti i tempi -
Paolo lo confronta con Cristo risorto, “l’ultimo Adamo”. Così facendo, lo invita, in un certo senso, a seguire
le orme della propria esperienza post-pasquale. In pari tempo gli ricorda “il primo Adamo”, ossia lo induce a
rivolgersi al “principio”, a quella prima verità circa l’uomo e il mondo, che sta alla base della rivelazione del
mistero del Dio vivo. Così, dunque, Paolo riproduce nella sua sintesi tutto ciò che Cristo aveva annunziato,
quando si era richiamato, in tre momenti diversi, al “principio” nel colloquio con i Farisei (cf. Mt 19, 3-
8; Mc 10, 2-9); al “cuore” umano, come luogo di lotta con le concupiscenze nell’interno dell’uomo, durante
il discorso della Montagna (cf. Mt 5, 27); e alla risurrezione come realtà dell’“altro mondo” nel colloquio con
i Sadducei (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35-36).
7. Allo stile della sintesi di Paolo appartiene quindi il fatto che essa affonda le sue radici nell’insieme del
mistero rivelato della creazione e della redenzione, da cui essa si sviluppa e alla cui luce soltanto si spiega.
La creazione dell’uomo, secondo il racconto biblico, è una vivificazione della materia mediante lo spirito,
grazie a cui “il primo uomo Adamo . . . divenne un essere vivente” (1 Cor 15, 45). Il testo paolino ripete qui
le parole del libro della Genesi 2, 7, cioè del secondo racconto della creazione dell’uomo (cosiddetto:
racconto jahvista). È noto dalla stessa fonte che questa originaria “animazione del corpo” ha subìto una
corruzione a causa del peccato. Sebbene a questo punto della prima lettera ai Corinzi l’Autore non parli
direttamente del peccato originale, tuttavia la serie di definizioni che attribuisce al corpo dell’uomo storico,
scrivendo che è “corruttibile . . . debole . . . animale . . . ignobile . . .”, indica sufficientemente ciò che,
secondo la rivelazione, è conseguenza del peccato, ciò che lo stesso Paolo chiamerà altrove “schiavitù della
corruzione” (Rm 8, 21). A questa “schiavitù della corruzione” è sottoposta indirettamente tutta la creazione
a causa del peccato dell’uomo, il quale fu posto dal Creatore in mezzo al mondo visibile perché “dominasse”
(cf. Gen 1, 28). Così il peccato dell’uomo ha una dimensione non solo interiore, ma anche “cosmica”. E
secondo tale dimensione, il corpo - che Paolo (in conformità alla sua esperienza) caratterizza come
“corruttibile . . . debole . . . animale . . . ignobile . . .” - esprime in sé lo stato della creazione dopo il peccato.
Questa creazione, infatti, “geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” ( Rm 8, 22). Tuttavia, come le
doglie del parto sono unite al desiderio della nascita, alla speranza di un uomo nuovo, così anche tutta la
creazione attende “con impazienza la rivelazione dei figli di Dio . . . e nutre la speranza di essere lei pure
liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 19-21).
8. Attraverso tale contesto “cosmico” dell’affermazione contenuta nella lettera ai Romani - in certo
senso, attraverso il “corpo di tutte le creature” - cerchiamo di comprendere fino in fondo l’interpretazione
paolina della risurrezione. Se questa immagine del corpo dell’uomo storico, così profondamente realistica e
adeguata all’esperienza universale degli uomini, nasconde in sé, secondo Paolo, non soltanto la “schiavitù
della corruzione”, ma anche la speranza, simile a quella che accompagna “le doglie del parto”, ciò avviene
perché l’Apostolo coglie in questa immagine anche la presenza del mistero della redenzione. La coscienza di

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quel mistero si sprigiona appunto da tutte le esperienze dell’uomo che si possono definire come “schiavitù
della corruzione”; e si sprigiona, perché la redenzione opera nell’anima dell’uomo mediante i doni dello
Spirito: “. . . Anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando
l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8, 23). La redenzione è la via alla risurrezione. La
risurrezione costituisce il definitivo compimento della redenzione del corpo. Riprenderemo l’analisi del testo
paolino nella prima lettera ai Corinzi nelle nostre ulteriori riflessioni.

Mercoledì, 3 febbraio 1982

1. Dalle parole di Cristo sulla futura risurrezione dei morti, riportate da tutti e tre i Vangeli sinottici (Matteo,
Marco e Luca), siamo passati all’antropologia paolina della risurrezione. Analizziamo la prima lettera ai
Corinzi al capitolo 15 versetti 42-49.
Nella risurrezione il corpo umano si manifesta - secondo le parole dell’Apostolo - “incorruttibile, glorioso,
pieno di forza, spirituale”. La risurrezione non è, dunque, soltanto una manifestazione della vita che vince la
morte - quasi un ritorno finale all’albero della Vita, dal quale l’uomo è stato allontanato al momento del
peccato originale - ma è anche una rivelazione degli ultimi destini dell’uomo in tutta la pienezza della sua
natura psicosomatica e della sua soggettività personale. Paolo di Tarso - il quale, seguendo le orme degli altri
Apostoli, ha sperimentato nell’incontro con Cristo risorto lo stato del suo corpo glorificato - basandosi su
questa esperienza, annunzia nella lettera ai Romani “la redenzione del corpo” (Rm 8, 23) e nella lettera ai
Corinzi (1 Cor 15, 42-49) il compimento di questa redenzione nella futura risurrezione.
2. Il metodo letterario, applicato qui da Paolo, corrisponde perfettamente al suo stile. Questo si serve di
antitesi, che ad un tempo avvicinano ciò che contrappongono e in tal modo sono utili a farci comprendere il
pensiero paolino circa la risurrezione: sia nella sua dimensione “cosmica”, sia per quanto riguarda la
caratteristica della stessa struttura interna dell’uomo “terrestre” e “celeste”. L’Apostolo, infatti, nel
contrapporre Adamo e Cristo (risorto) - ossia il primo Adamo all’ultimo Adamo - mostra, in certo senso, i
due poli, tra i quali, nel mistero della creazione e della redenzione, è stato situato l’uomo nel cosmo; si
potrebbe pure dire che l’uomo sia stato “posto in tensione” tra questi due poli nella prospettiva degli eterni
destini, riguardanti, dal principio sino alla fine, la stessa sua natura umana. Quando Paolo scrive: “Il primo
uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo” (1 Cor 15, 47), ha in mente sia Adamo-
uomo sia pure Cristo quale uomo. Tra questi due poli - tra il primo e l’ultimo Adamo - si svolge il processo
che egli esprime nelle seguenti parole: “Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così
porteremo l’immagine dell’uomo celeste” (1 Cor 15, 49).
3. Quest’“uomo celeste” - l’uomo della risurrezione, il cui prototipo è Cristo risorto - non è tanto antitesi e
negazione dell’“uomo di terra” (il cui prototipo è il “primo Adamo”), ma soprattutto è il suo compimento e la
sua confermazione. È il compimento e la confermazione di ciò che corrisponde alla costituzione psico-
somatica dell’umanità, nell’ambito dei destini eterni, cioè nel pensiero e nel piano di colui che dal principio
creò l’uomo a sua immagine e somiglianza. L’umanità del “primo Adamo”, “uomo di terra”, porta in sé,
direi, una particolare potenzialità (che è capacità e prontezza) ad accogliere tutto ciò che divenne il
“secondo Adamo”, l’Uomo celeste, ossia Cristo: ciò che egli divenne nella sua risurrezione. Quella umanità
di cui sono partecipi tutti gli uomini, figli del primo Adamo, e che, insieme all’eredità del peccato - essendo
carnale - al tempo stesso è “corruttibile”, e porta in sé la potenzialità dell’“incorruttibilità”.
Quell’umanità, che in tutta la sua costituzione psicosomatica si manifesta “ignobile”, e tuttavia porta in sé
l’interiore desiderio della gloria, cioè la tendenza e la capacità di diventare “gloriosa”, a immagine del Cristo
risorto. Infine, la stessa umanità, di cui l’Apostolo - conformemente all’esperienza di tutti gli uomini - dice
che è “debole” e ha “corpo animale”, porta in sé l’aspirazione a divenire “piena di forza” e “spirituale”.
4. Noi parliamo qui della natura umana nella sua integrità, cioè della umanità nella sua costituzione
psicosomatica. Paolo, invece, parla del “corpo”. Tuttavia possiamo ammettere, in base al contesto immediato
e a quello remoto, che non si tratta per lui soltanto del corpo, ma dell’uomo intero nella sua corporeità,
dunque anche della sua complessità ontologica. Difatti, non vi è alcun dubbio che, se appunto in tutto il

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mondo visibile (cosmo), quell’unico corpo che è il corpo umano, porta in sé la “potenzialità della
risurrezione”, cioè l’aspirazione e la capacità di diventare definitivamente “incorruttibile, glorioso, pieno di
forza, spirituale”, ciò avviene perché, persistendo dal principio nell’unità psicosomatica dell’essere
personale, egli può cogliere e riprodurre in questa “terrena” immagine e somiglianza di Dio anche
l’immagine “celeste” dell’ultimo Adamo, Cristo. L’antropologia paolina della risurrezione è cosmica ed
universale insieme: ogni uomo porta in sé l’immagine di Adamo e ognuno è anche chiamato a portare in sé
l’immagine di Cristo, l’immagine del Risorto. Questa immagine è la realtà dell’“altro mondo”, la realtà
escatologica (san Paolo scrive: “porteremo”); ma, nel contempo, essa è già in certo modo una realtà di questo
mondo, dato che è stata rivelata in esso mediante la risurrezione di Cristo. È una realtà innestata nell’uomo di
“questo mondo”, realtà che in lui sta maturando verso il compimento finale.
5. Tutte le antitesi che si susseguono nel testo di Paolo aiutano a costruire un valido abbozzo
dell’antropologia della risurrezione. Tale abbozzo è contemporaneamente più dettagliato di quello che
emerge dal testo dei Vangeli sinottici (Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc20, 34-35), ma dall’altra parte è, in certo
senso, più unilaterale. Le parole di Cristo riportate dai Sinottici, aprono davanti a noi la prospettiva della
perfezione escatologica del corpo, sottomesso pienamente alla profondità divinizzatrice della visione di Dio
“a faccia a faccia”, in cui troverà la sua inesauribile fonte sia la perenne “verginità” (unita al significato
sponsale del corpo), sia la perenne “intersoggettività” di tutti gli uomini, che diverranno (come maschi e
femmine) partecipi della risurrezione. L’abbozzo paolino della perfezione escatologica del corpo glorificato
sembra rimanere piuttosto nell’ambito della stessa struttura interiore dell’uomo-persona. La sua
interpretazione della futura risurrezione sembrerebbe riallacciarsi al “dualismo” corpo-spirito che costituisce
la sorgente dell’interiore “sistema di forze” nell’uomo.
6. Questo “sistema di forze” subirà nella risurrezione un cambiamento radicale. Le parole di Paolo, che lo
suggeriscono in modo esplicito, non possono tuttavia essere intese ed interpretate nello spirito
dell’antropologia dualistica (“Paul ne tient absolument pas compte de la dichotomie grecque “me et corps” . .
. L’apôtre recourt à une sorte de trichotomie où la totalité de l’homme est corps, me et esprit . . . Tous ces
termes sont mouvants et la division elle-même n’a pas de frontière fixe. Il y a insistance sur le fait que le
corps et l’âme sont capables d’être “pneumatiques”, spirituels” [B. Rigaux, Dieu l’a ressuscité. Exégèse et
théologie biblique, Gembloux 1973, Duculot, pp. 406-408]) come cercheremo di mostrare nel seguito della
nostra analisi. Infatti, ci converrà dedicare ancora una riflessione all’antropologia della risurrezione nella
luce della prima lettera ai Corinzi.

Mercoledì, 10 febbraio 1982

1. Dalle parole di Cristo sulla futura risurrezione dei corpi, riportate da tutti e tre i Vangeli sinottici (Matteo,
Marco e Luca), siamo passati nelle nostre riflessioni a ciò che su quel tema scrive Paolo nella prima lettera
ai Corinzi (1 Cor 15). La nostra analisi s’incentra soprattutto su ciò che si potrebbe denominare
“antropologia della risurrezione” secondo san Paolo. L’Autore della lettera contrappone lo stato dell’uomo
“di terra” (cioè storico) allo stato dell’uomo risorto, caratterizzando, in modo lapidario e penetrante insieme,
l’interiore “sistema di forze” specifico di ciascuno di questi stati.
2. Che questo sistema interiore di forze debba subire nella risurrezione una radicale trasformazione, sembra
indicato, prima di tutto, dalla contrapposizione tra corpo “debole” e corpo “pieno di forza”. Paolo scrive: “Si
semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge
pieno di forza” (1 Cor 15, 42-43). “Debole” è quindi il corpo che - usando il linguaggio metafisico - sorge
dal suolo temporale dell’umanità. La metafora paolina corrisponde parimenti alla terminologia scientifica,
che definisce l’inizio dell’uomo in quanto corpo con lo stesso termine (“semen”). Se, agli occhi
dell’Apostolo, il corpo umano che sorge dal seme terrestre risulta “debole”, ciò significa non soltanto che
esso è “corruttibile”, sottoposto alla morte ed a tutto ciò che vi conduce, ma pure che è “corpo animale”.
(L’originale greco usa il termine psychikón. In san Paolo esso appare solo nella prima lettera ai Corinzi [2,
14; 15, 44; 15, 46] e non altrove, probabilmente a causa delle tendenze pregnostiche dei Corinzi, ed ha un

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significato peggiorativo; riguardo al contenuto, corrisponde al termine “carnale” [cf. 2Cor 1,12; 10,4].
Tuttavia nelle altre lettere paoline la “psyche” e i suoi derivati significano l’esistenza terrena dell’uomo nelle
sue manifestazioni, il modo di vivere dell’individuo e perfino la stessa persona in senso positivo [ad es., per
indicare l’ideale di vita della comunità ecclesiale: miâ psychê-i “in un solo spirito”: Fil 1, 27; sýmpsychoi =
“con l’unione dei vostri spiriti”: Fil 2, 2; isópsychon = “d’animo uguale”: Fil 2, 20; cf. R Jewett, Paul’s
Anthropological Terms. A. Study of Their Use in Conflict Settings, Leiden 1971, Brill, pp. 2, 448-449]) Il
corpo “pieno di forza”, invece, che l’uomo erediterà dall’ultimo Adamo, Cristo, in quanto partecipe della
futura risurrezione sarà un corpo “spirituale”. Esso sarà incorruttibile, non più minacciato dalla morte. Così,
dunque, l’antinomia “debole-pieno di forza” si riferisce esplicitamente non tanto al corpo considerato a parte,
quanto a tutta la costituzione dell’uomo considerato nella sua corporeità. Solo nel quadro di una tale
costituzione il corpo può diventare “spirituale”; e tale spiritualizzazione del corpo sarà la fonte della sua
forza ed incorruttibilità (o immortalità).
3. Questo tema ha le sue origini già nei primi capitoli del libro della Genesi. Si può dire che san Paolo vede
la realtà della futura risurrezione come una certa “restitutio in integrum”, cioè come la reintegrazione ed
insieme il raggiungimento della pienezza dell’umanità. Non è soltanto una restituzione, perché in tal caso la
risurrezione sarebbe, in certo senso, ritorno a quello stato, cui partecipava l’anima prima del peccato, fuori
della conoscenza del bene e del male (cf. Gen 1-2). Ma un tale ritorno non corrisponde alla logica interna di
tutta l’economia salvifica, al più profondo significato del mistero della redenzione. “Restitutio in integrum”,
collegata con la risurrezione e la realtà dell’“altro mondo”, può essere solo introduzione ad una nuova
pienezza. Questa sarà una pienezza che presuppone tutta la storia dell’uomo, formata dal dramma dell’albero
della conoscenza del bene e del male (cf. Gen 3) e nello stesso tempo permeata dal mistero della redenzione.
4. Secondo le parole della prima lettera ai Corinzi, l’uomo in cui la concupiscenza prevale sulla spiritualità,
cioè, il “corpo animale” (1 Cor 15, 44), è condannato alla morte; deve invece risorgere un “corpo spirituale”,
l’uomo in cui lo spirito otterrà una giusta supremazia sul corpo, la spiritualità sulla sensualità. È facile da
intendere che Paolo ha qui in mente la sensualità quale somma dei fattori che costituiscono la limitazione
della spiritualità umana, cioè quale forza che “lega” lo spirito (non necessariamente nel senso platonico)
mediante la restrizione della sua propria facoltà di conoscere (vedere) la verità ed anche della facoltà di
volere liberamente e di amare nella verità. Non può invece trattarsi qui di quella funzione fondamentale dei
sensi, che serve a liberare la spiritualità, cioè della semplice facoltà di conoscere e di volere, propria del
“compositum” psicosomatico del soggetto umano. Siccome si parla della risurrezione del corpo, cioè
dell’uomo nella sua autentica corporeità, di conseguenza il “corpo spirituale” dovrebbe significare
appunto la perfetta sensibilità dei sensi, la loro perfetta armonizzazione con l’attività dello spirito umano
nella verità e nella libertà. Il “corpo animale”, che è l’antitesi terrena del “corpo spirituale”, indica invece la
sensualità come forza che spesso pregiudica l’uomo, in quanto egli, vivendo “nella conoscenza del bene e del
male”, viene sollecitato e quasi spinto verso il male.
5. Non si può dimenticare che qui è in questione non tanto il dualismo antropologico, quanto una antinomia
di fondo. Di essa fa parte non solo il corpo (come “hyle” aristotelica), ma anche l’anima: ossia, l’uomo come
“anima vivente” (cf. Gen 2, 7). I suoi costitutivi, invece, sono: da un lato tutto l’uomo, l’insieme della sua
soggettività psicosomatica, in quanto rimane sotto l’influsso dello Spirito vivificante di Cristo; dall’altro lato
lo stesso uomo, in quanto resiste e si contrappone a questo Spirito. Nel secondo caso, l’uomo è “corpo
animale” (e le sue opere sono “opere della carne”). Se, invece, rimane sotto l’influsso dello Spirito Santo,
l’uomo è “spirituale” (e produce il “frutto dello Spirito”) (Gal 5, 22).
6. Di conseguenza, si può dire che non solo in 1 Cor 15 abbiamo a che fare con l’antropologia della
risurrezione, ma che tutta l’antropologia (e l’etica) di san Paolo sono permeate dal mistero della risurrezione,
mediante cui abbiamo definitivamente ricevuto lo Spirito Santo. Il capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi
costituisce l’interpretazione paolina dell’“altro mondo” e dello stato dell’uomo in quel mondo, nel quale
ciascuno, insieme con la risurrezione del corpo, parteciperà pienamente al dono dello Spirito vivificante, cioè
al frutto della risurrezione di Cristo.
7. Concludendo l’analisi della “antropologia della risurrezione” secondo la prima lettera di Paolo ai Corinzi,
ci conviene ancora una volta volgere la mente verso quelle parole di Cristo sulla risurrezione e sull’“altro
mondo”, che sono riportate dagli evangelisti Matteo, Marco e Luca. Ricordiamo che, rispondendo ai
Sadducei, Cristo collegò la fede nella risurrezione con tutta la rivelazione del Dio di Abramo, di Isacco, di
Giacobbe e di Mosè, il quale “non è Dio dei morti, ma dei vivi” (Mt 22, 32). E contemporaneamente,

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respingendo la difficoltà avanzata dagli interlocutori, pronunziò queste significative parole: “Quando
risusciteranno dai morti . . . non prenderanno moglie né marito” (Mc 12, 25). Appunto a quelle parole - nel
loro immediato contesto - abbiamo dedicato le nostre precedenti considerazioni, passando poi all’analisi
della prima lettera di san Paolo ai Corinzi (1 Cor. 15).
Queste riflessioni hanno un significato fondamentale per tutta la teologia del corpo: per comprendere sia il
matrimonio sia il celibato “per il regno dei cieli”. A quest’ultimo argomento saranno dedicate le nostre
ulteriori analisi.

Mercoledì, 10 marzo 1982

1. Cominciamo oggi a riflettere sulla verginità o celibato “per il regno dei cieli”.
La questione della chiamata ad una esclusiva donazione di sé a Dio nella verginità e nel celibato affonda
profondamente le sue radici nel suolo evangelico della teologia del corpo. Per rilevare le dimensioni che le
sono proprie, occorre tener presenti le parole, con cui Cristo fece riferimento al “principio”, e anche quelle,
con cui egli si richiamò alla risurrezione dei corpi. La constatazione: “Quando risusciteranno dai morti . . .,
non prenderanno moglie né marito” (Mc 12, 25), indica che c’è una condizione di vita priva di matrimonio,
in cui l’uomo, maschio e femmina, trova ad un tempo la pienezza della donazione personale e
dell’intersoggettiva comunione delle persone, grazie alla glorificazione di tutto il suo essere psicosomatico
nell’unione perenne con Dio. Quando la chiamata alla continenza “per il regno dei cieli” trova eco
nell’anima umana, nelle condizioni della temporalità e cioè nelle condizioni in cui le persone di solito
“prendono moglie e prendono marito” (Lc 20, 34), non è difficile percepirvi una particolare sensibilità dello
spirito umano, che già nelle condizioni della temporalità sembra anticipare ciò di cui l’uomo diverrà
partecipe nella futura risurrezione.
2. Tuttavia di questo problema, di questa particolare vocazione, Cristo non ha parlato nel contesto immediato
del suo colloquio con i Sadducei (cf. Mt 22, 23-30; Mc 12, 18-25; Lc 20, 27-36), quando si era riferito alla
risurrezione dei corpi. Invece ne aveva parlato (già prima) nel contesto del colloquio con i Farisei sul
matrimonio e sulle basi della sua indissolubilità, quasi come prolungamento di quel colloquio (cf. Mt 19, 3-
9). Le sue parole conclusive riguardano la cosiddetta lettera di ripudio, consentita da Mosè in alcuni casi.
Cristo dice: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da
principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e
ne sposa un’altra, commette adulterio” (Mt 19, 8-9). Allora i discepoli che - come si può dedurre dal contesto
- erano attenti ad ascoltare quel colloquio e in particolare le ultime parole pronunziate da Gesù, gli dicono
così: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi” ( Mt 19, 10). Cristo dà
loro la seguente risposta: “Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti
eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini,
e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca” (Mt 19, 11-12).
3. In relazione a questo colloquio, riportato da Matteo, ci si può porre la domanda: che cosa pensavano i
discepoli, quando, dopo aver udito la risposta che Gesù aveva dato ai Farisei sul matrimonio e la sua
indissolubilità, espressero la loro osservazione: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non
conviene sposarsi”? In ogni caso, Cristo ritenne quella circostanza opportuna per parlare loro della
continenza volontaria per il Regno dei cieli. Dicendo questo, egli non prende direttamente posizione riguardo
all’enunciato dei discepoli, nè rimane nella linea del loro ragionamento. (Sui problemi più dettagliati
dell’esegesi di questo brano, vedi per esempio L. Sabourin, Il Vangelo di Matteo. Teologia e Esegesi, vol. II,
pp. 834-836; The Positive Values of Consecrated Celibacy, in “The Way”, Supplement 10, summer 1970, p.
51; J. Blinzler, Eisin eunuchoi. Zur Auslegung von Mt 19, 12, “Zeitschrift für die Neutestamentliche
Wissenschaft” 48 [1957] 268 ss.) Quindi non risponde: “Conviene sposarsi” o “Non conviene sposarsi”. La
questione della continenza per il Regno dei cieli non è contrapposta al matrimonio, né si basa su di un
giudizio negativo riguardo alla sua importanza. Del resto, Cristo, parlando precedentemente della
indissolubilità del matrimonio, si era riferito al “principio”, cioè al mistero della creazione indicando così la

131
prima e fondamentale fonte del suo valore. Di conseguenza, per rispondere alla domanda dei discepoli, o
piuttosto per chiarire il problema da loro posto, Cristo ricorre ad un altro principio. Non per il fatto che “non
conviene sposarsi”, ossia non per il motivo di un supposto valore negativo del matrimonio è osservata la
continenza da coloro che nella vita fanno tale scelta “per il Regno dei cieli”, ma in vista del particolare
valore che è connesso con tale scelta e che occorre personalmente scoprire e cogliere come propria
vocazione. E perciò Cristo dice: “Chi può capire, capisca” (Mt 19, 12). Invece subito prima dice: “Non tutti
possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso” (Mt 19, 11).
4. Come si vede, Cristo, nella sua risposta al problema postogli dai discepoli, precisa chiaramente una
regola per comprendere le sue parole. Nella dottrina della Chiesa vige la convinzione che queste parole non
esprimono un comandamento che obbliga tutti, ma un consiglio che riguarda soltanto alcune persone:
(Parimenti la santità della Chiesa è in modo speciale favorita dai molteplici consigli, che il Signore nel
Vangelo propone all’osservanza dei suoi discepoli. Tra essi eccelle il prezioso dono della grazia divina, dato
dal Padre ad alcuni [cf. Mt 19, 11; 1 Cor 7, 7], perché più facilmente con cuore indiviso si consacrino solo a
Dio nella verginità o nel celibato [Lumen Gentium, 42]) quelle appunto che sono in grado “di capirlo”. E
sono in grado “di capirlo” coloro “ai quali è stato concesso”. Le parole citate indicano chiaramente il
momento della scelta personale ed insieme il momento della grazia particolare, cioè del dono che l’uomo
riceve per fare una tale scelta. Si può dire che la scelta della continenza per il Regno dei cieli è un
orientamento carismatico verso quello stato escatologico, in cui gli uomini “non prenderanno moglie né
marito”: tuttavia, tra quello stato dell’uomo nella risurrezione dei corpi e la volontaria scelta della continenza
per il Regno dei cieli nella vita terrena e nello stato storico dell’uomo caduto e redento, esiste una differenza
essenziale. Quel “non sposarsi” escatologico sarà uno “stato”, cioè il modo proprio e fondamentale
dell’esistenza degli esseri umani, uomini e donne, nei loro corpi glorificati. La continenza per il Regno dei
cieli, come frutto di una scelta carismatica, è una eccezione rispetto all’altro stato, cioè a quello di cui
l’uomo “dal principio” è divenuto e rimane partecipe nel corso di tutta l’esistenza terrena.
5. È molto significativo che Cristo non collega direttamente le sue parole sulla continenza per il Regno dei
cieli con il preannunzio dell’“altro mondo”, in cui “non prenderanno moglie né marito” (Mc 12, 25). Le sue
parole, invece, si trovano - come abbiamo già detto - nel prolungamento del colloquio con i Farisei, in cui
Gesù si è richiamato “al principio”, indicando l’istituzione del matrimonio da parte del Creatore e ricordando
il carattere indissolubile che, nel disegno di Dio, corrisponde all’unità coniugale dell’uomo e della donna.
Il consiglio e quindi la scelta carismatica della continenza per il Regno dei cieli sono collegati, nelle parole di
Cristo, con il massimo riconoscimento dell’ordine “storico” dell’esistenza umana, relativo all’anima e al
corpo. In base all’immediato contesto delle parole sulla continenza per il Regno dei cieli nella vita terrena
dell’uomo, occorre vedere nella vocazione a tale continenza un tipo di eccezione a ciò che è piuttosto una
regola comune di questa vita. Cristo rileva soprattutto questo. Che poi tale eccezione racchiuda in sé
l’anticipo della vita escatologica priva di matrimonio e propria dell’“altro mondo” (cioè dello stadio finale
del “Regno dei cieli”), Cristo non ne parla qui direttamente. Si tratta, invero, non della continenza nel Regno
dei cieli, ma della continenza “per il Regno dei cieli”. L’idea della verginità o del celibato, come anticipo e
segno escatologico (cf., ex. gr., Lumen Gentium, 44; Perfectae Caritatis, 12), deriva dall’associazione delle
parole qui pronunziate con quelle che Gesù proferirà in un’altra circostanza, ossia nel colloquio con i
Sadducei, quando proclama la futura risurrezione dei corpi.
Riprenderemo questo tema nel corso delle prossime riflessioni del mercoledì.

Mercoledì, 17 marzo 1982

1. Continuiamo la riflessione sulla verginità o celibato per il Regno dei cieli: tema importante anche per una
completa teologia del corpo.
Nell’immediato contesto delle parole sulla continenza per il Regno dei cieli, Cristo fa un confronto molto
significativo; e questo ci conferma ancor meglio nella convinzione che egli voglia radicare profondamente la

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vocazione a tale continenza nella realtà della vita terrena, facendosi così strada nella mentalità dei suoi
ascoltatori. Elenca, infatti, tre categorie di eunuchi.
Questo termine riguarda i difetti fisici che rendono impossibile la procreatività del matrimonio. Appunto tali
difetti spiegano le due prime categorie, quando Gesù parla sia dei difetti congeniti: “Eunuchi che sono nati
così dal ventre della madre” (Mt 19, 11), sia dei difetti acquisiti, causati da intervento umano: “Ve ne sono
alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini” (Mt 19, 12). In entrambi i casi si tratta dunque di uno stato di
coazione, perciò non volontario. Se Cristo, nel suo confronto, parla poi di coloro “che si sono fatti eunuchi
per il Regno dei cieli” (Mt 19, 12), come di una terza categoria, certamente fa questa distinzione per rilevare
ancor più il suo carattere volontario e soprannaturale. Volontario perché gli appartenenti a questa categoria
“si sono fatti eunuchi”; soprannaturale, invece, perché l’hanno fatto “per il Regno dei cieli”.
2. La distinzione è molto chiara e molto forte. Nondimeno, forte ed eloquente è anche il confronto. Cristo
parla a uomini, ai quali la tradizione dell’antica alleanza non aveva tramandato l’ideale del celibato o della
verginità. Il matrimonio era così comune che soltanto un’impotenza fisica poteva costituirne una eccezione.
La risposta data a discepoli in Matteo (Mt 19, 10-12) è ad un tempo rivolta, in un certo senso, a tutta la
tradizione dell’Antico Testamento. Lo confermi un solo esempio, tratto dal Libro dei Giudici, al quale ci
riferiamo qui non tanto a motivo dello svolgimento del fatto, quanto a motivo delle parole significative, che
lo accompagnano. “Mi sia concesso . . . piangere la mia verginità” (Gdc 11, 37), dice la figlia di Iefte a suo
padre, dopo aver appreso da lui di essere stata destinata all’immolazione per un voto fatto al Signore (nel
testo biblico troviamo la spiegazione di come si giunse a tanto). “Va’; - leggiamo in seguito - e la lasciò
andare . . . Ella se ne andò con le compagne e pianse sui monti la sua verginità. Alla fine dei due mesi tornò
dal padre ed egli fece di lei quello che aveva promesso con voto. Essa non aveva conosciuto uomo” (Gdc 11,
38-39).
3. Nella tradizione dell’Antico Testamento, a quanto risulta, non c’è posto per questo significato del corpo,
che ora Cristo, parlando della continenza per il Regno di Dio, vuole prospettare e rivelare ai propri discepoli.
Tra i personaggi a noi noti, quali condottieri spirituali del popolo dell’antica alleanza, non vi è alcuno che
avrebbe proclamato tale continenza a parole o nella condotta. (È vero che Geremia doveva, per esplicito
ordine del Signore, osservare il celibato [cf. Ger 16, 1-2]; ma questo fu un “segno profetico”, che
simboleggiava il futuro abbandono e la distruzione del paese e del popolo.) Il matrimonio, allora, non era
soltanto uno stato comune, ma, in più, in quella tradizione aveva acquisito un significato consacrato dalla
promessa fatta ad Abramo dal Signore: “Eccomi: la mia alleanza è con te e sarai padre di una moltitudine di
popoli . . . E ti renderò molto, molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te nasceranno dei re. Stabilirò la
mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza
perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te” (Gen 17, 4.6-7). Perciò nella tradizione
dell’Antico Testamento il matrimonio, come fonte di fecondità e di procreazione in rapporto alla
discendenza, era uno stato religiosamente privilegiato: e privilegiato dalla stessa rivelazione. Sullo sfondo di
questa tradizione, secondo cui il Messia doveva essere “figlio di Davide” (Mt 20, 30), era difficile intendere
l’ideale della continenza. Tutto perorava a favore del matrimonio: non soltanto le ragioni di natura umana,
ma anche quelle del Regno di Dio. (È vero, come è noto dalle fonti extrabibliche, che nel periodo
intertestamentario il celibato era mantenuto nell’ambito del giudaismo da alcuni membri della setta degli
Esseni [cf. Giuseppe Flavio, Bell. Jud., II, 8, 2: 120-121; Filone Al., Hypothet., 11, 14]; ma ciò avveniva al
margine del giudaismo ufficiale e probabilmente non persistette oltre l’inizio del II secolo. Nella comunità di
Qumran il celibato non obbligava tutti, ma alcuni dei membri lo mantenevano fino alla morte, trasferendo sul
terreno della pacifica convivenza la prescrizione del Deuteronomio [23, 10-14] sulla purità rituale che
obbligava durante la guerra santa. Secondo le credenze dei Qumraniani, tale guerra durava sempre “tra i figli
della luce e i figli delle tenebre”; il celibato fu dunque per loro l’espressione dell’esser pronti alla battaglia
[cf. 1 Qm. 7, 5-7].)
4. Le parole di Cristo determinano in tale ambito una svolta decisiva. Quando egli parla ai suoi discepoli, per
la prima volta, sulla continenza per il Regno dei cieli, si rende chiaramente conto che essi, come figli della
tradizione dell’Antica Legge, debbono associare il celibato e la verginità alla situazione degli individui,
specie di sesso maschile, che a causa dei difetti di natura fisica non possono sposarsi (“gli eunuchi”), e perciò
si riferisce direttamente a loro. Questo riferimento ha uno sfondo molteplice: sia storico che psicologico, sia
etico che religioso. Con tale riferimento Gesù tocca - in certo senso - tutti questi sfondi, come se volesse
dire: So che quanto ora vi dirò dovrà suscitare grande difficoltà nella vostra coscienza, nel vostro modo di

133
intendere il significato del corpo; vi parlerò, difatti, della continenza, e ciò si assocerà indubbiamente in voi
allo stato di deficienza fisica, sia innata sia acquisita per causa umana. Io invece voglio dirvi che la
continenza può anche essere volontaria e scelta dall’uomo “per il Regno dei cieli”.
5. Matteo, al cap. 19, non annota alcuna immediata reazione dei discepoli a queste parole. La troviamo più
tardi solamente negli scritti degli Apostoli, soprattutto in Paolo (cf. 1 Cor 7, 25-40; vide etiam Ap 14, 4). Ciò
conferma che tali parole si erano impresse nella coscienza della prima generazione dei discepoli di Cristo, e
poi fruttificarono ripetutamente e in modo molteplice nelle generazioni dei suoi confessori nella Chiesa (e
forse anche fuori di essa). Dunque, dal punto di vista della teologia - cioè della rivelazione del significato del
corpo, del tutto nuovo rispetto alla tradizione dell’Antico Testamento -, queste sono parole di svolta. La loro
analisi dimostra quanto siano precise e sostanziali, nonostante la loro concisione (lo costateremo ancor
meglio, quando faremo l’analisi del testo paolino della prima lettera ai Corinzi, capitolo 7). Cristo parla della
continenza “per” il Regno dei cieli. In tal modo egli vuole sottolineare che questo stato, scelto
coscientemente dall’uomo nella vita temporale, in cui di solito gli uomini “prendono moglie e prendono
marito”, ha una singolare finalità soprannaturale. La continenza, anche se scelta coscientemente e anche se
decisa personalmente, ma senza quella finalità, non entra nel contenuto del suddetto enunciato di Cristo.
Parlando di coloro che hanno scelto coscientemente il celibato o la verginità per il Regno dei cieli (cioè “si
sono fatti eunuchi”), Cristo rileva - almeno in modo indiretto - che tale scelta, nella vita terrena, è unita alla
rinuncia e anche ad un determinato sforzo spirituale.
6. La stessa finalità soprannaturale - “per il Regno dei cieli” - ammette una serie di interpretazioni più
dettagliate, che Cristo in tale passo non enumera. Si può però affermare che, attraverso la formula lapidaria
di cui egli si serve, indica indirettamente tutto ciò che è stato detto su quel tema nella Rivelazione, nella
Bibbia e nella Tradizione; tutto ciò che è divenuto ricchezza spirituale dell’esperienza della Chiesa, in cui il
celibato e la verginità per il Regno dei cieli hanno fruttificato in modo molteplice nelle varie generazioni dei
discepoli e seguaci del Signore.

Mercoledì, 24 marzo 1982

1. Continuiamo le nostre riflessioni sul celibato e sulla verginità “per il regno dei cieli”.
La continenza “per” il regno dei cieli è certamente in rapporto con la rivelazione del fatto che “nel” regno dei
cieli “non si prende né moglie né marito” (Mt 22, 30). È un segno carismatico. L’essere uomo vivente,
maschio e femmina, il quale nella situazione terrena, dove di solito “prendono moglie e prendono marito”
(Lc 20, 34), sceglie con libera volontà la continenza “per il regno dei cieli”, indica che in quel regno, che è
l’“altro mondo” della risurrezione, “non prenderanno moglie né marito” (Mc 12, 25), perché Dio sarà “tutto
in tutti” (1 Cor 15, 28). Tale essere uomo, maschio e femmina, addita dunque la “verginità” escatologica
dell’uomo risorto, in cui si rivelerà, direi, l’assoluto ed eterno significato sponsale del corpo glorificato
nell’unione con Dio stesso, mediante la visione di lui “a faccia a faccia”; e glorificato, anche, mediante
l’unione di una perfetta intersoggettività, che unirà tutti i “partecipi dell’altro mondo”, uomini e donne, nel
mistero della comunione dei santi. La continenza terrena “per il regno dei cieli” è indubbiamente un segno
che indica questa verità e questa realtà. È segno che il corpo, il cui fine non è la morte, tende alla
glorificazione ed è già per ciò stesso, direi, tra gli uomini una testimonianza che anticipa la futura
risurrezione. Tuttavia, questo segno carismatico dell’“altro mondo” esprime la forza e la dinamica più
autentica del mistero della “redenzione del corpo”: un mistero, che da Cristo è stato iscritto nella storia
terrena dell’uomo e in questa storia da lui profondamente radicato. Così, dunque, la continenza “per il regno
dei cieli” porta soprattutto l’impronta della somiglianza a Cristo, che, nell’opera della redenzione, ha fatto
egli stesso questa scelta “per il regno dei cieli”.
2. Anzi, tutta la vita di Cristo, fin dall’inizio, fu un discreto ma chiaro distacco da ciò che nell’Antico
Testamento ha tanto profondamente determinato il significato del corpo. Cristo - quasi contro le attese di
tutta la tradizione vetero-testamentaria - nacque da Maria, che al momento dell’annunciazione dice
chiaramente di se stessa: “Come è possibile? non conosco uomo” (Lc 1, 34), e professa, cioè, la sua

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verginità. E sebbene egli nasca da lei come ogni uomo, come un figlio da sua madre, sebbene questa sua
venuta nel mondo sia accompagnata anche dalla presenza di un uomo che è sposo di Maria e, davanti alla
legge e agli uomini, suo marito, tuttavia la maternità di Maria è verginale; e a questa verginale maternità di
Maria corrisponde il mistero verginale di Giuseppe, che, seguendo la voce dall’alto, non esita a “prendere
Maria . . . perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo” (Mt 1, 20). Sebbene, dunque, il
concepimento verginale e la nascita al mondo di Gesù Cristo fossero nascoste agli uomini, sebbene davanti
agli occhi dei suoi conterranei di Nazaret egli fosse ritenuto “figlio del carpentiere” ( Mt 13, 55) (ut putabatur
filius Joseph: Lc 3, 23), tuttavia la stessa realtà e verità essenziale del suo concepimento e della nascita si
discosta in se stessa da ciò che nella tradizione dell’Antico Testamento fu esclusivamente in favore del
matrimonio, e che rendeva la continenza incomprensibile e socialmente sfavorita. Perciò, come poteva essere
compresa “la continenza per il regno dei cieli”, se il Messia atteso doveva essere “discendente di Davide”, e
cioè, come si riteneva, doveva essere figlio della stirpe reale “secondo la carne”? Solo Maria e Giuseppe, che
hanno vissuto il mistero del suo concepimento e della sua nascita, divennero i primi testimoni di una
fecondità diversa da quella carnale, cioè della fecondità dello Spirito: “Quel che è generato in lei viene dallo
Spirito Santo” (Mt 1, 20).
3. La storia della nascita di Gesù sta certamente in linea con la rivelazione di quella “continenza per il regno
dei cieli”, di cui Cristo parlerà, un giorno, ai suoi discepoli. Questo evento, però, resta nascosto agli uomini
di allora e anche ai discepoli. Solo gradatamente esso si svelerà davanti agli occhi della Chiesa in base alle
testimonianze e ai testi dei Vangeli di Matteo e di Luca. Il matrimonio di Maria con Giuseppe (in cui la
Chiesa onora Giuseppe come sposo di Maria e Maria come sposa di lui), nasconde in sé, in pari tempo, il
mistero della perfetta comunione delle persone, dell’Uomo e della Donna nel patto coniugale, e insieme il
mistero di quella singolare “continenza per il regno dei cieli”: continenza che serviva, nella storia della
salvezza, alla più perfetta “fecondità dello Spirito Santo”. Anzi, essa era, in certo senso, l’assoluta pienezza
di quella fecondità spirituale, dato che proprio nelle condizioni nazaretane del patto di Maria e Giuseppe nel
matrimonio e nella continenza, si è realizzato il dono dell’incarnazione del Verbo Eterno: il Figlio di Dio,
consostanziale al Padre, venne concepito e nacque come Uomo dalla Vergine Maria. La grazia dell’unione
ipostatica è connessa proprio con questa, direi, assoluta pienezza della fecondità soprannaturale, fecondità
nello Spirito Santo, partecipata da una creatura umana, Maria, nell’ordine della “continenza per il regno dei
cieli”. La divina maternità di Maria è anche, in certo senso, una sovrabbondante rivelazione di quella
fecondità nello Spirito Santo, cui l’uomo sottopone il suo spirito, quando liberamente sceglie la continenza
“nel corpo”: appunto, la continenza “per il regno dei cieli”.
4. Tale immagine doveva gradatamente disvelarsi davanti alla coscienza della Chiesa nelle generazioni
sempre nuove dei confessori di Cristo, quando - insieme al Vangelo dell’infanzia - si consolidava in loro la
certezza circa la divina maternità della Vergine, la quale aveva concepito per opera dello Spirito Santo.
Sebbene in modo solo indiretto - tuttavia in modo essenziale e fondamentale - tale certezza doveva aiutare a
comprendere, da una parte, la santità del matrimonio e dall’altra il disinteresse in vista “del regno dei cieli”,
di cui Cristo aveva parlato ai suoi discepoli. Nondimeno, quando egli ne aveva parlato loro per la prima volta
(come attesta l’evangelista Matteo nel capitolo 19, 10-12), quel grande mistero del suo concepimento e della
sua nascita fu loro completamente ignoto, fu nascosto loro così come lo fu a tutti gli ascoltatori e
interlocutori di Gesù di Nazaret. Quando Cristo parlava di coloro che “si sono fatti eunuchi per il regno dei
cieli” (Mt 19, 12) i discepoli erano capaci di capirlo solo in base al suo esempio personale. Una tale
continenza dovette imprimersi nella loro coscienza come un particolare tratto di somiglianza a Cristo, che era
rimasto egli stesso celibe “per il regno dei cieli”. Il distacco dalla tradizione dell’antica alleanza, in cui il
matrimonio e la fecondità procreativa “nel corpo” erano stati una condizione religiosamente privilegiata,
doveva effettuarsi soprattutto in base all’esempio di Cristo stesso. Solo a poco a poco poté radicarsi la
coscienza che per “il regno dei cieli” ha un significato particolare quella fecondità spirituale e
soprannaturale dell’uomo, la quale proviene dallo Spirito Santo (Spirito di Dio), e alla quale, in senso
specifico e in casi determinati, serve proprio la continenza, e che questa è appunto la continenza “per il
regno dei cieli”.
Più o meno tutti questi elementi della coscienza evangelica (cioè coscienza propria della nuova alleanza in
Cristo) riguardanti la continenza, li ritroviamo in Paolo. Cercheremo di mostrarlo a tempo opportuno.
Riassumendo, possiamo dire che il tema principale dell’odierna riflessione è stato il rapporto tra la
continenza “per il regno dei cieli”, proclamata da Cristo, e la fecondità soprannaturale dello spirito umano,
che proviene dallo Spirito Santo.

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Mercoledì, 31 marzo 1982

1. Continuiamo a riflettere sul tema del celibato e della verginità per il regno dei Cieli, basandoci sul testo
del Vangelo secondo Matteo (cf. Mt 19, 10-12).
Parlando della continenza “per” il regno dei Cieli e fondandola sull’esempio della propria vita, Cristo
desiderava, senza dubbio, che i suoi discepoli la intendessero soprattutto in rapporto al “regno”, che egli era
venuto ad annunziare e per il quale indicava le giuste vie. La continenza, di cui parlava, è appunto una di
queste vie e, come risulta già dal contesto del Vangelo di Matteo, è una via particolarmente valida e
privilegiata. Infatti, quella preferenza data al celibato e alla verginità “per il regno” era una novità assoluta
nei confronti della tradizione dell’antica alleanza, e aveva un significato determinante sia per l’ethos che per
la teologia del corpo.
2. Cristo, nel suo enunciato, ne rileva soprattutto la finalità. Dice che la via della continenza, di cui egli
stesso dà testimonianza con la propria vita, non solo esiste e non soltanto è possibile, ma è particolarmente
valida e importante “per il regno dei Cieli”. E tale deve essere, dato che lo stesso Cristo l’ha scelta per sé. E
se questa via è così valida e importante, alla continenza per il regno dei Cieli deve spettare un particolare
valore. Come già abbiamo accennato in precedenza, Cristo non affrontava il problema sul medesimo livello e
nella stessa linea di ragionamento, in cui lo ponevano i discepoli, quando dicevano: “Se questa è la
condizione . . . non conviene sposarsi” (Mt 19, 10). Le loro parole celavano sullo sfondo un certo
utilitarismo. Cristo, invece, nella sua risposta ha indicato indirettamente che, se il matrimonio, fedele alla
originaria istituzione del Creatore (ricordiamo che il Maestro proprio a questo punto si riferiva al
“principio”), possiede una sua piena congruenza e valore per il regno dei Cieli, valore fondamentale,
universale e ordinario, da parte sua la continenza possiede per questo regno un valore particolare ed
“eccezionale”. È ovvio che si tratti della continenza scelta coscientemente per motivi soprannaturali.
3. Se Cristo rileva nel suo enunciato, innanzitutto, la finalità soprannaturale di quella continenza, lo fa in
senso non solo oggettivo, ma anche esplicitamente soggettivo, cioè indica la necessità di una motivazione
tale che corrisponda in modo adeguato e pieno alla finalità oggettiva che viene dichiarata dall’espressione
“per il regno dei Cieli”. Per realizzare il fine di cui si tratta - cioè per riscoprire nella continenza quella
particolare fecondità spirituale che proviene dallo Spirito Santo - bisogna volerla e sceglierla in virtù di una
fede profonda, che non ci mostra soltanto il regno di Dio nel suo compimento futuro, ma ci consente e rende
possibile in modo particolare di immedesimarci con la verità e la realtà di quel regno, così come esso viene
rivelato da Cristo nel suo messaggio evangelico e soprattutto con l’esempio personale della sua vita e del suo
comportamento. Perciò, si è detto sopra che la continenza “per il regno dei Cieli” - in quanto indubbio segno
dell’“altro mondo” - porta in sé soprattutto il dinamismo interiore del mistero della redenzione del corpo
(cf. Lc 20, 35), e in questo significato possiede anche la caratteristica di una particolare somiglianza con
Cristo. Chi sceglie consapevolmente tale continenza, sceglie, in un certo senso, una
particolare partecipazione al mistero della redenzione (del corpo); vuole in modo particolare completarla per
così dire nella propria carne (cf. Col 1, 24), trovando in ciò anche l’impronta di una somiglianza con Cristo.
4. Tutto questo si riferisce alla motivazione della scelta (ossia alla sua finalità in senso soggettivo):
scegliendo la continenza per il regno dei Cieli, l’uomo “deve” lasciarsi guidare appunto da tale motivazione.
Cristo, nel caso in questione, non dice che l’uomo vi è obbligato (in ogni caso non si tratta certamente del
dovere che scaturisce da un comandamento); tuttavia, senza dubbio, le sue concise parole sulla
continenza “per il regno dei Cieli” pongono fortemente in rilievo proprio la sua motivazione. Ed esse la
rilevano (cioè indicano la finalità, di cui il soggetto è consapevole), sia nella prima parte di tutto l’enunciato,
sia anche nella seconda, indicando che qui si tratta di una scelta particolare: propria cioè di una vocazione
piuttosto eccezionale che non universale e ordinaria. All’inizio, nella prima parte del suo enunciato, Cristo
parla di un intendimento (“non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso”) (Mt 19, 11); e
si tratta non di un “intendimento” in astratto, bensì tale da influire sulla decisione, sulla scelta personale, in
cui il “dono”, cioè la grazia, deve trovare un’adeguata risonanza nella volontà umana. Tale “intendimento”
coinvolge dunque la motivazione. In seguito, la motivazione influisce sulla scelta della continenza, accettata
dopo averne compreso il significato “per il regno dei Cieli”. Cristo, nella seconda parte del suo enunciato,
dichiara quindi che l’uomo “si fa” eunuco quando sceglie la continenza per il regno dei Cieli e ne fa la
fondamentale situazione ovvero lo stato di tutta la propria vita terrena. In una decisione così consolidata

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sussiste la motivazione soprannaturale, da cui la decisione stessa fu originata. Sussiste rinnovandosi, direi,
continuamente.
5. Abbiamo già in precedenza volto l’attenzione al particolare significato dell’ultima affermazione. Se Cristo,
nel caso citato, parla del “farsi” eunuco, non soltanto pone in rilievo il peso specifico di questa decisione, che
si spiega con la motivazione nata da una fede profonda, ma non cerca, nemmeno di nascondere il travaglio,
che tale decisione e le sue persistenti conseguenze possono avere per l’uomo, per le normali (e d’altronde
nobili) inclinazioni della sua natura.
Il richiamo “al principio” nel problema del matrimonio ci ha consentito di scoprire tutta la bellezza originaria
di quella vocazione dell’uomo, maschio e femmina: vocazione, che proviene da Dio e corrisponde alla
duplice costituzione dell’uomo, nonché alla chiamata alla “comunione delle persone”. Predicando la
continenza per il regno di Dio, Cristo non soltanto si pronunzia contro tutta la tradizione dell’antica alleanza,
secondo cui il matrimonio e la procreazione erano, come abbiamo detto, religiosamente privilegiati, ma si
pronuncia, in un certo senso, anche in contrasto con quel “principio”, a cui egli stesso ha fatto richiamo e
forse anche per questo sfuma le proprie parole con quella particolare “regola di intendimento”, a cui abbiamo
sopra accennato. L’analisi del “principio” (specialmente in base al testo jahvista) aveva dimostrato infatti
che, sebbene sia possibile concepire l’uomo come solitario di fronte a Dio, tuttavia Dio stesso lo trasse da
questa “solitudine” quando disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”
(Gen 2, 18).
6. Così, dunque, la duplicità maschio-femmina propria della costituzione stessa dell’umanità e l’unità dei due
che si basa su di essa, rimangono “da principio”, cioè fino alla loro stessa profondità ontologica, opera di
Dio. E Cristo, parlando della continenza “per il regno dei Cieli”, ha davanti a sé questa realtà. Non senza
ragione ne parla (secondo Matteo) nel contesto più immediato, in cui fa appunto riferimento “al principio”,
cioè al principio divino del matrimonio nella costituzione stessa dell’uomo.
Sullo sfondo delle parole di Cristo si può asserire che non solo il matrimonio ci aiuta ad intendere la
continenza per il regno dei Cieli, ma anche la stessa continenza getta una luce particolare sul matrimonio
visto nel mistero della Creazione e della Redenzione.

Mercoledì, 7 aprile 1982

1. Con lo sguardo rivolto a Cristo Redentore, ora continuiamo le nostre riflessioni sul celibato e sulla
verginità “per il Regno dei cieli”, secondo le parole di Cristo riportate nel Vangelo di Matteo (Mt 19, 10-12).
Proclamando la continenza “per il Regno dei cieli”, Cristo accetta pienamente tutto ciò che dal principio fu
operato ed istituito dal Creatore. Conseguentemente, da una parte, quella continenza deve dimostrare che
l’uomo, nella sua più profonda costituzione, è non soltanto “duplice”, ma anche (in questa duplicità) “solo”
di fronte a Dio con Dio. Tuttavia, dall’altra, ciò che, nella chiamata alla continenza per il Regno dei cieli, è
un invito alla solitudine per Dio, rispetta al tempo stesso sia la “duplicità dell’umanità” (cioè la sua
mascolinità e femminilità), sia anche quella dimensione di comunione dell’esistenza che è propria della
persona. Colui che, conformemente alle parole di Cristo, “comprende” in modo adeguato la chiamata alla
continenza per il Regno dei cieli, la segue, e conserva così l’integrale verità della propria umanità, senza
perdere, strada facendo, nessuno degli elementi essenziali della vocazione della persona creata “a immagine
e somiglianza di Dio”. Questo è importante per l’idea stessa o piuttosto per l’idea della continenza, cioè per
il suo contenuto oggettivo, che appare nell’insegnamento di Cristo come una novità radicale. È ugualmente
importante per l’attuazione di quell’ideale, cioè perché la concreta decisione, presa dall’uomo per vivere nel
celibato o nella verginità per il Regno dei cieli (colui che “si fa” eunuco, per usare le parole di Cristo), sia
pienamente autentica nella sua motivazione.
2. Dal contesto del Vangelo di Matteo (Mt 19, 10-12) risulta in modo sufficientemente chiaro che qui non si
tratta di sminuire il valore del matrimonio a vantaggio della continenza e neppure di offuscare un valore con
l’altro. Si tratta, invece, di “uscire” con piena consapevolezza da ciò che nell’uomo, per la volontà dello
stesso Creatore, porta al matrimonio, e di andare verso la continenza, che si svela davanti all’uomo

137
concreto, maschio o femmina, come chiamata e dono di particolare eloquenza e di particolare significato
“per il Regno dei cieli”. Le parole di Cristo (Mt 19, 11-12) partono da tutto il realismo della situazione
dell’uomo e con lo stesso realismo lo conducono fuori, verso la chiamata in cui, in modo nuovo, pur
rimanendo per sua natura essere “duplice” (cioè diretto come uomo verso la donna, e come donna, verso
l’uomo), egli è capace di scoprire in questa sua solitudine, che non cessa di essere una dimensione personale
della duplicità di ciascuno, una nuova e perfino ancor più piena forma di comunione intersoggettiva con gli
altri. Questo orientamento della chiamata spiega in modo esplicito l’espressione: “per il Regno dei cieli”;
infatti, la realizzazione di questo Regno deve trovarsi sulla linea dell’autentico sviluppo dell’immagine e
della somiglianza di Dio, nel suo significato trinitario, cioè proprio “di comunione”. Scegliendo la
continenza per il Regno dei cieli, l’uomo ha la consapevolezza di potere, in tal modo, realizzare se stesso
“diversamente” e, in certo senso, “di più” che non nel matrimonio, divenendo “dono sincero per gli altri”
(Gaudium et Spes, 24).
3. Mediante le parole riportate in Matteo,(Mt 19, 11-12) Cristo fa comprendere in modo chiaro che
quell’“andare” verso la continenza per il Regno dei cieli è congiunto con una rinuncia volontaria al
matrimonio, cioè allo stato in cui l’uomo e la donna (secondo il significato che il Creatore diede “in
principio” alla loro unità) divengono dono reciproco attraverso la loro mascolinità e femminilità, anche
mediante l’unione corporale. La continenza significa una rinuncia consapevole e volontaria a tale unione e a
tutto ciò che ad essa è legato nell’ampia dimensione della vita e della convivenza umana. L’uomo che
rinuncia al matrimonio rinuncia ugualmente alla generazione, come fondamento della comunità familiare
composta dai genitori e dai figli. Le parole di Cristo, alle quali ci riferiamo, indicano senza dubbio tutta
questa sfera di rinuncia, sebbene non si soffermino sui particolari. E il modo in cui queste parole sono state
pronunciate consente di supporre che Cristo comprenda l’importanza di tale rinuncia e che la comprenda non
soltanto rispetto alle opinioni su tale tema vigenti nella società israelitica di allora. Egli
comprende l’importanza di questa rinuncia anche in rapporto al bene, che il matrimonio e la famiglia
costituiscono in se stessi a motivo dell’istituzione divina. Perciò, mediante il modo di pronunciare le
rispettive parole, fa comprendere che quell’uscita dal cerchio del bene, alla quale egli stesso chiama “per il
Regno dei cieli”, è connessa con un certo sacrificio di se stessi. Quella uscita diventa anche l’inizio di
successive rinunce e di volontari sacrifici di sé che sono indispensabili, se la prima e fondamentale scelta
deve essere coerente nella dimensione di tutta la vita terrena; e solo grazie a tale coerenza, quella scelta è
interiormente ragionevole e non contraddittoria.
4. In tal modo, nella chiamata alla continenza così come è stata pronunciata da Cristo - concisamente e al
tempo stesso con una grande precisione - si delineano il profilo e insieme il dinamismo del mistero della
Redenzione, come è stato già detto in precedenza. È lo stesso profilo sotto cui Gesù, nel discorso della
Montagna, ha pronunciato le parole circa la necessità di vigilare sulla concupiscenza del corpo, sul desiderio
che inizia dal “guardare” e diventa già in quel momento “adulterio nel cuore”. Dietro le parole di Matteo sia
nel capitolo 19 (cf. Mt 19, 11-12) che nel capitolo 5 (cf. Mt 5, 27-28), si trova la stessa antropologia e lo
stesso ethos. Nell’invito alla continenza volontaria per il Regno dei cieli, le prospettive di questo ethos
vengono ampliate: nell’orizzonte delle parole del discorso della Montagna si trova l’antropologia dell’uomo
“storico”; nell’orizzonte delle parole sulla continenza volontaria, rimane essenzialmente la stessa
antropologia, ma irradiata dalla prospettiva del “Regno dei cieli”, ossia, ad un tempo, dalla futura
antropologia della risurrezione. Nondimeno, sulle vie di questa continenza volontaria nella vita terrena,
l’antropologia della risurrezione non sostituisce l’antropologia dell’uomo “storico”. Ed è proprio
quest’uomo, in ogni caso quest’uomo “storico”, nel quale permane ad un tempo l’eredità della triplice
concupiscenza, l’eredità del peccato ed insieme l’eredità della redenzione, a prendere la decisione circa la
continenza “per il Regno dei cieli”: questa decisione egli deve attuare, sottomettendo la peccaminosità della
propria umanità alle forze che scaturiscono dal mistero della redenzione del corpo . Deve farlo come ogni
altro uomo, che non prenda una simile decisione e la cui via rimanga il matrimonio. Diverso è soltanto il
genere di responsabilità per il bene scelto, come diverso è il genere stesso del bene scelto.
5. Nel suo enunciato, Cristo pone forse in rilievo la superiorità della continenza per il Regno dei cieli sul
matrimonio? Certamente egli dice che questa è una vocazione “eccezionale”, non “ordinaria”. Afferma,
inoltre, che essa è particolarmente importante, e necessaria per il Regno dei cieli. Se intendiamo la
superiorità sul matrimonio in questo senso, dobbiamo ammettere che Cristo l’addita implicitamente; tuttavia

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non la esprime in modo diretto. Solo Paolo dirà di coloro che scelgono il matrimonio che fanno “bene”, e, di
quanti sono disponibili a vivere nella continenza volontaria, dirà che fanno “meglio” (cf. 1 Cor 7, 38).
6. Tale è anche l’opinione di tutta la Tradizione, sia dottrinale che pastorale. Quella “superiorità” della
continenza sul matrimonio non significa mai, nell’autentica Tradizione della Chiesa, una svalutazione del
matrimonio o una menomazione del suo valore essenziale. Non significa nemmeno uno slittamento, sia pure
implicito, sulle posizioni manichee, oppure un sostegno a modi di valutare o di operare che si fondano
sull’intendimento manicheo del corpo e del sesso, del matrimonio e della generazione. La superiorità
evangelica e autenticamente cristiana della verginità, della continenza, è conseguentemente dettata dal
motivo del Regno dei cieli. Nelle parole di Cristo, riportate da Matteo (cf. Mt 19, 11-12), troviamo una solida
base per ammettere soltanto tale superiorità; invece non vi troviamo alcuna base per qualsiasi deprezzamento
del matrimonio, che pur sarebbe potuto essere presente nel riconoscimento di quella superiorità. Su questo
problema torneremo nella nostra prossima riflessione.

Mercoledì, 14 aprile 1982

1. Continuiamo ora la riflessione delle precedenti settimane sulle parole circa la continenza “per il Regno dei
cieli”, che, secondo il Vangelo di Matteo (Mt 19, 10-12), Cristo ha rivolto ai suoi discepoli.
Diciamo ancora una volta che queste parole, in tutta la loro concisione, sono mirabilmente ricche e precise,
ricche di un complesso di implicazioni sia di natura dottrinale che pastorale, e al tempo stesso indicano un
giusto limite in materia. Così, dunque, qualsiasi interpretazione manichea resta decisamente oltre quel limite,
come pure vi resta, secondo ciò che Cristo disse nel discorso della Montagna, il desiderio concupiscente “nel
cuore” (cf. Mt 5, 27-28).
Nelle parole di Cristo sulla continenza “per il Regno dei cieli” non c’è alcun cenno circa la “inferiorità” del
matrimonio riguardo al “corpo”, ossia riguardo all’essenza del matrimonio, consistente nel fatto che l’uomo
e la donna in esso si uniscono così da divenire una “sola carne” (cf. Gen 2, 24). Le parole di Cristo riportate
in Matteo 19, 11-12 (come anche le parole di Paolo nella prima lettera ai Corinzi, cap. 7) non forniscono
motivo per sostenere né l’“inferiorità” del matrimonio, né la “superiorità” della verginità o del celibato, in
quanto questi per la loro natura consistono nell’astenersi dalla “unione” coniugale “nel corpo”. Su questo
punto le parole di Cristo sono decisamente limpide. Egli propone ai suoi discepoli l’ideale della continenza e
la chiamata ad essa non a motivo dell’inferiorità o con pregiudizio dell’“unione” coniugale “nel corpo”,
ma solo per il “Regno dei cieli”.
2. In questa luce diventa particolarmente utile un chiarimento più approfondito dell’espressione stessa “per il
Regno dei cieli”; ed è ciò che in seguito cercheremo di fare, almeno in modo sommario. Però, per quanto
concerne la giusta comprensione del rapporto tra il matrimonio e la continenza di cui Cristo parla, e della
comprensione di tale rapporto come l’ha inteso tutta la tradizione, vale la pena di aggiungere che quella
“superiorità” ed “inferiorità” sono contenute nei limiti della stessa complementarietà del matrimonio e della
continenza per il Regno di Dio. Il matrimonio e la continenza né si contrappongono l’uno all’altra, né
dividono di per sé la comunità umana (e cristiana) in due campi (diciamo: dei “perfetti” a causa della
continenza e degli “imperfetti” o meno perfetti a causa della realtà della vita coniugale). Ma queste due
situazioni fondamentali, ovvero, come si soleva dire, questi due “stati”, in un certo senso si spiegano o
completano a vicenda, quanto all’esistenza ed alla vita (cristiana) di questa comunità, la quale nel suo
insieme e in tutti i suoi membri si realizza nella dimensione del Regno di Dio e ha un orientamento
escatologico, che è proprio di quel Regno. Orbene, riguardo a questa dimensione e a questo orientamento - a
cui deve partecipare nella fede l’intera comunità, cioè tutti coloro che appartengono ad essa - la continenza
“per il Regno dei cieli” ha una particolare importanza ed una particolare eloquenza per quelli che vivono la
vita coniugale. È noto, d’altronde, che questi ultimi costituiscono la maggioranza.
3. Sembra, dunque, che una complementarietà così intesa trovi la sua base nelle parole di Cristo secondo
Matteo 19,11-12 (e anche nella prima lettera ai Corinzi, cap. 7). Non vi è invece alcuna base per una
supposta contrapposizione, secondo cui i celibi (o le nubili), solo a motivo della continenza costituirebbero la

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classe dei “perfetti”, e, al contrario, le persone sposate costituirebbero la classe dei “non perfetti” (o dei
“meno perfetti”). Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione (“ status
perfectionis”), lo si fa non a motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui
consigli evangelici (povertà, castità e obbedienza), poiché questa vita corrisponde alla chiamata di Cristo alla
perfezione (“Se vuoi essere perfetto . . .”) (Mt 19, 21). La perfezione della vita cristiana, invece, viene
misurata col metro della carità. Ne segue che una persona che non viva nello “stato di perfezione” (cioè in
una istituzione che fondi il suo piano di vita sui voti di povertà, castità ed obbedienza), ossia che non viva in
un Istituto religioso, ma nel “mondo”, può raggiungere “de facto” un grado superiore di perfezione - la cui
misura è la carità - rispetto alla persona che viva nello “stato di perfezione”, con un minor grado di carità.
Tuttavia, i consigli evangelici aiutano indubbiamente a raggiungere una più piena carità. Pertanto, chiunque
la raggiunge, anche se non vive in uno “stato di perfezione” istituzionalizzato, perviene a quella perfezione
che scaturisce dalla carità, mediante la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è possibile e
accessibile ad ogni uomo, sia in un “Istituto religioso” che nel “mondo”.
4. Alle parole di Cristo riportate da Matteo (Mt 19, 11-12), sembra quindi corrispondere adeguatamente la
complementarietà del matrimonio e della continenza per “il Regno dei cieli” nel loro significato e nella loro
molteplice portata. Nella vita di una comunità autenticamente cristiana, gli atteggiamenti ed i valori propri
dell’uno e dell’altro stato - cioè di una o dell’altra scelta essenziale e cosciente come vocazione per tutta la
vita terrena e nella prospettiva della “Chiesa celeste” - si completano e in certo senso si compenetrano a
vicenda. Il perfetto amore coniugale deve essere contrassegnato da quella fedeltà e da quella donazione
all’unico Sposo (ed anche dalla fedeltà e dalla donazione dello Sposo all’unica Sposa), su cui sono fondati la
professione religiosa ed il celibato sacerdotale. In definitiva, la natura dell’uno e dell’altro amore è
“sponsale”, cioè espressa attraverso il dono totale di sé. L’uno e l’altro amore tende ad esprimere quel
significato sponsale del corpo, che “dal principio” è iscritto nella stessa struttura personale dell’uomo e della
donna.
Riprenderemo in seguito questo argomento.
5. D’altra parte, l’amore sponsale che trova la sua espressione nella continenza “per il Regno dei cieli”, deve
portare nel suo regolare sviluppo alla “paternità” o “maternità” in senso spirituale (ossia proprio a quella
“fecondità dello Spirito Santo”, di cui abbiamo già parlato), in modo analogo all’amore coniugale
che matura nella paternità e maternità fisica e in esse si conferma proprio come amore sponsale. Dal suo
canto, anche la generazione fisica risponde pienamente al suo significato, solo se viene completata dalla
paternità e maternità “nello spirito”, la cui espressione e il cui frutto è tutta l’opera educatrice dei genitori
rispetto ai figli, nati dalla loro unione coniugale corporea.
Come si vede, numerosi sono gli aspetti e le sfere della complementarietà tra la vocazione, in senso
evangelico, di coloro che “prendono moglie e prendono marito” (Lc 20, 34) e di coloro che consapevolmente
e volontariamente scelgono la continenza “per il Regno dei cieli” (Mt 19, 12).
Nella sua prima lettera ai Corinzi (la cui analisi faremo in seguito durante le nostre considerazioni) san Paolo
scriverà su questo tema: “Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (1 Cor 7, 7).

Mercoledì, 21 aprile 1982

1. Proseguiamo le riflessioni sulle parole di Cristo, relative alla continenza “per il Regno dei cieli”.
Non è possibile intendere pienamente il significato e il carattere della continenza, se l’ultima locuzione
dell’enunciato di Cristo, “per il Regno dei cieli” (Mt 19, 12), non verrà colmata del suo contenuto adeguato,
concreto ed oggettivo. Abbiamo detto, in precedenza, che questa locuzione esprime il motivo, ovvero pone in
rilievo in un certo senso la finalità soggettiva della chiamata di Cristo alla continenza. Tuttavia, l’espressione
in se stessa ha carattere oggettivo, indica di fatto una realtà oggettiva, per cui le singole persone, uomini o
donne, possono “farsi” (come Cristo dice) eunuchi. La realtà del “regno” nell’enunciato di Cristo secondo
Matteo (cf. Mt 19, 11-12) è definita in modo preciso ed insieme generale, cioè tale da poter comprendere
tutte le determinazioni ed i significati particolari che le sono propri.

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2. Il “Regno dei cieli” significa il “Regno di Dio”, che Cristo predicava nel suo compimento finale, cioè
escatologico. Cristo predicava questo regno nella sua realizzazione o instaurazione temporale, e nello stesso
tempo lo preannunziava nel suo compimento escatologico. La instaurazione temporale del Regno di Dio è
nel medesimo tempo la sua inaugurazione e la sua preparazione al compimento definitivo. Cristo chiama a
questo regno, e in certo senso, vi invita tutti (cf. la parabola del banchetto di nozze: Mt 22, 1-14). Se chiama
alcuni alla continenza “per il Regno dei cieli”, dal contenuto di quella espressione risulta che egli li chiama a
partecipare in modo singolare alla instaurazione del regno di Dio sulla terra, grazie a cui s’inizia e si prepara
la fase definitiva del “Regno dei cieli”.
3. In tal senso abbiamo detto che quella chiamata porta in sé il segno particolare del dinamismo proprio del
mistero della redenzione del corpo. Così, dunque, nella continenza per il regno di Dio si mette in evidenza,
come già abbiamo menzionato, il rinnegare se stesso, prendere la propria croce ogni giorno e seguire Cristo
(cf. Lc 9, 23), che può giungere fino a implicare la rinuncia al matrimonio e ad una famiglia propria. Tutto
ciò deriva dal convincimento che, in questo modo, è possibile contribuire maggiormente alla realizzazione
del Regno di Dio nella sua dimensione terrena con la prospettiva del compimento escatologico. Cristo, nel
suo enunciato secondo Matteo (cf. Mt 19, 11-12), dice, in modo generico, che la rinuncia volontaria al
matrimonio ha questa finalità, ma non specifica tale affermazione. Nel suo primo enunciato su questo tema,
egli non precisa ancora per quali compiti concreti è necessaria oppure indispensabile tale continenza
volontaria, nel realizzare il regno di Dio sulla terra e nel prepararne il futuro compimento. Qualche cosa di
più sentiremo a questo proposito da Paolo di Tarso (cf. 1 Cor passim) e il resto sarà completato dalla vita
della Chiesa nel suo svolgimento storico, portato dalla corrente dell’autentica Tradizione.
4. Nell’enunciato di Cristo sulla continenza “per il Regno dei cieli” non troviamo alcun indizio più
dettagliato di come intendere quello stesso “regno” - sia quanto alla sua realizzazione terrena, sia quanto al
suo definitivo compimento - nella sua specifica ed “eccezionale” relazione con coloro che per esso “si
fanno” volontariamente “eunuchi”.
Né si dice mediante quale aspetto particolare della realtà che costituisce il regno, gli vengano associati coloro
che si sono fatti liberamente “eunuchi”. È noto, infatti, che il Regno dei cieli è per tutti: sono in relazione con
esso sulla terra (e in cielo) anche coloro che “prendono moglie e prendono marito”. Per tutti esso è la “vigna
del Signore”, in cui qui, sulla terra, devono lavorare; ed è, in seguito, la “casa del Padre”, in cui devono
trovarsi nell’eternità. Che cosa è, quindi, quel Regno per coloro che in vista di esso scelgono la continenza
volontaria?
5. A questi interrogativi non troviamo per ora nell’enunciato di Cristo, riportato da Matteo (cf. Mt 19, 11-12),
alcuna risposta. Sembra che ciò corrisponda al carattere di tutto l’enunciato. Cristo risponde ai suoi
discepoli, in modo da non rimanere in linea con il loro pensiero e le loro valutazioni, in cui si nasconde,
almeno indirettamente, un atteggiamento utilitaristico nei riguardi del matrimonio (“Se questa è la
condizione non conviene sposarsi”: Mt 19, 10). Il Maestro si distacca esplicitamente da tale impostazione del
problema, e perciò, parlando della continenza “per il Regno dei cieli”, non indica perché vale la pena, in
questa maniera, rinunciare al matrimonio, affinché quel “conviene” non suoni agli orecchi dei discepoli con
qualche nota utilitaristica. Dice soltanto che tale continenza è alle volte richiesta, se non indispensabile, per il
regno di Dio. E con questo indica che essa costituisce, nel Regno che Cristo predica e al quale chiama, un
valore particolare in se stessa. Coloro che la scelgono volontariamente debbono sceglierla per riguardo a
quel suo valore, e non in conseguenza di qualsiasi altro calcolo.
6. Questo tono essenziale della risposta di Cristo, che si riferisce direttamente alla stessa continenza “per il
Regno dei cieli”, può essere riferito, in modo indiretto, anche al precedente problema del matrimonio
(cf. Mt 19, 3-9). Prendendo quindi in considerazione l’insieme dell’enunciato (cf. Mt 19, 3-11), secondo
l’intenzione fondamentale di Cristo, la risposta sarebbe la seguente: se qualcuno sceglie il matrimonio, deve
sceglierlo così come è stato istituito dal Creatore “dal principio”, deve cercare in esso quei valori che
corrispondono al piano di Dio; se, invece, qualcuno decide di seguire la continenza per il Regno dei cieli, vi
deve cercare i valori propri di tale vocazione. In altri termini: deve agire conformemente alla vocazione
prescelta.
7. Il “Regno dei cieli” è certamente il compimento definitivo delle aspirazioni di tutti gli uomini, ai quali
Cristo rivolge il suo messaggio: è la pienezza del bene, che il cuore umano desidera oltre i limiti di tutto ciò
che può essere sua porzione nella vita terrena, è la massima pienezza della gratificazione per l’uomo da parte
di Dio. Nel colloquio con i Sadducei (cf. Mt 22, 24-30; Mc 12, 18-27; Lc 20, 27-40), che abbiamo

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precedentemente analizzato, troviamo altri particolari su quel “regno”, ossia sull’“altro mondo”. Ancor più
ce ne sono in tutto il Nuovo Testamento. Sembra, tuttavia, che per chiarire che cosa sia il Regno dei cieli per
coloro che a motivo di esso scelgono la continenza volontaria, abbia un significato particolare la rivelazione
del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa: tra gli altri testi, quindi, è decisivo quello della lettera agli
Efesini 5, 25 ss., su cui ci converrà soprattutto fondarci, quando prenderemo in considerazione il problema
della sacramentalità del matrimonio.
Quel testo è ugualmente valido sia per la teologia del matrimonio sia per la teologia della continenza “per il
Regno”, cioè la teologia della verginità o del celibato. Pare che proprio in quel testo troviamo quasi
concretizzato ciò che Cristo aveva detto ai suoi discepoli, invitando alla continenza volontaria “per il Regno
dei cieli”.
8. In questa analisi è stato già sufficientemente sottolineato che le parole di Cristo - con tutta la loro grande
concisione - sono fondamentali, piene di contenuto essenziale e inoltre caratterizzate da una certa severità.
Non c’è dubbio che Cristo pronuncia la sua chiamata alla continenza nella prospettiva dell’“altro mondo”,
ma in questa chiamata pone l’accento su tutto ciò in cui si esprime il realismo temporale della decisione a
una tale continenza, decisione collegata con la volontà di partecipare all’opera redentrice di Cristo.
Così dunque, alla luce delle rispettive parole di Cristo riportate da Matteo (cf. Mt 19, 11-12), emergono
soprattutto la profondità e la serietà della decisione di vivere nella continenza “per il regno”, e trova
espressione il momento della rinuncia che tale decisione implica.
Indubbiamente, attraverso tutto ciò, attraverso la serietà e profondità della decisione, attraverso la severità e
la responsabilità che essa comporta, traspare e traluce l’amore: l’amore come disponibilità del dono
esclusivo di sé per il “regno di Dio”. Tuttavia, nelle parole di Cristo tale amore sembra essere velato da ciò
che è invece posto in primo piano. Cristo non nasconde ai suoi discepoli il fatto che la scelta della continenza
“per il Regno dei cieli” è - vista nelle categorie della temporalità - una rinuncia. Quel modo di parlare ai
discepoli, che formula chiaramente la verità del suo insegnamento e delle esigenze contenute in esso, è
significativo per tutto il Vangelo; ed è appunto esso a conferirgli, tra l’altro, un marchio e una forza così
convincenti.
9. È proprio del cuore umano accettare esigenze, perfino difficili, in nome dell’amore per un ideale e
soprattutto in nome dell’amore verso la persona (l’amore, infatti, è per essenza orientato verso la persona). E
perciò in quella chiamata alla continenza “per il Regno dei cieli”, prima gli stessi discepoli e poi tutta la viva
Tradizione della Chiesa scopriranno presto l’amore che si riferisce a Cristo stesso come Sposo della Chiesa,
Sposo delle anime, alle quali egli ha donato se stesso sino alla fine, nel mistero della sua Pasqua e
dell’Eucaristia.
In tal modo la continenza “per il Regno dei cieli”, la scelta della verginità o del celibato per tutta la vita, è
divenuta nell’esperienza dei discepoli e dei seguaci di Cristo l’atto di una risposta particolare
dell’amore dello Sposo Divino, e perciò ha acquisito il significato di un atto di amore sponsale: cioè di una
donazione sponsale di sé, al fine di ricambiare in modo particolare l’amore sponsale del Redentore; una
donazione di sé intesa come rinuncia, ma fatta soprattutto per amore.

Mercoledì, 28 aprile 1982

1. “Vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il Regno dei cieli”: così si esprime Cristo secondo il Vangelo di
Matteo (Mt 19, 12).
È proprio del cuore umano accettare esigenze, perfino difficili, in nome dell’amore per un ideale e
soprattutto in nome dell’amore verso una persona (l’amore infatti, per essenza, è orientato verso la persona).
E perciò nella chiamata alla continenza “per il Regno dei cieli”, prima gli stessi Discepoli e poi tutta la viva
Tradizione scopriranno presto quell’amore che si riferisce a Cristo stesso come Sposo della Chiesa e Sposo
delle anime, alle quali egli ha donato se stesso sino alla fine, nel mistero della sua Pasqua e nell’Eucaristia.
In tal modo, la continenza “per il Regno dei cieli”, la scelta della verginità o del celibato per tutta la vita, è
divenuta nell’esperienza dei discepoli e dei seguaci di Cristo un atto di risposta particolare all’amore dello

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Sposo Divino e perciò ha acquisito il significato di un atto di amore sponsale, cioè di una donazione
sponsale di sé, al fine di ricambiare in modo speciale l’amore sponsale del Redentore; una donazione di sé,
intesa come rinuncia, ma fatta soprattutto per amore.
2. Abbiamo così ricavato tutta la ricchezza del contenuto, di cui è carico il pur conciso, ma insieme tanto
profondo enunciato di Cristo sulla continenza “per il Regno dei cieli”; ma ora conviene prestare attenzione al
significato che hanno queste parole per la teologia del corpo, così come abbiamo cercato di presentarne e
ricostruirne i fondamenti biblici “dal principio”. Appunto l’analisi di quel “principio” biblico a cui Cristo si è
riferito nel colloquio con i Farisei sul tema del matrimonio, della sua unità e indissolubilità (cf. Mt 19, 3-9)
- poco prima di rivolgere al suoi discepoli le parole sulla continenza “per il Regno dei cieli” (Mt 19, 10-12) -
ci consente di ricordare la profonda verità sul significato sponsale del corpo umano nella sua mascolinità e
femminilità, come l’abbiamo dedotta a suo tempo dall’analisi dei primi capitoli della Genesi (cf.
speciatim Gen 2, 23-25). Proprio così occorreva formulare e precisare ciò che troviamo in quegli antichi
testi.
3. La mentalità contemporanea si è abituata a pensare e parlare soprattutto dell’istinto sessuale, trasferendo
sul terreno della realtà umana ciò che è proprio del mondo degli esseri viventi, gli “animalia”. Ora, una
approfondita riflessione sul conciso testo del capitolo primo e secondo della Genesi ci permette di stabilire,
con certezza e convinzione, che sin “dal principio” viene delineato nella Bibbia un limite molto chiaro e
univoco tra il mondo degli animali (“animalia”) e l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. In quel
testo, pur molto breve relativamente, c’è tuttavia abbastanza spazio per dimostrare che l’uomo ha una chiara
coscienza di ciò che lo distingue in modo essenziale da tutti gli esseri viventi (“animalia”).
4. Quindi, l’applicazione all’uomo di questa categoria, sostanzialmente naturalistica, che è racchiusa nel
concetto e nell’espressione di “istinto sessuale”, non è del tutto appropriata ed adeguata. È ovvio che tale
applicazione può avvenire in base ad una certa analogia; infatti, la particolarità dell’uomo nei confronti di
tutto il mondo degli esseri viventi (“animalia”) non è tale che l’uomo, inteso dal punto di vista della specie,
non possa essere fondamentalmente qualificato anche come “animal”, ma “animal rationale”. Perciò,
nonostante questa analogia, l’applicazione del concetto di “istinto sessuale” all’uomo - data la dualità in cui
egli esiste come maschio o femmina - limita tuttavia grandemente, e in certo senso “sminuisce”, ciò che è la
stessa mascolinità-femminilità nella dimensione personale della soggettività umana. Limita e “sminuisce”
anche ciò per cui ambedue, l’uomo e la donna, si uniscono così da esser una sola carne (cf. Gen 2, 24). Per
esprimere ciò in modo appropriato ed adeguato, bisogna servirsi anche di un’analisi diversa da quella
naturalistica. Ed è proprio lo studio del “principio” biblico che ci obbliga a far questo in maniera
convincente. La verità sul significato sponsale del corpo umano nella sua mascolinità e femminilità, dedotta
dai primi capitoli della Genesi (cf. speciatim Gen 2, 23-25), ossia la scoperta ad un tempo del significato
sponsale del corpo nella struttura personale della soggettività dell’uomo e della donna, sembra essere in
questo ambito un concetto chiave, e insieme il solo appropriato ed adeguato.
5. Orbene, appunto in relazione a questo concetto, a questa verità sul significato sponsale del corpo umano,
bisogna rileggere ed intendere le parole di Cristo circa la continenza “per il Regno dei cieli”, pronunciate
nell’immediato contesto di quel riferimento al “principio”, sul quale egli ha fondato la sua dottrina circa
l’unità e l’indissolubilità del matrimonio. Alla base della chiamata di Cristo alla continenza sta non solo
l’“istinto sessuale”, quale categoria di una necessità, direi, naturalistica, ma anche la consapevolezza della
libertà del dono, che è organicamente connessa alla profonda e matura coscienza del significato sponsale del
corpo, nella totale struttura della soggettività personale dell’uomo e della donna. Soltanto in relazione ad un
tale significato della mascolinità e femminilità della persona umana, la chiamata alla continenza
volontaria “per il Regno dei cieli” trova piena garanzia e motivazione. Soltanto ed esclusivamente in tale
prospettiva Cristo dice: “Chi può capire, capisca” (Mt 19, 12); con ciò, egli indica che tale continenza -
sebbene in ogni caso sia soprattutto un “dono” - può essere anche “capita”, cioè ricavata e dedotta dal
concetto che l’uomo ha del proprio “io” psicosomatico nella sua interezza, e in particolare della mascolinità e
femminilità di questo “io” nel reciproco rapporto, che è come “per natura” inscritto in ogni soggettività
umana.
6. Come ricordiamo dalle analisi precedenti, svolte in base al libro della Genesi (Gen 2, 23-25), quel
reciproco rapporto della mascolinità e femminilità, quel reciproco “per” dell’uomo e della donna può essere
inteso in modo appropriato ed adeguato solo nell’insieme dinamico del soggetto personale. Le parole di
Cristo in Matteo (cf. Mt 19, 11-12) mostrano in seguito che quel “per”, presente “dal principio” alla base del

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matrimonio, può anche stare alla base della continenza “per” il Regno dei cieli! Poggiandosi sulla stessa
disposizione del soggetto personale, grazie a cui l’uomo si ritrova pienamente attraverso un dono sincero di
sé (Gaudium et Spes, 24) l’uomo (maschio o femmina) è capace di scegliere la donazione personale di se
stesso, fatta ad un’altra persona nel patto coniugale, in cui essi divengono “una sola carne”, ed è anche
capace di rinunciare liberamente a tale donazione di sé ad un’altra persona, affinché, scegliendo la
continenza “per il Regno dei cieli”, possa donare se stesso totalmente a Cristo. In base alla stessa
disposizione del soggetto personale e in base allo stesso significato sponsale dell’essere, in quanto corpo,
maschio o femmina, può plasmarsi l’amore che impegna l’uomo al matrimonio nella dimensione di tutta la
vita (cf. Mt 19, 3-10), ma può anche plasmarsi l’amore che impegna l’uomo per tutta la vita alla continenza
“per il Regno dei cieli” (cf. Mt 19, 11-12). Proprio di questo parla Cristo nell’insieme del suo enunciato,
rivolgendosi ai Farisei (cf. Mt 19, 3-10) e poi ai Discepoli (cf. Mt 19, 11-12).
7. È evidente che la scelta del matrimonio, così come esso è stato istituito dal Creatore “da principio”,
suppone la presa di coscienza e l’accettazione interiore del significato sponsale del corpo, collegato con la
mascolinità e femminilità della persona umana. Proprio questo infatti è espresso in modo lapidario nei
versetti del libro della Genesi. Nell’ascoltare le parole di Cristo, rivolte ai Discepoli sulla continenza “per il
Regno dei cieli” (cf. Mt 19, 11-12), non possiamo pensare che quel secondo genere di scelta possa esser fatto
in modo cosciente e libero senza un riferimento alla propria mascolinità o femminilità ed a quel significato
sponsale, che è proprio dell’uomo appunto nella mascolinità o femminilità del suo essere soggetto personale.
Anzi, alla luce delle parole di Cristo, dobbiamo ammettere che quel secondo genere di scelta, cioè la
continenza per il regno di Dio, si attua pure in rapporto alla mascolinità o femminilità propria della persona
che fa tale scelta; si attua in base alla piena coscienza di quel significato sponsale, che la mascolinità e la
femminilità contengono in sé. Se tale scelta si attuasse per via di un qualche artificioso “prescindere” da
questa reale ricchezza di ogni soggetto umano, essa non risponderebbe in modo appropriato ed adeguato al
contenuto delle parole di Cristo in Matteo 19, 11-12.
Cristo richiede qui esplicitamente una piena comprensione, quando dice: “Chi può capire, capisca” (Mt 19,
12).

Mercoledì, 5 maggio 1982

1. Nel rispondere alle domande dei Farisei sul matrimonio e la sua indissolubilità, Cristo si è riferito al
“principio”, cioè alla sua originaria istituzione da parte del Creatore. Dato che i suoi interlocutori si sono
richiamati alla legge di Mosè, che prevedeva la possibilità della cosiddetta “lettera di ripudio”, egli rispose:
“Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu
così” (Mt 19, 8).
Dopo il colloquio con i Farisei, i discepoli di Cristo si sono rivolti a lui con le seguenti parole: “Se questa è la
condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi. Egli rispose loro: Non tutti possono capirlo,
ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve
ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il Regno
dei cieli. Chi può capire, capisca” (Mt 19, 10-20).
2. Le parole di Cristo alludono indubbiamente ad una cosciente e volontaria rinuncia al matrimonio. Tale
rinuncia è possibile soltanto quando si ammette un’autentica coscienza di quel valore che è costituito dalla
disposizione sponsale della mascolinità e femminilità al matrimonio. Perché l’uomo possa essere
pienamente consapevole di ciò che sceglie (la continenza per il Regno), deve essere anche pienamente
consapevole di ciò a cui rinuncia (si tratta qui proprio della coscienza del valore in senso “ideale”;
nondimeno questa coscienza è del tutto “realistica”). Cristo esige certamente, in questo modo, una scelta
matura. Lo comprova, senza alcun dubbio, la forma in cui viene espressa la chiamata alla continenza per il
Regno dei cieli.
3. Ma non basta una rinuncia pienamente consapevole al suddetto valore. Alla luce delle parole di Cristo,
come pure alla luce di tutta l’autentica tradizione cristiana, è possibile dedurre che tale rinuncia è ad un

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tempo una particolare forma di affermazione di quel valore, da cui la persona non sposata si astiene
coerentemente, seguendo il consiglio evangelico. Ciò può sembrare un paradosso. È noto, tuttavia, che il
paradosso accompagna numerosi enunciati del Vangelo, e spesso quelli più eloquenti e profondi. Accettando
un tale significato della chiamata alla continenza “per Regno dei cieli”, traiamo una conclusione corretta,
sostenendo che la realizzazione di questa chiamata serve anche - e in modo particolare - alla conferma del
significato sponsale del corpo umano nella sua mascolinità e femminilità. La rinuncia al matrimonio per il
regno di Dio mette in evidenza al tempo stesso quel significato in tutta la sua verità interiore e in tutta la sua
personale bellezza. Si può dire che questa rinuncia da parte delle singole persone, uomini e donne, sia in un
certo senso indispensabile, affinché lo stesso significato sponsale del corpo sia più facilmente riconosciuto in
tutto l’ethos della vita umana e soprattutto nell’ethos della vita coniugale e familiare.
4. Così, dunque, sebbene la continenza “per il Regno dei cieli” (la verginità, il celibato) orienti la vita delle
persone che la scelgono liberamente al di fuori della via comune della vita coniugale e familiare, tuttavia non
rimane senza significato per questa vita: per il suo stile, il suo valore e la sua autenticità evangelica. Non
dimentichiamo che l’unica chiave per comprendere la sacramentalità del matrimonio è l’amore sponsale di
Cristo verso la Chiesa (cf. Ef 5, 22-23): di Cristo figlio della vergine, il quale era lui stesso vergine, cioè
“eunuco per il Regno dei cieli”, nel senso più perfetto del termine. Ci converrà riprendere questo argomento
più tardi.
5. Alla fine di queste riflessioni rimane ancora un problema concreto: in che modo nell’uomo, a cui “è stata
concessa” la chiamata alla continenza per il Regno, tale chiamata si forma sulla base della coscienza del
significato sponsale del corpo nella sua mascolinità e femminilità, e, in più, come frutto di tale coscienza? In
quale modo si forma o piuttosto si “trasforma”? Questa domanda è parimente importante, sia dal punto di
vista della teologia del corpo, sia dal punto di vista dello sviluppo della personalità umana, che è di carattere
personalistico e carismatico insieme. Se volessimo rispondere a tale domanda in modo esauriente - nella
dimensione di tutti gli aspetti e di tutti i problemi concreti, che essa racchiude - bisognerebbe fare uno studio
apposito sul rapporto tra il matrimonio e la verginità e tra il matrimonio e il celibato. Questo però
oltrepasserebbe i limiti delle presenti considerazioni.
6. Rimanendo nell’ambito delle parole di Cristo secondo Matteo (Mt 19, 11-12), occorre concludere le nostre
riflessioni con l’affermare ciò che segue. Primo: se la continenza “per il Regno dei cieli” significa
indubbiamente una rinuncia, tale rinuncia è ad un tempo una affermazione: quella che deriva dalla
scoperta del “dono”, cioè ad un tempo dalla scoperta di una nuova prospettiva della realizzazione personale
di se stessi “attraverso un dono sincero di sé” (Gaudium et Spes, 24); questa scoperta sta allora in una
profonda armonia interiore con il senso del significato sponsale del corpo, collegato “dal principio” alla
mascolinità o femminilità dell’uomo quale soggetto personale. Secondo: sebbene la continenza “per il Regno
dei cieli” si identifichi con la rinuncia al matrimonio - che nella vita di un uomo e di una donna dà inizio alla
famiglia -, non si può in alcun modo vedere in essa una negazione del valore essenziale del matrimonio; anzi,
al contrario, la continenza serve indirettamente a porre in rilievo ciò che nella vocazione coniugale è perenne
e più profondamente personale, ciò che nelle dimensioni della temporalità (ed insieme nella prospettiva
dell’“altro mondo”) corrisponde alla dignità del dono personale, collegato al significato sponsale del corpo
nella sua mascolinità o femminilità.
7. In tal modo, la chiamata di Cristo alla continenza “per il Regno dei cieli”, giustamente associata al
richiamo alla futura risurrezione (cf. Mt 21, 24-30; Mc 12, 18-27; Lc 20, 27-40), ha un significato capitale
non soltanto per l’ethos e la spiritualità cristiana, ma anche per l’antropologia e per tutta la teologia del
corpo, che scopriamo alle sue basi. Ricordiamo che Cristo, richiamandosi alla risurrezione del corpo
nell’“altro mondo”, disse, secondo la versione dei tre Vangeli Sinottici: “Quando risusciteranno dai morti . . .
non prenderanno moglie né marito . . .” (Mc 12, 25). Queste parole, già prima analizzate, fanno parte
dell’insieme delle nostre considerazioni sulla teologia del corpo e contribuiscono alla sua costruzione.

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Mercoledì, 23 giugno 1982

1. Dopo aver fatto l’analisi delle parole di Cristo, riferite dal Vangelo secondo Matteo (Mt 19, 10-12),
conviene passare all’interpretazione paolina del tema: verginità e matrimonio.
L’enunciato di Cristo sulla continenza per il Regno dei cieli è conciso e fondamentale. Nell’insegnamento di
Paolo, come ci convinceremo fra poco, possiamo individuare un correlato delle parole del Maestro; tuttavia il
significato della sua enunciazione (1 Cor 7) nel suo insieme va valutato in modo diverso. La grandezza
dell’insegnamento di Paolo consiste nel fatto che egli, presentando la verità proclamata da Cristo in tutta la
sua autenticità ed identità, le dà un proprio timbro, in un certo senso la propria interpretazione “personale”,
ma che è sorta soprattutto dalle esperienze della sua attività apostolico-missionaria, e forse addirittura dalla
necessità di rispondere alle domande concrete degli uomini, ai quali quest’attività era indirizzata. E così
incontriamo in Paolo la questione del rapporto reciproco tra il matrimonio e il celibato o la verginità,
quale tema che travagliava gli animi della prima generazione dei confessori di Cristo, la generazione dei
discepoli degli apostoli, delle prime comunità cristiane. Ciò accadeva per i convertiti dall’ellenismo, quindi
dal paganesimo, più che dal giudaismo; e questo può spiegare il fatto che il tema sia presente appunto in una
lettera diretta alla comunità di Corinto, la prima.
2. Il dono dell’intero enunciato è senza dubbio magisteriale; tuttavia, il tono come il linguaggio è anche
pastorale. Paolo insegna la dottrina trasmessa dal Maestro agli apostoli e, ad un tempo, intrattiene come un
continuo colloquio con i destinatari della sua lettera sul tema in questione. Parla come un classico maestro di
morale, affrontando e risolvendo problemi di coscienza, e perciò i moralisti amano rivolgersi di preferenza ai
chiarimenti e alle deliberazioni di questa prima lettera ai Corinzi (cf. 1 Cor 7). Bisogna però ricordare che la
base ultima di quelle deliberazioni va cercata nella vita e nell’insegnamento di Cristo stesso.
3. L’Apostolo sottolinea, con grande chiarezza, che la verginità, ossia la continenza volontaria, deriva
esclusivamente da un consiglio e non da un comandamento: “Quanto alle vergini, non ho alcun comando dal
Signore, ma do un consiglio”. Paolo dà questo consiglio “come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore
e merita fiducia” (cf. 1 Cor 7, 25). Come si vede dalle parole citate, l’Apostolo distingue, così come il
Vangelo (cf. Mt 19, 11-12), tra consiglio e comandamento. Egli, in base alla regola “dottrinale” della
comprensione dell’insegnamento proclamato, vuole consigliare, desidera dare consigli personali agli uomini
che si rivolgono a lui, Così, dunque, il “consiglio” ha chiaramente nella prima lettera ai Corinzi (cf. 1
Cor 7) due diversi significati. L’Autore afferma che la verginità è un consiglio e non un comandamento, e, in
pari tempo, dà consigli sia alle persone già sposate, sia a coloro che debbono prendere ancora una decisione
al riguardo, e infine a quanti sono nello stato di vedovanza. La problematica è sostanzialmente uguale a
quella che incontriamo in tutto l’enunciato di Cristo riportato da Matteo (cf. Mt 19, 2-12): prima sul
matrimonio e la sua indissolubilità, e poi sulla continenza volontaria per il Regno dei cieli. Tuttavia, lo
stile di tale problematica è del tutto proprio: è di Paolo.
4. “Se però qualcuno ritiene di non regolarsi convenientemente nei riguardi della sua vergine, qualora essa
sia oltre il fiore dell’età, e conviene che accada così, faccia ciò che vuole: non pecca. Si sposino pure! Chi
invece è fermamente deciso in cuor suo, non avendo nessuna necessità, ma è arbitro della propria volontà, ed
ha deliberato in cuor suo di conservare la sua vergine, fa bene. In conclusione, colui che sposa la sua vergine
fa bene e chi non la sposa fa meglio” (1 Cor 7, 36-38).
5. Chi aveva chiesto consiglio poteva essere un giovane, che si era trovato davanti alla decisione di prendere
moglie, o forse un novello sposo, che di fronte a correnti ascetiche esistenti a Corinto rifletteva sulla linea da
dare al suo matrimonio; poteva essere anche un padre o il tutore di una ragazza, che aveva posto il problema
del matrimonio di lei. In tale caso, si tratterebbe direttamente della decisione che derivava dai suoi diritti
tutelari. Paolo scrive, infatti, in tempi in cui le decisioni del genere appartenevano più ai genitori o ai tutori
che non ai giovani stessi. Egli, dunque, nel rispondere alla domanda in tal modo a lui
rivolta, cerca di spiegare, in maniera molto precisa, che la decisione circa la continenza, ossia circa la vita
nella verginità, deve essere volontaria e che solo una tale continenza è migliore del matrimonio. Le
espressioni: “fa bene”, “fa meglio”, sono in questo contesto completamente univoche.
6. Orbene, l’Apostolo insegna che la verginità, ossia la continenza volontaria, l’astenersi della giovane
dal matrimonio, deriva esclusivamente da un consiglio e che, nelle condizioni opportune, essa è “migliore”
del matrimonio. Non vi subentra, invece, in alcun modo la questione del peccato: “Ti trovi legato a una
donna? Non cercare di scioglierti. Sei libero da donna? Non andare a cercarla. Però se ti sposi non fai

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peccato; e se la giovane prende marito, non fa peccato” (1 Cor 7, 27-28). In base solo a queste parole, non
possiamo certamente formulare giudizi su ciò che l’Apostolo pensava e insegnava circa il matrimonio.
Questo tema si spiegherà già in parte nel contesto della prima lettera ai Corinzi ( 1 Cor 7) e in maniera più
piena nella lettera agli Efesini (Ef 5, 21-23). Nel nostro caso, si tratta probabilmente della risposta alla
domanda se il matrimonio sia peccato; e si potrebbe anche pensare che in una tale domanda ci sia qualche
influsso di correnti dualistiche pregnostiche, che più tardi si trasformarono in encratismo e manicheismo.
Paolo risponde che qui non entra assolutamente in gioco la questione del peccato. Non si tratta del
discernimento tra “bene” o “male”, ma soltanto tra “bene” o “meglio”. In seguito, egli passa a motivare
perché chi sceglie il matrimonio “fa bene” e chi sceglie la verginità, ossia la continenza volontaria, “fa
meglio”. Dell’argomentazione paolina ci occuperemo durante la nostra prossima riflessione.

Mercoledì, 30 giugno 1982

1. San Paolo, spiegando nel capitolo settimo della sua prima lettera ai Corinzi la questione dal matrimonio e
della verginità (ossia della continenza per il Regno di Dio), cerca di motivare la causa per cui chi sceglie il
matrimonio fa “bene” e chi, invece, si decide ad una vita nella continenza, ossia nella verginità, fa “meglio”.
Scrive infatti così: “Questo vi dico fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno
moglie, vivano come se non l’avessero . . .”; e poi: “quelli che comprano, come se non possedessero; quelli
che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo! Io vorrei
vedervi senza preoccupazioni . . .” (1 Cor 7, 29.30-32).
2. Le ultime parole del testo citato dimostrano che Paolo si riferisce nella sua argomentazione anche alla
propria esperienza, per cui la sua argomentazione diventa più personale. Non solo formula il principio e
cerca di motivarlo come tale, ma si allaccia alle riflessioni e alle convinzioni personali, nate dalla pratica del
consiglio evangelico del celibato. Della loro forza persuasiva testimoniano le singole espressioni e locuzioni.
L’Apostolo non soltanto scrive ai suoi Corinzi: “Vorrei che tutti fossero come me” (1 Cor 7, 7), ma va oltre,
quando, in riferimento agli uomini che contraggono il matrimonio, scrive: “Tuttavia costoro avranno
tribolazioni nella carne, e io vorrei risparmiarvele” (1 Cor 7, 28). Del resto questa sua convinzione personale
era già espressa nelle prime parole del capitolo settimo della stessa lettera, riferendo, sia pure per
modificarla, questa opinione dei Corinzi: “Quanto poi alle cose che mi avete scritto, è cosa buona per l’uomo
non toccare donna . . .” (1 Cor 7, 1).
3. Ci si può porre la domanda: quali “tribolazioni nella carne” Paolo aveva in mente? Cristo parlava solo
delle sofferenze (ovvero “afflizioni”), che prova la donna quando deve dare “alla luce il bambino”,
sottolineando tuttavia la gioia (cf. Gv 16, 21) di cui ella si allieta come compenso di queste sofferenze, dopo
la nascita del figlio: la gioia della maternità. Paolo, invece, scrive delle “tribolazioni del corpo”, che
attendono i coniugi. Sarà questa l’espressione di una avversione personale dell’Apostolo nei riguardi del
matrimonio? In questa osservazione realistica bisogna vedere un giusto avvertimento per coloro che - come a
volte i giovani - ritengono che l’unione e la convivenza coniugale debbono apportare loro soltanto felicità e
gioia. L’esperienza della vita dimostra che i coniugi rimangono non di rado delusi in ciò che maggiormente si
aspettavano. La gioia dell’unione porta con sé anche quelle “tribolazioni nella carne”, di cui scrive
l’Apostolo nella lettera ai Corinzi. Queste sono spesso “tribolazioni” di natura morale. Se egli intende dire
con questo che il vero amore coniugale - proprio quello in virtù del quale “l’uomo . . . si unirà a sua moglie e
i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24) - è anche un amore difficile, certo rimane sul terreno della verità
evangelica e non vi è alcuna ragione per scorgervi sintomi dell’atteggiamento che, più tardi, doveva
caratterizzare il manicheismo.
4. Cristo, nelle sue parole circa la continenza per il Regno di Dio, non cerca in alcun modo di avviare gli
ascoltatori al celibato o alla verginità, indicando loro “le tribolazioni” del matrimonio. Piuttosto si percepisce
che egli cerca di mettere in rilievo diversi aspetti, umanamente penosi, del decidersi alla continenza: sia la
ragione sociale, sia le ragioni di natura soggettiva, inducono Cristo a dire dell’uomo che prende una tale

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decisione, che egli si fa “eunuco”, cioè volontariamente abbraccia la continenza. Ma proprio grazie a ciò,
balza molto chiaramente tutto il significato soggettivo, la grandezza e l’eccezionalità di una tale decisione: il
significato di una risposta matura a un particolare dono dello Spirito.
5. Non diversamente intende il consiglio di continenza san Paolo nella lettera ai Corinzi, ma egli lo esprime
in modo diverso. Infatti scrive: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve . . .” (1 Cor 7, 29), e
poco più avanti: “Passa la scena di questo mondo . . .” (1 Cor 7, 31). Questa constatazione circa la caducità
dell’esistenza umana e la transitorietà del mondo temporale, in un certo senso circa l’accidentalità di tutto
ciò che è creato, deve far sì che “quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero” (1 Cor 7, 29; cf. 7,
31), e insieme preparare il terreno per l’insegnamento sulla continenza. Nel centro del suo ragionamento,
infatti, Paolo mette la frase-chiave che può essere unita all’enunziato di Cristo, unico nel suo genere, sul
tema della continenza per il Regno di Dio (cf. Mt 19, 12).
6. Mentre Cristo mette in rilievo la grandezza della rinuncia, inseparabile da una tale decisione, Paolo
dimostra soprattutto come bisogna intendere il “Regno di Dio”, nella vita dell’uomo, il quale ha rinunciato al
matrimonio in vista di esso. E mentre il triplice parallelismo dell’enunziato di Cristo raggiunge il punto
culminante nel verbo che significa la grandezza della rinuncia assunta volontariamente (“e vi sono altri che si
sono fatti eunuchi per il Regno dei cieli”) (Mt 19, 12), Paolo definisce la situazione con una sola parola: “Chi
non è sposato” (àgamos); più avanti invece rende tutto il contenuto dell’espressione “Regno dei cieli” in una
splendida sintesi. Dice, infatti: “Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al
Signore” (1 Cor 7, 32). Ogni parola di questo enunziato merita una speciale analisi.
7. Il contesto del verbo “preoccuparsi” o “cercare” nel Vangelo di Luca, discepolo di Paolo, indica che
veramente bisogna cercare soltanto il Regno di Dio (cf. Lc 12,31), ciò che costituisce “la parte migliore”,
l’“unum necessarium” (cf. Lc 10, 41). E Paolo stesso parla direttamente della sua “preoccupazione per tutte
le Chiese” (2 Cor 11, 28), della ricerca di Cristo mediante la sollecitudine per i problemi dei fratelli, per i
membri del Corpo di Cristo (cf. Fil 2, 20-21; 1 Cor 12, 25). Già da questo contesto emerge tutto il vasto
campo della “preoccupazione”, alla quale l’uomo non sposato può dedicare totalmente il suo pensiero, la sua
fatica e il suo cuore. L’uomo, infatti, può “preoccuparsi” soltanto di ciò che veramente gli sta a cuore.
8. Nell’enunziato di Paolo, chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore ( tà toû kyrìou). Con questa
concisa espressione Paolo abbraccia l’intera oggettiva realtà del Regno di Dio.
“Del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene”, dirà egli stesso poco più avanti in questa lettera ( 1
Cor 10, 26; cf. Sal 23 [24], 1).
L’oggetto della sollecitudine del cristiano è tutto il mondo! Ma Paolo con il nome di “Signore” qualifica
prima di tutto Gesù Cristo (cf. ex. gr., Fil 2, 11), e perciò “le cose del Signore” significano in primo luogo “il
Regno di Cristo”, il suo Corpo che è la Chiesa (cf. Col 1, 18) e tutto ciò che contribuisce alla sua crescita. Di
tutto ciò si preoccupa l’uomo non sposato e perciò Paolo, essendo nel pieno senso della parola “apostolo di
Gesù Cristo” (1 Cor 1, 1) e ministro del Vangelo (cf. Col 1, 23), scrive ai Corinzi: “Vorrei che tutti fossero
come me” (1 Cor 7, 7).
9. Tuttavia, lo zelo apostolico e l’attività più fruttuosa non esauriscono ancora ciò che si contiene nella
motivazione paolina della continenza. Si potrebbe perfino dire che la loro radice e sorgente si trova nella
seconda parte della frase, che dimostra la realtà soggettiva del Regno di Dio: “Chi non è sposato si preoccupa
. . ., come possa piacere al Signore”. Questa constatazione abbraccia tutto il campo della relazione personale
dell’uomo con Dio. “Piacere a Dio” - l’espressione si trova in antichi libri della Bibbia (cf. ex gr., Dt 13, 19)
- è sinonimo di vita nella grazia di Dio, ed esprime l’atteggiamento di colui che cerca Dio, ossia di chi si
comporta secondo la sua volontà, così da essergli gradito. In uno degli ultimi libri della Sacra Scrittura
questa espressione diventa una sintesi teologica della santità. San Giovanni l’applica una sola volta a Cristo:
“Io faccio sempre le cose che gli (al Padre) sono gradite” (Gv8, 29). San Paolo osserva nella lettera ai
Romani che Cristo “non cercò di piacere a se stesso” (Rm 15, 3).
Tra queste due constatazioni si racchiude tutto ciò che costituisce il contenuto del “piacere a Dio”, inteso nel
Nuovo Testamento come il seguire le orme di Cristo.
10. Sembra che ambedue le parti dell’espressione paolina si sovrappongano: infatti, preoccuparsi di ciò che
“appartiene al Signore”, delle “cose del Signore”, deve “piacere al Signore”. D’altra parte, colui che piace a
Dio non può rinchiudersi in se stesso, ma si apre al mondo, a tutto ciò che è da ricondurre a Cristo. Questi
sono, evidentemente, solo due aspetti della stessa realtà di Dio e del suo Regno. Paolo, tuttavia, doveva

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distinguerli, per dimostrare più chiaramente la natura e la possibilità della continenza “per il Regno dei
cieli”.
Cercheremo di ritornare ancora su questo tema.

Mercoledì, 7 luglio 1982

1. Durante l’incontro di mercoledì scorso, abbiamo cercato di approfondire l’argomentazione, di cui si serve
san Paolo nella prima lettera ai Corinzi per convincere i suoi destinatari che colui che sceglie il matrimonio
fa “bene” e chi invece sceglie la verginità (ossia la continenza secondo lo spirito del consiglio evangelico) fa
“meglio” (1 Cor 7, 38). Continuando oggi questa meditazione, ricordiamo che secondo san Paolo “chi non è
sposato si preoccupa . . . come possa piacere al Signore” (1 Cor 7, 32).
Il “piacere al Signore” ha, come sfondo, l’amore. Questo sfondo emerge da un ulteriore confronto: chi non è
sposato si preoccupa di come piacere a Dio, mentre l’uomo sposato deve preoccuparsi anche di come
accontentare la moglie. Qui appare, in un certo senso, il carattere sponsale della “continenza per il regno di
Dio”. L’uomo cerca sempre di piacere alla persona amata. Il “piacere a Dio” non è quindi privo di questo
carattere, che distingue la relazione interpersonale degli sposi. Da una parte, esso è uno sforzo dell’uomo che
tende a Dio e cerca il modo di piacergli, cioè di esprimere attivamente l’amore; d’altra parte, a
quest’aspirazione corrisponde un gradimento di Dio che, accettando gli sforzi dell’uomo, corona la propria
opera col dare una nuova grazia: sin dall’inizio, infatti, quest’aspirazione è stata suo dono. Il “preoccuparsi
(di) come piacere a Dio” è quindi un contributo dell’uomo al continuo dialogo della salvezza, iniziato da
Dio. Evidentemente ad esso prende parte ogni cristiano che vive di fede.
2. Paolo osserva, tuttavia, che l’uomo legato col vincolo matrimoniale “si trova diviso” (1 Cor 7, 34) a causa
dei suoi doveri familiari (cf. 1 Cor 7, 34). Da questa constatazione sembra quindi risultare che la persona non
sposata dovrebbe essere caratterizzata da una integrazione interiore, da una unificazione, che gli
permetterebbero di dedicarsi completamente al servizio del Regno di Dio in tutte le sue dimensioni. Tale
atteggiamento presuppone l’astensione dal matrimonio, esclusivamente “per il Regno di Dio”, e una vita
indirizzata unicamente a questo scopo. Diversamente, “la divisione” può furtivamente entrare anche nella
vita di un non sposato, il quale, essendo privo da una parte della vita matrimoniale e dall’altra di un chiaro
scopo per cui dovrebbe rinunciare ad essa, potrebbe trovarsi davanti a un certo vuoto.
3. L’Apostolo sembra conoscere bene tutto ciò, e si premura di specificare che egli non vuole “gettare un
laccio” a colui al quale consiglia di non sposarsi, ma lo fa per indirizzarlo a ciò che è degno e che lo tiene
unito al Signore senza distrazioni (cf. 1 Cor 7, 35). Queste parole fanno venire in mente ciò che Cristo
durante l’Ultima Cena, secondo il Vangelo di Luca, dice agli Apostoli: “Voi siete quelli che avete perseverato
con me nelle mie prove (letteralmente, “nelle tentazioni”); e io preparo per voi un Regno, come il Padre l’ha
preparato per me” (Lc 22, 28-29). Chi non è sposato “essendo unito al Signore”, può essere certo che le sue
difficoltà troveranno comprensione: “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le
nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, escluso il peccato” (Eb 4, 15). Ciò permette
alla persona non sposata non tanto di immergersi esclusivamente negli eventuali problemi personali, quanto
di includerli nella grande corrente delle sofferenze di Cristo e del suo Corpo che è la Chiesa.
4. L’Apostolo mostra in che modo si può “essere uniti al Signore”: ciò si può raggiungere aspirando a un
costante permanere con lui, a un gioire della sua presenza (eupáredron), senza lasciarsi distrarre dalle cose
non essenziali (aperispástos) (cf. 1 Cor 7, 35).
Paolo precisa questo pensiero ancor più chiaramente, quando parla della situazione della donna sposata e di
quella che ha scelto la verginità o non ha più il marito. Mentre la donna sposata deve preoccuparsi di “come
possa piacere al marito”, quella non sposata “si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e
nello spirito” (1 Cor 7, 34).
5. Per afferrare in modo adeguato tutta la profondità del pensiero di Paolo, bisogna osservare che la “santità”,
secondo la concezione biblica, è piuttosto uno stato che un’azione; essa ha un carattere innanzitutto

149
ontologico e poi anche morale. Specie nell’Antico Testamento, è una “separazione” da ciò che non è soggetto
all’influenza di Dio, che è “profanum”, per appartenere esclusivamente a Dio. La “santità nel corpo e nello
spirito”, quindi, significa anche la sacralità della verginità o del celibato, accettati per il “Regno di Dio”. E,
contemporaneamente, ciò che è offerto a Dio deve distinguersi con la purezza morale e perciò presuppone un
comportamento “senza macchia né ruga”, “santo e immacolato”, secondo il modello verginale della Chiesa
che sta davanti a Cristo (Ef 5, 27).
L’Apostolo in questo capitolo della lettera ai Corinzi, tocca i problemi del matrimonio e del celibato o della
verginità in modo profondamente umano e realistico, rendendosi conto della mentalità dei suoi destinatari.
L’argomentazione di Paolo è, in una certa misura, “ad hominem”. Il mondo nuovo, il nuovo ordine dei valori
che egli annunzia, deve incontrarsi, nell’ambiente dei suoi destinatari di Corinto, con un altro “mondo” e con
un altro ordine di valori, diverso anche da quello a cui erano giunte, per la prima volta, le parole pronunziate
da Cristo.
6. Se Paolo, con la sua dottrina circa il matrimonio e la continenza, si riferisce anche alla caducità del
mondo e della vita umana in esso, certamente lo fa in riferimento all’ambiente, che, in un certo senso,
era orientato in modo programmatico all’“uso dal mondo”. Quanto significativo è, da questo punto di vista,
il suo appello “a quelli che usano del mondo” perché lo facciano “come se non ne usassero appieno” ( 1
Cor 7, 31). Dal contesto immediato risulta che pure il matrimonio, in quest’ambiente, era inteso come un
modo di “usare il mondo” - diversamente da come lo era stato in tutta la tradizione israelitica (nonostante
alcuni snaturamenti, che Gesù indicò nel colloquio con i Farisei, oppure nel Discorso della montagna).
Indubbiamente, tutto ciò spiega lo stile della risposta di Paolo. L’Apostolo si rendeva ben conto che,
incoraggiando all’astensione dal matrimonio, doveva al tempo stesso mettere in luce un modo di
comprensione del matrimonio che fosse conforme con tutto l’ordine evangelico dei valori. E doveva farlo col
massimo realismo, tenendo cioè davanti agli occhi l’ambiente al quale si rivolgeva, le idee e i modi di
valutare le cose, in esso dominanti.
7. Agli uomini che vivevano in un ambiente, ove il matrimonio era considerato soprattutto come uno dei
modi di “usare del mondo”, Paolo si pronunzia quindi con le significative parole sia circa la verginità o il
celibato (come abbiamo visto), sia anche circa il matrimonio stesso: “Ai non sposati e alle vedove dico: è
cosa buona per loro rimanere come sono io; ma se non sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio
sposarsi che ardere” (1 Cor 7, 8-9). Quasi la stessa idea era stata espressa da Paolo già prima: “Quanto poi
alle cose di cui mi avete scritto, è cosa buona per l’uomo non toccare la donna; tuttavia, per il pericolo
dell’incontinenza, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito” (1 Cor 7, 1-2).
8. Forse che l’Apostolo, nella prima lettera ai Corinzi, guarda il matrimonio esclusivamente dal punto di
vista di un “remedium concupiscentiae”, come si soleva dire nel tradizionale linguaggio teologico? Gli
enunziati riportati poco sopra sembrerebbero testimoniarlo. Intanto, nell’immediata prossimità delle
formulazioni riportate, leggiamo una frase che ci induce a vedere in modo diverso l’insieme
dell’insegnamento di san Paolo, contenuto nel capitolo 7 della prima lettera ai Corinzi: “Vorrei che tutti
fossero come me (egli ripete il suo argomento preferito a favore dell’astensione dal matrimonio); - ma
ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (1 Cor 7, 7). Quindi, anche coloro che
scelgono il matrimonio e vivono in esso ricevono da Dio un “dono”, il “proprio dono”, cioè la grazia propria
di tale scelta, di questo modo di vivere, di questo stato. Il dono ricevuto dalle persone che vivono nel
matrimonio è diverso da quello ricevuto dalle persone che vivono nella verginità e scelgono la continenza
per il Regno di Dio; nondimeno esso è un vero “dono da Dio”, dono “proprio”, destinato a persone concrete,
e “specifico”, cioè adatto alla loro vocazione di vita.
9. Si può quindi dire che, mentre l’Apostolo, nella sua caratterizzazione del matrimonio da parte “umana” (e
forse ancora più da parte della situazione locale che dominava a Corinto) mette fortemente in rilievo la
motivazione “del riguardo alla concupiscenza della carne”, al tempo stesso egli rileva, con non minore forza
di convinzione, anche il suo carattere sacramentale e “carismatico”. Con la stessa chiarezza, con la quale
vede la situazione dell’uomo in rapporto alla concupiscenza della carne, egli vede anche l’azione della grazia
in ogni uomo - in colui che vive nel matrimonio non meno che in colui il quale sceglie volontariamente la
continenza - tenendo presente che “passa la scena di questo mondo”.

150
Mercoledì, 14 luglio 1982

1. Durante le nostre precedenti considerazioni, analizzando il settimo capitolo della prima lettera ai Corinzi,
abbiamo cercato di cogliere e di comprendere gli insegnamenti e i consigli, che san Paolo dà ai destinatari
della sua Lettera sulle questioni riguardanti il matrimonio e la continenza volontaria (ossia l’astensione dal
matrimonio). Affermando che chi sceglie il matrimonio “fa bene” e chi sceglie la verginità “fa meglio”,
l’Apostolo fa riferimento alla caducità del mondo - ossia a tutto ciò che è temporale.
È facile intuire che il motivo della caducità e della labilità di ciò che è temporale, parla, in questo caso, con
molta maggior forza che non il riferimento alla realtà dell’“altro mondo”. Benché l’Apostolo qui si esprima
non senza difficoltà, possiamo, tuttavia, essere d’accordo che alla base dell’interpretazione paolina del tema
“matrimonio-verginità” si trova non tanto la stessa metafisica dell’essere accidentale (quindi passeggero),
quanto piuttosto la teologia di una grande attesa, di cui Paolo fu fervido propugnatore. Non il “mondo” è
l’eterno destino dell’uomo, ma il Regno di Dio. L’uomo non può attaccarsi troppo ai beni che sono a misura
del mondo perituro.
2. Pure il matrimonio è legato con la “scena di questo mondo”, che passa; e qui siamo, in un certo senso,
molto vicini alla prospettiva aperta da Cristo nel suo enunziato circa la futura risurrezione (cf. Mt 22, 23-
32; Mc 12, 18-27; Lc 20, 27-40). Perciò il cristiano, secondo l’insegnamento di Paolo, deve vivere il
matrimonio dal punto di vista della sua vocazione definitiva. E mentre il matrimonio è legato con la scena di
questo mondo che passa e perciò impone, in un certo senso, la necessità di “chiudersi” in questa caducità,
l’astensione dal matrimonio, invece, si potrebbe dire libera da una tale necessità. Proprio per questo
l’Apostolo dichiara che “fa meglio” colui che sceglie la continenza. Benché la sua argomentazione prosegua
su tale strada, tuttavia si mette decisamente in primo piano (come già abbiamo costatato) soprattutto il
problema di “piacere al Signore” e di “preoccuparsi delle cose del Signore”.
3. Si può ammettere che le stesse ragioni parlano in favore di ciò che l’Apostolo consiglia alle donne rimaste
vedove: “La moglie è vincolata per tutto il tempo in cui vive il marito; ma se il marito muore è libera di
sposare chi vuole, purché ciò avvenga nel Signore. Ma se rimane così, a mio parere, è meglio; credo infatti di
avere anch’io lo Spirito di Dio” (1 Cor 7, 39-40). Quindi: rimanga nella vedovanza piuttosto che contrarre
un nuovo matrimonio.
4. Mediante ciò che scopriamo con una lettura perspicace della prima lettera ai Corinzi (specie del capitolo
7), si svela tutto il realismo della teologia paolina del corpo. Se l’Apostolo nella lettera proclama che “il
vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi” (1 Cor 6, 19), al tempo stesso egli è pienamente
consapevole della debolezza e della peccaminosità alle quali l’uomo soggiace, proprio a motivo della
concupiscenza della carne.
Tuttavia, una tale coscienza non gli offusca in alcun modo la realtà del dono di Dio, che viene partecipato sia
da coloro che si astengono dal matrimonio, sia da coloro che prendono moglie o marito. Nel capitolo 7 della
prima lettera ai Corinzi troviamo un chiaro incoraggiamento all’astensione dal matrimonio, la convinzione
che “fa meglio” colui che si decide per essa; ma non troviamo, tuttavia, alcun fondamento per considerare
coloro che vivono nel matrimonio come “carnali”, e coloro invece che, per motivi religiosi, scelgono la
continenza come “spirituali”. Infatti, nell’uno e nell’altro modo di vivere - diremmo oggi: nell’una e
nell’altra vocazione - opera quel “dono” che ciascuno riceve da Dio, cioè la grazia, la quale fa sì che il
corpo è “tempio dello Spirito Santo” e tale rimane, così nella verginità (nella continenza) come anche nel
matrimonio, se l’uomo si mantiene fedele al proprio dono e, conformemente al suo stato, ossia alla sua
vocazione, non “disonora” questo “tempio dello Spirito Santo”, che è il suo corpo.
5. Nell’insegnamento di Paolo, contenuto soprattutto nel capitolo 7 della prima lettera ai Corinzi, non
troviamo nessuna premessa a ciò che più tardi sarà chiamato “manicheismo”. L’Apostolo è pienamente
consapevole che - per quanto la continenza per il Regno di Dio rimanga sempre degna di raccomandazione -
contemporaneamente la grazia, cioè “il proprio dono di Dio”, aiuta anche gli sposi in quella convivenza,
nella quale (secondo le parole della “Genesi” 2, 24) essi sono così strettamente uniti da diventare “una sola
carne”. Questa convivenza carnale è quindi sottoposta alla potenza del loro “proprio dono da Dio”.
L’Apostolo ne scrive con lo stesso realismo, che caratterizza tutto il suo ragionamento nel capitolo 7 di
questa lettera: “Il marito compia il suo dovere verso la moglie; ugualmente anche la moglie verso il marito.

151
La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è arbitro
del proprio corpo, ma lo è la moglie” (1 Cor 3-4).
6. Si può dire che queste formulazioni sono un chiaro commento, da parte del Nuovo Testamento, alle parole
appena ricordate del libro della Genesi (Gen 2, 24). Tuttavia, le parole qui usate, in particolare le
espressioni “dovere” e “non è arbitra (arbitro)”, non possono essere spiegate astraendo dalla giusta
dimensione dell’alleanza matrimoniale, così come abbiamo cercato di chiarirlo facendo l’analisi dei testi del
libro della Genesi; cercheremo di farlo ancor più pienamente, quando parleremo della sacramentalità del
matrimonio in base alla lettera agli Efesini (cf. Ef 5, 22-33). A suo tempo, occorrerà tornare ancora su queste
espressioni significative, che dal vocabolario di san Paolo sono passate in tutta la teologia del matrimonio.
7. Per ora, continuiamo a rivolgere l’attenzione alle altre frasi dello stesso brano del capitolo 7 della prima
lettera ai Corinzi, in cui l’Apostolo rivolge agli sposi le seguenti parole: “Non astenetevi tra voi se non di
comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera, e poi ritornate a stare insieme, perché
satana non vi tenti nei momenti di passione. Questo però vi dico per concessione, non per comando” (1
Cor 7, 5-6). È un testo molto significativo, a cui forse occorrerà fare ancora riferimento nel contesto delle
meditazioni sugli altri temi.
È molto significativo il fatto che l’Apostolo, il quale, in tutta la sua argomentazione circa il matrimonio e la
continenza, fa, come Cristo, una chiara distinzione tra il comandamento e il consiglio evangelico, senta il
bisogno di riferirsi anche alla “concessione”, come ad una regola supplementare e ciò proprio soprattutto in
riferimento ai coniugi e alla loro reciproca convivenza. San Paolo dice chiaramente che sia la convivenza
coniugale, sia la volontaria e periodica astensione dei coniugi deve essere frutto di questo “dono di Dio” che
è loro “proprio”, e che, cooperando consapevolmente con esso, gli stessi coniugi possono mantenere e
rafforzare quel reciproco legame personale e insieme quella dignità che il fatto di essere “tempio dello
Spirito Santo che è in loro” (cf.1 Cor 6, 19) conferisce al loro corpo.
8. Sembra che la regola paolina di “concessione” indichi il bisogno di prendere in considerazione tutto ciò
che, in qualche modo, corrisponde alla soggettività tanto differenziata dell’uomo e della donna. Tutto ciò
che, in questa soggettività, è di natura non soltanto spirituale ma anche psico-somatica, tutta la ricchezza
soggettiva dell’uomo, la quale, tra il suo essere spirituale e quello corporale, si esprime nella sensibilità
specifica sia per l’uomo che per la donna - tutto ciò deve rimanere sotto l’influsso del dono che ciascuno
riceve da Dio, dono che è suo proprio.
Come si vede, san Paolo nel capitolo 7 della prima lettera ai Corinzi interpreta l’insegnamento di Cristo circa
la continenza per il Regno dei cieli in quel modo, molto pastorale, che gli è proprio, non risparmiando in
quest’occasione accenti del tutto personali. Egli interpreta l’insegnamento sulla continenza, sulla verginità,
parallelamente alla dottrina sul matrimonio, conservando il realismo proprio di un pastore e, al tempo stesso,
le proporzioni che troviamo nel Vangelo, nelle parole di Cristo stesso.
9. Nell’enunziato di Paolo si può ritrovare quella fondamentale struttura portante della dottrina rivelata
sull’uomo, che anche con il suo corpo è destinato alla “vita futura”. Questa struttura portante sta alla base di
tutto l’insegnamento evangelico sulla continenza per il Regno di Dio (cf. Mt 19, 12) - ma
contemporaneamente poggia su di essa anche il definitivo (escatologico) compimento della dottrina
evangelica circa il matrimonio (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 36). Queste due dimensioni della vocazione
umana non si oppongono tra di loro, ma sono complementari. Tutte e due forniscono una piena risposta a una
delle fondamentali domande dell’uomo: alla domanda circa il significato di “essere corpo”, cioè circa il
significato della mascolinità e della femminilità, di essere “nel corpo” un uomo o una donna.
10. Ciò che qui di solito definiamo come teologia del corpo si dimostra come qualcosa di veramente
fondamentale e costitutivo per tutta l’ermeneutica antropologica - e al tempo stesso ugualmente
fondamentale per l’etica e per la teologia dell’ethos umano. In ciascuno di questi campi bisogna ascoltare
attentamente non soltanto le parole di Cristo, in cui egli si richiama al “principio” (Mt 19, 4) o al “cuore”
come luogo interiore e contemporaneamente “storico” (cf. Mt 5, 28) dell’incontro con la concupiscenza della
carne - ma dobbiamo ascoltare attentamente anche le parole, mediante le quali Cristo si è richiamato alla
risurrezione per innestare nello stesso irrequieto cuore dell’uomo i primi semi della risposta alla domanda
circa il significato di essere “carne” nella prospettiva dell’“altro mondo”.

152
Mercoledì, 21 luglio 1982

1. “Anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente, aspettando . . . la redenzione
del nostro corpo” (Rm8, 23). San Paolo nella lettera ai Romani vede questa “redenzione del corpo” in una
dimensione antropologica e insieme cosmica . . . La creazione “infatti è stata sottomessa alla caducità”
(Rm 8, 20). Tutta la creazione visibile, tutto il cosmo porta su di sé gli effetti del peccato dell’uomo. “Tutta la
creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8, 22). E contemporaneamente tutta “la
creazione . . . attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” e “nutre la speranza di essere lei pure
liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 19.20-
21).
2. La redenzione del corpo è, secondo Paolo, oggetto della speranza. Questa speranza è stata innestata nel
cuore dell’uomo in un certo senso subito dopo il primo peccato. Basta ricordare le parole del libro della
Genesi, che vengono tradizionalmente definite come il “proto-vangelo” (cf. Gen 3, 15) e quindi, potremmo
dire, come l’inizio della Buona Novella, il primo annunzio della salvezza. La redenzione del corpo si collega,
secondo le parole della lettera ai Romani, proprio con questa speranza, nella quale - come leggiamo - “noi
siamo stati salvati” (Rm 8, 24). Mediante la speranza, che risale agli inizi stessi dell’uomo, la redenzione del
corpo ha la sua dimensione antropologica: è la redenzione dell’uomo. Contemporaneamente essa si irradia,
in un certo senso, su tutta la creazione, che sin dall’inizio è stata legata in modo particolare all’uomo ed a lui
subordinata (cf. Gen 1, 28-30). La redenzione del corpo è, quindi, la redenzione del mondo: ha una
dimensione cosmica.
3. Presentando nella lettera ai Romani l’immagine “cosmica” della redenzione, Paolo di Tarso colloca al suo
stesso centro l’uomo, così come “in principio” questi era stato collocato al centro stesso dell’immagine della
creazione. È proprio l’uomo, sono gli uomini, quelli che possiedono “le primizie dello Spirito”, che gemono
interiormente, aspettando la redenzione del loro corpo (cf. Rm 8, 23). Cristo, che è venuto per svelare
pienamente l’uomo all’uomo rendendogli nota la sua altissima vocazione (cf. Gaudium et Spes,
22), parla nel Vangelo della stessa divina profondità del mistero della redenzione, che proprio in lui trova il
suo specifico soggetto “storico”. Cristo, quindi, parla nel nome di quella speranza, che è stata innestata nel
cuore dell’uomo già nel “proto-vangelo”. Cristo dà compimento a questa speranza, non soltanto con le parole
del suo insegnamento, ma soprattutto con la testimonianza della sua morte e risurrezione. Così, dunque, la
redenzione del corpo si è già compiuta in Cristo. In lui è stata confermata quella speranza, nella quale “noi
siamo stati salvati”. E, al tempo stesso, quella speranza è stata riaperta di nuovo verso il suo definitivo
compimento escatologico. “La rivelazione dei figli di Dio” in Cristo è stata definitivamente indirizzata verso
quella “libertà e gloria”, che devono essere definitivamente partecipate dai “figli di Dio”.
4. Per comprendere tutto ciò che comporta “la redenzione del corpo” secondo la lettera di Paolo ai Romani, è
necessaria una autentica teologia del corpo. Abbiamo cercato di costruirla, riferendoci prima di tutto alle
parole di Cristo. Gli elementi costitutivi della teologia del corpo sono racchiusi in ciò che Cristo dice,
facendo richiamo al “principio”, in relazione alla domanda circa l’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19,
8), in ciò che egli dice della concupiscenza, richiamandosi al cuore umano, nel Sermone della Montagna
(cf. Mt 5, 28), ed anche in ciò che dice richiamandosi alla risurrezione (cf. Mt 22, 30). Ciascuno di questi
enunziati nasconde in sé un ricco contenuto di natura sia antropologica, sia etica. Cristo parla all’uomo - e
parla dell’uomo: dell’uomo che è “corpo”, e che è stato creato come maschio e femmina a immagine e
somiglianza di Dio; parla dell’uomo, il cui cuore è sottoposto alla concupiscenza, e infine dall’uomo, davanti
al quale si apre la prospettiva escatologica della risurrezione del corpo.
Il “corpo” significa (secondo il libro della Genesi) l’aspetto visibile dell’uomo e la sua appartenenza al
mondo visibile. Per san Paolo esso significa non soltanto questa appartenenza, ma a volte anche l’alienazione
dell’uomo dall’influsso dello Spirito di Dio. L’uno e l’altro significato rimane in relazione alla “redenzione
del corpo”.
5. Poiché nei testi precedentemente analizzati Cristo parla della profondità divina del mistero della
redenzione, le sue parole servono proprio quella speranza, di cui si parla nella lettera ai Romani. “La
redenzione del corpo” secondo l’Apostolo è, in definitiva, ciò che noi “attendiamo”. Così attendiamo proprio
la vittoria escatologica sulla morte, alla quale Cristo rese testimonianza soprattutto con la sua risurrezione.
Alla luce del mistero pasquale, le sue parole sulla risurrezione dei corpi e sulla realtà dell’“altro mondo”,

153
registrate dai Sinottici, hanno acquistato la loro piena eloquenza. Sia Cristo, sia poi Paolo di Tarso, hanno
proclamato l’appello all’astensione dal matrimonio “per il Regno dei cieli” proprio in nome di questa realtà
escatologica.
6. Tuttavia, la “redenzione del corpo” si esprime non soltanto nella risurrezione quale vittoria sulla morte.
Essa è presente anche nelle parole di Cristo, indirizzate all’uomo “storico”, sia quando esse confermano il
principio dell’indissolubilità del matrimonio, come principio proveniente dal Creatore stesso, sia anche
quando - nel Discorso della Montagna - Cristo invita a superare la concupiscenza, e ciò perfino nei
movimenti unicamente interiori del cuore umano. Dell’uno e dell’altro di questi enunziati-chiave bisogna
dire che si riferiscono alla moralità umana, hanno un senso etico. Qui si tratta non della speranza
escatologica della risurrezione, ma della speranza della vittoria sul peccato, che può essere chiamata la
speranza di ogni giorno.
7. Nella sua vita quotidiana l’uomo deve attingere al mistero della redenzione del corpo l’ispirazione e la
forza per superare il male che è assopito in sé sotto forma della triplice concupiscenza. L’uomo e la donna,
legati nel matrimonio, devono intraprendere quotidianamente il compito dell’indissolubile unione di
quell’alleanza, che hanno stipulato tra di loro. Ma anche un uomo o una donna, che volontariamente hanno
scelto la continenza per il Regno dei cieli, devono dare quotidianamente una viva testimonianza della fedeltà
a una tale scelta, ascoltando le direttive di Cristo dal Vangelo e quelle dell’apostolo Paolo dalla prima lettera
ai Corinzi. In ogni caso si tratta della speranza di ogni giorno, che, a misura dei normali compiti e delle
difficoltà della vita umana, aiuta a vincere “con il bene il male” (Rm 12, 21). Infatti, “nella speranza noi
siamo stati salvati”: la speranza di ogni giorno manifesta la sua potenza nelle opere umane e perfino negli
stessi movimenti del cuore umano, facendo strada, in un certo senso, alla grande speranza escatologica legata
con la redenzione del corpo.
8. Penetrando nella vita quotidiana con la dimensione della morale umana, la redenzione del corpo aiuta,
prima di tutto, a scoprire tutto questo bene, in cui l’uomo riporta la vittoria sul peccato e sulla
concupiscenza. Le parole di Cristo, che derivano dalla divina profondità del mistero della redenzione,
permettono di scoprire e di rafforzare quel legame, che esiste tra la dignità dell’essere umano (dell’uomo o
della donna) e il significato sponsale del suo corpo. Permettono di comprendere e attuare, in base a quel
significato, la libertà matura del dono, che in un modo si esprime nel matrimonio indissolubile, e in un altro
mediante l’astensione dal matrimonio per il Regno di Dio. Su queste vie diverse Cristo svela pienamente
l’uomo all’uomo, rendendogli nota la “sua altissima vocazione”. Questa vocazione è iscritta nell’uomo
secondo tutto il suo “compositum” psico-fisico, proprio mediante il mistero della redenzione del corpo.
Tutto ciò che abbiamo cercato di fare nel corso delle nostre meditazioni, per comprendere le parole di Cristo,
ha il suo fondamento definitivo nel mistero della redenzione del corpo.

Mercoledì, 28 luglio 1982

1. Iniziamo oggi un nuovo capitolo sul tema del matrimonio, leggendo le parole di san Paolo agli Efesini:
“Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche
Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così
anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto.
E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla
santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire
davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata.
Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria
moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura,
come Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua
madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in
riferimento a Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se
stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito” (Ef 5, 22-33).

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2. Conviene che sottoponiamo ad analisi approfondita il testo citato, contenuto in questo capitolo quinto della
lettera agli Efesini, così come, in precedenza, abbiamo analizzato le singole parole di Cristo, che sembrano
avere un significato-chiave per la teologia del corpo. Si trattava delle parole, in cui Cristo si richiama al
“principio” (Mt 19, 4; Mc 10, 6), al “cuore” umano, nel Discorso della Montagna (Mt 5, 28) e alla futura
risurrezione (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35). Quanto è contenuto nel passo della lettera agli Efesini
costituisce quasi il “coronamento” di quelle altre sintetiche parole-chiave. Se da esse è emersa la teologia del
corpo nei suoi lineamenti evangelici, semplici ed insieme fondamentali, occorre, in certo senso, presupporre
questa teologia nell’interpretare il menzionato passo della lettera agli Efesini. E perciò, se si
vuol interpretare quel passo, bisogna farlo alla luce di ciò che Cristo ci disse sul corpo umano. Egli parlò
non solo richiamandosi all’uomo “storico” e perciò stesso all’uomo, sempre “contemporaneo”, della
concupiscenza (al suo “cuore”), ma anche rilevando, da un lato, le prospettive del “principio” ossia
dell’innocenza originaria e della giustizia e, dall’altro, le prospettive escatologiche della risurrezione dei
corpi, quando “non prenderanno né moglie né marito” (cf. Lc20, 35). Tutto ciò fa parte dell’ottica teologica
della “redenzione del nostro corpo” (Rm 8, 23).
3. Anche le parole dell’autore della lettera agli Efesini (Il problema della paternità paolina della lettera agli
Efesini, riconosciuta da alcuni esegeti e negata da altri, può essere risolto per il tramite di una supposizione
mediana, che qui accettiamo quale ipotesi di lavoro: ossia, che san Paolo affidò alcuni concetti al suo
segretario, il quale poi li sviluppò e rifinì. È questa soluzione provvisoria del problema che abbiamo in
mente, parlando dell’“Autore della lettera agli Efesini”, dell’“Apostolo” e di “san Paolo”.) sono centrate sul
corpo; e ciò sia nel suo significato metaforico, cioè sul corpo di Cristo che è la Chiesa, sia nel suo significato
concreto, cioè sul corpo umano nella sua perenne mascolinità e femminilità, nel suo perenne destino
all’unione nel matrimonio, come dice il libro della Genesi: “L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si
unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24).
In qual modo questi due significati del corpo compaiono e convergono nel brano della lettera agli Efesini?
E perché vi compaiono e convergono? Ecco gli interrogativi che bisogna porsi, attendendo delle risposte non
tanto immediate e dirette, quanto possibilmente approfondite e “a lunga scadenza”, alle quali siamo stati
preparati dalle analisi precedenti. Infatti, quel brano della lettera agli Efesini non può essere correttamente
inteso, se non soltanto nell’ampio contesto biblico, considerandolo come “coronamento” dei temi e delle
verità che, attraverso la Parola di Dio rivelata nella Sacra Scrittura, affluiscono e defluiscono come a onde
lunghe. Sono temi centrali e verità essenziali. E perciò il testo citato della lettera agli Efesini è anche un
testo-chiave e “classico”.
4. È un testo ben noto alla liturgia, in cui compare sempre in rapporto con il sacramento del Matrimonio. La
“lex orandi” della Chiesa vede in esso un esplicito riferimento a questo sacramento: e la “lex orandi”
permette e nello stesso tempo esprime sempre la “lex credendi”. Ammettendo tale premessa, dobbiamo
subito chiederci: in questo “classico” testo della lettera agli Efesini, come emerge la verità sulla
sacramentalità del matrimonio? in qual modo viene in esso espressa oppure confermata? Diverrà chiaro che
la risposta a questi interrogativi non può essere immediata e diretta, ma graduale e “a lunga scadenza”. Ciò
viene comprovato perfino da un primo sguardo a questo testo, che ci riporta al libro della Genesi e dunque
“al principio”, e che, nella descrizione del rapporto tra Cristo e la Chiesa, riprende dagli scritti dei profeti
dell’Antico Testamento la ben nota analogia dell’amore sponsale tra Dio e il suo popolo eletto. Senza
esaminare questi rapporti, sarebbe difficile rispondere alla domanda sul modo, in cui la lettera agli Efesini
tratta della sacramentalità del matrimonio. Si vedrà pure come la prevista risposta deve passare attraverso
tutto l’ambito dei problemi analizzati in precedenza, cioè attraverso la teologia del corpo.
5. Il sacramento o la sacramentalità - nel senso più generale di questo termine - si incontra con il corpo e
presuppone la “teologia del corpo”. Il sacramento, infatti, secondo il significato generalmente conosciuto, è
un “segno visibile”. Il “corpo” significa pure ciò che è visibile, significa la “visibilità” del mondo e
dell’uomo. Dunque, in qualche modo - anche se il più generale - il corpo entra nella definizione del
sacramento, essendo esso “segno visibile di una realtà invisibile”, cioè della realtà spirituale, trascendente,
divina. In questo segno - e mediante questo segno - Dio si dona all’uomo nella sua trascendente verità e nel
suo amore. Il sacramento è segno della grazia ed è un segno efficace. Non solo la indica ed esprime in modo
visibile, a modo di segno, ma la produce, e contribuisce efficacemente a far sì che la grazia diventi parte
dell’uomo, e che in lui si realizzi e si compia l’opera della salvezza, l’opera prestabilita da Dio fin
dall’eternità e pienamente rivelata in Gesù Cristo.

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6. Direi che già questo primo sguardo gettato sul “classico” testo della lettera agli Efesini indica la direzione
in cui debbono svilupparsi le nostre ulteriori analisi. È necessario che queste analisi inizino dalla
preliminare comprensione del testo in se stesso; tuttavia, debbono in seguito condurci, per così dire, oltre i
suoi confini, per capire possibilmente “fino in fondo” quanta ricchezza di verità rivelata da Dio sia contenuta
nell’ambito di quella pagina stupenda. Servendoci della nota espressione della costituzione Gaudium et Spes,
si può dire che il brano da noi scelto nella lettera agli Efesini “svela - in modo particolare - l’uomo
all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (Gaudium et Spes, 22): in quanto egli partecipa
all’esperienza della persona incarnata. Infatti Dio, creandolo a sua immagine, fin dal principio lo creò
“maschio e femmina” (Gen 1, 27).
Durante le successive analisi cercheremo - soprattutto alla luce del citato testo della lettera agli Efesini - di
comprendere più profondamente il sacramento (in particolare, il matrimonio come sacramento): prima, nella
dimensione dell’alleanza e della grazia, e, in seguito, nella dimensione del segno sacramentale.

Mercoledì, 4 agosto 1982

1. Nella nostra conversazione di mercoledì scorso ho citato il capitolo quinto della lettera agli Efesini ( Ef 5,
22-23). Ora, dopo lo sguardo introduttivo su quel testo “classico”, conviene esaminare il modo in cui tale
brano - così importante sia per il mistero della Chiesa, sia per la sacramentalità del matrimonio - è
inquadrato nell’immediato contesto dall’intera lettera.
Pur sapendo che esiste una serie di problemi discussi tra i Biblisti riguardo ai destinatari, alla paternità e
anche alla data della sua composizione, bisogna costatare che la lettera agli Efesini ha una struttura molto
significativa. L’Autore inizia questa lettera col presentare l’eterno piano della salvezza dell’uomo in Gesù
Cristo.
“. . . Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo / . . . In lui ci ha scelti . . . / per essere santi ed immacolati al
suo cospetto nella carità, / predestinandoci ad essere suoi figli adottivi / per opera di Gesù Cristo, / secondo il
beneplacito della sua volontà. / E questo a lode e gloria della sua grazia, / che ci ha dato nel suo Figlio
diletto; / nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, / la remissione dei peccati / secondo la
ricchezza della sua grazia. / . . . per realizzarlo nella pienezza dei tempi: / il disegno cioè di ricapitolare in
Cristo tutte le cose . . .” (Ef 1, 3.4-7.10).
L’Autore della lettera agli Efesini, dopo aver presentato con parole piene di gratitudine il piano che, fin
dall’eternità, è in Dio e ad un tempo si realizza già nella vita dell’umanità, prega il Signore, affinché gli
uomini (e direttamente i destinatari della lettera) conoscano pienamente Cristo quale capo: “. . . Lo ha
costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, / la quale è il suo corpo, / la pienezza di colui che si realizza
interamente in tutte le cose” (Ef 1, 22-23). L’umanità peccatrice è chiamata ad una vita nuova in Cristo, nel
quale i pagani e gli Ebrei debbono unirsi come in un tempio (cf. Ef 2, 11-21). L’Apostolo è banditore del
ministero di Cristo tra i pagani, ai quali soprattutto si rivolge nella sua lettera, piegando “le ginocchia davanti
al Padre” e chiedendo che conceda loro, “secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente
rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore” (Ef 3, 14.16).
2. Dopo questo così profondo e suggestivo svelamento del mistero di Cristo nella Chiesa, l’Autore passa,
nella seconda parte della lettera, a direttive più particolareggiate, che mirano a definire la vita cristiana come
vocazione che scaturisce dal piano divino, di cui abbiamo parlato in precedenza, cioè dal mistero di Cristo
nella Chiesa. Anche qui l’Autore tocca diverse questioni sempre valide per la vita cristiana. Esorta a
conservare l’unità, sottolineando in pari tempo che tale unità si costruisce sulla molteplicità e diversità dei
doni di Cristo. A ciascuno è dato un dono diverso, ma tutti, come cristiani, debbono “rivestire l’uomo nuovo,
creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4, 24). Con ciò è legato un richiamo categorico a
superare i vizi ed acquisire le virtù corrispondenti alla vocazione che tutti hanno ottenuto in Cristo (cf. Ef 4,
25-32). L’Autore scrive: “Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel
modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi . . . in sacrificio” (Ef5, 1-2).

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3. Nel capitolo quinto della lettera agli Efesini questi richiami divengono ancor più particolareggiati.
L’Autore condanna severamente gli abusi pagani, scrivendo: “Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel
Signore. Comportatevi perciò come figli della luce” (Ef5, 8). E poi: “Non siate . . . inconsiderati, ma sappiate
comprendere la volontà di Dio. E non ubriacatevi di vino (riferimento al libro dei Proverbi 23, 31) . . .
ma siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni e cantici spirituali, cantando ed
inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore” (Ef 5, 17-19). L’Autore della lettera vuole illustrare con
queste parole il clima di vita spirituale, che dovrebbe animare ogni comunità cristiana. A questo punto, passa
alla comunità domestica, cioè alla famiglia. Scrive infatti: “Siate ricolmi dello Spirito . . . rendendo
continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Siate sottomessi
gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 18.20-21). E così entriamo appunto in quel brano della lettera,
che sarà tema della nostra particolare analisi. Potremo costatare facilmente che il contenuto essenziale di
questo testo “classico” compare all’incrocio dei due principali fili conduttori dell’intera lettera agli Efesini: il
primo, quello del mistero di Cristo che, come espressione del piano divino per la salvezza dell’uomo, si
realizza nella Chiesa; il secondo, quello della vocazione cristiana quale modello di vita dei singoli battezzati
e delle singole comunità, corrispondente al mistero di Cristo, ossia al piano divino per la salvezza dell’uomo.
4. Nel contesto immediato del brano citato, l’Autore della lettera cerca di spiegare in qual modo la vocazione
cristiana così concepita debba realizzarsi e manifestarsi nei rapporti tra tutti i membri di una famiglia;
dunque, non solo tra il marito e la moglie (di cui tratta precisamente il brano del capitolo 5, 22-23 da noi
scelto), ma anche tra i genitori e i figli. L’Autore scrive: “Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché
questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa:
perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra. E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma
allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore” (Ef 6, 1-4). In seguito, si parla dei doveri dei servi
nei riguardi dei padroni e, viceversa, dei padroni nei riguardi dei servi, cioè degli schiavi (cf. Ef 6, 5-9), il
che va riferito anche alle direttive concernenti la famiglia in senso lato. Essa, infatti, era costituita non
soltanto dai genitori e dai figli (secondo il succedersi delle generazioni), ma vi appartenevano in senso lato
anche i servi di ambedue i sessi: schiavi e schiave.
5. Così, dunque, il testo della lettera agli Efesini, che ci proponiamo di far oggetto di una approfondita
analisi, si trova nell’immediato contesto di insegnamenti sugli obblighi morali della società familiare (le
cosiddette “Hausteflen” o codici domestici, secondo la definizione di Lutero). Analoghe istruzioni troviamo
anche in altre lettere (cf. ex. gr., Col 3, 18; 1 Pt 2, 13-3, 7). Per di più, tale contesto immediato fa parte del
nostro brano, in quanto anche il “classico” testo da noi scelto tratta dei reciproci doveri dei mariti e delle
mogli. Tuttavia occorre notare che il brano 5, 22-33 della lettera agli Efesini è centrato di per sé
esclusivamente sui coniugi e sul matrimonio, e quanto riguarda la famiglia anche in senso lato si trova già
nel contesto. Prima, però, di accingersi ad un’analisi approfondita del testo, conviene aggiungere che l’intera
lettera termina con uno stupendo incoraggiamento alla battaglia spirituale (cf. Ef 6, 10-20), con brevi
raccomandazioni (cf. Ef 6, 21-22) e un augurio finale (cf. Ef 6, 23-24). Quell’appello alla battaglia spirituale
sembra essere logicamente fondato sull’argomentazione di tutta la lettera. Esso è, per così dire, l’esplicito
compimento dei suoi principali fili conduttori.
Avendo così davanti agli occhi la struttura complessiva dell’intera lettera agli Efesini, cercheremo nella
prima analisi di chiarire il significato delle parole: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”
(Ef 5, 21), rivolte ai mariti e alle mogli.

Mercoledì, 11 agosto 1982

1. Iniziamo oggi un’analisi più particolareggiata del brano della lettera agli Efesini 5, 21-33. L’Autore,
rivolgendosi ai coniugi, raccomanda loro di esser “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5,
21).
Si tratta qui di un rapporto dalla doppia dimensione o di duplice grado: reciproco e comunitario. Uno precisa
e caratterizza l’altro. Le relazioni reciproche del marito e della moglie debbono scaturire dalla loro comune

157
relazione con Cristo. L’Autore della lettera parla del “timore di Cristo” in un senso analogo a quando parla
del “timore di Dio”. In questo caso, non si tratta di timore o paura, che è un atteggiamento difensivo davanti
alla minaccia di un male, ma si tratta soprattutto di rispetto per la santità, per il “ sacrum”; si tratta della
“pietas”, che nel linguaggio dell’Antico Testamento fu espressa anche col termine “timore di Dio” (cf.,ex.
gr., Sal 102 [103], 11; Pr 1, 7; Pr 23, 17; Sir 1, 11-16). In effetti, una tale “pietas”, sorta
dalla profonda coscienza del mistero di Cristo, deve costituire la base delle reciproche relazioni tra i
coniugi.
2. Come il contesto immediato, così anche il testo scelto da noi ha un carattere “parenetico”, cioè di
istruzione morale. L’Autore della lettera desidera indicare ai coniugi come si devono stabilire le loro
relazioni reciproche e tutto il loro comportamento. Egli deduce le proprie indicazioni e direttive dal mistero
di Cristo presentato all’inizio della lettera. Questo mistero deve essere spiritualmente presente nel reciproco
rapporto dei coniugi. Penetrando i loro cuori, generando in essi quel santo “timore di Cristo” (cioè appunto la
“pietas”), il mistero di Cristo deve condurli ad esser “sottomessi gli uni agli altri”: il mistero di Cristo, cioè il
mistero della scelta, fin dall’eternità, di ciascuno di loro in Cristo “ad essere figli adottivi” di Dio.
3. L’espressione che apre il nostro brano di Efesini 5, 21-33, al quale ci siamo avvicinati grazie all’analisi del
contesto remoto e immediato, ha un’eloquenza tutta particolare. L’Autore parla della mutua sottomissione
dei coniugi, marito e moglie, e in tal modo fa anche capire come bisogna intendere le parole che scriverà in
seguito sulla sottomissione della moglie al marito. Infatti leggiamo: “Le mogli siano sottomesse ai mariti
come al Signore” (Ef 5, 22). Esprimendosi così, l’Autore non intende dire che il marito è “padrone” della
moglie e che il patto inter-personale proprio del matrimonio è un patto di dominio del marito sulla moglie.
Esprime, invece, un altro concetto: cioè che la moglie, nel suo rapporto con Cristo - il quale è per ambedue i
coniugi unico Signore - può e deve trovare la motivazione di quel rapporto con il marito, che scaturisce
dall’essenza stessa del matrimonio e della famiglia. Tale rapporto, tuttavia, non è sottomissione unilaterale. Il
matrimonio, secondo la dottrina della lettera agli Efesini, esclude quella componente del patto che gravava e,
a volte, non cessa di gravare su questa istituzione. Il marito e la moglie sono infatti “sottomessi gli uni agli
altri”, sono vicendevolmente subordinati. La fonte di questa reciproca sottomissione sta nella “pietas”
cristiana, e la sua espressione è l’amore.
4. L’Autore della lettera sottolinea in modo particolare questo amore, rivolgendosi ai mariti. Scrive infatti: “E
voi, mariti, amate le vostre mogli . . .”, e con questo modo di esprimersi toglie qualunque timore, che
avrebbe potuto suscitare (data la sensibilità contemporanea) la frase precedente: “Le mogli siano sottomesse
ai mariti”. L’amore esclude ogni genere di sottomissione, per cui la moglie diverrebbe serva o schiava del
marito, oggetto di sottomissione unilaterale. L’amore fa sì che contemporaneamente anche il marito è
sottomesso alla moglie, e sottomesso in questo al Signore stesso, così come la moglie al marito. La comunità
o unità che essi debbono costituire a motivo del matrimonio, si realizza attraverso una reciproca donazione,
che è anche una sottomissione vicendevole. Cristo è fonte ed insieme modello di quella sottomissione che,
essendo reciproca “nel timore di Cristo”, conferisce all’unione coniugale un carattere profondo e maturo.
Molteplici fattori di natura psicologica o di costume vengono, in questa fonte e dinanzi a questo modello,
talmente trasformati da far emergere, direi, una nuova e preziosa “fusione” dei comportamenti e dei rapporti
bilaterali.
5. L’Autore della lettera agli Efesini non teme di accogliere quei concetti che erano propri della mentalità e
dei costumi di allora; non teme di parlare della sottomissione della moglie al marito; non teme, poi (anche
nell’ultimo versetto del testo da noi citato), di raccomandare alla moglie che “sia rispettosa verso il marito”
(Ef 5, 33). Infatti è certo che, quando il marito e la moglie saranno sottomessi l’uno all’altro “nel rumore di
Cristo”, tutto troverà un giusto equilibrio, cioè tale da corrispondere alla loro vocazione cristiana nel mistero
di Cristo.
6. Diversa è certamente la nostra sensibilità contemporanea, diversi sono anche le mentalità e i costumi, e
differente è la posizione sociale della donna nei confronti dell’uomo. Nondimeno, il fondamentale principio
parenetico, che troviamo nella lettera agli Efesini, rimane lo stesso e porta i medesimi frutti. La
sottomissione reciproca “nel timore di Cristo” - sottomissione nata sul fondamento della “ pietas” cristiana -
forma sempre quella profonda e salda struttura portante della comunità dei coniugi, in cui si realizza la
vera “comunione” delle persone.

158
7. L’Autore del testo agli Efesini, che ha iniziato la sua lettera con una magnifica visione del piano eterno di
Dio verso l’umanità, non si limita a porre in rilievo soltanto gli aspetti tradizionali del costume o quelli etici
del matrimonio, ma oltrepassa l’ambito dell’insegnamento, e, scrivendo sul rapporto reciproco dei coniugi,
scopre in esso la dimensione dello stesso mistero di Cristo, di cui egli è annunziatore e apostolo. “Le mogli
siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo
della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le
mogli siano soggette ai loro mariti, in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la
Chiesa e ha dato se stesso per lei . . .” (Ef 5, 22-25). In tal modo, l’insegnamento proprio di questa parte
parenetica della lettera viene, in certo senso, inserito nella realtà stessa del mistero nascosto fin dall’eternità
in Dio e rivelato all’umanità in Gesù Cristo. Nella lettera agli Efesini siamo testimoni, direi, di un particolare
incontro di quel mistero con l’essenza stessa della vocazione al matrimonio. Come bisogna intendere questo
incontro?
8. Nel testo della lettera agli Efesini esso si presenta anzitutto come una grande analogia. Vi leggiamo: “Le
mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore . . .”: ecco la prima componente dell’analogia. “Il marito
infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa . . .”: ecco la seconda componente, che
costituisce il chiarimento e la motivazione della prima. “E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche
le mogli siano soggette ai loro mariti . . .”: il rapporto di Cristo con la Chiesa, presentato precedentemente,
viene ora espresso quale rapporto della Chiesa con Cristo, e qui è compresa la componente successiva
dell’analogia. Infine: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se
stesso per lei . . .”: ecco l’ultima componente dell’analogia. Il seguito del testo della lettera sviluppa il
pensiero fondamentale, contenuto nel passo or ora citato; e l’intero testo della lettera agli Efesini al capitolo
5 (Ef 5, 21-23) è interamente permeato della stessa analogia; cioè: il rapporto reciproco tra i coniugi, marito e
moglie, va inteso dai cristiani a immagine del rapporto tra Cristo e la Chiesa.

Mercoledì, 18 agosto 1982

1. Analizzando le rispettive componenti della lettera agli Efesini, abbiamo costatato mercoledì scorso che, il
rapporto reciproco tra i coniugi, marito e moglie, va inteso dai cristiani ad immagine del rapporto tra Cristo e
la Chiesa.
Questo rapporto è rivelazione e realizzazione nel tempo del mistero della salvezza, dell’elezione di amore,
“nascosta” dall’eternità in Dio. In questa rivelazione e realizzazione il mistero della salvezza comprende il
tratto particolare dell’amore sponsale nel rapporto di Cristo con la Chiesa, e perciò lo si può esprimere nel
modo più adeguato, ricorrendo all’analogia del rapporto che c’è - che deve esserci - tra marito e moglie nel
matrimonio. Tale analogia chiarisce il mistero, almeno fino ad un certo grado. Anzi, sembra che, secondo
l’Autore della lettera agli Efesini, questa analogia sia complementare di quella di “Corpo Mistico” (cf. Ef 1,
22-23), quando cerchiamo di esprimere il mistero del rapporto di Cristo con la Chiesa e - risalendo ancor più
lontano - il mistero dell’amore eterno di Dio verso l’uomo, verso l’umanità: il mistero, che si esprime e si
realizza nel tempo attraverso il rapporto di Cristo con la Chiesa.
2. Se - come è stato detto - questa analogia illumina il mistero, essa stessa a sua volta viene illuminata da
quel mistero. Il rapporto sponsale che unisce i coniugi, marito e moglie, deve - secondo l’Autore della lettera
agli Efesini - aiutarci a comprendere l’amore che unisce il Cristo con la Chiesa, quell’amore reciproco di
Cristo e della Chiesa, in cui si realizza l’eterno piano divino della salvezza dell’uomo. Tuttavia, il significato
dell’analogia non si esaurisce qui. L’analogia usata nella lettera agli Efesini, chiarendo il mistero del rapporto
tra il Cristo e la Chiesa, contemporaneamente svela la verità essenziale sul matrimonio: cioè, che il
matrimonio corrisponde alla vocazione dei cristiani solo quando rispecchia l’amore che Cristo-Sposo dona
alla Chiesa sua Sposa, e che la Chiesa (a somiglianza della moglie “sottomessa”, dunque pienamente donata)
cerca di ricambiare a Cristo. Questo è l’amore redentore, salvatore, l’amore con cui l’uomo dall’eternità è
stato amato da Dio in Cristo: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, / per essere santi e
immacolati al suo cospetto . . .” (Ef 1, 4).

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3. Il matrimonio corrisponde alla vocazione dei cristiani in quanto coniugi soltanto se, appunto, quell’amore
vi si rispecchia ed attua. Ciò diverrà chiaro se cercheremo di rileggere l’analogia paolina nella direzione
inversa, cioè partendo dal rapporto di Cristo con la Chiesa, e volgendoci poi al rapporto del marito e della
moglie nel matrimonio. Nel testo è usato il tono esortativo: “Le mogli siano sottomesse ai mariti . . . come la
Chiesa sta sottomessa a Cristo”. E d’altra parte: “Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la
Chiesa . . .”. Queste espressioni dimostrano che si tratta di un obbligo morale. Tuttavia, per poter
raccomandare tale obbligo, bisogna ammettere che nell’essenza stessa del matrimonio si racchiude una
particella dello stesso mistero. Altrimenti, tutta questa analogia rimarrebbe sospesa nel vuoto. L’invito
dell’Autore della lettera agli Efesini, rivolto ai coniugi, perché modellino il loro rapporto reciproco a
somiglianza del rapporto di Cristo con la Chiesa (“come - così”), sarebbe privo di una base reale, come se gli
mancasse il terreno sotto i piedi. Tale è la logica dell’analogia usata nel citato testo agli Efesini.
4. Come si vede, questa analogia opera in due direzioni. Se, da una parte, ci consente di comprendere meglio
l’essenza del rapporto di Cristo con la Chiesa, dall’altra, al tempo stesso, ci permette di penetrare più
profondamente nell’essenza del matrimonio, al quale sono chiamati i cristiani. Essa manifesta, in un certo
senso, il modo in cui questo matrimonio, nella sua essenza più profonda, emerge dal mistero dell’amore
eterno di Dio verso l’uomo e l’umanità: da quel mistero salvifico, che si compie nel tempo mediante l’amore
sponsale di Cristo verso la Chiesa. Partendo dalle parole della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33), possiamo in
seguito sviluppare il pensiero contenuto nella grande analogia paolina in due direzioni: sia nella direzione di
una più profonda comprensione della Chiesa, sia nella direzione di una più profonda comprensione del
matrimonio. Nelle nostre considerazioni seguiremo anzitutto questa seconda, memori che, alla base della
comprensione del matrimonio nella sua essenza stessa, sta il rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa. Quel
rapporto va analizzato ancor più accuratamente per poter stabilire - supponendo l’analogia con il matrimonio
- in qual modo questo diventi segno visibile dell’eterno mistero divino, ad immagine della Chiesa unita con
Cristo. In questo modo la lettera agli Efesini ci conduce alle basi stesse della sacramentalità del matrimonio.
5. Intraprendiamo, dunque, un’analisi particolareggiata del testo. Quando leggiamo nella lettera agli Efesini
che “il marito . . . è capo della moglie come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo
corpo” (Ef 5, 23), possiamo supporre che l’Autore, il quale ha già prima chiarito che la sottomissione della
moglie al marito, come capo, va intesa quale sottomissione reciproca “nel timore di Cristo”, risale al concetto
radicato nella mentalità del tempo, per esprimere anzitutto la verità circa il rapporto di Cristo con la Chiesa,
cioè che Cristo è capo della Chiesa. È capo come “salvatore del suo corpo”. La Chiesa è appunto quel corpo
che - essendo sottomesso in tutto a Cristo come suo capo - riceve da lui tutto ciò, per cui diviene ed è suo
corpo: cioè la pienezza della salvezza come dono di Cristo, il quale “ha dato se stesso per lei” sino alla fine.
Il “donarsi” di Cristo al Padre per mezzo dell’obbedienza fino alla morte di croce acquista qui un senso
strettamente ecclesiologico: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). Attraverso una
totale donazione per amore ha formato la Chiesa come suo corpo e continuamente la edifica, divenendo suo
capo. Come capo è salvatore del suo corpo e, nello stesso tempo, quale salvatore è capo. Come capo e
salvatore della Chiesa è anche sposo della sua sposa.
6. In tanto la Chiesa è se stessa, in quanto, come corpo, accoglie da Cristo, suo capo, l’intero dono della
salvezza come frutto dell’amore di Cristo e della sua donazione per la Chiesa: frutto della donazione di
Cristo sino alla fine. Quel dono di sé al Padre per mezzo dell’obbedienza fino alla morte (cf. Fil 2, 8) è
contemporaneamente, secondo la lettera agli Efesini, un “dare se stesso per la Chiesa”. In questa
espressione, l’amore redentore si trasforma, direi, in amore sponsale: Cristo, dando se stesso per la Chiesa,
con lo stesso atto redentore si è unito una volta per sempre con essa, come lo sposo con la sposa, come il
marito con la moglie, donandosi attraverso tutto ciò che una volta per sempre è racchiuso in quel suo “dare
se stesso” per la Chiesa. In tal modo, il mistero della redenzione del corpo nasconde in sé, in certo senso, il
mistero “delle nozze dell’Agnello” (cf. Ap 19, 7). Poiché Cristo è capo del corpo, l’intero dono salvifico
della redenzione penetra la Chiesa come il corpo di quel capo, e forma continuamente la più profonda,
essenziale sostanza della sua vita. E la forma al modo sponsale, dato che nel testo citato l’analogia del corpo-
capo passa nell’analogia dello sposo-sposa, o piuttosto del marito-moglie. Lo dimostrano i brani successivi
del testo, ai quali converrà passare in seguito.

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Mercoledì, 25 agosto 1982

1. Nelle precedenti considerazioni sul quinto capitolo della lettera agli Efesini ( Ef 5, 21-33) abbiamo
richiamato particolarmente l’attenzione sull’analogia del rapporto che esiste tra Cristo e la Chiesa, e di quello
che esiste tra lo sposo e la sposa, cioè tra il marito e la moglie, uniti dal vincolo sponsale. Prima di accingerci
all’analisi dei brani ulteriori del testo in questione, dobbiamo prendere coscienza del fatto che nell’ambito
della fondamentale analogia paolina: Cristo e Chiesa da una parte, uomo e donna, come coniugi, dall’altra, vi
è pure un’analogia supplementare: l’analogia cioè del Capo e del Corpo. Ed è proprio questa analogia a
conferire un significato principalmente ecclesiologico all’enunciato da noi analizzato: la Chiesa, come tale, è
formata da Cristo; è costituita da lui nella sua parte essenziale, come il corpo dal capo. L’unione del corpo
con il capo è soprattutto di natura organica, è, in semplici parole, l’unione somatica dell’organismo umano.
Su questa unione organica si fonda, in modo diretto, l’unione biologica, in quanto si può dire che “il corpo
vive dal capo” (anche se, in pari tempo, sebbene in un altro modo, il capo vive dal corpo). E inoltre, se si
tratta dell’uomo, su questa unione organica si fonda anche l’unione psichica, intesa nella sua integrità e, in
definitiva, l’unità integrale della persona umana.
2. Come già è stato detto (per lo meno nel brano analizzato), l’Autore della lettera agli Efesini ha introdotto
l’analogia supplementare del capo e del corpo nell’ambito dell’analogia del matrimonio. Sembra perfino che
abbia concepito la prima analogia: “capo-corpo”, in maniera più centrale dal punto di vista della verità su
Cristo e sulla Chiesa, da lui proclamata. Tuttavia, bisogna ugualmente affermare che non l’ha posta accanto
o al di fuori dell’analogia del matrimonio come legame sponsale. Anzi, al contrario. Nell’intero testo della
lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33), e specialmente nella prima parte, di cui ci stiamo occupando (Ef 5, 22-23),
l’Autore parla come se nel matrimonio anche il marito sia “capo della moglie”, e la moglie “corpo del
marito” come se anche i coniugi formino una unione organica. Ciò può trovare il suo fondamento nel testo
della Genesi, in cui si parla di “una sola carne” (Gen 2, 24), ossia in quello stesso testo, al quale l’Autore
della lettera agli Efesini si riferirà tra poco nel quadro della sua grande analogia. Nondimeno, nel testo del
libro della Genesi viene chiaramente posto in evidenza che si tratta dell’uomo e della donna, come di due
distinti soggetti personali, i quali decidono coscientemente della loro unione coniugale, definita da
quell’arcaico testo con i termini: “una sola carne”. E anche nella lettera agli Efesini, questo è ugualmente ben
chiaro. L’Autore si serve di una duplice analogia: capo-corpo, marito-moglie, al fine di illustrare con
chiarezza la natura dell’unione tra Cristo e la Chiesa. In un certo senso, specialmente in questo primo passo
del testo agli Efesini 5, 22-33, la dimensione ecclesiologica sembra decisiva e prevalente.
3. “Le mogli siano sottomesse ai mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come Cristo è
capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le
mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la
Chiesa e ha dato se stesso per lei...” (Ef 5, 22-25). Questa analogia supplementare “capo-corpo” fa sì che
nell’ambito dell’intero brano della lettera agli Efesini 5, 22-23 abbiamo a che fare con due soggetti distinti, i
quali, in virtù di un particolare rapporto reciproco, diventano in certo senso un solo soggetto: il capo
costituisce insieme al corpo un soggetto (nel senso fisico e metafisico), un organismo, una persona umana,
un essere. Non vi è dubbio che Cristo è un soggetto diverso dalla Chiesa, tuttavia, in virtù di un particolare
rapporto, si unisce con essa, come in una unione organica del capo e del corpo: la Chiesa è così fortemente,
così essenzialmente se stessa in virtù di una unione con Cristo (mistico). È possibile dire lo stesso dei
coniugi, dell’uomo e della donna, uniti in un legame matrimoniale? Se l’Autore della lettera agli Efesini
vede l’analogia dell’unione del capo con il corpo anche nel matrimonio, questa analogia, in un certo senso,
sembra rapportarsi al matrimonio in considerazione dell’unione che Cristo costituisce con la Chiesa e la
Chiesa con Cristo. Quindi l’analogia riguarda soprattutto il matrimonio stesso come quell’unione per cui
“due formeranno una carne sola” (Ef 5, 31; cf. Gen 2, 24).
4. Questa analogia, tuttavia, non offusca l’individualità dei soggetti: quella del marito e quella della moglie,
cioè l’essenziale bi-soggettività che sta alla base dell’immagine di “un solo corpo”, anzi, l’essenziale bi-
soggettività del marito e della moglie nel matrimonio, che fa di loro in un certo senso “un solo corpo”, passa,
nell’ambito di tutto il testo che stiamo esaminando (Ef 5, 22-33), all’immagine della Chiesa-Corpo, unita con
Cristo come Capo. Ciò si vede specialmente nel seguito di questo testo, dove l’Autore descrive il rapporto di
Cristo con la Chiesa appunto mediante l’immagine del rapporto del marito con la moglie. In questa
descrizione la Chiesa-Corpo di Cristo appare chiaramente come il soggetto secondo dell’unione coniugale, al

161
quale il soggetto primo, Cristo, manifesta l’amore di cui l’ha amata dando “se stesso per lei”. Quell’amore è
immagine e soprattutto modello dell’amore che il marito deve manifestare alla moglie nel matrimonio,
quando ambedue sono sottomessi l’un l’altro “nel timore di Cristo”.
5. Leggiamo infatti: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso
per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine
di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa
e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la
propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario siamo
membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due
formeranno una carne sola” (Ef 5, 25-31).
6. È facile scorgere che in questa parte del testo della lettera agli Efesini 5, 22-33 “prevale” chiaramente
la bi-soggettività: essa viene rilevata sia nel rapporto Cristo-Chiesa, sia anche nel rapporto marito-moglie.
Ciò non vuol dire che sparisca l’immagine di un soggetto unico: l’immagine di “un solo corpo”. Essa è
conservata anche nel brano del nostro testo, e in un certo senso vi è ancor meglio spiegata. Ciò si vedrà con
più chiarezza quando sottoporremo ad un’analisi particolareggiata il brano sopracitato. Così dunque l’Autore
della lettera agli Efesini parla dell’amore di Cristo verso la Chiesa, spiegando il modo in cui quell’amore si
esprime, e presentando, nello stesso tempo, sia quell’amore sia le sue espressioni come modello che il marito
deve seguire nei riguardi della propria moglie. L’amore di Cristo verso la Chiesa ha essenzialmente, come
scopo, la sua santificazione: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso... per renderla santa” (Ef 5, 25-
26). Al principio di questa santificazione è il battesimo, primo ed essenziale frutto della donazione di sé, che
Cristo ha fatto per la Chiesa. In questo testo, il battesimo non viene chiamato col proprio nome, ma definito
come purificazione “per mezzo del lavacro dell’acqua, accompagnato dalla parola” (Ef 5, 26). Questo
lavacro, con la potenza che deriva dalla donazione redentrice di sé, che Cristo ha fatto per la Chiesa, opera la
purificazione fondamentale mediante la quale l’amore di lui verso la Chiesa acquista, agli occhi dell’Autore
della lettera, un carattere sponsale.
7. È noto che al sacramento del battesimo partecipa un soggetto individuale nella Chiesa. L’Autore della
lettera, tuttavia, attraverso quel soggetto individuale del battesimo vede tutta la Chiesa. L’amore sponsale di
Cristo si riferisce ad essa, alla Chiesa ogni qualvolta una persona singola riceve in essa la purificazione
fondamentale per mezzo del battesimo. Chi riceve il battesimo, in virtù dell’amore redentore di Cristo,
diviene al tempo stesso partecipe del suo amore sponsale verso la Chiesa. “Il lavacro dell’acqua,
accompagnato dalla parola” è, nel nostro testo, l’espressione dell’amore sponsale, nel senso che prepara la
sposa (Chiesa) allo Sposo, fa la Chiesa sposa di Cristo, direi, “in actu primo”. Alcuni studiosi della Bibbia
osservano qui che, nel testo da noi citato, il “lavacro dell’acqua” rievoca l’abluzione rituale che precedeva lo
sposalizio, il che costituiva un importante rito religioso anche presso i Greci.
8. Come sacramento del battesimo il “lavacro dell’acqua, accompagnato dalla parola” (Ef 5, 26) rende sposa
la Chiesa non solo “in actu primo”, ma anche nella prospettiva più lontana, ossia nella prospettiva
escatologica. Questa si apre davanti a noi quando, nella lettera agli Efesini, leggiamo che “il lavacro
dell’acqua” serve, da parte dello sposo, “al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza
macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5, 27). L’espressione “di farsi comparire
davanti” sembra indicare quel momento dello sposalizio, in cui la sposa viene condotta allo sposo, già vestita
dell’abito nuziale e adornata per lo sposalizio. Il testo citato rileva che lo stesso Cristo-Sposo ha cura di
adornare la sposa-Chiesa, ha cura che essa sia bella della bellezza della grazia, bella in virtù del dono della
salvezza nella sua pienezza, già concesso fin dal sacramento del battesimo. Ma il battesimo è soltanto
l’inizio, da cui dovrà emergere la figura della Chiesa gloriosa (come leggiamo nel testo), quale frutto
definitivo dell’amore redentore e sponsale, solamente con l’ultima venuta di Cristo (parusia).
Vediamo quanto profondamente l’Autore della lettera agli Efesini scruta la realtà sacramentale,
proclamandone la grande analogia: sia l’unione di Cristo con la Chiesa, sia l’unione sponsale dell’uomo e
della donna nel matrimonio vengono in tal modo illuminate da una particolare luce soprannaturale.

162
Mercoledì, 1 settembre 1982

1. L’Autore della lettera agli Efesini, proclamando l’analogia tra il vincolo sponsale che unisce Cristo e la
Chiesa, e quel che unisce il marito e la moglie nel matrimonio, così scrive: “E voi, mariti, amate le vostre
mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo
del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta
gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5, 25-27).
2. È significativo che l’immagine della Chiesa gloriosa venga presentata, nel testo citato, come una sposa
tutta bella nel suo corpo. Certo, questa è una metafora; ma essa è molto eloquente, e testimonia quanto
profondamente incida il momento del corpo nell’analogia dell’amore sponsale. La Chiesa “gloriosa” è quella
“senza macchia né ruga”. “Macchia” può essere intesa come segno di bruttezza, “ruga” come segno
d’invecchiamento e di senilità. Nel senso metaforico sia l’una che l’altra espressione indicano i difetti morali,
il peccato. Si può aggiungere che in san Paolo l’“uomo vecchio” significa l’uomo del peccato (cf. Rm 6, 6).
Cristo quindi con il suo amore redentore e sponsale fa sì che la Chiesa non solo diventi senza peccato, ma
resti “eternamente giovane”.
3. L’ambito della metafora è, come si vede, ben vasto. Le espressioni che si riferiscono direttamente e
immediatamente al corpo umano, caratterizzandolo nei rapporti reciproci tra lo sposo e la sposa, tra il marito
e la moglie, indicano al tempo stesso attributi e qualità di ordine morale, spirituale e soprannaturale. Ciò è
essenziale per tale analogia. Pertanto l’Autore della lettera può definire lo stato “glorioso” della Chiesa in
rapporto allo stato del corpo della sposa, libero da segni di bruttezza o d’invecchiamento (“o alcunché di
simile”), semplicemente come santità e assenza del peccato: tale è la Chiesa “santa e immacolata”. È dunque
ovvio di quale bellezza della sposa si tratti, in qual senso la Chiesa sia corpo di Cristo e in qual senso quel
Corpo-Sposa accolga il dono dello Sposo che “ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei”. Nondimeno è
significativo che san Paolo spieghi tutta questa realtà, che per essenza è spirituale e soprannaturale,
attraverso la somiglianza del corpo e dell’amore per cui i coniugi, marito e moglie, diventano “una sola
carne”.
4. Nell’intero passo del testo citato è ben chiaramente conservato il principio della bi-soggettività: Cristo-
Chiesa, Sposo-Sposa (marito-moglie). L’Autore presenta l’amore di Cristo verso la Chiesa - quell’amore che
fa della Chiesa il corpo di Cristo, di cui egli è il capo - come modello dell’amore degli sposi e come modello
delle nozze dello sposo e della sposa. L’amore obbliga lo sposo-marito ad essere sollecito per il bene della
sposa-moglie, lo impegna a desiderarne la bellezza ed insieme a sentire questa bellezza e ad averne cura. Si
tratta qui anche della bellezza visibile, della bellezza fisica. Lo sposo scruta con attenzione la sua sposa quasi
nella creativa, amorosa inquietudine di trovare tutto ciò che di buono e di bello è in lei e che per lei desidera.
Quel bene che colui che ama crea, col suo amore, in chi è amato, è come una verifica dello stesso amore e la
sua misura. Donando se stesso nel modo più disinteressato, colui che ama non lo fa fuori di questa misura e
di questa verifica.
5. Quando l’Autore della lettera agli Efesini - nei successivi versetti del testo (Ef 5, 28-29) - volge la mente
esclusivamente ai coniugi stessi, l’analogia del rapporto di Cristo con la Chiesa risuona ancor più profonda e
lo spinge ad esprimersi così: “I mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo” (Ef 5, 28).
Qui ritorna dunque il motivo dell’“una sola carne”, che nella suddetta frase e nelle frasi successive viene non
soltanto ripreso, ma anche chiarito. Se i mariti debbono amare le loro mogli come il proprio corpo, ciò
significa che quella uni-soggettività si fonda sulla base della bi-soggettività e non ha carattere reale, ma
intenzionale: il corpo della moglie non è il corpo proprio del marito, ma deve essere amato come il corpo
proprio. Si tratta quindi dell’unità, non nel senso ontologico, ma morale: dell’unità per amore.
6. “Chi ama la propria moglie ama se stesso” (Ef 5, 28). Questa frase conferma ancora di più quel carattere di
unità. In certo senso, l’amore fa dell’“io” altrui il proprio “io”: l’“io” della moglie, direi, diviene per amore
l’“io” del marito. Il corpo è l’espressione di quell’“io” e il fondamento della sua identità. L’unione del marito
e della moglie nell’amore si esprime anche attraverso il corpo. Si esprime nel rapporto reciproco, sebbene
l’Autore della lettera agli Efesini lo indichi soprattutto da parte del marito. Ciò risulta dalla struttura della
totale immagine. Sebbene i coniugi debbano essere “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (ciò è
stato messo in evidenza già nel primo versetto del testo citato) (Ef 5, 22-23), tuttavia in seguito il marito è
soprattutto colui che ama e la moglie invece colei che è amata. Si potrebbe perfino arrischiare l’idea che la

163
“sottomissione” della moglie al marito, intesa nel contesto dell’intero brano (Ef 5, 22-23) della lettera agli
Efesini, significhi soprattutto il “provare l’amore”. Tanto più che questa “sottomissione” si riferisce
all’immagine della sottomissione della Chiesa a Cristo, che certamente consiste nel provare il suo amore. La
Chiesa, come sposa, essendo oggetto dell’amore redentore di Cristo-sposo, diventa suo corpo. La moglie,
essendo oggetto dell’amore sponsale del marito, diventa “una sola carne” con lui: in certo senso, la sua
“propria” carne. L’Autore ripeterà questa idea ancora una volta nell’ultima frase del brano qui analizzato:
“Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso” (Ef 5, 33).
7. Questa è l’unità morale, condizionata e costituita dall’amore. L’amore non solo unisce i due soggetti, ma
consente loro di compenetrarsi a vicenda, appartenendo spiritualmente l’uno all’altro, al punto tale che
l’Autore della lettera può affermare: “Chi ama la propria moglie, ama se stesso” (Ef 5, 28). L’“io” diventa in
certo senso il “tu” e il “tu” l’“io” (s’intende, nel senso morale). E perciò il seguito del testo da noi analizzato
suona così: “Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario, la nutre e la cura, come fa
Cristo, poiché siamo membra del suo corpo” (Ef 5, 29-30). La frase, che inizialmente si riferisce ancora ai
rapporti dei coniugi, in fase successiva ritorna esplicitamente al rapporto Cristo-Chiesa, e così, alla luce di
quel rapporto, ci induce a definire il senso dell’intera frase. L’Autore, dopo aver spiegato il carattere del
rapporto del marito con la propria moglie formando “una carne sola”, vuole ancora rafforzare la sua
precedente affermazione (“chi ama la propria moglie, ama se stesso”) e, in un certo senso, sostenerla con la
negazione e l’esclusione della possibilità opposta (“nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne”)
(Ef 5, 29). Nell’unione per amore, il corpo “altrui” diviene “proprio” nel senso che si ha premura del bene
del corpo altrui come del proprio. Le suddette parole, caratterizzando l’amore “carnale” che deve unire i
coniugi, esprimono, si può dire, il contenuto più generale e, ad un tempo, il più essenziale. Esse sembrano
parlare di questo amore soprattutto con il linguaggio dell’“agape”.
8. L’espressione secondo cui l’uomo “nutre e cura” la propria carne - cioè che il marito “nutre e cura” la
carne della moglie come la propria - sembra indicare piuttosto la premura dei genitori, il rapporto tutelare,
anziché la tenerezza coniugale. La motivazione di tale carattere deve essere cercata nel fatto che l’Autore
passa qui distintamente dal rapporto che unisce i coniugi al rapporto tra Cristo e la Chiesa. Le espressioni che
si riferiscono alla cura del corpo, e prima di tutto al suo nutrimento, alla sua alimentazione, suggeriscono a
numerosi studiosi di Sacra Scrittura il riferimento all’Eucaristia, di cui Cristo, nel suo amore
sponsale, “nutre” la Chiesa. Se queste espressioni, sia pure in tono minore, indicano il carattere specifico
dell’amore coniugale, specialmente di quell’amore per cui i coniugi diventano “una sola carne”, esse in pari
tempo, aiutano a comprendere, almeno in modo generale, la dignità del corpo e l’imperativo morale di aver
cura del suo bene: di quel bene che corrisponde alla sua dignità. Il paragone con la Chiesa come Corpo di
Cristo, Corpo del suo amore redentore ed insieme sponsale, deve lasciare nella coscienza dei destinatari della
lettera agli Efesini (Ef 5, 22-23) un senso profondo del “sacrum” del corpo umano in genere, e specialmente
nel matrimonio, come “luogo” in cui tale senso del “sacrum” determina in modo particolarmente profondo i
rapporti reciproci delle persone, e soprattutto quelle dell’uomo con la donna, in quanto moglie e madre dei
loro figli.

Mercoledì, 8 settembre 1982

1. L’autore della lettera agli Efesini scrive: “Nessuno mai . . . ha preso in odio la propria carne; al contrario la
nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo” (Ef 5, 29-30). Dopo
questo versetto, l’Autore ritiene opportuno citare quello che nell’intera Bibbia può essere considerato il testo
fondamentale sul matrimonio, testo contenuto in Genesi, capitolo 2,24: “Per questo l’uomo lascerà suo padre
e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola” (Ef 5, 31; Gen 2, 24). È possibile
dedurre dall’immediato contesto della lettera agli Efesini che la citazione del Libro della Genesi (Gen 2, 24)
è qui necessaria non tanto per ricordare l’unità dei coniugi, definita fin “da principio” nell’opera della
creazione, quanto per presentare il mistero di Cristo con la Chiesa, da cui l’Autore deduce la verità sull’unità
dei coniugi. Questo è il punto più importante di tutto il testo, in certo senso, la sua chiave di volta. L’Autore

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della lettera agli Efesini racchiude in queste parole tutto ciò che ha detto in precedenza, tracciando l’analogia
e presentando la somiglianza tra l’unità dei coniugi e l’unità di Cristo con la Chiesa. Riportando le parole del
Libro della Genesi (Gen 2, 24), l’Autore rileva che le basi di tale analogia vanno cercate nella linea che, nel
piano salvifico di Dio, unisce il matrimonio, come la più antica rivelazione (e “manifestazione”) di quel
piano nel mondo creato, con la rivelazione e “manifestazione” definitiva, la rivelazione cioè che “Cristo ha
amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25), conferendo al suo amore redentore indole e senso
sponsale.
2. Così dunque questa analogia che permea il testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-23) ha la base ultima
nel piano salvifico di Dio. Questo diverrà ancor più chiaro ed evidente quando collocheremo il brano del
testo da noi analizzato nel complessivo contesto della lettera agli Efesini. Allora si comprenderà più
facilmente la ragione per cui l’Autore, dopo aver citato le parole del Libro della Genesi ( Gen 2, 24), scrive:
“Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5, 32).
Nel contesto globale della lettera agli Efesini e inoltre nel contesto più ampio delle parole della Sacra
Scrittura che rivelano il piano salvifico di Dio “da principio”, bisogna ammettere che il termine “mysterion”
significa qui il mistero, prima nascosto nel pensiero divino, e in seguito rivelato nella storia dell’uomo. Si
tratta infatti di un mistero “grande”, data la sua importanza: quel mistero, come piano salvifico di Dio nei
riguardi dell’umanità, è, in certo senso, il tema centrale di tutta la rivelazione, la sua realtà centrale. È ciò che
Dio, come Creatore e Padre, desidera soprattutto trasmettere agli uomini nella sua Parola.
3. Si trattava di trasmettere non solo la “buona novella” sulla salvezza, ma di iniziare al tempo stesso l’opera
della salvezza, come frutto della grazia che santifica l’uomo per la vita eterna nell’unione con Dio. Appunto
sulla via di questa rivelazione-attuazione, san Paolo pone in rilievo la continuità tra la più antica alleanza,
che Dio stabilì costituendo il matrimonio già nell’opera della creazione, e l’alleanza definitiva in cui Cristo,
dopo aver amato la Chiesa e aver dato se stesso per lei, si unisce con essa in modo sponsale, corrispondente
cioè all’immagine dei coniugi. Questa continuità dell’iniziativa salvifica di Dio costituisce la base essenziale
della grande analogia contenuta nella lettera agli Efesini. La continuità della iniziativa salvifica di Dio
significa la continuità e perfino l’identità del mistero, del “grande mistero”, nelle diverse fasi della sua
rivelazione - quindi in certo senso, della sua “manifestazione” - ed insieme dell’attuazione; nella fase “ più
antica” dal punto di vista della storia dell’uomo e della salvezza e nella fase “della pienezza del tempo”
(Gal 4, 4).
4. È possibile intendere quel “grande mistero” come “sacramento”? L’Autore della lettera agli Efesini parla
forse, nel testo da noi citato, del sacramento del matrimonio? Se non ne parla direttamente e in senso stretto -
qui occorre esser d’accordo con l’opinione abbastanza diffusa dei biblisti e teologi - tuttavia sembra che in
questo testo parli delle basi della sacramentalità di tutta la vita cristiana, e in particolare, delle basi della
sacramentalità del matrimonio. Parla dunque della sacramentalità di tutta l’esistenza cristiana nella Chiesa e
in specie del matrimonio in modo indiretto, tuttavia nel modo più fondamentale possibile.
5. “Sacramento” non è sinonimo di “mistero” (1). Il mistero infatti rimane “occulto” - nascosto in Dio stesso
- cosicché anche dopo la sua proclamazione (ossia rivelazione) non cessa di chiamarsi “mistero”, e viene
anche predicato come mistero. Il sacramento presuppone la rivelazione del mistero e presuppone anche la
sua accettazione mediante la fede, da parte dell’uomo. Tuttavia esso è ad un tempo qualcosa di più che la
proclamazione del mistero e l’accettazione di esso mediante la fede. Il sacramento consiste nel “manifestare”
quel mistero in un segno che serve non solo a proclamare il mistero, ma anche ad attuarlo nell’uomo. Il
sacramento è segno visibile ed efficace della grazia. Per suo mezzo si attua nell’uomo quel mistero nascosto
dalla eternità in Dio, di cui parla, subito all’inizio, la lettera agli Efesini (cf. Ef 1, 9) - mistero della chiamata
alla santità, da parte di Dio, dell’uomo in Cristo, e mistero della sua predestinazione a divenire figlio
adottivo. Esso si attua in modo misterioso, sotto il velo di un segno; nondimeno quel segno è pur sempre un
“rendere visibile” quel mistero soprannaturale che agisce nell’uomo sotto il suo velo.
6. Prendendo in considerazione il passo della lettera agli Efesini qui analizzato, e in particolare le parole:
“Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa”, bisogna costatare che l’Autore della
Lettera scrive non soltanto del grande mistero nascosto in Dio, ma anche - e soprattutto - del mistero che si
realizza per il fatto che Cristo, il quale con atto di amore redentore ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per
lei, col medesimo atto si è unito con la Chiesa in modo sponsale, così come si uniscono reciprocamente
marito e moglie nel matrimonio istituito dal Creatore. Sembra che le parole della lettera agli Efesini motivino

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sufficientemente ciò che leggiamo all’inizio stesso della costituzione Lumen Gentium: “. . . la Chiesa è in
Cristo come un sacramentoo segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere
umano” (Lumen Gentium, 1). Questo testo del Vaticano II non dice: “La Chiesa è sacramento”, ma “è come
sacramento”, indicando con questo che della sacramentalità della Chiesa bisogna parlare in modo analogico e
non identico rispetto a ciò che intendiamo quando ci riferiamo ai sette sacramenti amministrati dalla Chiesa
per istituzione di Cristo. Se esistono le basi per parlare della Chiesa come di un sacramento, tali basi sono
state per la maggior parte indicate appunto nella lettera agli Efesini.
7. Si può dire che tale sacramentalità della Chiesa è costituita da tutti i sacramenti per mezzo dei quali essa
compie la sua missione santificatrice. Si può inoltre dire che la sacramentalità della Chiesa è fonte dei
sacramenti, e in particolare del Battesimo e dell’Eucaristia, come risulta dal brano, già analizzato, della
lettera agli Efesini (cf. Ef 5, 25-30). Bisogna infine dire che la sacramentalità della Chiesa rimane in un
particolare rapporto con il matrimonio: il sacramento più antico.

Mercoledì, 15 settembre 1982

1. Abbiamo davanti a noi il testo della lettera agli Efesini 5, 22-33, che già da qualche tempo stiamo
analizzando a motivo della sua importanza per il problema del matrimonio e del sacramento. Nell’insieme
del suo contenuto, a cominciare dal primo capitolo, la lettera tratta soprattutto del mistero “da secoli”
“nascosto in Dio”, come dono eternamente destinato all’uomo. “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro
Gesù Cristo, / che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. / In lui ci ha scelti prima
della creazione del mondo, / per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, / predestinandoci a
essere suoi figli adottivi / per opera di Gesù Cristo, / secondo il beneplacito della sua volontà. / E questo a
lode e gloria della sua grazia, / che ci ha dato nel suo Figlio diletto” (Ef 1, 3-6).
2. Finora si parla del mistero nascosto “da secoli” (Ef 3, 9) in Dio. Le frasi successive, introducono il lettore
nella fase di attuazione di quel mistero nella storia dell’uomo: il dono, destinato a lui “da secoli” in
Cristo, diviene parte reale dell’uomo nello stesso Cristo: “. . . nel quale abbiamo la redenzione mediante il
suo sangue, / la remissione dei peccati / secondo la ricchezza della sua grazia. / Egli l’ha abbondantemente
riversata su di noi / con ogni sapienza e intelligenza, / poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua
volontà, / secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito / per realizzarlo nella pienezza dei
tempi: / il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, / quelle del cielo come quelle della terra” ( Ef 1,
7-10).
3. Così l’eterno mistero è passato dallo stato del “nascondimento in Dio” alla fase di rivelazione ed
attuazione. Cristo, nel quale l’umanità è stata “da secoli” scelta e benedetta “di ogni benedizione spirituale”
del Padre - Cristo, destinato, secondo l’eterno “disegno” di Dio, affinché in lui, come nel Capo “fossero
ricapitolate tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” nella prospettiva
escatologica - rivela l’eterno mistero e lo attua tra gli uomini. Perciò l’Autore della lettera agli Efesini, nel
seguito della lettera stessa, esorta coloro ai quali è giunta questa rivelazione, e quanti l’hanno accolta nella
fede, a modellare la loro vita nello spirito della verità conosciuta. Alla stessa cosa esorta in modo particolare
i coniugi cristiani, mariti e mogli.
4. Per la massima parte del contesto, la lettera diviene istruzione, ossia parenesi. L’Autore sembra parlare
soprattutto degli aspetti morali della vocazione dei cristiani, tuttavia facendo continuo riferimento a l mistero,
che già opera in loro in virtù della redenzione di Cristo, e opera con efficacia soprattutto in virtù del
battesimo. Scrive infatti: “In lui anche voi, / dopo aver ascoltato la parola della verità, / il Vangelo della
vostra salvezza / e avere in esse creduto, / avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo / che era stato
promesso” (Ef 1, 13). Così dunque gli aspetti morali della vocazione cristiana rimangono collegati non
soltanto con la rivelazione dell’eterno mistero divino in Cristo e con l’accettazione di esso nella fede, ma
anche con l’ordine sacramentale, che, pur non ponendosi al primo piano in tutta la lettera, sembra tuttavia
esservi presente in modo discreto. Del resto, non può essere diversamente dato che l’Apostolo scrive ai

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cristiani i quali, mediante il battesimo, erano divenuti membri della comunità ecclesiale. Da questo punto di
vista, il brano della lettera agli Efesini 5, 22-33, finora analizzato, sembra avere una importanza particolare.
Getta infatti una luce speciale sull’essenziale rapporto del mistero col sacramento e specialmente sulla
sacramentalità del matrimonio.
5. Al centro del mistero è Cristo. In lui - proprio in lui - l’umanità è stata eternamente benedetta “con ogni
benedizione spirituale”. In lui - in Cristo - l’umanità è stata scelta “prima della creazione del mondo”, scelta
“nella carità” e predestinata all’adozione di figli. Quando in seguito, con la “pienezza dei tempi”, questo
eterno mistero viene realizzato nel tempo, ciò si attua anche in lui e per lui; in Cristo e per Cristo. Per mezzo
di Cristo viene rivelato il mistero dell’Amore divino. Per lui e in lui, esso viene reso compiuto: in lui
“abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, / la remissione dei peccati . . .” (Ef 1, 7). In tal modo gli
uomini che accettano mediante la fede il dono offerto loro in Cristo, divengono realmente partecipi
dell’eterno mistero, sebbene esso operi in loro sotto i veli della fede. Questo soprannaturale conferimento dei
frutti della redenzione compiuta da Cristo acquista, secondo la lettera agli Efesini 5, 22-33, il carattere di un
darsi sponsale di Cristo stesso alla Chiesa a somiglianza del rapporto sponsale tra il marito e la moglie.
Quindi non solo i frutti della redenzione sono dono, ma soprattutto lo è il Cristo: egli dà se stesso alla Chiesa,
come a sua sposa.
6. Dobbiamo porre la domanda, se in questo punto tale analogia non ci consenta di penetrare più
profondamente e con maggior precisione nel contenuto essenziale del mistero. Dobbiamo porci tale
domanda, tanto più che quel “classico” passo della lettera agli Efesini (cf. Ef 5, 22-33) non appare in astratto
e isolato, ma costituisce una continuità, in un certo senso un seguito degli enunciati dell’Antico Testamento, i
quali presentavano l’amore di Dio-Jahvè verso il popolo-Israele da lui eletto secondo la stessa analogia. Si
tratta in primo luogo dei testi dei Profeti che nei loro discorsi hanno introdotto la somiglianza dell’amore
sponsale per caratterizzare in modo particolare l’amore che Jahvè nutre verso Israele, l’amore che da parte
del popolo eletto non trova comprensione e contraccambio; anzi, incontra infedeltà e tradimento.
L’espressione di infedeltà e tradimento fu anzitutto l’idolatria, culto reso agli dèi stranieri.
7. Per dire il vero, nella maggior parte dei casi si trattava di rilevare in modo drammatico proprio quel
tradimento e quella infedeltà denominati “adulterio” di Israele; tuttavia, alla base di tutti questi enunciati dei
profeti sta l’esplicita convinzione che l’amore di Jahvè verso il popolo eletto può e deve essere paragonato
all’amore che unisce lo sposo con la sposa, l’amore che deve unire i coniugi. Converrebbe qui citare
numerosi passi dei testi di Isaia, Osea, Ezechiele (alcuni di essi sono stati già riportati in precedenza quando
è stato analizzato il concetto di “adulterio” sullo sfondo delle parole pronunciate da Cristo nel discorso della
Montagna). Non si può dimenticare che al patrimonio dell’Antico Testamento appartiene anche il “Cantico
dei Cantici” in cui l’immagine dell’amore sponsale è stata delineata - è vero - senza l’analogia tipica dei testi
profetici, che presentavano in quell’amore l’immagine dell’amore di Jahvè verso Israele, ma anche senza
quell’elemento negativo che negli altri testi costituisce il motivo di “adulterio” ossia di infedeltà. Così
dunque l’analogia dello sposo e della sposa, che ha consentito all’Autore della lettera agli Efesini di definire
il rapporto di Cristo con la Chiesa, possiede una ricca tradizione nei libri dell’Antica Alleanza. Analizzando
questa analogia nel “classico” testo della lettera agli Efesini, non possiamo non riportarci a quella tradizione.
8. Per illustrare tale tradizione ci limiteremo per il momento a citare un brano del testo di Isaia. Il profeta
dice: “Non temere, perché non dovrai più arrossire; / non vergognarti, perché non sarai più disonorata; / anzi,
dimenticherai la vergogna della tua giovinezza / e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza. / Poiché
tuo sposo è il tuo creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di Israele, / è
chiamato Dio di tutta la terra. / Come una donna abbandonata / e con l’animo afflitto, il Signore ti ha
richiamata. / Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? / Dice il tuo Dio. / Per un breve istante ti ho
abbandonata, / ma ti riprenderò con immenso amore. / . . . / non si allontanerebbe da te il mio affetto, / né
vacillerebbe la mia alleanza di pace; / dice il Signore che ti usa misericordia” (Is 54, 4-7.10).
Durante il nostro prossimo incontro inizieremo l’analisi del testo citato di Isaia.

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Mercoledì, 22 settembre 1982

1. La lettera agli Efesini, attraverso il paragone del rapporto tra Cristo e la Chiesa con il rapporto sponsale
dei coniugi, fa riferimento alla tradizione dei profeti dell’Antico Testamento. Per illustrarlo, citiamo il
seguente testo di Isaia: “Non temere, perché non dovrai più arrossire; / non vergognarti, perché non sarai più
disonorata; / anzi, dimenticherai la vergogna della tua giovinezza / e non ricorderai più il disonore della tua
vedovanza. / Poiché tuo sposo è il tuo creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il
Santo di Israele, / è chiamato Dio di tutta la terra. / Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto, / il
Signore ti ha richiamata. / Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? / Dice il tuo Dio. / Per un
breve istante ti ho abbandonata / ma ti riprenderò con immenso amore. / In un impeto di collera / ti ho
nascosto per un poco il mio volto; / ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, / dice il tuo redentore, il
Signore. / Ora è per me come ai giorni di Noè, / quando giurai che non avrei più riversato / le acque di Noè
sulla terra; / così ora giuro di non più adirarmi con te / e di non farti più minacce. / Anche se i monti si
spostassero / e i colli vacillassero, / non si allontanerebbe da te il mio affetto, / né vacillerebbe la mia
alleanza di pace; / dice il Signore che ti usa misericordia” (Is 54, 4-10).
2. Il testo di Isaia non contiene in questo caso i rimproveri fatti ad Israele come a sposa infedele, che
echeggiano con tanta forza negli altri testi, in particolare di Osea o di Ezechiele. Grazie a ciò, diventa più
trasparente il contenuto essenziale dell’analogia biblica: l’amore di Dio-Jahvè verso Israele-popolo eletto è
espresso come l’amore dell’uomo-sposo verso la donna eletta per essergli moglie attraverso il patto
coniugale. In tal modo Isaia spiega gli avvenimenti che compongono il corso della storia di Israele, risalendo
al mistero nascosto quasi nel cuore stesso di Dio. In certo senso, egli ci conduce nella medesima direzione, in
cui ci condurrà, dopo molti secoli, l’Autore della lettera agli Efesini, il quale - basandosi sulla redenzione già
compiuta in Cristo - svelerà molto più pienamente la profondità dello stesso mistero.
3. Il testo del profeta ha tutto il colorito della tradizione e della mentalità degli uomini dell’Antico
Testamento. Il profeta, parlando a nome di Dio e quasi con le sue parole, si rivolge ad Israele come sposo alla
sposa da lui eletta. Queste parole traboccano di un autentico ardore d’amore e nello stesso tempo pongono in
rilievo tutta la specificità sia della situazione sia della mentalità proprie di quell’epoca. Esse sottolineano
che la scelta da parte dell’uomo toglie alla donna il “disonore”, che, secondo l’opinione della società,
sembrava connesso allo stato nubile sia originario (la verginità), sia secondario (la vedovanza), sia infine
quello derivato dal ripudio della moglie non amata (cf. Dt 24, 1) o eventualmente della moglie infedele.
Tuttavia, il testo citato non fa menzione dell’infedeltà; rileva invece il motivo di “amore misericordioso”
(Nel testo ebraico abbiamo le parole hesed-rahamim, che appaiono insieme più di una volta.), indicando con
ciò non soltanto l’indole sociale del matrimonio nell’Antica Alleanza, ma anche il carattere stesso del dono,
che è l’amore di Dio verso Israele-sposa: dono, che proviene interamente dall’iniziativa di Dio. In altre
parole: indicando la dimensione della grazia, che dal principio è contenuta in quell’amore. Questa è forse la
più forte “dichiarazione di amore” da parte di Dio, collegata con il solenne giuramento di fedeltà per sempre.
4. L’analogia dell’amore che unisce i coniugi è in questo brano fortemente rilevata. Isaia dice: “. . . tuo sposo
è il tuo creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di Israele, / è chiamato Dio
di tutta la terra” (Is 54, 5). Così, dunque, in quel testo lo stesso Dio, in tutta la sua maestà di Creatore e
Signore della creazione, viene esplicitamente chiamato “sposo” del popolo eletto. Questo “sposo” parla del
suo grande “affetto”, che non si “allontanerà” da Israele-sposa, ma costituirà un fondamento stabile
dell’“alleanza di pace” con lui. Così il motivo dell’amore sponsale e del matrimonio viene collegato con il
motivo dell’alleanza. Inoltre il “Signore degli eserciti” chiama se stesso non soltanto “creatore”, ma anche
“redentore”. Il testo ha un contenuto teologico di ricchezza straordinaria.
5. Confrontando il testo di Isaia con la lettera agli Efesini e costatando la continuità riguardo all’analogia
dell’amore sponsale e del matrimonio, dobbiamo rilevare al tempo stesso una certa diversità di ottica
teologica. L’Autore della lettera già nel primo capitolo parla del mistero dell’amore e dell’elezione, con cui
“Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo” abbraccia gli uomini nel suo Figlio, soprattutto come di un
mistero “nascosto nella mente di Dio”. Questo è il mistero dell’amore paterno, mistero dell’elezione alla
santità (“per essere santi e immacolati al suo cospetto”) (Ef 1, 4) e dell’adozione a figli in Cristo
(“predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo”) (Ef 1, 5). In tale contesto, la
deduzione dell’analogia circa il matrimonio, che abbiamo trovato in Isaia (“tuo sposo è il tuo creatore,
Signore degli eserciti è il suo nome”) (Is 54, 5), sembra essere uno scorcio facente parte della prospettiva

168
teologica. La prima dimensione dell’amore e dell’elezione, come mistero da secoli nascosto in Dio, è una
dimensione paterna e non “coniugale”. Secondo la lettera agli Efesini, la prima nota caratteristica di quel
mistero resta connessa con la paternità stessa di Dio, messa particolarmente in rilievo dai profeti (cf. Os 11,
1-4; Is 63, 8-9; 64, 7; Ml 1, 6).
6. L’analogia dell’amore sponsale e del matrimonio appare soltanto quando il “Creatore” e il “Santo di
Israele” del testo di Isaia si manifesta come “Redentore”. Isaia dice: “Tuo sposo è il tuo creatore, Signore
degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di Israele” (Is 54, 5). Già in questo testo è possibile, in
certo senso, leggere il parallelismo tra lo “sposo” e il “Redentore”. Passando alla lettera agli Efesini,
dobbiamo osservare che questo pensiero vi è appunto pienamente sviluppato. La figura del Redentore
(Sebbene nei più antichi libri biblici il “redentore” [ebr. go’el] significasse la persona obbligata per legami di
sangue a vendicare il parente ucciso [cfr., ex. gr., Nm. 35, 19], a portare aiuto al parente sfortunato [cfr., ex.
gr., Ru. 4, 6] e specialmente a riscattarlo dalla schiavitù [cfr., ex. gr., Lv. 25, 48], con l’andar del tempo
questa analogia venne applicata a Jahvè, “il quale ha riscattato Israele dalla condizione servile, dalla mano
del faraone, re di Egitto” [Dt. 7, 8]. Particolarmente nel Deutero-Isaia l’accento si sposta dall’azione di
riscatto alla persona del Redentore, che personalmente salva Israele, quasi soltanto mediante la sua stessa
presenza, “senza denaro e senza regali” [Is. 45, 13]. Perciò il passaggio dal “Redentore” della profezia di
Isaia 54 alla lettera agli Efesini ha la stessa motivazione dell’applicazione, nella suddetta lettera, dei testi del
Canto sul Servo di Jahvè [cfr. Is. 53, 10-12; Ef. 5, 23. 25-26]) si delinea già nel I capitolo come propria di
colui che è il primo “Figlio diletto” del Padre (Ef 1, 6), diletto dall’eternità: di colui, nel quale noi tutti siamo
stati “da secoli” amati dal Padre. È il Figlio della stessa sostanza del Padre, “nel quale abbiamo la
remissione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia” ( Ef 1, 7).
Lo stesso Figlio, come Cristo (ossia come Messia), “ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25).
Questa splendida formulazione della lettera agli Efesini riassume in sé e insieme mette in rilievo gli elementi
del Canto sul Servo di Jahvè e del Canto di Sion (cf. ex. gr. Is 42, 1; 53, 8-12; 54, 8).
E così la donazione di se stesso per la Chiesa equivale al compimento dell’opera della redenzione. In tal
modo, il “creatore, Signore degli eserciti” del testo di Isaia diviene il “Santo di Israele”, del “nuovo Israele”,
quale Redentore. Nella lettera agli Efesini la prospettiva teologica del testo profetico è conservata ed insieme
approfondita e trasformata. Vi entrano nuovi momenti rivelati: il momento trinitario, cristologico (Al posto
della relazione “Dio-Israele”, Paolo introduce il rapporto “Cristo-Chiesa”, applicando a Cristo tutto ciò che
nell’Antico Testamento si riferisce a jahvè [Adonai - Kyrios]. Cristo è Dio, ma Paolo gli applica anche tutto
ciò che si riferisce al Servo di Jahvè nei quattro Canti [Is. 42; 49; 50; 52-53], interpretati nel periodo
intertestamentario in senso messianico. Il motivo del “Capo” e del “Corpo” non è di derivazione biblica, ma
probabilmente ellenistica [stoica?]. Nella lettera agli Efesini questo tema è stato utilizzato nel contesto del
matrimonio [mentre nella prima lettera ai Corinzi il tema del “Corpo” serve a dimostrare l’ordine che regna
nella società]. Dal punto di vista biblico l’introduzione di questo motivo è una novità assoluta.) e infine
escatologico.
7. Così dunque san Paolo, scrivendo la lettera al Popolo di Dio della Nuova Alleanza e precisamente alla
Chiesa di Efeso, non ripeterà più: “Tuo sposo è il tuo creatore”, ma mostrerà in che modo il “Redentore”, che
è il Figlio primogenito e da secoli “diletto del Padre”, rivela contemporaneamente il suo amore salvifico, che
consiste nella donazione di se stesso per la Chiesa, come amore sponsale con cui egli sposa la Chiesa e la fa
proprio Corpo. Così l’analogia dei testi profetici dell’Antico Testamento (nel caso, soprattutto del libro di
Isaia) rimane nella lettera agli Efesini conservata e nello stesso tempo evidentemente trasformata.
All’analogia corrisponde il mistero, che attraverso essa viene espresso e in certo senso spiegato. Nel testo di
Isaia questo mistero è appena delineato, quasi “socchiuso”; nella lettera agli Efesini, invece, è pienamente
svelato (s’intende, senza cessare di esser mistero). Nella lettera agli Efesini è esplicitamente distinta la
dimensione eterna del mistero in quanto nascosto in Dio (“Padre del Signore nostro Gesù Cristo”) e la
dimensione della sua realizzazione storica, secondo la sua dimensione cristologica e insieme ecclesiologica.
L’analogia del matrimonio si riferisce soprattutto alla seconda dimensione. Anche nei profeti (in Isaia)
l’analogia del matrimonio si riferiva direttamente ad una dimensione storica: era collegata con la storia del
popolo eletto dell’Antica Alleanza, con la storia di Israele; invece, la dimensione cristologica ed
ecclesiologica, nell’attuazione veterotestamentaria del mistero, si trovava solo come in embrione: fu soltanto
preannunziata.
Nondimeno è chiaro che il testo di Isaia ci aiuta a comprendere meglio la lettera agli Efesini e la grande
analogia dell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa.

169
Mercoledì, 29 settembre 1982

1. Nella lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33) - come nei profeti dell’Antico Testamento (ad esempio in Isaia) -
troviamo la grande analogia del matrimonio o dell’amore sponsale tra Cristo e la Chiesa.
Quale funzione compie questa analogia nei riguardi del mistero rivelato nell’Antica e nella Nuova Alleanza?
A questa domanda bisogna rispondere gradualmente. Prima di tutto, l’analogia dell’amore coniugale o
sponsale aiuta a penetrare nell’essenza stessa del mistero. Aiuta a comprenderlo fino ad un certo punto,
s’intende, in modo analogico. È ovvio che l’analogia dell’amore terrestre, umano, del marito verso la moglie,
dell’umano amore sponsale, non può offrire una comprensione adeguata e completa di quella Realtà
assolutamente trascendente, che è il mistero divino, sia nel suo celarsi da secoli in Dio, sia nella sua
realizzazione “storica” nel tempo, quando “Cristo ha amato la Chiesa ed ha dato se stesso per lei” (Ef 5,
25). Il mistero rimane trascendente riguardo a questa analogia come riguardo a qualunque altra analogia,
con cui cerchiamo di esprimerlo in linguaggio umano. Contemporaneamente, tuttavia, tale analogia offre la
possibilità di una certa “penetrazione” conoscitiva nell’essenza stessa del mistero.
2. L’analogia dell’amore sponsale ci consente di comprendere in certo modo il mistero che da secoli è
nascosto in Dio, e che nel tempo viene realizzato da Cristo, come l’amore proprio di un totale e irrevocabile
dono di sé da parte di Dio all’uomo in Cristo. Si tratta dell’“uomo” nella dimensione personale e insieme
comunitaria (questa dimensione comunitaria viene espressa nel libro di Isaia e nei profeti come “Israele”,
nella lettera agli Efesini come “Chiesa”; si può dire: Popolo di Dio dell’Antica e della Nuova Alleanza).
Aggiungiamo che in ambedue le concezioni, la dimensione comunitaria è posta, in certo senso, in primo
piano, ma non tanto da velare totalmente la dimensione personale, che d’altronde appartiene semplicemente
all’essenza stessa dell’amore sponsale. In ambedue i casi abbiamo piuttosto a che fare con una significativa
“riduzione della comunità alla persona” (Non si tratta soltanto della personificazione della società umana,
che costituisce un fenomeno abbastanza comune nella letteratura mondiale, ma di una “corporate
personality” specifica della Bibbia, contrassegnata da un continuo reciproco rapporto dell’individuo con il
gruppo [cf. H. Wheeler Robinson, The Hebrew Conception of Corporate Personality: BZAW 66 [1936] 49-
62; cf. anche J. L. McKenzie, Aspects of Old Testament Thought, in “The Jerome Biblical Commentary”, vol.
2, London 1970, p. 748]): Israele e la Chiesa sono considerati come sposa-persona da parte dello sposo-
persona (“Jahvè” e “Cristo”). Ogni “io” concreto deve ritrovare se stesso in quel biblico “noi”.
3. Così dunque l’analogia di cui trattiamo consente di comprendere, in un certo grado, il mistero rivelato del
Dio vivo, che è Creatore e Redentore (e in quanto tale è, al tempo stesso, Dio dell’alleanza); ci consente di
comprendere tale mistero al modo di un amore sponsale, così come consente di comprenderlo anche al modo
di un amore “misericordioso” (secondo il testo del libro di Isaia), oppure al modo di un amore “paterno”
(secondo la lettera agli Efesini, principalmente nel capitolo 1). I modi suddetti di comprendere il mistero
sono anch’essi senz’altro analogici. L’analogia dell’amore sponsale contiene in sé una caratteristica del
mistero, che non viene direttamente messa in risalto né dall’analogia dell’amore misericordioso né
dall’analogia dell’amore paterno (o da qualunque altra analogia usata nella Bibbia, a cui avremmo potuto
riferirci).
4. L’analogia dell’amore degli sposi (o amore sponsale) sembra porre in risalto soprattutto il momento del
dono di se stesso da parte di Dio all’uomo, “da secoli” scelto in Cristo (letteralmente: ad “Israele”, alla
“Chiesa”); dono totale (o piuttosto “radicale”) e irrevocabile nel suo carattere essenziale, ossia come dono.
Questo dono è certamente “radicale” e perciò “totale”. Non si può parlare qui della “totalità” in senso
metafisico. L’uomo, infatti, come creatura non è capace di “accogliere” il dono di Dio nella pienezza
trascendentale della sua divinità. Un tale “dono totale” (non creato) viene soltanto partecipato da Dio stesso
nella “trinitaria comunione delle Persone”. Invece, il dono di se stesso da parte di Dio all’uomo, di cui parla
l’analogia dell’amore sponsale, può avere soltanto la forma della partecipazione alla natura divina (cf. 2
Pt 1, 4), come è stato chiarito con grande precisione dalla teologia. Nondimeno, secondo tale misura, il dono
fatto all’uomo da parte di Dio in Cristo è un dono “totale” ossia “radicale”, come indica appunto l’analogia
dell’amore sponsale: è, in certo senso, “tutto” ciò che Dio “ha potuto” dare di se stesso all’uomo, considerate
le facoltà limitate dell’uomo-creatura. In tal modo, l’analogia dell’amore sponsale indica il carattere
“radicale” della grazia: di tutto l’ordine della grazia creata.
5. Quanto sopra sembra che si possa dire in riferimento alla prima funzione della nostra grande analogia, che
è passata dagli scritti dei profeti dell’Antico Testamento alla lettera agli Efesini, dove, come è stato già

170
notato, ha subìto una significativa trasformazione. L’analogia del matrimonio, come realtà umana, in cui
viene incarnato l’amore sponsale, aiuta in certo grado e in certo modo a comprendere il mistero della
grazia come realtà eterna in Dio e come frutto “storico” della redenzione dell’umanità in Cristo. Tuttavia,
abbiamo detto in precedenza che questa analogia biblica non solo “spiega” il mistero, ma che, d’altra parte, il
mistero definisce e determina il modo adeguato di comprendere l’analogia, e precisamente questa sua
componente, in cui gli autori biblici vedono “l’immagine e somiglianza” del mistero divino. Così, dunque, la
comparazione del matrimonio (a motivo dell’amore sponsale) al rapporto di “Jahvè-Israele” nell’Antica
Alleanza e di “Cristo-Chiesa” nella Nuova Alleanza decide in pari tempo circa il modo di comprendere il
matrimonio stesso e determina questo modo.
6. Questa è la seconda funzione della nostra grande analogia. E, nella prospettiva di questa funzione, ci
avviciniamo di fatto al problema “sacramento e mistero”, ossia, in senso generale e fondamentale, al
problema della sacramentalità del matrimonio. Ciò pare particolarmente motivato alla luce dell’analisi della
lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33). Presentando infatti il rapporto di Cristo con la Chiesa a immagine
dell’unione sponsale del marito e della moglie, l’Autore di questa lettera parla nel modo più generale ed
insieme fondamentale non solo del realizzarsi dell’eterno mistero divino, ma anche del modo in cui quel
mistero si è espresso nell’ordine visibile, del modo in cui è divenuto visibile, e per questo è entrato nella
sfera del Segno.
7. Con il termine “segno” intendiamo qui semplicemente la “visibilità dell’Invisibile”. Il mistero da secoli
nascosto in Dio - ossia invisibile - è divenuto visibile prima di tutto nello stesso evento storico di Cristo. E il
rapporto di Cristo con la Chiesa, che nella lettera agli Efesini viene definito “ mysterium magnum”,
costituisce l’adempimento e la concretizzazione della visibilità dello stesso mistero. Peraltro, il fatto che
l’Autore della lettera agli Efesini paragoni l’indissolubile rapporto di Cristo con la Chiesa al rapporto tra il
marito e la moglie, cioè al matrimonio - facendo al tempo stesso riferimento alle parole della Genesi ( Gen 2,
24), che con l’atto creatore di Dio istituiscono originariamente il matrimonio -, volge la nostra riflessione
verso ciò che è stato presentato già in precedenza - nel contesto del mistero stesso della creazione - come
“visibilità dell’Invisibile”, verso l’“origine” stessa della storia teologica dell’uomo.
Si può dire che il segno visibile del matrimonio “in principio”, in quanto collegato al segno visibile di Cristo
e della Chiesa al vertice dell’economia salvifica di Dio, traspone l’eterno piano di amore nella dimensione
“storica” e ne fa il fondamento di tutto l’ordine sacramentale. Un particolare merito dell’Autore della lettera
agli Efesini sta nell’aver accostato questi due segni, facendone l’unico grande segno, cioè un grande
sacramento (“sacramentum magnum”).

Mercoledì, 6 ottobre 1982

1. Proseguiamo l’analisi del classico testo del capitolo 5 della lettera agli Efesini, versetti 22-23. A questo
proposito occorre citare alcune frasi contenute in una delle precedenti analisi dedicate a questo tema:
“L’uomo appare nel mondo visibile come la più alta espressione del dono divino, perché porta in sé
l’interiore dimensione del dono. E con essa porta nel mondo la sua particolare somiglianza con Dio, con la
quale egli trascende e domina anche la sua «visibilità» nel mondo, la sua corporeità, la sua mascolinità o
femminilità, la sua nudità. Un riflesso di questa somiglianza è anche la consapevolezza primordiale del
significato sponsale del corpo, pervasa dal mistero dell’innocenza originaria” (L’amore umano nel piano
divino, Città del Vaticano 1980, p. 90). Queste frasi riassumono in poche parole il risultato delle analisi
centrate sui primi capitoli del libro della Genesi, in rapporto alle parole con cui Cristo, nel suo colloquio con
i Farisei sul tema del matrimonio e della sua indissolubilità, fece riferimento al “principio”. Altre frasi della
medesima analisi pongono il problema del sacramento primordiale: “Così, in questa dimensione, si
costituisce un primordiale sacramento, inteso quale segno che trasmette efficacemente nel mondo visibile il
mistero invisibile nascosto in Dio dall’eternità. E questo è il mistero della Verità e dell’Amore, il mistero
della vita divina, alla quale l’uomo partecipa realmente . . . È l’innocenza originaria che inizia questa
partecipazione . . .” (Ivi.).

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2. Bisogna rivedere il contenuto di queste affermazioni alla luce della dottrina paolina espressa nella lettera
agli Efesini, avendo presente soprattutto il passo del capitolo 5, 22-33, collocato nel contesto complessivo di
tutta la lettera. Del resto, la lettera ci autorizza a far questo, perché l’Autore stesso nel capitolo 5, versetto 31,
fa riferimento al “principio”, e precisamente alle parole dell’istituzione del matrimonio nel libro della Genesi
(Gen 2, 24).In che senso possiamo intravedere in queste parole un enunciato circa il sacramento, circa il
sacramento primordiale? Le precedenti analisi del “principio” biblico ci hanno condotto gradualmente a
questo, in considerazione dello stato dell’originaria gratificazione dell’uomo nell’esistenza e nella grazia, che
fu lo stato di innocenza e di giustizia originarie. La lettera agli Efesini ci induce ad accostarci a tale
situazione - ossia allo stato dell’uomo prima del peccato originale - dal punto di vista del mistero nascosto
dall’eternità in Dio. Infatti leggiamo nelle prime frasi della lettera che “Dio, Padredel Signore nostro Gesù
Cristo / . . . ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. / In lui ci ha scelti prima della
creazione del mondo, / per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità . . .” (Ef 1, 3-4).
3. La lettera agli Efesini apre davanti a noi il mondo soprannaturale dell’eterno mistero, degli eterni disegni
di Dio Padre nei riguardi dell’uomo. Questi disegni precedono la “creazione del mondo”, quindi anche la
creazione dell’uomo. Al tempo stesso quei disegni divini cominciano a realizzarsi già in tutta la realtà della
creazione. Se al mistero della creazione appartiene anche lo stato dell’innocenza originaria dell’uomo creato,
come maschio e femmina, ad immagine di Dio, ciò significa che il dono primordiale, conferito all’uomo da
parte di Dio, racchiudeva già in sé il frutto dell’elezione, di cui leggiamo nella lettera agli Efesini: “Ci ha
scelti . . . per essere santi e immacolati al suo cospetto” (Ef 1, 4). Ciò appunto sembrano rilevare le parole del
libro della Genesi, quando il Creatore-Elohim trova nell’uomo - maschio e femmina - comparso “al suo
cospetto”, un bene degno di compiacimento: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”
(Gen 1, 31). Solo dopo il peccato, dopo la rottura dell’originaria alleanza con il Creatore, l’uomo sente il
bisogno di nascondersi “dal Signore Dio”: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, poiché sono
nudo, e mi sono nascosto” (Gen 3, 10).
4. Invece, prima del peccato, l’uomo portava nella sua anima il frutto dell’eterna elezione in Cristo, Figlio
eterno del Padre. Mediante la grazia di questa elezione l’uomo, maschio e femmina, era “santo e
immacolato” al cospetto di Dio. Quella primordiale (o originaria) santità e purezza si esprimeva anche nel
fatto che, sebbene entrambi fossero “nudi . . ., non provavano vergogna” (Gen2, 25), come già abbiamo
cercato di mettere in evidenza nelle precedenti analisi. Confrontando la testimonianza del “principio”,
riportata nei primi capitoli del libro della Genesi, con la testimonianza della lettera agli Efesini, occorre
dedurre che la realtà della creazione dell’uomo era già permeata dalla perenne elezione dell’uomo in
Cristo: chiamata alla santità attraverso la grazia di adozione a figli (“predestinandoci a essere suoi figli
adottivi / per opera di Gesù Cristo, / secondo il beneplacito della sua volontà. / E questo a lode e gloria della
sua grazia, / che ci ha dato nel suo Figlio diletto”) (Ef 1, 5-6).
5. L’uomo, maschio e femmina, divenne fin dal “principio” partecipe di questo dono soprannaturale. Tale
gratificazione è stata data in considerazione di Colui, che dall’eternità era “diletto” quale Figlio, sebbene -
secondo le dimensioni del tempo e della storia - essa abbia preceduto l’incarnazione di questo “Figlio
diletto” e anche la “redenzione” che abbiamo in lui “mediante il suo sangue” (Ef 1, 7).
La redenzione doveva diventare la fonte della gratificazione soprannaturale dell’uomo dopo il peccato e, in
certo senso, malgrado il peccato. Questa gratificazione soprannaturale, che ebbe luogo prima del peccato
originale, cioè la grazia della giustizia e dell’innocenza originarie - gratificazione che fu frutto dell’elezione
dell’uomo in Cristo prima dei secoli - si è compiuta appunto per riguardo a lui, a quell’unico Diletto, pur
anticipando cronologicamente la sua venuta nel corpo. Nelle dimensioni del mistero della creazione, la
elezione alla dignità della figliolanza adottiva fu propria soltanto del “primo Adamo”, cioè dell’uomo creato
ad immagine e somiglianza di Dio, quale maschio e femmina.
6. In quale modo si verifica in questo contesto la realtà del sacramento, del sacramento primordiale?
Nell’analisi del “principio”, di cui è stato citato poco fa un brano, abbiamo detto che “il sacramento, come
segno visibile, si costituisce con l’uomo, in quanto «corpo», mediante la sua «visibile» mascolinità e
femminilità. Il corpo, infatti, e soltanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il
divino. Esso è stato creato per trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero nascosto dall’eternità in
Dio, e così esserne segno” (L’amore umano nel piano divino, Città del Vaticano 1980, p. 90).
Questo segno ha inoltre una sua efficacia, come ancora dicevo: “L’innocenza originaria collegata
all’esperienza del significato sponsale del corpo” fa sì che “l’uomo si sente, nel suo corpo di maschio e di

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femmina, soggetto di santità” (Ivi., p. 91). “Si sente” e lo è fin dal “principio”. Quella santità conferita
originariamente all’uomo da parte del Creatore appartiene alla realtà del “sacramento della creazione”. Le
parole della Genesi 2, 24, “l’uomo . . . si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”, pronunciate
sullo sfondo di questa realtà originaria in senso teologico, costituiscono il matrimonio quale parte
integrante e, in certo senso, centrale del “sacramento della creazione”. Esse costituiscono - o forse piuttosto
confermano semplicemente - il carattere della sua origine. Secondo queste parole, il matrimonio è
sacramento in quanto parte integrale e, direi, punto centrale del “sacramento della creazione”. In questo
senso è sacramento primordiale.
7. L’istituzione del matrimonio, secondo le parole della Genesi 2, 24, esprime non soltanto l’inizio della
fondamentale comunità umana che, mediante la forza “procreatrice” che le è propria (“siate fecondi e
moltiplicatevi”) (Gen 1, 28), serve a continuare l’opera della creazione, ma essa nello stesso tempo esprime
l’iniziativa salvifica del Creatore, corrispondente alla eterna elezione dell’uomo, di cui parla la lettera agli
Efesini. Quella iniziativa salvifica proviene da Dio-Creatore e la sua efficacia soprannaturale s’identifica con
l’atto stesso della creazione dell’uomo nello stato dell’innocenza originaria. In questo stato, già fin nell’atto
della creazione dell’uomo, fruttificò la sua eterna elezione in Cristo. In tal modo occorre riconoscere che
l’originario sacramento della creazione trae la sua efficacia dal “Figlio diletto” (cf. Ef 1, 6: dove si parla
della “grazia che ci ha dato nel suo Figlio diletto”). Se poi si tratta del matrimonio, si può dedurre che -
istituito nel contesto del sacramento della creazione nella sua globalità, ossia nello stato dell’innocenza
originaria - esso doveva servire non soltanto a prolungare l’opera della creazione, ossia della procreazione,
ma anche ad espandere sulle ulteriori generazioni degli uomini lo stesso sacramento della creazione, cioè i
frutti soprannaturali dell’eterna elezione dell’uomo da parte del Padre nell’eterno Figlio: quei frutti, di cui
l’uomo è stato gratificato da Dio nell’atto stesso della creazione.
La lettera agli Efesini sembra autorizzarci ad intendere in tal modo il libro della Genesi e la verità sul
“principio” dell’uomo e del matrimonio ivi contenuta.

Mercoledì, 13 ottobre 1982

1. Nella nostra precedente considerazione abbiamo cercato di approfondire - alla luce della lettera agli
Efesini - il “principio” sacramentale dell’uomo e del matrimonio nello stato della giustizia (o innocenza)
originaria.
È noto, tuttavia, che l’eredità della grazia è stata respinta dal cuore umano al momento della rottura della
prima alleanza con il Creatore. La prospettiva della procreazione, invece di essere illuminata dall’eredità
della grazia originaria, donata da Dio non appena infusa l’anima razionale, è stata offuscata dalla eredità del
peccato originale. Si può dire che il matrimonio, come sacramento primordiale, è stato privato di quella
efficacia soprannaturale, che, al momento della istituzione, attingeva al sacramento della creazione nella sua
globalità. Nondimeno, anche in questo stato, cioè nello stato della peccaminosità ereditaria dell’uomo, il
matrimonio non cessò mai di essere la figura di quel sacramento, di cui leggiamo nella lettera agli
Efesini (Ef 5, 22-33) e che l’Autore della medesima lettera non esita a definire “grande mistero”. Non
possiamo forse desumere che il matrimonio sia rimasto quale piattaforma dell’attuazione degli eterni disegni
di Dio, secondo i quali il sacramento della creazione aveva avvicinato gli uomini e li aveva preparati al
sacramento della Redenzione, introducendoli nella dimensione dell’opera della salvezza? L’analisi della
lettera agli Efesini, e in particolare del “classico” testo del capo 5, versetti 22-33, sembra propendere per una
tale conclusione.
2. Quando l’Autore, al versetto 31, fa riferimento alle parole dell’istituzione del matrimonio, contenute nella
Genesi (2, 24: “Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno
una sola carne”), e subito dopo dichiara: “Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla
Chiesa” (Ef 5, 32), sembra indicare non soltanto l’identità del Mistero nascosto in Dio dall’eternità, ma anche
quella continuità della sua attuazione che esiste tra il sacramento primordiale connesso alla gratificazione
soprannaturale dell’uomo nella creazione stessa e la nuova gratificazione - avvenuta quando “Cristo ha

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amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa . . .” ( Ef 5, 25-26) - gratificazione che può
essere definita nel suo insieme quale Sacramento della Redenzione. In questo dono redentore di se stesso
“per” la Chiesa, è anche racchiuso - secondo il pensiero paolino - il dono di sé da parte di Cristo alla Chiesa,
ad immagine del rapporto sponsale che unisce marito e moglie nel matrimonio. In tal modo il Sacramento
della Redenzione riveste, in certo senso, la figura e la forma del sacramento primordiale. Al matrimonio del
primo marito e della prima moglie, quale segno della gratificazione soprannaturale dell’uomo nel sacramento
della creazione, corrisponde lo sposalizio, o piuttosto l’analogia dello sposalizio, di Cristo con la Chiesa,
quale fondamentale “grande” segno della gratificazione soprannaturale dell’uomo nel Sacramento della
Redenzione, della gratificazione, in cui si rinnova, in modo definitivo, l’alleanza della grazia di elezione,
infranta al “principio” con il peccato.
3. L’immagine contenuta nel passo citato della lettera agli Efesini sembra parlare soprattutto del Sacramento
della Redenzione come della definitiva attuazione del Mistero nascosto dall’eternità in Dio. In questo
“mysterium magnum” si realizza appunto definitivamente tutto ciò, di cui la medesima lettera agli Efesini
aveva trattato nel capitolo 1. Essa infatti dice, come ricordiamo, non soltanto: “In lui (cioè in Cristo) [Dio] ci
ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto . . .” ( Ef 1, 4), ma
anche: “Nel quale [Cristo] abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati, secondo
la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi . . .” ( Ef 1, 7-8). La nuova
gratificazione soprannaturale dell’uomo nel “Sacramento della Redenzione” è anche una nuova attuazione
del Mistero nascosto dall’eternità in Dio, nuova in rapporto al sacramento della creazione. In questo
momento la gratificazione è, in certo senso, una “nuova creazione”. Si differenzia però dal sacramento della
creazione in quanto la gratificazione originaria, unita alla creazione dell’uomo, costituiva quell’uomo “dal
principio”, mediante la grazia, nello stato della originaria innocenza e giustizia. La nuova gratificazione
dell’uomo nel Sacramento della Redenzione gli dona invece soprattutto la “remissione dei peccati”. Tuttavia,
anche qui può “sovrabbondare la grazia”, come altrove si esprime san Paolo: “Laddove è abbondato il
peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5, 20).
4. Il Sacramento della Redenzione - frutto dell’amore redentore di Cristo - diviene, in base al suo amore
sponsale verso la Chiesa, una permanente dimensione della vita della Chiesa stessa, dimensione
fondamentale e vivificante. È il “mysterium magnum” di Cristo e della Chiesa: mistero eterno realizzato da
Cristo, il quale “ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25); mistero che si attua continuamente nella Chiesa, perché
Cristo “ha amato la Chiesa” (Ef 5, 25), unendosi con essa con amore indissolubile, così come si uniscono gli
sposi, marito e moglie, nel matrimonio. In questo modo la Chiesa vive del Sacramento della Redenzione, e a
sua volta completa questo sacramento come la moglie, in virtù dell’amore sponsale, completa il proprio
marito, il che venne in certo modo già posto in rilievo “al principio”, quando il primo uomo trovò nella prima
donna “un aiuto che gli era simile” (Gen 2, 20). Sebbene l’analogia della lettera agli Efesini non lo precisi,
possiamo tuttavia aggiungere che anche la Chiesa unita con Cristo, come la moglie col proprio marito,
attinge dal Sacramento della Redenzione tutta la sua fecondità e maternità spirituale. Ne testimoniano, in
qualche modo, le parole della lettera di san Pietro, quando scrive che siamo stati “rigenerati non da un seme
corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna” (1 Pt 1, 23). Così il Mistero nascosto
dall’eternità in Dio - Mistero che al “principio”, nel sacramento della creazione, divenne una realtà visibile
attraverso l’unione del primo uomo e della prima donna nella prospettiva del matrimonio - diventa nel
Sacramento della Redenzione una realtà visibile nell’unione indissolubile di Cristo con la Chiesa, che
l’Autore della lettera agli Efesini presenta come l’unione sponsale dei coniugi, marito e moglie.
5. Il “sacramentum magnum” (il testo greco dice: tò mysterion toûto méga estín) della lettera agli Efesini
parla della nuova realizzazione del Mistero nascosto dall’eternità in Dio; realizzazione definitiva dal punto di
vista della storia terrena della salvezza. Parla inoltre del “renderlo [il mistero] visibile”: della visibilità
dell’Invisibile. Questa visibilità non fa sì che il mistero cessi d’esser mistero. Ciò si riferiva al matrimonio
costituito al “principio”, nello stato dell’innocenza originaria, nel contesto del sacramento della creazione.
Ciò si riferisce anche all’unione di Cristo con la Chiesa, quale “mistero grande” del Sacramento della
Redenzione. La visibilità dell’Invisibile non significa - se così si può dire - una totale chiarezza del mistero.
Esso, come oggetto della fede, rimane velato anche attraverso ciò in cui appunto si esprime e si attua. La
visibilità dell’Invisibile appartiene quindi all’ordine dei segni, e il “segno” indica soltanto la realtà del
mistero, ma non la “svela”. Come il “primo Adamo” - l’uomo, maschio e femmina - creato nello stato
dell’innocenza originaria e chiamato in questo stato all’unione coniugale (in questo senso parliamo del

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sacramento della creazione), fu segno dell’eterno Mistero, così il “secondo Adamo”, Cristo, unito con la
Chiesa attraverso il Sacramento della Redenzione con un vincolo indissolubile, analogo all’indissolubile
alleanza dei coniugi, è segno definitivo dello stesso Mistero eterno. Parlando dunque del realizzarsi
dell’eterno mistero, parliamo anche del fatto che esso diventa visibile con la visibilità del segno. E perciò
parliamo pure della “sacramentalità” di tutta l’eredità del Sacramento della Redenzione, in riferimento
all’intera opera della Creazione e della Redenzione, e tanto più in riferimento al matrimonio istituito nel
contesto del sacramento della creazione, come anche in riferimento alla Chiesa come sposa di Cristo, dotata
di un’alleanza quasi coniugale con lui.

Mercoledì, 20 ottobre 1982

1. Mercoledì scorso abbiamo parlato dell’integrale eredità dell’alleanza con Dio, e della grazia unita
originariamente alla divina opera della creazione. Di questa integrale eredità - come conviene dedurre dal
testo della lettera agli Efesini 5, 22-33 - faceva parte anche il matrimonio, come sacramento primordiale,
istituito dal “principio” e collegato con il sacramento della creazione nella sua globalità. La sacramentalità
del matrimonio non è soltanto modello e figura del sacramento della Chiesa (di Cristo e della Chiesa), ma
costituisce anche parte essenziale della nuova eredità: quella del sacramento della Redenzione, di cui la
Chiesa viene gratificata in Cristo. Occorre qui ancora una volta riportarsi alle parole di Cristo in Matteo 19,
3-9 (cf. etiam Mc 10, 5-9), in cui Cristo, nel rispondere alla domanda dei Farisei circa il matrimonio e il suo
carattere specifico, si riferisce soltanto ed esclusivamente alla istituzione originaria di esso da parte del
Creatore al “principio”. Riflettendo sul significato di questa risposta alla luce della lettera agli Efesini, e in
particolare di Efesini 5, 22-33, concludiamo ad un rapporto in certo senso duplice del matrimonio con tutto
l’ordine sacramentale che, nella Nuova Alleanza, emerge dallo stesso sacramento della Redenzione.
2. Il matrimonio come sacramento primordiale costituisce, da una parte, la figura (e dunque: la somiglianza,
l’analogia), secondo cui viene costruita la fondamentale struttura portante della nuova economia della
salvezza e dell’ordine sacramentale, che trae origine dalla gratificazione sponsale che la Chiesa riceve da
Cristo, insieme con tutti i beni della Redenzione (si potrebbe dire, servendosi delle parole iniziali della lettera
agli Efesini: “Di ogni benedizione spirituale”) (Ef 1, 3). In tal modo il matrimonio, come sacramento
primordiale, viene assunto ed inserito nella struttura integrale della nuova economia sacramentale, sorta dalla
Redenzione in forma, direi, di “prototipo”: viene assunto ed inserito quasi dalle sue stesse basi. Cristo
stesso, nel colloquio con i Farisei (Mt 19, 3-9), riconferma prima di tutto la sua esistenza. A ben riflettere su
questa dimensione, bisognerebbe concludere che tutti i sacramenti della Nuova Alleanza trovano in un certo
senso nel matrimonio quale sacramento primordiale il loro prototipo. Ciò sembra prospettarsi nel classico
brano citato della lettera agli Efesini, come diremo ancora fra poco.
3. Tuttavia, il rapporto del matrimonio con tutto l’ordine sacramentale, sorto dalla gratificazione della Chiesa
con i beni della Redenzione, non si limita soltanto alla dimensione di modello. Cristo, nel suo colloquio con i
Farisei (cf. Mt 19), non solo conferma l’esistenza del matrimonio istituito dal “principio” dal Creatore, ma lo
dichiara anche parte integrale dalla nuova economia sacramentale, del nuovo ordine dei “segni” salvifici,
che trae origine dal sacramento della Redenzione, così come l’economia originaria è emersa dal sacramento
della creazione; e in realtà Cristo si limita all’unico Sacramento, che era stato il matrimonio istituito nello
stato dell’innocenza e della giustizia originarie dell’uomo, creato come maschio e femmina “ad immagine e
somiglianza di Dio”.
4. La nuova economia sacramentale, che viene costituita sulla base del sacramento della Redenzione,
emergendo dalla sponsale gratificazione della Chiesa da parte di Cristo, differisce dalla economia originaria.
Essa, infatti, è diretta non all’uomo della giustizia e innocenza originarie, ma all’uomo gravato dall’eredità
del peccato originale e dallo stato di peccaminosità (“status naturae lapsae”). È diretta all’uomo della
triplice concupiscenza, secondo le classiche parole della prima lettera di Giovanni (cf. 1 Gv 2, 16), all’uomo,
in cui “la carne . . . ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne” ( Gal 5, 17),

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secondo la teologia (e antropologia) paolina, alla quale abbiamo dedicato molto spazio nelle nostre
precedenti riflessioni.
5. Queste considerazioni, sulla scorta di un’approfondita analisi del significato dell’enunciato di Cristo nel
discorso della Montagna circa lo “sguardo concupiscente” quale “adulterio del cuore”, preparano a
comprendere il matrimonio come parte integrante del nuovo ordine sacramentale, che trae origine dal
sacramento della Redenzione, ossia da quel “grande mistero” che, come mistero di Cristo e della Chiesa,
determina la sacramentalità della Chiesa stessa. Queste considerazioni, inoltre, preparano a comprendere il
matrimonio come sacramento della Nuova Alleanza, la cui opera salvifica va organicamente unita con
l’insieme di quell’ethos, che nelle analisi precedenti è stato definito “ethos della redenzione”. La lettera agli
Efesini esprime, a suo modo, la stessa verità: parla infatti del matrimonio come sacramento “grande” in un
ampio contesto parenetico, cioè nel contesto delle esortazioni di carattere morale, concernenti appunto
l’ethos che deve qualificare la vita dei cristiani, cioè degli uomini consapevoli della elezione che si realizza
in Cristo e nella Chiesa.
6. Su questo vasto sfondo delle riflessioni che emergono dalla lettura della lettera agli Efesini (cf.
speciatim Ef 5, 22-33), si può e si deve infine toccare ancora il problema dei Sacramenti della Chiesa. Il testo
citato agli Efesini ne parla in modo indiretto e, direi, secondario, sebbene sufficiente affinché anche questo
problema trovi posto nelle nostre considerazioni. Tuttavia conviene qui precisare, almeno brevemente, il
senso che adottiamo nell’uso del termine “sacramento”, che è significativo per le nostre considerazioni.
7. Finora, infatti, ci siamo serviti del termine “sacramento” (conformemente d’altronde a tutta la tradizione
biblico-patristica) (cf. Leone XIII, Acta, vol. II, 1881, p. 22) in un senso più lato di quello che è proprio della
terminologia teologica tradizionale e contemporanea, che con la parola “sacramento” indica i segni istituiti
da Cristo e amministrati dalla Chiesa, i quali esprimono e conferiscono la grazia divina alla persona che
riceve il relativo sacramento. In questo senso, ciascuno dei sette Sacramenti della Chiesa è caratterizzato da
una determinata azione liturgica, costituita attraverso la parola (forma) e la specifica “materia” sacramentale
- secondo la diffusa teoria ilemorfica proveniente da Tommaso d’Aquino e da tutta la tradizione scolastica.
8. In rapporto a questo significato così circoscritto, ci siamo serviti nelle nostre considerazioni di
un significato più largo e forse anche più antico e più fondamentale del termine “sacramento” (cf. Giovanni
Paolo II, Allocutio in Audientia Generali, die 8 sept. 1982, adnot. 1: vide supra, p. 389). La lettera agli
Efesini, e specialmente 5, 22-23, sembra in modo particolare autorizzarci a questo. Sacramento significa qui
il mistero stesso di Dio, che è nascosto fin dall’eternità, tuttavia non in nascondimento eterno, ma anzitutto
nella sua stessa rivelazione e attuazione (anche: nella rivelazione mediante l’attuazione). In tal senso, si è
parlato anche del sacramento della creazione e del sacramento della Redenzione. In base al sacramento della
creazione, occorre intendere l’originaria sacramentalità del matrimonio (sacramento primordiale). In seguito,
in base al sacramento della Redenzione si può comprendere la sacramentalità della Chiesa, o piuttosto la
sacramentalità dell’unione di Cristo con la Chiesa che l’Autore della lettera agli Efesini presenta nella
similitudine del matrimonio, dell’unione sponsale del marito e della moglie. Un’attenta analisi del testo
dimostra che in questo caso non si tratta solo di un paragone in senso metaforico, ma di un
reale rinnovamento (ovvero di una “ri-creazione”, cioè di una nuova creazione) di ciò che costituiva il
contenuto salvifico (in certo senso la “sostanza salvifica”) del sacramento primordiale. Questa constatazione
ha un significato essenziale, sia per chiarire la sacramentalità della Chiesa (e a ciò si riferiscono le parole
molto significative del primo capitolo della costituzione Lumen Gentium), sia anche per comprendere la
sacramentalità del matrimonio, inteso proprio come uno dei Sacramenti della Chiesa.

Mercoledì, 27 ottobre 1982

1. Il testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33) parla dei sacramenti della Chiesa - e in particolare del
Battesimo e dell’Eucaristia - ma soltanto in modo indiretto e in certo senso allusivo, sviluppando l’analogia
del matrimonio in riferimento a Cristo e alla Chiesa. E così leggiamo dapprima che Cristo, il quale “ha amato

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la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25), ha fatto questo “per renderla santa, purificandola per mezzo
del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola” (Ef 5, 26). Si tratta qui indubbiamente del sacramento del
Battesimo, che per istituzione di Cristo viene sin dall’inizio conferito a coloro che si convertono. Le parole
citate mostrano con grande plasticità in che modo il Battesimo attinge il suo significato essenziale e la sua
forza sacramentale da quell’amore sponsale del Redentore, attraverso cui si costituisce soprattutto la
sacramentalità della Chiesa stessa, “sacramentum magnum”. Lo stesso si può forse dire anche
dell’Eucaristia, che sembrerebbe essere indicata dalle parole seguenti sul nutrimento del proprio corpo, che
ogni uomo appunto nutre e cura “come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo” ( Ef 5,
29-30). Infatti, Cristo nutre la Chiesa con il suo Corpo appunto nell’Eucaristia.
2. Si vede, tuttavia, che né nel primo né nel secondo caso possiamo parlare di una sacramentaria ampiamente
sviluppata. Non se ne può parlare nemmeno quando si tratta del sacramento del matrimonio come uno dei
sacramenti della Chiesa. La lettera agli Efesini, esprimendo il rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa,
consente di comprendere che, in base a questo rapporto, la Chiesa stessa è il “grande sacramento”, il nuovo
segno dell’alleanza e della grazia, che trae le sue radici dalle profondità del sacramento della Redenzione,
così come dalle profondità del sacramento della creazione è emerso il matrimonio, segno primordiale
dell’alleanza e della grazia. L’Autore della lettera agli Efesini proclama che quel sacramento primordiale si
realizza in un modo nuovo nel “sacramento” di Cristo e della Chiesa. Anche per questa ragione l’Apostolo,
nello stesso “classico” testo di Efesini 5, 21-33, si rivolge ai coniugi, affinché siano “sottomessi gli uni agli
altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21) e modellino la loro vita coniugale fondandola sul sacramento istituito al
“principio” dal Creatore: sacramento, che trovò la sua definitiva grandezza e santità nell’alleanza sponsale di
grazia tra Cristo e la Chiesa.
3. Sebbene la lettera agli Efesini non parli direttamente e immediatamente del matrimonio come di uno dei
sacramenti della Chiesa, tuttavia la sacramentalità del matrimonio viene in essa particolarmente confermata
e approfondita. Nel “grande sacramento” di Cristo e della Chiesa i coniugi cristiani sono chiamati a
modellare la loro vita e la loro vocazione sul fondamento sacramentale.
4. Dopo l’analisi del classico testo di Efesini 5, 21-33, indirizzato ai coniugi cristiani, in cui Paolo annunzia
loro il “grande mistero” (“sacramentum magnum”) dell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa, è opportuno
ritornare a quelle significative parole del Vangelo, che già in precedenza abbiamo sottoposto ad analisi,
vedendo in esse gli enunciati-chiave per la teologia del corpo. Cristo pronuncia queste parole, per così dire,
dalla profondità divina della “redenzione del corpo” (Rm 8, 23). Tutte queste parole hanno un significato
fondamentale per l’uomo in quanto appunto egli è corpo - in quanto è maschio o femmina. Esse hanno un
significato per il matrimonio, in cui l’uomo e la donna si uniscono così che i due diventano “una sola carne”,
secondo l’espressione del libro della Genesi (Gen 2, 24), sebbene, nello stesso tempo, le parole di Cristo
indichino anche la vocazione alla continenza “per il regno dei cieli” (Mt 19, 12).
5. In ciascuna di queste vie “la redenzione del corpo” non è soltanto una grande attesa di coloro che
posseggono “le primizie dello Spirito” (Rm 8, 23), ma anche una permanente fonte di speranza che la
creazione sarà “liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”
(Rm 8, 21). Le parole di Cristo, pronunciate dalla profondità divina del mistero della Redenzione, e della
“redenzione del corpo”, portano in sé il lievito di questa speranza: le aprono la prospettiva sia nella
dimensione escatologica sia nella dimensione della vita quotidiana. Infatti, le parole indirizzate agli
ascoltatori immediati sono rivolte contemporaneamente all’uomo “storico” dei vari tempi e luoghi.
Quell’uomo, appunto, che possiede “le primizie dello Spirito . . . geme . . . aspettando la redenzione del . . .
corpo” (Rm 8, 23). In lui si concentra anche la speranza “cosmica” di tutta la creazione, che in lui,
nell’uomo, “attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” (Rm 8, 19).
6. Cristo colloquia con i Farisei, che gli chiedono: “È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per
qualsiasi motivo?” (Mt 19, 3); essi lo interrogano in tale modo, appunto perché la legge attribuita a Mosè
ammetteva la cosiddetta “lettera di ripudio” (Dt 24, 1). La risposta di Cristo è questa: “Non avete letto che il
Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e
si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello
dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt 19, 4-6). Se poi si tratta della “lettera di ripudio”,
Cristo risponde così: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma
da principio non fu così. Perciò io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato,

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e ne sposa un’altra, commette adulterio” (Mt 19, 8-9). “Chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette
adulterio” (Lc 16, 28).
7. L’orizzonte della “redenzione del corpo” si apre con queste parole, che costituiscono la risposta a una
concreta domanda di carattere giuridico-morale; si apre, anzitutto, per il fatto che Cristo si colloca sul piano
di quel sacramento primordiale, che i suoi interlocutori ereditano in modo singolare, dato che ereditano
anche la rivelazione del mistero della creazione, racchiusa nei primi capitoli del libro della Genesi.
Queste parole contengono ad un tempo una risposta universale, indirizzata all’uomo “storico” di tutti i tempi
e luoghi, poiché sono decisive per il matrimonio e per la sua indissolubilità; infatti si richiamano a ciò che è
l’uomo, maschio e femmina, quale è divenuto in modo irreversibile per il fatto di esser creato “ad immagine
e somiglianza di Dio”: l’uomo, che non cessa di essere tale anche dopo il peccato originale, benché questo
l’abbia privato dell’innocenza originaria e della giustizia. Cristo, che nel rispondere alla domanda dei Farisei
fa riferimento al “principio”, sembra in tal modo sottolineare particolarmente il fatto che egli parla dalla
profondità del mistero della Redenzione, e della redenzione del corpo. La Redenzione significa, infatti, quasi
una “nuova creazione” - significa l’assunzione di tutto ciò che è creato: per esprimere nella creazione la
pienezza di giustizia, di equità e di santità, designata da Dio, e per esprimere quella pienezza soprattutto
nell’uomo, creato come maschio e femmina “ad immagine di Dio”.
Nell’ottica delle parole di Cristo rivolte ai Farisei su ciò che era il matrimonio “dal principio”, rileggiamo
anche il classico testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-23) come testimonianza della sacramentalità del
matrimonio, basata sul “grande mistero” di Cristo e della Chiesa.

Mercoledì, 24 novembre 1982

1. Abbiamo analizzato la lettera agli Efesini, e soprattutto il passo del capitolo 5, 22-33, dal punto di vista
della sacramentalità del matrimonio. Ora esaminiamo ancora lo stesso testo nell’ottica delle parole del
Vangelo.
Le parole di Cristo rivolte ai Farisei (cf. Mt 19) si riferiscono al matrimonio quale sacramento, ossia alla
rivelazione primordiale del volere e dell’operare salvifico di Dio “al principio”, nel mistero stesso della
creazione. In virtù di quel volere ed operare salvifico di Dio, l’uomo e la donna, unendosi tra loro così da
divenire “una sola carne” (Gen 2, 24), erano ad un tempo destinati ad essere uniti “nella verità e nella carità”
come figli di Dio (cf. Gaudium et Spes, 24), figli adottivi nel Figlio Primogenito, diletto dall’eternità. A tale
unità e verso tale comunione di persone, a somiglianza dell’unione delle persone divine (cf. Ivi.), sono
dedicate le parole di Cristo, che si riferiscono al matrimonio come sacramento primordiale e nello stesso
tempo confermano quel sacramento sulla base del mistero della Redenzione. Infatti, l’originaria “unità nel
corpo” dell’uomo e della donna non cessa di plasmare la storia dell’uomo sulla terra, sebbene abbia perduto
la limpidezza del sacramento, del segno della salvezza, che possedeva “al principio”.
2. Se Cristo di fronte ai suoi interlocutori, nel Vangelo di Matteo e di Marco (cf. Mt 19; Mc 10), conferma il
matrimonio quale sacramento istituito dal Creatore “al principio” - se in conformità con questo ne esige
l’indissolubilità - con ciò stesso apre il matrimonio all’azione salvifica di Dio, alle forze che scaturiscono
“dalla redenzione del corpo” e che aiutano a superare le conseguenze del peccato e a costruire l’unità
dell’uomo e della donna secondo l’eterno disegno del Creatore. L’azione salvifica che deriva dal mistero
della Redenzione assume in sé l’originaria azione santificante di Dio nel mistero stesso della Creazione.
3. Le parole del Vangelo di Matteo (cf. Mt 19, 3-9; Mc 10, 2-12) hanno, al tempo stesso, una eloquenza etica
molto espressiva. Queste parole confermano - in base al mistero della Redenzione - il sacramento
primordiale e nello stesso tempo stabiliscono un ethos adeguato, che già nelle nostre precedenti riflessioni
abbiamo chiamato “ethos della redenzione”. L’ethos evangelico e cristiano, nella sua essenza teologica,
è l’ethos della redenzione. Possiamo certo trovare per quell’ethos una interpretazione razionale, una
interpretazione filosofica di carattere personalistico; tuttavia, nella sua essenza teologica, esso è un ethos
della redenzione, anzi: “un ethos della redenzione del corpo”. La redenzione diviene ad un tempo la base per

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comprendere la particolare dignità del corpo umano, radicata nella dignità personale dell’uomo e della
donna. La ragione di questa dignità sta appunto alla radice dell’indissolubilità dell’alleanza coniugale.
4. Cristo fa riferimento al carattere indissolubile del matrimonio come sacramento primordiale e,
confermando questo sacramento sulla base del mistero della redenzione, ne trae ad un tempo le conclusioni
di natura etica: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la
donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10, 11 s; cf. Mt19, 9). Si può affermare
che in tal modo la redenzione è data all’uomo come grazia della nuova alleanza con Dio in Cristo - ed
insieme gli è assegnata come ethos: come forma della morale corrispondente all’azione di Dio nel mistero
della Redenzione. Se il matrimonio come sacramento è un segno efficace dell’azione salvifica di Dio “dal
principio”, al tempo stesso - nella luce delle parole di Cristo qui meditate - questo sacramento costituisce
anche una esortazione rivolta all’uomo, maschio e femmina, affinché partecipino coscienziosamente alla
redenzione del corpo.
5. La dimensione etica della redenzione del corpo si delinea in modo particolarmente profondo, quando
meditiamo sulle parole pronunciate da Cristo nel Discorso della Montagna in rapporto al comandamento
“Non commettere adulterio”. “Avete inteso che fu detto: non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque
guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5, 27-28). A questo
lapidario enunciato di Cristo abbiamo precedentemente dedicato un ampio commento, nella convinzione che
esso ha un significato fondamentale per tutta la teologia del corpo, soprattutto nella dimensione dell’uomo
“storico”. E sebbene queste parole non si riferiscano direttamente ed immediatamente al matrimonio come
sacramento, tuttavia è impossibile separarle dall’intero sostrato sacramentale, in cui, per quanto riguarda il
patto coniugale, è stata collocata l’esistenza dell’uomo quale maschio e femmina: sia nel contesto originario
del mistero della Creazione, sia pure, in seguito, nel contesto del mistero della Redenzione. Questo sostrato
sacramentale riguarda sempre le persone concrete, penetra in ciò che è l’uomo e la donna (o piuttosto in chi è
l’uomo e la donna) nella propria originaria dignità di immagine e somiglianza con Dio a motivo della
creazione, ed insieme nella stessa dignità ereditata malgrado il peccato e di nuovo continuamente
“assegnata” come compito all’uomo mediante la realtà della Redenzione.
6. Cristo, che nel Discorso della Montagna dà la propria interpretazione del comandamento “Non
commettere adulterio” - interpretazione costitutiva del nuovo ethos - con le medesime lapidarie parole
assegna come compito ad ogni uomo la dignità di ogni donna; e contemporaneamente (sebbene dal testo ciò
risulti solo in modo indiretto) assegna anche ad ogni donna la dignità di ogni uomo (Il testo di San Marco
che parla dell’indissolubilità del matrimonio afferma chiaramente che anche la donna diventa soggetto
dell’adulterio,quando ripudia il marito e sposa un altro [cf. Mc 10, 12]). Assegna infine a ciascuno - sia
all’uomo che alla donna - la propria dignità: in certo senso, il “sacrum” della persona, e ciò in
considerazione della sua femminilità o mascolinità, in considerazione del “corpo”. Non è difficile rilevare
che le parole pronunciate da Cristo nel Discorso della Montagna riguardano l’ethos. Al tempo stesso, non è
difficile affermare, dopo una riflessione approfondita, che tali parole scaturiscono dalla profondità stessa
della redenzione del corpo. Benché esse non si riferiscano direttamente al matrimonio come sacramento, non
è difficile costatare che raggiungono il loro proprio e pieno significato in rapporto con il sacramento: sia
quello primordiale, che è unito con il mistero della Creazione, sia quello in cui l’uomo “storico”, dopo il
peccato e a motivo della sua peccaminosità ereditaria, deve ritrovare la dignità e santità dell’unione
coniugale “nel corpo”, in base al mistero della Redenzione.
7. Nel Discorso della Montagna - come anche nel colloquio con i Farisei sull’indissolubilità del matrimonio -
Cristo parla dal profondo di quel mistero divino. E in pari tempo si addentra nella profondità stessa del
mistero umano. Perciò fa richiamo al “cuore”, a quel “luogo intimo”, in cui combattono nell’uomo il bene e
il male, il peccato e la giustizia, la concupiscenza e la santità. Parlando della concupiscenza (dello sguardo
concupiscente) (cf. Mt 5, 28), Cristo rende consapevoli i suoi ascoltatori che ognuno porta in sé, insieme al
mistero del peccato, la dimensione interiore “dell’uomo della concupiscenza” (che è triplice: “concupiscenza
della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita”) (1 Gv 2, 16). Proprio a quest’uomo della
concupiscenza è dato nel matrimonio il sacramento della Redenzione come grazia e segno dell’alleanza con
Dio - e gli è assegnato “come ethos”. E contemporaneamente, in rapporto con il matrimonio come
sacramento, esso è assegnato come ethos a ciascun uomo, maschio e femmina: è assegnato al suo “cuore”,
alla sua coscienza, ai suoi sguardi e al suo comportamento. Il matrimonio - secondo le parole di Cristo
(cf. Mt 19, 4) - è sacramento dal “principio” stesso e ad un tempo, in base alla peccaminosità “storica”
dell’uomo, è sacramento sorto dal mistero della “redenzione del corpo”.

179
Mercoledì, 1 dicembre 1982

1. Abbiamo fatto l’analisi della lettera agli Efesini, e soprattutto del passo del capitolo 5, 22-33, nella
prospettiva della sacramentalità del matrimonio. Ora cercheremo ancora una volta di considerare il
medesimo testo alla luce delle parole del Vangelo e delle lettere paoline ai Corinzi e ai Romani.
Il matrimonio - come sacramento nato dal mistero della Redenzione e rinato, in certo senso, nell’amore
sponsale di Cristo e della Chiesa - è una efficace espressione della potenza salvifica di Dio, che realizza il
suo eterno disegno anche dopo il peccato e malgrado la triplice concupiscenza, nascosta nel cuore di ogni
uomo, maschio e femmina. Come espressione sacramentale di quella potenza salvifica, il matrimonio è
anche un’esortazione a dominare la concupiscenza (come ne parla Cristo nel Discorso della Montagna).
Frutto di tale dominio è l’unità e indissolubilità del matrimonio, e inoltre, l’approfondito senso della dignità
della donna nel cuore dell’uomo (come anche della dignità dell’uomo nel cuore della donna), sia nella
convivenza coniugale, sia in ogni altro àmbito dei rapporti reciproci.
2. La verità, secondo cui il matrimonio, quale sacramento della redenzione, è dato “all’uomo della
concupiscenza”, come grazia e in pari tempo come ethos, ha trovato particolare espressione anche
nell’insegnamento di san Paolo, specialmente nel 7° capitolo della prima lettera ai Corinzi. L’Apostolo,
confrontando il matrimonio con la verginità (ossia con la “continenza per il regno dei cieli”) e dichiarandosi
per la “superiorità” della verginità, costata ugualmente che “ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un
modo, chi in un altro” (1 Cor 7, 7). In base al mistero della Redenzione, al matrimonio
corrisponde dunque un “dono” particolare, ossia la grazia. Nello stesso contesto l’Apostolo dando consigli
ai suoi destinatari, raccomanda il matrimonio “per il pericolo dell’incontinenza” (1 Cor 7, 2), e in seguito
raccomanda ai coniugi che “il marito compia il suo dovere verso la moglie; ugualmente anche la moglie
verso il marito” (1Cor 7,3). E continua così: “È meglio sposarsi che ardere” (1 Cor 7, 9).
3. Su questi enunciati paolini si è formata l’opinione che il matrimonio costituisca uno specifico “remedium
concupiscentiae”. Tuttavia san Paolo, il quale, come abbiamo potuto costatare, insegna esplicitamente che al
matrimonio corrisponde un “dono” particolare e che nel mistero della Redenzione il matrimonio è dato
all’uomo e alla donna come grazia, esprime nelle sue parole, suggestive ed insieme paradossali,
semplicemente il pensiero che il matrimonio è assegnato ai coniugi come ethos. Nelle parole paoline “È
meglio sposarsi che ardere”, il verbo “ardere” significa il disordine delle passioni, proveniente dalla stessa
concupiscenza della carne (analogamente viene presentata la concupiscenza nell’Antico Testamento dal
Siracide) (cf. Sir 23, 17). Il “matrimonio”, invece, significa l’ordine etico, introdotto consapevolmente in
questo àmbito. Si può dire che il matrimonio è luogo d’incontro dell’ eros con l’ ethos e del reciproco
compenetrarsi di essi nel “cuore” dell’uomo e della donna, come pure in tutti i loro rapporti reciproci.
4. Questa verità - che cioè il matrimonio, quale sacramento scaturito dal mistero della Redenzione, è dato
all’uomo “storico” come grazia ed insieme come ethos - determina inoltre il carattere del matrimonio quale
uno dei sacramenti della Chiesa. Come sacramento della Chiesa, il matrimonio ha indole di
indissolubilità. Come sacramento della Chiesa, esso è anche parola dello Spirito, che esorta l’uomo e la
donna a modellare tutta la loro convivenza attingendo forza dal mistero della “redenzione del corpo”. In tal
modo, essi sono chiamati alla castità come allo stato di vita “secondo lo Spirito” che è loro proprio (cf. Rm 8,
4-5; Gal 5, 25). La redenzione del corpo significa, in questo caso, anche quella “speranza” che, nella
dimensione del matrimonio, può essere definita speranza del giorno quotidiano, speranza della
temporalità. Sulla base di una tale speranza viene dominata la concupiscenza della carne come fonte della
tendenza ad un egoistico appagamento, e la stessa “carne”, nell’alleanza sacramentale della mascolinità e
femminilità, diventa lo specifico “sostrato” di una comunione duratura ed indissolubile delle persone
(“communio personarum”) al modo degno delle persone.
5. Coloro che, come coniugi, secondo l’eterno disegno divino si uniscono così da divenire, in certo senso,
“una sola carne”, sono anche a loro volta chiamati, mediante il sacramento, ad una vita “secondo lo Spirito”,
tale che corrisponda al “dono” ricevuto nel sacramento. In virtù di quel “dono”, conducendo come coniugi
una vita “secondo lo Spirito”, sono capaci di riscoprire la particolare gratificazione, di cui sono divenuti
partecipi. Quanto la “concupiscenza” offusca l’orizzonte della visuale interiore, toglie ai cuori la limpidezza
dei desideri e delle aspirazioni, altrettanto la vita “secondo lo Spirito” (ossia la grazia del sacramento del

180
matrimonio) consente all’uomo e alla donna di ritrovare la vera libertà del dono, unita alla consapevolezza
del senso sponsale del corpo nella sua mascolinità e femminilità.
6. La vita “secondo lo Spirito” si esprime dunque anche nel reciproco “unirsi” (cf. Gen 4, 1), con cui i
coniugi, divenendo “una sola carne”, sottopongono la loro femminilità e mascolinità alla benedizione della
procreazione: “Adamo si unì a Eva, sua moglie, la quale concepì e partorì . . . e disse: Ho acquistato un uomo
dal Signore” (Gen 4, 1).
La vita “secondo lo Spirito” si esprime anche qui nella consapevolezza della gratificazione, a cui
corrisponde la dignità degli stessi coniugi in qualità di genitori, cioè si esprime nella profonda
consapevolezza della santità della vita (“sacrum”), a cui ambedue danno origine, partecipando - come i
progenitori - alle forze del mistero della creazione. Alla luce di quella speranza, che è connessa col mistero
della redenzione del corpo (cf. Rm 8, 19-23), questa nuova vita umana, l’uomo nuovo concepito e nato
dall’unione coniugale di suo padre e di sua madre, si apre alle “primizie dello Spirito” ( Rm 8, 23) “per
entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm8, 21). E se “tutta la creazione geme e soffre fino ad
oggi nelle doglie del parto” (Rm 8, 22), una particolare speranza accompagna le doglie della madre
partoriente, cioè la speranza della “rivelazione dei figli di Dio” (Rm 8, 19), speranza di cui ogni neonato che
viene al mondo porta con sé una scintilla.
7. Questa speranza che è “nel mondo”, compenetrando - come insegna san Paolo - tutta la creazione, non è,
al tempo stesso, “dal mondo”. Ancor più: essa deve combattere nel cuore umano con ciò che è “dal mondo”,
con ciò che è “nel mondo”. “Perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la
concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo” ( 1 Gv 2, 16). Il
matrimonio, come sacramento primordiale ed insieme come sacramento nato nel mistero della redenzione
del corpo dall’amore sponsale di Cristo e della Chiesa, “viene dal Padre”. Non è “dal mondo”, ma “dal
Padre”. Di conseguenza, anche il matrimonio, come sacramento, costituisce la base della speranza per la
persona, cioè per l’uomo e per la donna, per i genitori e per i figli, per le generazioni umane. Da una parte,
infatti, “passa il mondo con la sua concupiscenza”, dall’altra “chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” ( 1
Gv 2, 17). Con il matrimonio, quale sacramento, è unita l’origine dell’uomo nel mondo, e in esso è anche
iscritto il suo avvenire, e ciò non soltanto nelle dimensioni storiche, ma anche in quelle escatologiche.
8. A ciò si riferiscono le parole, in cui Cristo si richiama alla risurrezione dei corpi - parole riportate dai tre
sinottici (cf. Mt 22, 23-32; Mc 12, 18-27; Lc 20, 34-39). “Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né
marito, ma si è come angeli nel cielo”: così Matteo e in modo simile Marco; ed ecco Luca: “I figli di questo
mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della
risurrezione dei morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali
agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio” (Lc 20, 34-36). Questi testi sono stati
sottoposti in precedenza ad una analisi particolareggiata.
9. Cristo afferma che il matrimonio - sacramento dell’origine dell’uomo nel mondo visibile temporaneo -
non appartiene alla realtà escatologica del “mondo futuro”. Tuttavia l’uomo, chiamato a partecipare a questo
avvenire escatologico mediante la risurrezione del corpo, è il medesimo uomo, maschio e femmina, la cui
origine nel mondo visibile temporaneo è collegata col matrimonio quale sacramento primordiale del mistero
stesso della creazione. Anzi, ogni uomo, chiamato a partecipare alla realtà della futura risurrezione, porta nel
mondo questa vocazione, per il fatto che nel mondo visibile temporaneo ha la sua origine per opera del
matrimonio dei suoi genitori. Così, dunque, le parole di Cristo, che escludono il matrimonio dalla realtà del
“mondo futuro”, al tempo stesso svelano indirettamente il significato di questo sacramento per
la partecipazione degli uomini, figli e figlie, alla futura risurrezione.
10. Il matrimonio, che è sacramento primordiale - rinato, in un certo senso, nell’amore sponsale di Cristo e
della Chiesa - non appartiene alla “redenzione del corpo” nella dimensione della speranza escatologica
(cf. Rm 8, 23). Lo stesso matrimonio dato all’uomo come grazia, come “dono” destinato da Dio appunto ai
coniugi, e al tempo stesso assegnato loro, con le parole di Cristo, come ethos - quel matrimonio
sacramentale si compie e si realizza nella prospettiva della speranza escatologica. Esso ha un significato
essenziale per la “redenzione del corpo” nella dimensione di questa speranza. Proviene, difatti, dal Padre ed a
lui deve la sua origine nel mondo. E se questo “mondo passa”, e se con esso passano anche la concupiscenza
della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, che vengono “dal mondo”, il matrimonio
come sacramento serve immutabilmente affinché l’uomo, maschio e femmina, dominando la concupiscenza,
faccia la volontà del Padre. E chi “fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Gv 2, 17).

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11. In tale senso il matrimonio, come sacramento, porta in sé anche il germe dell’avvenire escatologico
dell’uomo, cioè la prospettiva della “redenzione del corpo” nella dimensione della speranza escatologica, a
cui corrispondono le parole di Cristo circa la risurrezione: “Alla risurrezione . . . non si prende né moglie né
marito” (Mt 22, 30); tuttavia, anche coloro che, “essendo figli della risurrezione . . . sono uguali agli angeli
e . . . sono figli di Dio” (Lc 20, 36), debbono la propria origine nel mondo visibile temporaneo al matrimonio
e alla procreazione dell’uomo e della donna. Il matrimonio, come sacramento del “principio” umano, come
sacramento della temporalità dell’uomo storico, compie in tal modo un insostituibile servizio riguardo al suo
avvenire extra-temporale, riguardo al mistero della “redenzione del corpo” nella dimensione della speranza
escatologica.

Mercoledì, 15 dicembre 1982

1. L’Autore della lettera agli Efesini, come abbiamo già visto, parla di un “grande mistero”, unito al
sacramento primordiale mediante la continuità del piano salvifico di Dio. Anche egli si riporta al “principio”,
come aveva fatto Cristo nel colloquio con i Farisei (cf. Mt19, 8), citando le stesse parole: “Per questo l’uomo
abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” ( Gen 2, 24). Quel
“grande mistero” è soprattutto il mistero della unione di Cristo con la Chiesa, che l’Apostolo presenta nella
similitudine dell’unità dei coniugi: “Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5, 32). Ci troviamo
nell’àmbito della grande analogia, in cui il matrimonio come sacramento da un lato viene presupposto e,
dall’altro, riscoperto. Viene presupposto come sacramento del “principio” umano, unito al mistero della
creazione. E viene invece riscoperto come frutto dell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa, collegato col
mistero della Redenzione.
2. L’Autore della lettera agli Efesini, rivolgendosi direttamente ai coniugi, li esorta a plasmare il loro
rapporto reciproco sul modello dell’unione sponsale di Cristo e della Chiesa. Si può dire che -
presupponendo la sacramentalità del matrimonio nel suo significato primordiale - ordina loro di apprendere
nuovamente questo sacramento dall’unione sponsale di Cristo e della Chiesa: “E voi, mariti, amate le vostre
mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa . . .” ( Ef 5, 25-26).
Questo invito, indirizzato dall’Apostolo ai coniugi cristiani, ha la sua piena motivazione in quanto essi,
mediante il matrimonio come sacramento, partecipano all’amore salvifico di Cristo, che si esprime al tempo
stesso come amore sponsale di lui verso la Chiesa. Alla luce della lettera agli Efesini - appunto mediante la
partecipazione a questo amore salvifico di Cristo - viene confermato ed insieme rinnovato il matrimonio
come sacramento del “principio” umano, cioè sacramento in cui l’uomo e la donna, chiamati a diventare
“una sola carne”, partecipano all’amore creatore di Dio stesso. E vi partecipano, sia per il fatto che, creati ad
immagine di Dio, sono stati chiamati in virtù di questa immagine ad una particolare unione (“communio
personarum”), sia perché questa stessa unione è stata fin dal principio benedetta con la benedizione della
fecondità (cf. Gen 1, 28).
3. Tutta questa originaria e stabile struttura del matrimonio come sacramento del mistero della creazione -
secondo il “classico” testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 21-33) - si rinnova nel mistero della Redenzione,
quando quel mistero assume l’aspetto della gratificazione sponsale della Chiesa da parte di Cristo.
Quell’originaria e stabile forma del matrimonio, si rinnova quando gli sposi lo ricevono come sacramento
della Chiesa, attingendo alla nuova profondità della gratificazione dell’uomo da parte di Dio, che si è svelata
e aperta col mistero della Redenzione, quando “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per
renderla santa . . .” (Ef 5, 25-26). Si rinnova quella originaria e stabile immagine del matrimonio come
sacramento, quando i coniugi cristiani - consapevoli dell’autentica profondità della “redenzione del corpo” -
si uniscono “nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
4. L’immagine paolina del matrimonio, iscritta nel “grande mistero” di Cristo e della Chiesa, accosta la
dimensione redentrice dell’amore alla dimensione sponsale. In certo senso unisce queste due dimensioni in
una sola. Cristo è divenuto sposo della Chiesa, ha sposato la Chiesa come sua sposa, perché “ha dato se
stesso per lei” (Ef 5, 25). Mediante il matrimonio come sacramento (come uno dei sacramenti della

182
Chiesa) ambedue queste dimensioni dell’amore, quella sponsale e quella redentrice, insieme con la grazia
del sacramento, penetrano nella vita dei coniugi. Il significato sponsale del corpo nella sua mascolinità e
femminilità, che si è manifestato per la prima volta nel mistero della creazione sullo sfondo dell’innocenza
originaria dell’uomo, viene collegato nell’immagine della lettera agli Efesini col significato redentore, e in
tal modo confermato e in certo senso “nuovamente creato”.
5. Questo è importante riguardo al matrimonio, alla vocazione cristiana dei mariti e delle mogli. Il testo della
lettera agli Efesini (Ef5, 21-33) si rivolge direttamente a loro e parla soprattutto a loro. Tuttavia, quel
collegamento del significato sponsale del corpo con il suo significato “redentore” è ugualmente essenziale
e valido per l’ermeneutica dell’uomo in generale: per il fondamentale problema della comprensione di lui e
dell’auto-comprensione del suo essere nel mondo. È ovvio che non possiamo escludere da questo problema
l’interrogativo sul senso di essere corpo, sul senso di essere, in quanto corpo, uomo e donna. Questi
interrogativi sono stati posti per la prima volta in rapporto con l’analisi del “principio” umano, nel contesto
del libro della Genesi. Fu quel contesto stesso, in certo senso, ad esigere che fossero posti. Ugualmente lo
richiede il “classico” testo della lettera agli Efesini. E se il “grande mistero” dell’unione di Cristo con la
Chiesa ci obbliga a collegare il significato sponsale del corpo con il suo significato redentore, in tale
collegamento i coniugi trovano la risposta all’interrogativo sul senso di “essere corpo”, e non solo essi,
benché soprattutto a loro sia indirizzato questo testo della lettera dell’Apostolo.
6. L’immagine paolina del “grande mistero” di Cristo e della Chiesa parla indirettamente anche della
“continenza per il regno dei cieli”, in cui ambedue le dimensioni dell’amore, sponsale e redentore, si
uniscono reciprocamente in un modo diverso da quello matrimoniale, secondo diverse proporzioni. Non è
forse quell’amore sponsale, con cui Cristo “ha amato la Chiesa”, sua sposa, “e ha dato se stesso per lei”,
ugualmente la più piena incarnazione dell’ideale della “continenza per il regno dei cieli” (cf. Mt 19, 12)?
Non trovano sostegno proprio in essa tutti coloro - uomini e donne - che, scegliendo lo stesso ideale,
desiderano collegare la dimensione sponsale dell’amore con la dimensione redentrice, secondo il modello di
Cristo stesso? Essi desiderano confermare con la loro vita che il significato sponsale del corpo - della sua
mascolinità o femminilità -, profondamente inscritto nella struttura essenziale della persona umana, è stato
aperto in un modo nuovo, da parte di Cristo e con l’esempio della sua vita, alla speranza unita alla
redenzione del corpo. Così, dunque, la grazia del mistero della Redenzione fruttifica anche - anzi fruttifica in
modo particolare - con la vocazione alla continenza “per il regno dei cieli”.
7. Il testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-23) non ne parla esplicitamente. Esso è indirizzato ai coniugi e
costruito secondo l’immagine del matrimonio, che attraverso l’analogia spiega l’unione di Cristo con la
Chiesa: unione nell’amore redentore e sponsale insieme. Non è forse appunto questo amore che, quale viva e
vivificante espressione del mistero della Redenzione, oltrepassa il cerchio dei destinatari della lettera
circoscritti dall’analogia del matrimonio? Non abbraccia ogni uomo e, in certo senso, tutto il creato, come
denota il testo paolino sulla “redenzione del corpo” nella lettera ai Romani (cf. Rm 8, 23)? Il “sacramentum
magnum” in tal senso è addirittura un nuovo sacramento dell’uomo in Cristo e nella Chiesa: sacramento
“dell’uomo e del mondo”, così come la creazione dell’uomo, maschio e femmina, ad immagine di Dio fu
l’originario sacramento dell’uomo e del mondo. In questo nuovo sacramento della redenzione è inscritto
organicamente il matrimonio, così come fu inscritto nell’originario sacramento della creazione.
8. L’uomo, che “dal principio” è maschio e femmina, deve cercare il senso della sua esistenza e il senso della
sua umanità giungendo fino al mistero della creazione attraverso la realtà della Redenzione. Ivi si trova
anche la risposta essenziale all’interrogativo sul significato del corpo umano, sul significato della mascolinità
e femminilità della persona umana. L’unione di Cristo con la Chiesa ci consente di intendere in quale modo il
significato sponsale del corpo si completa con il significato redentore, e ciò nelle diverse strade della vita e
nelle diverse situazioni: non soltanto nel matrimonio o nella “continenza” (ossia verginità o celibato), ma
anche, per esempio, nella multiforme sofferenza umana, anzi: nella stessa nascita e morte dell’uomo.
Attraverso il “grande mistero”, di cui tratta la lettera agli Efesini, attraverso la nuova alleanza di Cristo con la
Chiesa, il matrimonio viene nuovamente inscritto in quel “sacramento dell’uomo” che abbraccia l’universo,
nel sacramento dell’uomo e del mondo, che grazie alle forze della “redenzione del corpo” si modella secondo
l’amore sponsale di Cristo e della Chiesa fino alla misura del compimento definitivo nel regno del Padre.
Il matrimonio come sacramento rimane una parte viva e vivificante di questo processo salvifico.

183
Mercoledì, 5 gennaio 1983

1. “Io . . . prendo te . . . come mia sposa”; “Io . . . prendo te . . . come mio sposo”: queste parole sono al
centro della liturgia del matrimonio quale sacramento della Chiesa. Queste parole pronunciano i fidanzati
inserendole nella seguente formula del consenso: “. . . prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel
dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Con tali parole i
fidanzati contraggono il matrimonio e nello stesso tempo lo ricevono come sacramento, di cui entrambi sono
ministri. Entrambi, uomo e donna, amministrano il sacramento. Lo fanno davanti al testimoni. Testimone
qualificato è il sacerdote, che in pari tempo benedice il matrimonio e presiede a tutta la liturgia del
sacramento. Inoltre testimoni sono, in certo senso, tutti i partecipanti al rito delle nozze, e in modo “ufficiale”
alcuni di essi (di solito due), appositamente chiamati. Essi debbono testimoniare che il matrimonio è
contratto davanti a Dio e confermato dalla Chiesa. Nell’ordine normale delle cose, il matrimonio
sacramentale è un atto pubblico, per mezzo del quale due persone, un uomo e una donna, diventano di fronte
alla società e alla Chiesa marito e moglie, cioè soggetto attuale della vocazione e della vita matrimoniale.
2. Il matrimonio come sacramento viene contratto mediante la parola, che è segno sacramentale in ragione
del suo contenuto: “Prendo te come mia sposa - come mio sposo - e prometto di esserti fedele sempre, nella
gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Tuttavia,
questa parola sacramentale è, di per sé, soltanto il segno dell’attuazione del matrimonio. E l’attuazione del
matrimonio si distingue dalla sua consumazione fino al punto che, senza questa consumazione, il matrimonio
non è ancora costituito nella sua piena realtà. La constatazione che un matrimonio è stato giuridicamente
contratto ma non consumato (“ratum - non consummatum”), corrisponde alla constatazione che esso non è
stato costituito pienamente come matrimonio. Infatti le parole stesse: “Prendo te come mia sposa - mio
sposo” si riferiscono non soltanto ad una realtà determinata, ma possono essere adempiute soltanto attraverso
la copula coniugale. Tale realtà (la copula coniugale) è peraltro definita fin dal principio per istituzione del
Creatore: “L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola
carne” (Gen 2, 24).
3. Così, dunque, dalle parole, con le quali l’uomo e la donna esprimono la loro disponibilità a divenire “una
sola carne”, secondo l’eterna verità stabilita nel mistero della creazione, passiamo alla realtà che corrisponde
a queste parole. L’uno e l’altro elemento è importante rispetto alla struttura del segno sacramentale, a cui
conviene dedicare il seguito delle presenti considerazioni. Dato che il sacramento è il segno per mezzo del
quale si esprime ed insieme si attua la realtà salvifica della grazia e dell’alleanza, bisogna considerarlo ora
sotto l’aspetto del segno, mentre le precedenti riflessioni sono state dedicate alla realtà della grazia e
dell’alleanza.
Il matrimonio, come sacramento della Chiesa, viene contratto mediante le parole dei ministri, cioè degli
sposi novelli: parole che significano e indicano, nell’ordine intenzionale, ciò che (o piuttosto: chi) entrambi
hanno deciso di essere, d’ora in poi, l’uno per l’altro e l’uno con l’altro. Le parole degli sposi novelli fanno
parte della struttura integrale del segno sacramentale, non soltanto per ciò che significano, ma, in certo senso,
anche con ciò che esse significano e determinano. Il segno sacramentale si costituisce nell’ordine
intenzionale, in quanto viene contemporaneamente costituito nell’ordine reale.
4. Di conseguenza, il segno del sacramento del matrimonio è costituito mediante le parole degli sposi novelli,
in quanto ad esse corrisponde la “realtà” che loro stessi costituiscono. Tutti e due, come uomo e donna,
essendo ministri del sacramento nel momento di contrarre il matrimonio, costituiscono in pari tempo il pieno
e reale segno visibile del sacramento stesso. Le parole da essi pronunciate non costituirebbero di per sé il
segno sacramentale del matrimonio, se non vi corrispondesse la soggettività umana del fidanzato e della
fidanzata e contemporaneamente la coscienza del corpo, legata alla mascolinità e alla femminilità dello sposo
e della sposa. Qui bisogna rievocare alla mente tutta la serie delle analisi relative al Libro della Genesi
(cf. Gen 1-2), compiute in precedenza. La struttura del segno sacramentale resta infatti nella sua essenza la
stessa che “in principio”. La determina, in certo senso, “il linguaggio del corpo”, in quanto l’uomo e la
donna, che mediante il matrimonio debbono diventare una sola carne, esprimono in questo segno il reciproco
dono della mascolinità e della femminilità, quale fondamento dell’unione coniugale delle persone.
5. Il segno del sacramento del matrimonio viene costituito per il fatto che le parole pronunciate dagli sposi
novelli riprendono il medesimo “linguaggio del corpo” come al “principio”, e in ogni caso gli danno una

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espressione concreta e irripetibile. Gli danno una espressione intenzionale sul piano dell’intelletto e della
volontà, della coscienza e del cuore. Le parole: “Io prendo te come mia sposa - come mio sposo”, portano in
sé appunto quel perenne, e ogni volta unico e irripetibile, “linguaggio del corpo” e nello stesso tempo lo
collocano nel contesto della comunione delle persone: “Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel
dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. In tal modo il perenne
e ogni volta nuovo “linguaggio del corpo”, è non soltanto il “substrato” ma, in certo senso, il contenuto
costitutivo della comunione delle persone. Le persone - uomo e donna - diventano per sé un dono reciproco.
Diventano quel dono nella loro mascolinità e femminilità scoprendo il significato sponsale del corpo e
riferendolo reciprocamente a se stessi in modo irreversibile: nella dimensione di tutta la vita.
6. Così il sacramento del matrimonio come segno permette di comprendere le parole degli sposi novelli,
parole che conferiscono un nuovo aspetto alla loro vita nella dimensione strettamente personale (e
interpersonale: “communio personarum”), sulla base del “linguaggio del corpo”. L’amministrazione del
sacramento consiste in questo: che nel momento di contrarre il matrimonio l’uomo e la donna, con le parole
adeguate e nella rilettura del perenne “linguaggio del corpo”, formano un segno, un segno irripetibile, che ha
anche un significato prospettico: “tutti i giorni della mia vita”, cioè fino alla morte. Questo è segno visibile
ed efficace dell’alleanza con Dio in Cristo, cioè della grazia, che in tale segno deve divenire parte loro, come
“proprio dono” (secondo l’espressione della prima Lettera ai Corinzi 7, 7) (1 Cor 7, 7).
7. Formulando la questione in categorie socio-giuridiche, si può dire che fra gli sposi novelli è stipulato un
patto coniugale di contenuto ben determinato. Si può inoltre dire che, in seguito a questo patto, essi sono
diventati sposi in modo socialmente riconosciuto, e che in questo modo è anche costituita nel suo germe la
famiglia come fondamentale cellula sociale. Tale modo di intendere è ovviamente concorde con la realtà
umana del matrimonio, anzi, è fondamentale anche nel senso religioso e religioso-morale. Tuttavia, dal punto
di vista della teologia del sacramento, la chiave per comprendere il matrimonio rimane la realtà del segno,
con cui il matrimonio viene costituito sulla base dell’alleanza dell’uomo con Dio in Cristo e nella Chiesa:
viene costituito nell’ordine soprannaturale del vincolo sacro esigente la grazia. In questo ordine, il
matrimonio è un segno visibile ed efficace. Originato dal mistero della creazione, esso trae la sua nuova
origine dal mistero della Redenzione, servendo all’“unione dei figli di Dio nella verità e nella carità”
(Gaudium et Spes, 24). La liturgia del sacramento del matrimonio dà forma a quel segno: direttamente,
durante il rito sacramentale, in base all’insieme delle sue eloquenti espressioni; indirettamente, nello spazio
di tutta la vita. L’uomo e la donna, come coniugi, portano questo segno in tutta la loro vita e rimangono quel
segno fino alla morte.

Mercoledì, 12 gennaio 1983

1. Analizziamo ora la sacramentalità del matrimonio sotto l’aspetto del segno.


Quando affermiamo che nella struttura del matrimonio quale segno sacramentale, entra essenzialmente anche
il “linguaggio del corpo”, facciamo riferimento alla lunga tradizione biblica. Questa ha la sua origine nel
Libro della Genesi (Gen 2, 23-25) e trova il suo definitivo coronamento nella Lettera agli Efesini (cf. Ef 5,
21-33). I Profeti dell’Antico Testamento hanno avuto un ruolo essenziale nel formare questa tradizione.
Analizzando i testi di Osea, Ezechiele, Deutero-Isaia, e di altri profeti, ci siamo trovati sulla via di quella
grande analogia, la cui espressione ultima è la proclamazione della nuova alleanza sotto forma di uno
sposalizio tra Cristo e la Chiesa (cf. Ef 5, 21-33). In base a questa lunga tradizione, è possibile parlare di uno
specifico “profetismo del corpo”, sia per il fatto che incontriamo questa analogia anzitutto nei Profeti, sia
riguardo al contenuto stesso di essa. Qui, il “profetismo del corpo” significa appunto il “linguaggio del
corpo”,
2. L’analogia sembra avere due strati. Nello strato primo e fondamentale, i Profeti prospettano il paragone
dell’alleanza, stabilita tra Dio e Israele, come un matrimonio (il che ci consentirà ancora di comprendere il
matrimonio stesso come un’alleanza tra marito e moglie) (cf. Pro 2, 17; Ml 2, 14). In questo caso, l’alleanza
deriva dall’iniziativa di Dio, Signore di Israele. Il fatto che, come Creatore e Signore, egli stringe alleanza

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prima con Abramo e poi con Mosè, attesta già una elezione particolare. E perciò i Profeti, presupponendo
tutto il contenuto giuridico-morale dell’alleanza vanno più in profondità, rivelandone una dimensione
incomparabilmente più profonda di quella del solo “patto”. Dio, scegliendo Israele, si è unito col suo popolo
mediante l’amore e la grazia. Si è legato con vincolo particolare, profondamente personale, e perciò Israele,
sebbene sia un popolo, viene presentato in questa visione profetica dell’alleanza come “sposa” o “moglie”,
quindi, in certo senso, come persona: “. . . Tuo sposo è il tuo Creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; /
tuo redentore è il Santo di Israele / è chiamato Dio di tutta la terra . . . / Dice il tuo Dio . . . / Non si
allontanerebbe da te il mio affetto, / né vacillerebbe la mia alleanza di pace (Is 54, 5. 6,10),
3. Jahvè è il Signore di Israele, ma divenne anche il suo Sposo. I libri del Vecchio Testamento attestano la
completa originalità del “dominio” di Jahvè sul suo popolo. Agli altri aspetti del dominio di Jahvè, Signore
dell’alleanza e Padre di Israele, se ne aggiunge uno nuovo svelato dai Profeti, cioè la dimensione stupenda di
questo “dominio”, che è la dimensione sponsale. In tal modo, l’assoluto del dominio risulta l’assoluto
dell’amore. In rapporto a tale assoluto, la rottura dell’alleanza significa non soltanto l’infrazione del “patto”
collegata con l’autorità del supremo Legislatore, ma l’infedeltà e il tradimento: un colpo che addirittura
trafigge il suo cuore di Padre, di Sposo e di Signore.
4. Se, nell’analogia usata dai Profeti, si può parlare di strati, questo è in un certo senso lo strato primo e
fondamentale. Dato che l’alleanza di Jahvè con Israele ha il carattere di vincolo sponsale a somiglianza del
patto coniugale, quel primo strato dell’analogia ne svela il secondo, che è appunto il “linguaggio del corpo”.
Abbiamo qui in mente, in primo luogo, il linguaggio in senso oggettivo, i Profeti paragonano l’alleanza al
matrimonio, si riportano a quel sacramento primordiale di cui parla Genesi 2, 24, nel quale l’uomo e la donna
diventano, per libera scelta, “una sola carne”. Tuttavia è caratteristico del modo di esprimersi dei Profeti il
fatto che, supponendo il “linguaggio del corpo” in senso oggettivo, essi passano, ad un tempo, al suo
significato soggettivo: cioè consentono, per così dire, al corpo stesso di parlare. Nei testi profetici
dell’alleanza, in base all’analogia dell’unione sponsale dei coniugi, è il corpo stesso che “parla”; parla con la
sua mascolinità o femminilità, parla con il misterioso linguaggio del dono personale, parla infine - e ciò
avviene più spesso - sia col linguaggio della fedeltà cioè dell’amore, sia con quello dell’infedeltà coniugale,
cioè dell’“adulterio”.
5. E noto che sono stati i diversi peccati del popolo eletto - e soprattutto le frequenti infedeltà relative al culto
del Dio uno, cioè varie forme di idolatria - a offrire ai Profeti l’occasione per le enunciazioni suddette. Il
profeta dell’“adulterio” di Israele è diventato in modo particolare Osea, che lo stigmatizza non solo con le
parole, ma, in certo senso, anche con atti dal significato simbolico: “Va’, prenditi in moglie una prostituta e
abbi figli di prostituzione, poiché il paese non fa che prostituirsi allontanandosi dal Signore (Os 1, 2). Osea
pone in rilievo tutto lo splendore dell’alleanza, di quello sposalizio in cui Jahvè si dimostra sposo-coniuge
sensibile, affettuoso, disposto a perdonare, e insieme esigente e severo, L’“adulterio” e la “prostituzione” di
Israele costituiscono un evidente contrasto col vincolo sponsale, su cui è basata l’alleanza, così come,
analogamente, il matrimonio dell’uomo con la donna.
6. Ezechiele stigmatizza in modo analogo l’idolatria, servendosi del simbolo dell’adulterio di Gerusalemme
(cf. Ez 16) e, in un altro passo, di Gerusalemme e di Samaria (cf. Ez 23): “Passai vicino a te e ti vidi; ecco la
tua età era l’età dell’amore . . . Giurai alleanza con te, dice il Signore Dio, e diventasti mia” (Ez 16, 8). “Tu
però, infatuata per la tua bellezza e approfittando della tua fama, ti sei prostituita concedendo i tuoi favori ad
ogni passante” (Ez 16, 15).
7. Nei testi profetici, il corpo umano parla un “linguaggio”, di cui esso non è l’autore. Suo autore è l’uomo in
quanto maschio o femmina, in quanto sposo o sposa: l’uomo con la sua perenne vocazione alla comunione
delle persone. L’uomo, tuttavia, non è capace, in certo senso, di esprimere senza corpo questo linguaggio
singolare della sua esistenza personale e della sua vocazione. Egli è stato costituito in tal modo già dal
“principio”, così che le più profonde parole dello spirito - parole di amore, di donazione, di fedeltà - esigono
un adeguato “linguaggio del corpo”. E senza di esso non possono essere pienamente espresse. Sappiamo dal
Vangelo che ciò si riferisce sia al matrimonio sia alla continenza “per il Regno dei cieli”.
8. I Profeti, come ispirati portavoce dell’alleanza di Jahvè con Israele, cercano appunto, mediante questo
“linguaggio del corpo”, di esprimere sia la profondità sponsale della suddetta alleanza, sia tutto ciò che la
contraddice. Elogiano la fedeltà, stigmatizzano invece l’infedeltà come “adulterio”: parlano dunque secondo
categorie etiche, contrapponendo reciprocamente il bene e il male morale. La contrapposizione del bene e del

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male è essenziale per l’ethos. I testi profetici hanno in questo campo un significato essenziale, come abbiamo
già rivelato nelle nostre precedenti riflessioni. Sembra, però, che il “linguaggio del corpo” secondo i Profeti
non sia unicamente un linguaggio dell’ethos, un elogio della fedeltà e della purezza, nonché una condanna
dell’“adulterio” e della “prostituzione”. Infatti, per ogni linguaggio, quale espressione della conoscenza, le
categorie della verità e della non-verità (ossia del falso) sono essenziali. Nei testi dei Profeti, che scorgono
l’analogia dell’alleanza di Jahvè con Israele nel matrimonio, il corpo dice la verità mediante la fedeltà e
l’amore coniugale, e, quando commette “adulterio”, dice la menzogna, commette la falsità.
9. Non si tratta qui di sostituire le differenziazioni etiche con quelle logiche. Se i testi profetici indicano la
fedeltà coniugale e la castità come “verità”, e l’adulterio, invece, o la prostituzione, come non-verità, come
“falsità” del linguaggio del corpo, ciò avviene perché nel primo caso il soggetto (Israele come sposa) è
concorde col significato sponsale che corrisponde al corpo umano (a motivo della sua mascolinità o
femminilità) nella struttura integrale della persona; nel secondo caso, invece, lo stesso oggetto è in
contraddizione e collisione con questo significato.
Possiamo dunque dire che l’essenziale per il matrimonio come sacramento è il “linguaggio del corpo”, riletto
nella verità. Proprio mediante esso si costituisce infatti il segno sacramentale.

Mercoledì, 19 gennaio 1983

1. I testi dei Profeti hanno grande importanza per comprendere il matrimonio come alleanza di persone (ad
immagine dell’alleanza di Jahvè con Israele) e, in particolare, per comprendere l’alleanza sacramentale
dell’uomo e della donna nella dimensione del segno. Il “linguaggio del corpo” entra - come già in
precedenza è stato considerato - nella struttura integrale del segno sacramentale, il cui precipuo soggetto è
l’uomo, maschio e femmina. Le parole del consenso coniugale costituiscono questo segno, perché in esse
trova espressione il significato sponsale del corpo nella sua mascolinità e femminilità. Un tale significato
viene espresso soprattutto dalle parole: “Io . . . prendo te . . . come mia sposa . . . mio sposo”. Per di più con
queste parole è confermata l’essenziale “verità” del linguaggio del corpo e viene anche (almeno
indirettamente) esclusa l’essenziale “non verità”, la falsità del linguaggio del corpo. Il corpo, infatti, dice la
verità attraverso l’amore, la fedeltà, l’onestà coniugali, così come la non verità, ossia la falsità, viene
espressa attraverso tutto ciò che è negazione dell’amore, della fedeltà, dell’onestà coniugali. Si può quindi
dire che, nel momento di proferire le parole del consenso coniugale, gli sposi novelli si pongono sulla linea
dello stesso “profetismo del corpo”, i cui portavoce furono gli antichi Profeti. Il “linguaggio del corpo”,
espresso per bocca dei ministri del matrimonio come sacramento della Chiesa, istituisce lo stesso segno
visibile dell’alleanza e della grazia, che - risalendo con la sua origine al mistero della creazione - si alimenta
continuamente con la forza della “redenzione del corpo”, offerta da Cristo alla Chiesa.
2. Secondo i testi profetici il corpo umano parla un “linguaggio . . . di cui esso non è l’autore. L’autore ne è
l’uomo che, come maschio e femmina, sposo e sposa, rilegge correttamente il significato di questo
“linguaggio”. Rilegge dunque quel significato sponsale del corpo come integralmente inscritto nella struttura
della mascolinità o femminilità del soggetto personale. Una corretta rilettura “nella verità” è condizione
indispensabile per proclamare tale verità, ossia per istituire il segno visibile del matrimonio come
sacramento. Gli sposi proclamano appunto questo “linguaggio del corpo”, riletto nella verità, quale
contenuto e principio della loro nuova vita in Cristo e nella Chiesa. Sulla base del “profetismo del corpo”, i
ministri del sacramento del matrimonio compiono un atto di carattere profetico. Confermano in tal modo la
loro partecipazione alla missione profetica della Chiesa, ricevuta da Cristo. “Profeta” è colui che esprime con
parole umane la verità proveniente da Dio, colui che proferisce tale verità in sostituzione di Dio, nel suo
nome e, in certo senso, con la sua autorità.
3. Tutto ciò si riferisce agli sposi novelli, i quali, come ministri del sacramento del matrimonio, istituiscono
con le parole del consenso coniugale il segno visibile, proclamando il “linguaggio del corpo”, riletto nella
verità, come contenuto e principio della loro nuova vita in Cristo e nella Chiesa. Questa proclamazione
“profetica” ha un carattere complesso. Il consenso coniugale è insieme annunzio e causa del fatto che, d’ora

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in poi, entrambi saranno dinanzi alla Chiesa e alla società marito e moglie (un tale annunzio intendiamo
come “indicazione” nel senso ordinario del termine). Tuttavia, il consenso coniugale ha soprattutto il
carattere di una reciproca professione degli sposi novelli, fatta dinanzi a Dio. Basta soffermarsi con
attenzione sul testo, per convincersi che quella proclamazione profetica del linguaggio del corpo, riletto nella
verità, è immediatamente e direttamente rivolta dall’“io” al “tu”: dall’uomo alla donna e da lei a lui. Posto
centrale nel consenso coniugale hanno proprio le parole che indicano il soggetto personale, i pronomi “io” e
“te”. Il “linguaggio del corpo”, riletto nella verità del suo significato sponsale, costituisce mediante le parole
degli sposi novelli l’unione-comunione delle persone. Se il consenso coniugale ha carattere profetico, se è la
proclamazione della verità proveniente da Dio, e in certo senso l’enunciazione di questa verità nel nome di
Dio, ciò si attua soprattutto nella dimensione della comunione interpersonale, e soltanto indirettamente
“dinanzi” agli altri e “per” gli altri.
4. Sullo sfondo delle parole pronunciale dai ministri del sacramento del matrimonio, sta il perenne
“linguaggio del corpo”, a cui Dio “diede inizio” creando l’uomo quale maschio e femmina: linguaggio, che è
stato rinnovato da Cristo. Questo perenne “linguaggio del corpo” porta in sé tutta la ricchezza e la profondità
del Mistero: prima della creazione, poi della redenzione. Gli sposi, attuando il segno visibile del sacramento
mediante le parole del loro consenso coniugale, esprimono in esso “il linguaggio del corpo”, con tutta la
profondità del mistero della creazione e della redenzione (la liturgia del sacramento del matrimonio ne offre
un ricco contesto). Rileggendo in tal modo “il linguaggio del corpo”, gli sposi non solo racchiudono nelle
parole del consenso coniugale la soggettiva pienezza della professione, indispensabile ad attuare il segno
proprio di questo sacramento, ma giungono anche, in un certo senso, alle sorgenti stesse, da cui quel segno
attinge ogni volta la sua eloquenza profetica e la sua forza sacramentale. Non è lecito dimenticare che “il
linguaggio del corpo”, prima di essere pronunciato dalle labbra degli sposi, ministri del matrimonio quale
sacramento della Chiesa, è stato pronunciato dalla parola del Dio vivo, iniziando dal Libro della Genesi,
attraverso i Profeti dell’antica alleanza, fino all’Autore della Lettera agli Efesini.
5. Adoperiamo qui a più riprese l’espressione “linguaggio del corpo”, riportandoci ai testi profetici. In questi
testi, come abbiamo già detto, il corpo umano parla un “linguaggio”, di cui esso non è l’autore nel senso
proprio del termine. L’autore è l’uomo - maschio e femmina - che rilegge il vero senso di quel “linguaggio”,
riportando alla luce il significato sponsale del corpo come integralmente iscritto nella struttura stessa della
mascolinità e femminilità del soggetto personale. Tale rilettura “nella verità” del linguaggio del corpo già di
per sé conferisce un carattere profetico alle parole del consenso coniugale, per mezzo delle quali l’uomo e la
donna attuano il segno visibile del matrimonio come sacramento della Chiesa. Queste parole contengono
tuttavia qualcosa di più che una semplice rilettura nella verità di quel linguaggio, di cui parla la femminilità e
la mascolinità degli sposi novelli nel loro rapporto reciproco: “Io prendo te come mia sposa - come mio
sposo”. Nelle parole del consenso coniugale sono racchiusi: il proposito, la decisione e la scelta. Entrambi gli
sposi decidono di agire in conformità col linguaggio del corpo, riletto nella verità. Se l’uomo, maschio e
femmina, è l’autore di quel linguaggio, lo è soprattutto in quanto vuole conferire, ed effettivamente
conferisce al suo comportamento e alle sue azioni il significato conforme all’eloquenza riletta della verità
della mascolinità e della femminilità nel reciproco rapporto coniugale.
6. In questo ambito l’uomo è artefice delle azioni che hanno di per sé significati definiti. È dunque artefice
delle azioni e insieme autore dei loro significato. La somma di quei significati costituisce, in certo senso,
l’insieme del “linguaggio del corpo”, con cui gli sposi decidono di parlare tra loro come ministri del
sacramento del matrimonio. Il segno che essi attuano con le parole del consenso coniugale non è puro segno
immediato e passeggero, ma un segno prospettico che riproduce un effetto duraturo, cioè il vincolo
coniugale, unico e indissolubile (“tutti i giorni della mia vita”, cioè fino alla morte). In questa prospettiva
essi debbono riempire quel segno del molteplice contenuto offerto dalla comunione coniugale e familiare
delle persone, e anche di quel contenuto che, originato “dal linguaggio del corpo”, viene continuamente
riletto nella verità. In tal modo la “verità” essenziale del segno rimarrà organicamente legata all’ethos della
condotta coniugale. In questa verità del segno e, in seguito, nell’ethos della condotta coniugale, s’inserisce
prospetticamente il significato procreativo del corpo, cioè la paternità e la maternità, di cui abbiamo trattato
in precedenza. Alla domanda: “Siete disposti ad accogliere responsabilmente con amore i figli che Dio vorrà
donarvi ed educarli secondo la legge di Cristo e della sua Chiesa?”, l’uomo e la donna rispondono: “Sì”.
E per ora rimandiamo ad altri incontri approfondimenti ulteriori del tema.

188
Mercoledì, 26 gennaio 1983

1. Il segno del matrimonio come sacramento della Chiesa viene costituito ogni volta secondo quella
dimensione, che gli è propria dal “principio”, e allo stesso tempo viene costituito sul fondamento dell’amore
sponsale di Cristo e della Chiesa, come l’unica e irripetibile espressione dell’alleanza fra “questo” uomo e
“questa” donna, che sono ministri del matrimonio come sacramento della loro vocazione e della loro vita.
Nel dire che il segno del matrimonio come sacramento della Chiesa si costituisce sulla base del “linguaggio
del corpo”, ci serviamo dell’analogia (“analogia attributionis”), che abbiamo cercato di chiarire già in
precedenza. È ovvio che il corpo come tale non “parla”, ma parla l’uomo, rileggendo ciò che esige di essere
espresso appunto in base al “corpo”, alla mascolinità o femminilità del soggetto personale, anzi, in base a ciò
che può essere espresso dall’uomo unicamente per mezzo del corpo.
In questo senso, l’uomo - maschio o femmina - non soltanto parla col linguaggio del corpo, ma in un certo
senso consente al corpo di parlare “per lui” e “da parte di lui”: direi, a suo nome e con la sua autorità
personale. In tal modo, anche il concetto di “profetismo del corpo” sembra essere fondato: il “profeta”,
infatti, è colui che parla “per” e “da parte di”: a nome e con l’autorità di una persona.
2. Gli sposi novelli ne sono consapevoli quando, contraendo il matrimonio, ne istituiscono il segno visibile.
Nella prospettiva della vita in comune e della vocazione coniugale, quel segno iniziale, segno originario del
matrimonio come sacramento della Chiesa, verrà continuamente colmato dal “profetismo del corpo”. I corpi
degli sposi parleranno “per” e “da parte di” ciascuno di loro, parleranno nel nome e con l’autorità della
persona, di ciascuna delle persone, svolgendo il dialogo coniugale, proprio della loro vocazione e basato sul
linguaggio del corpo, riletto a suo tempo opportunamente e continuamente: ed è necessario che esso sia
riletto nella verità! I coniugi sono chiamati a formare la loro vita e la loro convivenza come “comunione
delle persone” sulla base di quel linguaggio. Dato che al linguaggio corrisponde un complesso di significati, i
coniugi - attraverso la loro condotta e comportamento, attraverso le loro azioni e gesti (“gesti di tenerezza”)
(cf. Gaudium et Spes, 49) - sono chiamati a diventare gli autori di tali significati del “linguaggio del corpo”,
di cui conseguentemente si costruiscono e di continuo si approfondiscono l’amore, la fedeltà, l’onestà
coniugale e quell’unione che rimane indissolubile fino alla morte.
3. Il segno del matrimonio come sacramento della Chiesa si forma per l’appunto di quei significati, di cui i
coniugi sono autori. Tutti questi significati sono iniziati e in certo senso “programmati” in modo sintetico nel
consenso coniugale, al fine di costruire in seguito - nel modo più analitico, giorno per giorno - lo stesso
segno, immedesimandosi con esso nella dimensione dell’intera vita. C’è un legame organico fra il rileggere
nella verità l’integrale significato del “linguaggio del corpo” e il conseguente usare di quel linguaggio nella
vita coniugale. In quest’ultimo ambito l’essere umano - maschio e femmina - è l’autore dei significati del
“linguaggio del corpo”. Ciò implica che questo linguaggio, di cui egli è autore, corrisponda alla verità che è
stata riletta. In base alla tradizione biblica, parliamo qui del “profetismo del corpo”. Se l’essere umano -
maschio e femmina - nel matrimonio (e indirettamente anche in tutti gli ambiti della mutua convivenza)
conferisce al suo comportamento un significato conforme alla verità fondamentale del linguaggio del corpo,
allora anche lui stesso “è nella verità”. Nel caso contrario, egli commette menzogne e falsifica il linguaggio
del corpo.
4. Se ci poniamo sulla linea prospettica del consenso coniugale, che - come abbiamo ormai detto - offre agli
sposi una particolare partecipazione alla missione profetica della Chiesa, tramandata da Cristo stesso, ci si
può a questo proposito servire anche della distinzione biblica tra profeti “veri” e profeti “falsi”.
Attraverso il matrimonio come sacramento della Chiesa, l’uomo e la donna sono in modo esplicito chiamati a
dare - servendosi correttamente del “linguaggio del corpo” - la testimonianza dell’amore sponsale e
procreativo, testimonianza degna di “veri profeti”. In questo consiste il significato giusto e la grandezza del
consenso coniugale nel sacramento della Chiesa.
5. La problematica del segno sacramentale del matrimonio ha carattere altamente antropologico. La
costruiamo sulla base dell’antropologia teologica e in particolare su ciò che, sin dall’inizio delle presenti
considerazioni, abbiamo definito come “teologia del corpo”. Perciò, nel continuare queste analisi, dobbiamo
sempre avere davanti agli occhi le considerazioni precedenti, che si riferiscono all’analisi delle parole-chiave
di Cristo (diciamo “parole-chiave, perché ci aprono - come la chiave - le singole dimensioni
dell’antropologia teologica, specialmente della teologia del corpo). Costruendo su questa base l’analisi del

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segno sacramentale del matrimonio di cui - anche dopo il peccato originale - sono sempre partecipi l’uomo e
la donna, quale “uomo storico”, dobbiamo ricordare costantemente il fatto che quell’uomo “storico”,
maschio e femmina, è ad un tempo l’“uomo della concupiscenza” come tale, ogni uomo e ogni donna
entrano nella storia della salvezza e ne vengono coinvolti mediante il sacramento, che è segno visibile
dell’alleanza e della grazia.
6. Perciò, nel contesto delle presenti riflessioni sulla struttura sacramentale del segno del matrimonio,
dobbiamo tener conto non soltanto di ciò che Cristo disse sull’unità e indissolubilità del matrimonio facendo
riferimento al “principio”, ma anche (e ancor più) di ciò che egli espresse nel Discorso della Montagna,
quando si richiamò al “cuore umano”.

Mercoledì, 9 febbraio 1983

1. Abbiamo detto in precedenza che nel contesto delle presenti riflessioni sulla struttura del matrimonio come
segno sacramentale, dobbiamo tener conto non soltanto di ciò che Cristo dichiarò sulla sua unità e
indissolubilità facendo riferimento al “principio”, ma anche (e ancor più) di ciò che egli disse nel Discorso
della Montagna, quando si richiamò al “cuore umano”. Riportandosi al comandamento: “Non commettere
adulterio”, Cristo parlò dell’“adulterio nel cuore”: “Chiunque guarda una donna per desiderarla ha già
commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5, 28).
Così, dunque, nell’affermare che il segno sacramentale del matrimonio - segno dell’alleanza coniugale
dell’uomo e della donna - si forma in base al “linguaggio del corpo” una volta riletto nella verità (e di
continuo riletto), ci rendiamo conto che colui il quale rilegge questo “linguaggio” e poi lo esprime, non
secondo le esigenze proprie del matrimonio come patto e sacramento, è naturalmente e moralmente l’uomo
della concupiscenza: maschio e femmina, intesi ambedue come l’“uomo della concupiscenza”. I profeti
dell’Antico Testamento hanno certamente davanti agli occhi questo uomo quando, servendosi di una
analogia, stigmatizzano l’“adulterio di Israele e di Giuda”. L’analisi delle parole pronunciate da Cristo nel
Discorso della Montagna c’induce a comprendere più profondamente l’“adulterio” stesso. E in pari tempo ci
porta a convincerci che il “cuore” umano non è tanto “accusato e condannato” da Cristo a motivo della
concupiscenza (“concupiscentia carnis”), quanto prima di tutto “chiamato”. Qui passa una decisa divergenza
fra l’antropologia (o l’ermeneutica antropologica) del Vangelo e alcuni influenti rappresentanti
dell’ermeneutica contemporanea dell’uomo (i cosiddetti maestri del sospetto).
2. Passando sul terreno della nostra presente analisi, possiamo constatare che sebbene l’uomo, nonostante il
segno sacramentale del matrimonio, nonostante il consenso coniugale e la sua attuazione, rimanga
naturalmente l’“uomo della concupiscenza”, tuttavia egli è contemporaneamente l’uomo della “chiamata”. È
“chiamato” attraverso il mistero della redenzione del corpo, mistero divino, che ad un tempo è - in Cristo e
per Cristo in ogni uomo - realtà umana. Quel mistero, inoltre, comporta un determinato ethos che per essenza
è “umano”, e che abbiamo già in precedenza chiamato ethos della redenzione.
3. Alla luce delle parole pronunciate da Cristo nel Discorso della Montagna, alla luce di tutto il Vangelo e
della nuova alleanza, la triplice concupiscenza (e in particolare la concupiscenza della carne) non distrugge
la capacità di rileggere nella verità il “linguaggio del corpo” - e di rileggerlo continuamente in modo più
maturo e più pieno -, per cui il segno sacramentale viene costituito sia nel suo primo momento liturgico sia,
in seguito, nella dimensione di tutta la vita. A questa luce occorre constatare che, se la concupiscenza di per
sé genera molteplici “errori” nel rileggere il “linguaggio del corpo” e insieme a ciò genera anche il
“peccato”, il male morale, contrario alla virtù della castità (sia coniugale che extra-coniugale), tuttavia
nell’ambito dell’ethos della redenzione rimane sempre la possibilità di passare dall’“errore” alla “verità”,
come pure la possibilità di ritorno, ossia di conversione, dal peccato alla castità, quale espressione di una vita
secondo lo Spirito (cf. Gal 5, 16).
4. In questo modo, nell’ottica evangelica e cristiana del problema, l’uomo “storico” (dopo il peccato
originale), in base al “linguaggio del corpo” riletto nella verità, è capace - come maschio e femmina - di

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costituire il segno sacramentale dell’amore, della fedeltà e dell’onestà coniugale, e questo come segno
duraturo: “Esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti
tutti i giorni della mia vita”. Ciò significa che l’uomo, in modo reale, è autore dei significati per mezzo dei
quali, dopo aver riletto nella verità il “linguaggio del corpo”, è anche capace di formare nella verità quel
linguaggio nella comunione coniugale e familiare delle persone. Ne è capace anche come “uomo della
concupiscenza”, essendo nello stesso tempo “chiamato” dalla realtà della Redenzione di Cristo (“simul
lapsus et redemptus”).
5. Mediante la dimensione del segno, propria del matrimonio come sacramento, viene confermata la
specifica antropologia teologica, la specifica ermeneutica dell’uomo, che in questo caso potrebbe anche
chiamarsi “ermeneutica del sacramento”, perché consente di comprendere l’uomo in base all’analisi del
segno sacramentale. L’uomo - maschio e femmina - come ministro del sacramento, autore (co-autore) del
segno sacramentale, è soggetto cosciente e capace di autodeterminazione. Soltanto su questa base egli può
essere l’autore del “linguaggio del corpo”, può essere anche autore (co-autore) del matrimonio come segno:
segno della divina creazione e “redenzione del corpo”. Il fatto che l’uomo (il maschio e la femmina) è
l’uomo della concupiscenza, non pregiudica che egli sia capace di rileggere il linguaggio del corpo nella
verità. È l’“uomo della concupiscenza”, ma nello stesso tempo è capace di discernere la verità dalla falsità
nel linguaggio del corpo e può essere autore dei significati veri (o falsi) di quel linguaggio.
6. È l’uomo della concupiscenza, ma non è completamente determinato dalla “libido” (nel senso in cui viene
spesso usato questo termine). Una tale determinazione significherebbe che l’insieme dei comportamenti
dell’uomo, perfino anche, per esempio, la scelta della continenza per motivi religiosi, si spiegherebbe
soltanto attraverso le specifiche trasformazioni di questa “libido”. In tal caso - nell’ambito del linguaggio del
corpo - l’uomo sarebbe in certo senso condannato a falsificazioni essenziali: sarebbe soltanto colui che
esprime una specifica determinazione da parte della “libido”, ma non esprimerebbe la verità (o la falsità)
dell’amore sponsale e della comunione delle persone, anche se pensasse di manifestarla. Di conseguenza,
egli sarebbe dunque condannato a sospettare se stesso e gli altri, riguardo alla verità del linguaggio del corpo.
A causa della concupiscenza della carne potrebbe essere soltanto “accusato”, ma non potrebbe essere
veramente “chiamato”.
L’“ermeneutica del sacramento” ci consente di tirare la conclusione che l’uomo è sempre essenzialmente
“chiamato” e non soltanto “accusato”, e ciò proprio in quanto “uomo della concupiscenza”.

Mercoledì, 23 maggio 1984

1. Durante l’Anno Santo sospesi la trattazione del tema dell’amore umano nel piano divino. Vorrei ora
concludere quell’argomento con alcune considerazioni soprattutto circa l’insegnamento dell’Humanae Vitae,
premettendo qualche riflessione circa il Cantico dei Cantici e il Libro di Tobia. Mi sembra, infatti, che
quanto intendo esporre nelle prossime settimane costituisca come il coronamento di quanto ho illustrato.
Il tema dell’amore sponsale, che unisce l’uomo e la donna, connette in certo senso questa parte della Bibbia
con tutta la tradizione della “grande analogia” che, attraverso gli scritti dei profeti, è confluita nel Nuovo
Testamento e in particolare nella lettera agli Efesini (cf. Ef 5, 21-23), la cui spiegazione ho interrotto
all’inizio dell’Anno Santo.
Esso è divenuto oggetto di numerosi studi esegetici, commenti e ipotesi. In merito al suo contenuto, in
apparenza “profano”, le posizioni sono state diverse: mentre da un lato se ne sconsigliava spesso la lettura,
dall’altro esso è stato la fonte a cui hanno attinto i più grandi scrittori mistici e i versetti del Cantico dei
cantici sono stati inseriti nella liturgia della Chiesa.
Infatti sebbene l’analisi del testo di questo libro ci obblighi a collocare il suo contenuto al di fuori
dell’ambito della grande analogia profetica, tuttavia non è possibile staccarlo dalla realtà del sacramento
primordiale. Non è possibile rileggerlo se non nella linea di ciò che è scritto nei primi capitoli della Genesi,
come testimonianza del “principio” - di quel “principio” al quale Cristo si riferì nel decisivo colloquio con i
farisei (cf. Mt 19, 4). Il Cantico dei cantici si trova certamente sulla scia di quel sacramento, in cui, attraverso

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il “linguaggio del corpo” è costituito il segno visibile della partecipazione dell’uomo e della donna
all’alleanza della grazia e dell’amore, offerta da Dio all’uomo. Il Cantico dei cantici dimostra la ricchezza di
questo “linguaggio”, la cui prima espressione è già in Genesi 2, 23-25.
2. Già i primi versetti del “Cantico” ci introducono immediatamente nell’atmosfera di tutto il “poema”, in cui
lo sposo e la sposa sembrano muoversi nel cerchio tracciato dall’irradiazione dell’amore. Le parole degli
sposi, i loro movimenti, i loro gesti, corrispondono all’interiore mozione dei cuori. Soltanto attraverso il
prisma di tale mozione è possibile comprendere il “linguaggio del corpo”, nel quale si attua quella scoperta
a cui diede espressione il primo uomo di fronte a colei che era stata creata come “un aiuto che gli fosse
simile” (cf. Gen 2, 20.23), e che era stata tratta, come riporta il testo biblico, da una delle sue “costole” (la
“costola” sembra anche indicare il cuore).
Questa scoperta - già analizzata in base a Genesi 2 - nel Cantico dei cantici si riveste di tutta la ricchezza del
linguaggio dell’amore umano. Ciò che nel capitolo 2 della Genesi (cf. Gen 2, 23-25) è stato espresso appena
in poche parole, semplici ed essenziali, qui si sviluppa come in un ampio dialogo o piuttosto un duetto, in cui
le parole dello sposo si intrecciano con quelle della sposa e si completano a vicenda. Le prime parole
dell’uomo nella Genesi, capitolo 2,23, alla vista della donna creata da Dio esprimono lo stupore e
l’ammirazione, anzi il senso di fascino. E un simile fascino - che è stupore e ammirazione - scorre in una
forma più ampia attraverso i versetti del Cantico dei cantici. Scorre in onda placida e omogenea dall’inizio
sino alla fine del poema.
3. Perfino un’analisi sommaria del testo del Cantico dei cantici permette di sentire esprimersi in quel fascino
reciproco il “linguaggio del corpo”. Tanto il punto di partenza quanto il punto d’arrivo di questo fascino -
reciproco stupore e ammirazione - sono infatti la femminilità della sposa e la mascolinità dello sposo
nell’esperienza diretta della loro visibilità. Le parole d’amore, pronunciate da entrambi, si concentrano
dunque sul “corpo”, non solo perché esso costituisce per se stesso sorgente di reciproco fascino, ma anche e
soprattutto perché su di esso si sofferma direttamente e immediatamente quell’attrazione verso l’altra
persona, verso l’altro “io” - femminile o maschile - che nell’interiore impulso del cuore genera l’amore.
L’amore inoltre sprigiona una particolare esperienza del bello, che si accentra su ciò che è visibile, ma
coinvolge contemporaneamente la persona intera. L’esperienza del bello genera il compiacimento, che è
reciproco.
“O bellissima tra le donne . . .” (Ct 1, 8), dice lo sposo, e gli echeggiano le parole della sposa: “Bruna sono
ma bella, o figlie di Gerusalemme” (Ct 1, 5). Le parole dell’incanto maschile si ripetono continuamente,
ritornano in tutti e cinque i canti del poema. Ad esse fanno eco espressioni simili della sposa.
4. Si tratta di metafore che possono oggi sorprenderci. Molte di esse sono state prese dalla vita dei pastori; e
altre sembrano indicare lo stato regale dello sposo. L’analisi di quel linguaggio poetico va lasciata agli
esperti. Il fatto stesso di adoperare la metafora dimostra quanto, nel nostro caso, il “l inguaggio del corpo”
cerchi appoggio e conferma in tutto il mondo visibile. Questo è senza dubbio un “linguaggio” che viene
riletto contemporaneamente col cuore e con gli occhi dello sposo, nell’atto di speciale concentrazione
su tutto l’“io” femminile della sposa. Questo “io” parla a lui attraverso ogni tratto femmineo, suscitando
quello stato d’animo, che può essere definito fascino, incanto. Questo “io” femminile si esprime quasi senza
parole; tuttavia il “linguaggio del corpo” espresso senza parole trova ricca eco nelle parole dello sposo, nel
suo parlare pieno di trasporto poetico e di metafore, che testimoniano l’esperienza del bello, un amore di
compiacimento. Se le metafore del “Cantico” cercano per questo bello un’analogia nelle diverse cose del
mondo visibile (in questo mondo, che è il “mondo proprio” dello sposo), nello stesso tempo sembrano
indicare l’insufficienza di ognuna di esse in particolare. “Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna
macchia” (Ct 4, 7): con questa locuzione lo sposo termina il suo canto, lasciando tutte le metafore, per
volgersi a quell’unica, attraverso cui il “linguaggio del corpo” sembra esprimere ciò che è più proprio della
femminilità e il tutto della persona.
Continueremo l’analisi del Cantico dei cantici nella prossima udienza generale.

192
Mercoledì, 30 maggio 1984

1. Riprendiamo la nostra analisi del Cantico dei cantici, al fine di comprendere in modo più adeguato ed
esauriente il segno sacramentale del matrimonio, quale lo manifesta il linguaggio del corpo, che è un
singolare linguaggio d’amore generato dal cuore.
Lo sposo a un certo punto, esprimendo una particolare esperienza di valori, che irradia su tutto ciò che è in
rapporto con la persona amata, dice: “Tu mi hai rapito il cuore, / sorella mia, sposa, / tu mi hai rapito il
cuore / con un solo tuo sguardo, / con una perla sola della tua collana! / Quanto sono soavi le tue carezze, /
sorella mia, sposa . . .” (Ct 4, 9-10).
Da queste parole emerge che è di importanza essenziale per la teologia del corpo - e in questo caso per la
teologia del segno sacramentale del matrimonio - sapere chi è il femminile “tu” per il maschile “io” e
viceversa.
Lo sposo del Cantico dei cantici esclama: “Tutta bella tu sei, amica mia” (Ct 4, 7) e la chiama: “Sorella mia,
sposa” (Ct 4, 9). Non la chiama col nome proprio, ma usa espressioni che dicono di più.
Sotto un certo aspetto, rispetto all’appellativo di “amica”, quello di “sorella”, usato per la sposa, sembra
essere più eloquente e radicato nell’insieme del Cantico, che manifesta come l’amore riveli l’altro.
2. Il termine “amica” indica ciò che è sempre essenziale per l’amore, che pone il secondo “io” accanto al
proprio “io”. L’amicizia - l’amore di amicizia (“amor amicitiae”) - significa nel Cantico un particolare
avvicinamento sentito e sperimentato come forza interiormente unificante. Il fatto che in questo
avvicinamento quell’“io” femminile si riveli per lo sposo come “sorella” - e che proprio come sorella sia
sposa - ha una particolare eloquenza. L’espressione “sorella” parla dell’unione nell’umanità e insieme della
diversità e originalità femminile della medesima nei riguardi non solo del sesso, ma del modo stesso di
“essere persona”, che vuol dire sia “essere soggetto” sia “essere in rapporto”. Il termine “sorella” sembra
esprimere, in modo più semplice, la soggettività dell’“io” femminile nel rapporto personale con l’uomo,
cioè nell’apertura di lui verso gli altri, che vengono intesi e percepiti come fratelli. La “sorella” in un certo
senso aiuta l’uomo a definirsi e concepirsi in tal modo, costituendo per lui una sorta di sfida in questa
direzione.
3. Lo sposo del Cantico accoglie la sfida e cerca il passato comune, come se lui e la sua donna discendessero
dalla cerchia della stessa famiglia, come se fin dall’infanzia fossero uniti dai ricordi del comune focolare.
Così si sentono reciprocamente vicini come fratello e sorella, che debbono la loro esistenza alla stessa madre.
Ne consegue uno specifico senso di comune appartenenza. Il fatto che si sentano fratello e sorella permette
loro di vivere in sicurezza la reciproca vicinanza e di manifestarla, trovando in ciò appoggio e non temendo il
giudizio iniquo degli altri uomini.
Le parole dello sposo, mediante l’appellativo “sorella”, tendono a riprodurre, direi, la storia della femminilità
della persona amata, la vedono ancora nel tempo della fanciullezza e abbracciano il suo intero “io”, anima e
corpo, con una tenerezza disinteressata. Da qui nasce quella pace di cui parla la sposa. Questa è la “pace del
corpo”, che in apparenza somiglia al sonno (“non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché non lo
voglia”). Questa è soprattutto la pace dell’incontro nell’umanità quale immagine di Dio e l’incontro per
mezzo di un dono reciproco e disinteressato (“Così sono ai tuoi occhi, come colei che ha trovato pace”)
(Ct 8, 10).
4. In relazione al precedente trama, che potrebbe essere chiamata trama “fraterna”, emerge nell’amoroso
duetto del Cantico dei cantici un’altra trama, diciamo: un altro sostrato del contenuto. Possiamo esaminarla
partendo da certe locuzioni che nel poemetto sembrano avere un significato chiave. Questa trama non emerge
mai esplicitamente, ma attraverso tutto il componimento e si manifesta espressamente solo in alcuni passi.
Ecco, parla lo sposo: “Giardino chiuso tu sei, / sorella mia, sposa / giardino chiuso, fontana sigillata” (Ct 4,
12).
Le metafore appena lette: “giardino chiuso, fonte sigillata” rivelano la presenza di un’altra visione dello
stesso “io” femminile, padrone del proprio mistero. Si può dire che ambedue le metafore esprimono la
dignità personale della donna che, in quanto soggetto spirituale si possiede e può decidere non solo della
profondità metafisica, ma anche della verità essenziale e dell’autenticità del dono di sé, teso a quell’unione di
cui parla il libro della Genesi.
Il linguaggio delle metafore - linguaggio poetico - sembra essere in questo ambito particolarmente
appropriato e preciso. La “sorella-sposa” è per l’uomo padrona del suo mistero come “giardino chiuso” e

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“fonte sigillata”. Il “linguaggio del corpo” riletto nella verità va di pari passo con la scoperta dell’interiore
inviolabilità della persona. Al tempo stesso proprio questa scoperta esprime l’autentica profondità della
reciproca appartenenza degli sposi coscienti di appartenersi vicendevolmente, di essere destinati l’uno
all’altra: “Il mio diletto è per me e io per lui” (Ct 2, 16; cf. Ct 6, 3).
5. Questa coscienza del reciproco appartenersi risuona soprattutto sulla bocca della sposa. In un certo senso
ella risponde con tali parole a quelle dello sposo con cui egli l’ha riconosciuta padrona del proprio mistero.
Quando la sposa dice: “Il mio diletto è per me”, vuol dire al tempo stesso: è colui al quale affido me stessa, e
perciò dice: “E io per lui” (Ct 2, 16). Gli aggettivi: “mio” e “mia” affermano qui tutta la profondità di
quell’affidamento, che corrisponde alla verità interiore della persona.
Corrisponde inoltre al significato sponsale della femminilità in relazione all’“io” maschile, cioè al
“linguaggio del corpo” riletto nella verità della dignità personale.
Questa verità è stata pronunciata dallo sposo con le metafore del “giardino chiuso” e della “fonte sigillata”.
La sposa gli risponde con le parole del dono, cioè dell’affidamento di se stessa. Come padrona della propria
scelta dice: “Io sono per il mio diletto”. Il Cantico dei cantici rileva sottilmente la verità interiore di questa
risposta. La libertà del dono e risposta alla profonda coscienza del dono espressa dalle parole dello sposo.
Mediante tale verità e libertà si costruisce l’amore, di cui occorre affermare che è amore autentico.

Mercoledì, 6 giugno 1984

1. Anche oggi riflettiamo sul Cantico dei cantici al fine di comprendere maggiormente il segno sacramentale
del matrimonio.
La verità dell’amore, proclamata dal Cantico dei cantici, non può essere separata dal “linguaggio del corpo”.
La verità dell’amore fa sì che lo stesso “linguaggio del corpo” venga riletto nella verità. Questa è anche la
verità del progressivo avvicinarsi degli sposi che cresce attraverso l’amore: e la vicinanza significa pure
l’iniziazione al mistero della persona, senza però implicarne la violazione (cf. Ct 1, 13-14.16).
La verità della crescente vicinanza degli sposi attraverso l’amore si sviluppa nella dimensione soggettiva
“del cuore”, dell’affetto e del sentimento, la quale permette di scoprire in sé l’altro come dono e, in un certo
senso, di “gustarlo” in sé (cf. Ct 2, 3-6).
Attraverso questa vicinanza lo sposo vive più pienamente l’esperienza di quel dono che da parte dell’“io”
femminile si unisce con l’espressione e il significato sponsali del corpo. Le parole dell’uomo (cf. Ct 7, 1-8)
non contengono solo una descrizione poetica dell’amata, della sua bellezza femminea, su cui si soffermano i
sensi, ma parlano del dono e del donarsi della persona.
La sposa sa che verso di lei è la “brama” dello sposo e gli va incontro con la prontezza del dono di sé
(cf. Ct 7, 9-13) perché l’amore che li unisce è di natura spirituale e sensuale insieme. Ed è anche in base a
quest’amore che si attua la rilettura nella verità del significato del corpo, poiché l’uomo e la donna debbono
in comune costituire quel segno del reciproco dono di sé, che pone il sigillo su tutta la loro vita.
2. Nel Cantico dei cantici il “linguaggio del corpo” è inserito nel singolare processo della reciproca attrattiva
dell’uomo e della donna, che viene espresso nei frequenti ritornelli che parlano della ricerca piena di
nostalgia, di sollecitudine affettuosa (cf. Ct 2, 7) e del vicendevole ritrovarsi degli sposi (cf. Ct 5, 2). Ciò
porta loro gioia e quiete e sembra indurli a una ricerca continua. Si ha l’impressione che, incontrandosi,
raggiungendosi, sperimentando la propria vicinanza, continuino incessantemente a tendere a qualcosa:
cedano alla chiamata di qualcosa che sovrasta il contenuto del momento e oltrepassa i limiti dell’eros, riletti
nelle parole del mutuo “linguaggio del corpo” (cf. Ct 1, 7-8; 2, 17). Questa ricerca ha la sua dimensione
interiore: “il cuore veglia” perfino nel sonno. Questa aspirazione nata dall’amore sulla base del “linguaggio
del corpo” è una ricerca del bello integrale, della purezza libera da ogni macchia: è una ricerca di perfezione
che contiene, direi, la sintesi della bellezza umana, bellezza dell’anima e del corpo.
Nel Cantico dei Cantici l’eros umano svela il volto dell’amore sempre alla ricerca e quasi mai appagato.
L’eco di questa inquietudine percorre le strofe del poemetto: “Ho aperto allora al mio diletto, / il mio diletto
già se n’era andato, era scomparso. / Io venni meno, ma non l’ho trovato, / l’ho chiamato ma non m’ha

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risposto” (Ct 5, 6). “Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, / se trovate il mio diletto / che cosa gli
racconterete? / Che sono malata d’amore” (Ct 5, 9).
3. Dunque alcune strofe del Cantico dei cantici presentano l’eros come la forma dell’amore umano, in cui
operano le energie del desiderio. Ed è in esse che si radica la coscienza ossia la certezza soggettiva del
reciproco, fedele ed esclusivo appartenersi. Al tempo stesso, però, molte altre strofe del poema ci impongono
di riflettere sulla causa della ricerca e dell’inquietudine che accompagnano la coscienza dell’essere l’uno
dell’altra. Questa inquietudine fa parte anch’essa della natura dell’eros? Se così fosse, tale inquietudine
indicherebbe pure la necessità dell’autosuperamento. La verità dell’amore si esprime nella coscienza del
reciproco appartenersi, frutto dell’aspirazione e della ricerca vicendevole e della necessità dell’aspirazione e
della ricerca, esito del reciproco appartenersi.
In tale necessità interiore, in tale dinamica di amore, si svela indirettamente la quasi impossibilità di
appropriarsi e impossessarsi della persona da parte dell’altra. La persona è qualcuno che sovrasta tutte le
misure di appropriazione e padroneggiamento, di possesso e di appagamento, che emergono dallo stesso
“linguaggio del corpo”. Se lo sposo e la sposa rileggono questo “linguaggio” nella piena verità della persona
e dell’amore, giungono alla sempre più profonda convinzione che l’ampiezza della loro appartenenza
costituisce quel dono reciproco in cui l’amore si rivela “forte come la morte”, cioè risale fino agli ultimi
limiti del “linguaggio del corpo” per superarli. La verità dell’amore interiore e la verità del dono reciproco
chiamano, in un certo senso, continuamente lo sposo e la sposa – attraverso i mezzi di espressione del
reciproco appartenersi e perfino staccandosi da quei mezzi – a pervenire a ciò che costituisce il nucleo del
dono da persona a persona.
4. Seguendo i sentieri delle parole tracciate dalle strofe del Cantico dei cantici sembra che ci avviciniamo
dunque alla dimensione in cui l’“eros” cerca di integrarsi, mediante ancora un’altra verità dell’amore. Secoli
dopo – alla luce della morte e risurrezione di Cristo – questa verità la proclamerà Paolo di Tarso, con le
parole della lettera ai Corinzi: “La carità è paziente, è benigna la carità, non è invidiosa la carità, non si
vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male
ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto
sopporta. La carità non avrà mai fine” (1 Cor 13, 4-8).
La verità sull’amore, espressa nelle strofe del Cantico dei cantici viene confermata alla luce di queste parole
paoline? Nel Cantico leggiamo, ad esempio sull’amore, che la sua “gelosia” è “tenace come gli inferi” (Ct 8,
6), e nella lettera paolina leggiamo che “non è invidiosa la carità”. In quale rapporto sono entrambe le
espressioni sull’amore? In quale rapporto sta l’amore che “è forte come la morte”, secondo il Cantico dei
cantici, con l’amore “che non avrà mai fine”, secondo la lettera paolina? Non moltiplichiamo queste
domande, non apriamo l’analisi comparativa. Sembra tuttavia che l’amore si apra, davanti a noi, in due
prospettive: come se ciò, in cui l’“eros” umano chiude il proprio orizzonte, si aprisse ancora, attraverso le
parole paoline, a un altro orizzonte di amore che parla un altro linguaggio; l’amore che sembra emergere da
un’altra dimensione della persona e chiama, invita a un’altra comunione. Questo amore è stato chiamato col
nome di “agape” e l’agape porta a compimento, purificandolo, l’eros.
Abbiamo così concluso queste brevi meditazioni sul Cantico dei cantici, intese ad approfondire ulteriormente
il tema del “linguaggio del corpo”. In questo ambito, il Cantico dei cantici ha un significato del tutto
singolare.

Mercoledì, 27 giugno 1984

1. Commentando nelle scorse settimane il Cantico dei cantici, ho sottolineato come il segno sacramentale del
matrimonio si costituisce sulla base del “linguaggio del corpo”, che l’uomo e la donna esprimono nella verità
che gli è propria. Sotto tale aspetto intendo analizzare oggi alcuni brani del Libro di Tobia.
Nel racconto dello sposalizio di Tobia con Sara si trova, oltre l’espressione “sorella” - per cui sembra essere
radicata nell’amore sponsale un’indole fraterna - anche un’altra espressione analoga a quelle del suddetto
Cantico.

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Come ricorderete, nel duetto degli sposi l’amore, che si dichiarano vicendevolmente, è “forte come la morte”
(Ct 8, 6). Nel Libro di Tobia troviamo la frase che, dicendo che egli amò Sara “al punto di non saper più
distogliere il cuore da lei” (Tb 6, 19), presenta una situazione confermante la verità delle parole sull’amore
“forte come la morte”.
2. Per capire meglio occorre rifarsi ad alcuni particolari che trovano spiegazione sullo sfondo dello specifico
carattere del Libro di Tobia. Vi leggiamo che Sara, figlia di Raguele, in precedenza era “stata data in moglie
a sette uomini” (Tb 6, 14), ma tutti erano morti prima di unirsi a lei. Ciò era accaduto per opera dello spirito
maligno e anche il giovane Tobia aveva ragioni per temere una morte analoga.
Così l’amore di Tobia doveva fin dal primo momento affrontare la prova della vita e della morte. Le parole
sull’amore “forte come la morte”, pronunciate dagli sposi del Cantico dei cantici nel trasporto del cuore,
assumono qui il carattere di una prova reale. Se l’amore si dimostra forte come la morte, ciò avviene
soprattutto nel senso che Tobia e, insieme con lui, Sara, vanno senza esitare verso questa prova. Ma in questa
prova della vita e della morte vince la vita, perché, durante la prova della prima notte di nozze,l’amore,
sorretto dalla preghiera, si rivela più forte della morte.
3. Questa prova della vita e della morte ha pure un altro significato che ci fa comprendere l’amore e il
matrimonio degli sposi novelli. Infatti essi, unendosi come marito e moglie, si trovano nella situazione in cui
le forze del bene e del male si combattono e si misurano reciprocamente. Il duetto degli sposi del Cantico dei
cantici sembra non percepire affatto questa dimensione della realtà. Gli sposi del Cantico vivono e si
esprimono in un mondo ideale o “astratto”, in cui è come se non esistesse la lotta delle forze oggettive tra il
bene e il male. È forse proprio la forza e la verità interiore dell’amore ad attenuare la lotta che si svolge
nell’uomo e intorno a lui?
La pienezza di questa verità e di questa forza propria dell’amore sembra tuttavia essere diversa e sembra
tendere piuttosto là dove ci conduce l’esperienza del Libro di Tobia. La verità e la forza dell’amore si
manifestano nella capacità di porsi tra le forze del bene e del male, che combattono nell’uomo e intorno a lui,
perché l’amore è fiducioso nella vittoria del bene ed è pronto a fare di tutto affinché il bene vinca. Di
conseguenza la verità dell’amore degli sposi del Libro di Tobia non viene confermata dalle parole espresse
dal linguaggio del trasporto amoroso come nel Cantico dei cantici, ma dalle scelte e dagli atti che assumono
tutto il peso dell’esistenza umana nell’unione di entrambi. Il “linguaggio del corpo”, qui, sembra usare le
parole delle scelte e degli atti scaturiti dall’amore, che vince perché prega.
4. La preghiera di Tobia (Tb 8, 5-8), che è innanzitutto preghiera di lode e di ringraziamento, poi di supplica,
colloca il “linguaggio del corpo” sul terreno dei termini essenziali della teologia del corpo. È un linguaggio
“oggettivizzato”, pervaso non tanto dalla forza emotiva dell’esperienza, quanto dalla profondità e gravità
della verità dell’esistenza stessa.
Gli sposi professano questa verità insieme, all’unisono davanti al Dio dell’alleanza: “Dio dei nostri padri”. Si
può dire che sotto questo aspetto il “linguaggio del corpo” diventa il linguaggio dei ministri del
sacramento consapevoli che nel patto coniugale si esprime e si attua il mistero che ha la sua sorgente in Dio
stesso. Il loro patto coniugale è infatti l’immagine - e il primordiale sacramento dell’alleanza di Dio con
l’uomo, con il genere umano - di quell’alleanza che trae la sua origine dall’amore eterno.
Tobia e Sara terminano la loro preghiera con le parole seguenti: “Degnati di aver misericordia di me e di lei e
di farci giungere insieme alla vecchiaia” (Tb 8, 7).
Si può ammettere (in base al contesto) che essi hanno davanti agli occhi la prospettiva di perseverare nella
comunione sino alla fine dei loro giorni: prospettiva che si apre dinanzi a loro con la prova della vita e della
morte, già durante la prima notte nuziale. Al tempo stesso essi vedono con lo sguardo della fede la santità di
questa vocazione, in cui - attraverso l’unità dei due, costruita sulla verità reciproca del “linguaggio del
corpo” - debbono rispondere alla chiamata di Dio stesso, contenuta nel mistero del principio. E per questo
chiedono: “Degnati di aver misericordia di me e di lei”.
5. Gli sposi del Cantico dei cantici dichiarano vicendevolmente, con parole ardenti, il loro amore umano. Gli
sposi novelli del Libro di Tobia chiedono a Dio di saper rispondere all’amore. L’uno e l’altro trovano il loro
posto in ciò che costituisce il segno sacramentale del matrimonio. L’uno e l’altro partecipano alla formazione
di questo segno.
Si può dire che attraverso l’uno e l’altro il “linguaggio del corpo”, riletto sia nella dimensione soggettiva
della verità dei cuori umani, sia nella dimensione “oggettiva” della verità del vivere nella
comunione, diviene la lingua della liturgia.

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La preghiera degli sposi novelli del Libro di Tobia sembra certamente confermarlo in un modo diverso dal
Cantico dei cantici, e anche in modo che senza dubbio commuove più profondamente.

Mercoledì, 4 luglio 1984

1. Riportiamoci oggi al classico testo del capitolo 5° della lettera agli Efesini, la quale rivela le sorgenti
eterne dell’alleanza nell’amore del Padre e insieme la sua nuova e definitiva istituzione in Gesù Cristo.
Questo testo ci conduce a una dimensione tale del “linguaggio del corpo” che potrebbe essere chiamata
“mistica”. Parla infatti del matrimonio come di un “grande mistero”. “Questo mistero è grande”( Ef 5, 32). E
sebbene questo mistero si compia nell’unione sponsale di Cristo redentore con la Chiesa e nella Chiesa-sposa
con Cristo (“Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5, 32)), sebbene si effettui definitivamente
nelle dimensioni escatologiche, tuttavia l’autore della lettera agli Efesini non esita ad estendere l’analogia
dell’unione di Cristo con la Chiesa nell’amore sponsale, delineata in modo così “assoluto” ed “escatologico”,
al segno sacramentale del patto sponsale dell’uomo e della donna, i quali sono “sottomessi gli uni agli altri
nel timore di Cristo” (Ef 5, 21). Non esita a estendere quella mistica analogia al “linguaggio del corpo”,
riletto nella verità dell’amore sponsale e dell’unione coniugale dei due.
2. Bisogna riconoscere la logica di questo stupendo testo, che libera radicalmente il nostro modo di pensare
dagli elementi di manicheismo o da una considerazione non personalista del corpo e al tempo stesso avvicina
il “linguaggio del corpo”, racchiuso nel segno sacramentale del matrimonio, alla dimensione della reale
santità.
I sacramenti innestano la santità sul terreno dell’umanità dell’uomo: penetrano l’anima e il corpo, la
femminilità e la mascolinità del soggetto personale, con la forza della santità. Tutto ciò viene espresso nella
lingua della liturgia: vi si esprime e vi si attua.
La liturgia, la lingua liturgica, eleva il patto coniugale dell’uomo e della donna, basato sul “linguaggio del
corpo” riletto nella verità, alle dimensioni del “mistero” e, nel medesimo tempo, consente che quel patto si
realizzi nelle suddette dimensioni attraverso il “linguaggio del corpo”.
Di ciò parla appunto il segno del sacramento del matrimonio, il quale nella lingua liturgica esprime un
evento interpersonale, carico di intenso contenuto personale, assegnato ai due “fino alla morte”. Il segno
sacramentale significa non solo il “fieri”, il nascere del matrimonio, ma costruisce il suo “esse”, la sua
durata: l’uno e l’altro come realtà sacra e sacramentale, radicata nella dimensione dell’alleanza e della grazia,
nella dimensione della creazione e della redenzione. In tal modo la lingua liturgica assegna a entrambi,
all’uomo e alla donna, l’amore, la fedeltà e l’onestà coniugale mediante il “linguaggio del corpo”. Assegna
loro l’unità e l’indissolubilità del matrimonio nel “linguaggio del corpo”. Assegna loro come compito tutto il
“sacrum” della persona e della comunione delle persone, e parimenti la loro femminilità e
mascolinità, proprio in questo linguaggio.
3. In tale senso affermiamo, che la lingua liturgica diventa “linguaggio del corpo”. Ciò significa una serie di
fatti e di compiti, che formano la “spiritualità” del matrimonio, il suo “ethos”. Nella vita quotidiana dei
coniugi questi fatti diventano compiti, e i compiti, fatti. Questi fatti - come anche gli impegni - sono di natura
spirituale, tuttavia si esprimono a un tempo col “linguaggio del corpo”.
L’Autore della lettera agli Efesini scrive in proposito: “. . . i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il
proprio corpo . . .” (Ef 5, 28) (“come se stesso”:Ef 5, 33), “e la donna sia rispettosa verso il marito” (Ef 5,
33). Ambedue, del resto, siano “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
Il “linguaggio del corpo”, quale ininterrotta continuità della lingua liturgica si esprime non solo come il
fascino e il compiacimento reciproco del Cantico dei Cantici, ma anche come una profonda esperienza del
“sacrum”, che sembra essere infuso nella stessa mascolinità e femminilità attraverso la dimensione del
“mysterium”: “mysterium magnum” della lettera agli Efesini, che affonda le radici appunto nel “principio”,
cioè nel mistero della creazione dell’uomo: maschio e femmina a immagine di Dio, chiamati fin “dal
principio” ad essere segno visibile dell’amore creativo di Dio.

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4. Così dunque “quel timore di Cristo” e “rispetto”, di cui parla l’autore della lettera agli Efesini, è nient’altro
che una forma spiritualmente matura di quel fascino reciproco: vale a dire dell’uomo per la femminilità e
della donna per la mascolinità, che si rivela per la prima volta nel libro della Genesi (Gen 2, 23-25). In
seguito, lo stesso fascino sembra scorrere come un largo torrente attraverso i versetti del Cantico dei cantici
per trovare, in circostanze del tutto diverse, la sua concisa e concentrata espressione nel libro di Tobia.
La maturità spirituale di questo fascino altro non è che il fruttificare del dono del timore, uno dei sette doni
dello Spirito Santo, di cui ha parlato san Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi (1 Ts 4, 4-7).
D’altronde, la dottrina di Paolo sulla castità, come “vita secondo lo Spirito” (cf. Rm 8, 5), ci consente
(particolarmente in base alla prima lettera ai Corinzi 6) di interpretare quel “ rispetto” in senso carismatico,
cioè quale dono dello Spirito Santo.
5. La lettera agli Efesini - nell’esortare i coniugi, perché siano sottomessi gli uni agli altri “nel timore di
Cristo” (Ef 5, 21) e nell’invogliarli, in seguito, al “rispetto” nel rapporto coniugale, sembra rivelare -
conformemente alla tradizione paolina - la castità quale virtù e quale dono.
In tal modo, attraverso la virtù e ancor più attraverso il dono (“vita secondo lo Spirito”) matura
spiritualmente il reciproco fascino della mascolinità e della femminilità. Entrambi, l’uomo e la donna,
allontanandosi dalla concupiscenza, trovano la giusta dimensione della libertà del dono, unita alla
femminilità e mascolinità nel vero significato sponsale del corpo.
Così la lingua liturgica, cioè la lingua del sacramento e del “mysterium”, diviene nella loro vita e convivenza
“linguaggio del corpo” in tutta una profondità, semplicità e bellezza fino a quel momento sconosciute.
6. Tale sembra essere il significato integrale del segno sacramentale del matrimonio. In quel segno,
attraverso il “linguaggio del corpo”, l’uomo e la donna vanno incontro al “grande mysterium”, per trasferire
la luce di quel mistero, luce di verità e di bellezza, espresso nella lingua liturgica, in “linguaggio del corpo”,
nel linguaggio cioè della prassi dell’amore, della fedeltà e dell’onestà coniugale, ossia nell’ethos radicato
nella “redenzione del corpo” (cf. Rm 8, 23). Su questa via, la vita coniugale diviene in certo senso liturgia.

Mercoledì, 11 luglio 1984

1. Le riflessioni finora svolte sull’amore umano nel piano divino resterebbero in qualche modo incomplete,
se non cercassimo di vederne l’applicazione concreta nell’ambito della morale coniugale e familiare.
Vogliamo compiere questo ulteriore passo, che ci porterà alla conclusione del nostro ormai lungo cammino,
sulla scorta di un importante pronunciamento del magistero recente: l’enciclica Humanae vitae, che il papa
Paolo VI ha pubblicato nel luglio del 1968. Rileggeremo questo significativo documento alla luce dei
risultati a cui siamo giunti esaminando l’iniziale disegno divino e le parole di Cristo, che ad esso rimandano.
2. “La Chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere per sé aperto alla trasmissione della vita
. . . Tale dottrina, più volte esposta dal magistero, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto
e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo
e il significato procreativo” (Humanae Vitae, 11-12).
3. Le considerazioni che mi accingo a fare riguarderanno particolarmente il passo dell’enciclica che tratta dei
“due significati dell’atto coniugale” e della loro “connessione inscindibile”. Non intendo presentare un
commento all’intera enciclica, ma piuttosto illustrarne e approfondirne un passo. Dal punto di vista della
dottrina morale racchiusa nel documento citato, quel passo ha un significato centrale. Al tempo stesso è un
brano che si collega strettamente con le nostre precedenti riflessioni sul matrimonio nella dimensione del
segno (sacramentale).
Poiché - come detto - è un passo centrale dell’enciclica, è ovvio che esso sia inserito molto profondamente in
tutta la sua struttura: la sua analisi pertanto deve orientarci verso le varie componenti di quella struttura,
anche se l’intenzione è di non commentare l’intero testo.
4. Nelle riflessioni sul segno sacramentale, è stato già detto a più riprese che esso è basato sul “linguaggio
del corpo” riletto nella verità. Si tratta di una verità affermata una prima volta all’inizio del matrimonio,

198
quando gli sposi novelli, promettendosi a vicenda di “essere fedeli sempre . . . e di amarsi e onorarsi tutti i
giorni della loro vita”, divengono ministri del matrimonio come sacramento della Chiesa.
Si tratta poi di una verità che viene, per così dire, sempre nuovamente affermata. Infatti l’uomo e la donna,
vivendo nel matrimonio “sino alla morte”, ripropongono di continuo, in un certo senso, quel segno ch’essi
hanno posto - attraverso la liturgia del sacramento - il giorno del loro sposalizio.
Le parole sopra citate dell’enciclica di papa Paolo VI riguardano quel momento nella vita comune dei
coniugi, in cui entrambi, unendosi nell’atto coniugale, diventano, secondo l’espressione biblica, “una sola
carne” (Gen 2, 24). Proprio in un tale momento, così ricco di significato, è pure particolarmente importante
che si rilegga il “linguaggio del corpo” nella verità. Tale lettura diviene condizione indispensabile per agire
nella verità, ossia per comportarsi conformemente al valore e alla norma morale.
5. L’enciclica non solo ricorda questa norma, ma cerca anche di darne l’adeguato fondamento. Per chiarire
più a fondo quella “connessione inscindibile che Dio ha voluto . . . tra i due significati dell’atto coniugale”,
Paolo VI così scrive nella frase successiva: “. . . per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce
profondamente gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso
dell’uomo e della donna” (Humanae Vitae, 12).
Osserviamo che nella frase precedente il testo appena citato tratta soprattutto del “significato” e nella frase
successiva, della “intima struttura” (cioè della natura) del rapporto coniugale. Definendo questa “struttura
intima”, il testo fa riferimento “alle leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna”.
Il passaggio dalla frase, che esprime la norma morale, alla frase che la esplica e motiva, è particolarmente
significativo. L’enciclica induce a cercare il fondamento della norma, che determina la moralità delle azioni
dell’uomo e della donna nell’atto coniugale, nella natura di questo stesso atto e, ancor più profondamente,
nella natura degli stessi soggetti che agiscono.
6. In tal modo, l’“intima struttura” (ossia natura) dell’atto coniugale costituisce la base necessaria per
un’adeguata lettura e scoperta dei significati, che devono trasferirsi nella coscienza e nelle decisioni delle
persone agenti, e anche la base necessaria per stabilire l’adeguato rapporto di questi significati, cioè la loro
inscindibilità. Poiché ad un tempo “l’atto coniugale unisce profondamente gli sposi . . . e li rende atti alla
generazione di nuove vite”, e l’una cosa e l’altra avvengono “per la sua intima struttura”, ne consegue che la
persona umana (con la necessità propria della ragione, la necessità logica) “deve”
leggere contemporaneamente i “due significati dell’atto coniugale” e anche la “connessione inscindibile tra i
due significati dell’atto coniugale”.
Di null’altro qui si tratta che di leggere nella verità il “linguaggio del corpo” come è stato detto più volte
nelle precedenti analisi bibliche. La norma morale, insegnata costantemente dalla Chiesa in questo ambito,
ricordata e riconfermata da Paolo VI nella sua enciclica, scaturisce dalla lettura del “linguaggio del
corpo” nella verità.
Si tratta qui della verità, prima nella dimensione ontologica (“struttura intima”) e poi - di conseguenza - nella
dimensione soggettiva e psicologica (“significato”). Il testo dell’enciclica sottolinea che nel caso in
questione si tratta di una norma della legge naturale.

Mercoledì, 18 luglio 1984

1. Nell’enciclica Humanae Vitae (Pauli VI, Humane Vitae, n. 11) si legge: “Richiamando gli uomini
all’osservanza delle norme della legge naturale interpretata dalla sua costante dottrina, la Chiesa insegna che
qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere per sé aperto alla trasmissione della vita”.
In pari tempo lo stesso testo considera e perfino pone in rilievo la dimensione soggettiva e psicologica,
quando parla del “significato”, ed esattamente dei “due significati dell’atto coniugale”.
Il “significato” nasce nella coscienza con la rilettura della verità (ontologica) dell’oggetto. Mediante questa
rilettura, la verità (ontologica) entra per così dire nella dimensione conoscitiva: soggettiva e psicologica.
L’Humanae Vitae sembra volgere particolarmente la nostra attenzione verso quest’ultima dimensione. Ciò è
confermato tra l’altro, indirettamente, anche dalla frase seguente: “Noi pensiamo che gli uomini del nostro

199
tempo sono particolarmente in grado di afferrare il carattere profondamente ragionevole e umano di questo
fondamentale principio” (Ibid., 12).
2. Quel “carattere ragionevole” riguarda non soltanto la verità nella dimensione ontologica, ossia ciò che
corrisponde alla struttura reale dell’atto coniugale. Esso riguarda anche la stessa verità nella dimensione
soggettiva e psicologica, vale a dire la retta comprensione dell’intima struttura dell’atto coniugale, cioè
l’adeguata rilettura dei significati corrispondenti a tale struttura e della loro connessione inscindibile, in vista
di un comportamento moralmente retto. In questo consiste appunto la norma morale e la corrispondente
regolazione degli atti umani nella sfera della sessualità. In tal senso diciamo che la norma s’identifica con la
rilettura, nella verità, del “linguaggio del corpo”.
3. L’enciclica Humanae Vitae contiene dunque la norma morale e la sua motivazione, o almeno un
approfondimento di ciò che costituisce la motivazione della norma. Poiché, per altro, nella norma si esprime
in modo vincolante il valore morale, ne segue che gli atti conformi alla norma sono moralmente retti, gli atti
contrari sono invece intrinsecamente illeciti. L’autore dell’enciclica sottolinea che tale norma appartiene alla
“legge naturale”, vale a dire, che essa è conforme alla ragione come tale. La Chiesa insegna questa norma,
sebbene essa non sia espressa formalmente (cioè letteralmente) nella Sacra Scrittura; e ciò fa nella
convinzione che l’interpretazione dei precetti della legge naturale appartenga alla competenza del magistero.
Possiamo tuttavia dire di più. Anche se la norma morale, in tal modo formulata nell’enciclica Humanae vitae,
non si trova letteralmente nella Sacra Scrittura, nondimeno dal fatto che essa è contenuta nella tradizione e -
come scrive il papa Paolo VI - è stata “più volte esposta dal magistero” (Ivi) ai fedeli, risulta che questa
norma corrisponde all’insieme della dottrina rivelata contenuta nelle fonti bibliche (Ivi, 4).
4. Si tratta qui non solo dell’insieme della dottrina morale racchiusa nella Sacra Scrittura, delle sue premesse
essenziali e del carattere generale del suo contenuto, ma di quel complesso più ampio, al quale abbiamo
dedicato in precedenza numerose analisi trattando della “teologia del corpo”.
Proprio sullo sfondo di tale ampio complesso si rende evidente che la menzionata norma morale appartiene
non soltanto alla legge morale naturale, ma anche all’ordine morale rivelato da Dio: anche da questo punto
di vista essa non potrebbe essere diversa, ma unicamente quale la tramandano la tradizione e il magistero e,
ai giorni nostri, l’enciclica Humanae Vitae, come documento contemporaneo di tale magistero.
Paolo VI scrive: “Noi pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare il
carattere profondamente ragionevole e umano di questo fondamentale principio” (Humanae Vitae, 12). Si
può aggiungere: essi sono in grado di afferrare anche la sua profonda conformità con tutto ciò che viene
trasmesso dalla tradizione scaturita dalle fonti bibliche. Le basi di questa conformità sono da ricercarsi
particolarmente nell’antropologia biblica. D’altronde, è noto il significato che l’antropologia ha per l’etica,
cioè per la dottrina morale. Sembra essere del tutto ragionevole cercare proprio nella “teologia del corpo” il
fondamento della verità delle norme che riguardano la problematica così fondamentale dell’uomo in quanto
“corpo”: “i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24).
5. La norma dell’enciclica Humanae Vitae riguarda tutti gli uomini, in quanto è norma della legge naturale e
si basa sulla conformità con la ragione umana (quando, s’intende, questa cerca la verità). A maggior ragione
essa concerne tutti i credenti membri della Chiesa, dato che il carattere ragionevole di questa norma trova
indirettamente conferma e solido sostegno nell’insieme della “teologia del corpo”. Da questo punto di vista
abbiamo parlato, nelle precedenti analisi, dell’“ethos” della redenzione del corpo.
La norma della legge naturale, basata su questo “ethos”, trova non soltanto una nuova espressione, ma anche
un pieno fondamento antropologico ed etico sia nella parola del Vangelo, sia nell’azione purificante e
corroborante dello Spirito Santo.
Vi sono tutte le ragioni affinché ogni credente e in particolare ogni teologo rilegga e comprenda sempre più
profondamente la dottrina morale dell’enciclica in questo contesto integrale.
Le riflessioni, che da lungo tempo facciamo qui, costituiscono appunto un tentativo di tale rilettura.

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Mercoledì, 25 luglio 1984

1. Riprendiamo le riflessioni che tendono a collegare l’enciclica Humanae Vitae con l’insieme della teologia
del corpo.
Tale enciclica non si limita a ricordare la norma morale che concerne la convivenza coniugale,
riconfermandola davanti alle nuove circostanze. Paolo VI, nel pronunciarsi con magistero autentico mediante
l’enciclica (1968), ha avuto dinanzi agli occhi l’autorevole enunciato del Concilio Vaticano II, contenuto
nella costituzione Gaudium et Spes (1965).
L’enciclica non si trova soltanto sulla linea dell’insegnamento conciliare, ma costituisce anche lo
svolgimento e il completamento dei problemi ivi racchiusi, in modo particolare riguardo al problema
dell’“accordo dell’amore umano col rispetto della vita”. Su questo punto, leggiamo nella Gaudium et Spes le
seguenti parole (Gaudium et Spes, n. 51): “La Chiesa ricorda che non può esserci vera contraddizione tra le
leggi divine del trasmettere la vita e del dovere di favorire l’autentico amore coniugale”.
2. La costituzione pastorale del Vaticano II esclude qualsiasi “vera contraddizione” nell’ordine normativo, il
che, da parte sua, conferma Paolo VI, cercando contemporaneamente di far luce su quella “non-
contraddizione” e in tal modo di motivare la rispettiva norma morale, dimostrandone la conformità alla
ragione.
Tuttavia, l’Humanae Vitae parla non tanto della “non contraddizione” nell’ordine normativo, quanto della
“connessione inscindibile” tra la trasmissione della vita e l’autentico amore coniugale dal punto di vista dei
“due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo” (Pauli VI, Humanae
Vitae, 12), di cui abbiamo già trattato.
3. Ci si potrebbe soffermare a lungo sull’analisi della norma stessa; ma il carattere dell’uno e dell’altro
documento induce piuttosto a riflessioni, almeno indirettamente, pastorali. Infatti, la Gaudium et Spes è una
costituzione pastorale e l’enciclica di Paolo VI - con il suo valore dottrinale - tende ad avere lo stesso
orientamento. Essa vuol essere, infatti, risposta agli interrogativi dell’uomo contemporaneo. Sono, questi,
interrogativi di carattere demografico, conseguentemente di carattere socio-economico e politico, in rapporto
alla crescita della popolazione sul globo terrestre. Sono interrogativi che partono dal campo delle scienze
particolari, e di pari passo sono gli interrogativi dei moralisti contemporanei (teologi-moralisti). Sono
innanzitutto gli interrogativi dei coniugi, che si trovano già al centro dell’attenzione della costituzione
conciliare e che l’enciclica riprende con tutta la precisione desiderabile. Vi leggiamo infatti: “Date le
condizioni della vita odierna e dato il significato che le relazioni coniugali hanno per l’armonia tra gli sposi e
per la loro mutua fedeltà, non sarebbe forse indicata una revisione delle norme etiche finora vigenti,
soprattutto se si considera che esse non possono essere osservate senza sacrifici, talvolta eroici?” (Ibid., 3).
4. Nella suddetta formulazione è evidente con quanta sollecitudine l’autore dell’enciclica cerchi di affrontare
gli interrogativi dell’uomo contemporaneo in tutta la loro portata. La rilevanza di questi interrogativi
suppone una risposta proporzionalmente ponderata e profonda. Se dunque da una parte è giusto attendersi
un’acuta trattazione della norma, dall’altra, ci si può pure aspettare che un peso non minore sia dato agli
argomenti pastorali, concernenti più direttamente la vita degli uomini concreti, di coloro appunto che
pongono le domande menzionate all’inizio.
Paolo VI ha avuto sempre davanti agli occhi questi uomini. Di ciò è espressione, tra l’altro, il seguente passo
della Humanae Vitae(Pauli VI, Humanae Vitae, n. 20): “La dottrina della Chiesa sulla regolazione della
natalità, che promulga la legge divina, apparirà facilmente a molti di difficile o addirittura impossibile
attuazione. E certamente, come tutte le realtà grandi e benefiche, essa richiede serio impegno e molti sforzi,
individuali, familiari e sociali. Anzi, non sarebbe attuabile senza l’aiuto di Dio, che sorregge e corrobora la
buona volontà, degli uomini. Ma a chi ben riflette non potrà non apparire che tali sforzi sono nobilitanti per
l’uomo e benefici per la comunità umana”.
5. A questo punto non si parla più della “non-contraddizione” normativa, ma piuttosto della “ possibilità
dell’osservanza della legge divina”, cioè di un argomento, almeno indirettamente, pastorale. Il fatto che la
legge debba essere di “possibile” attuazione, appartiene direttamente alla natura stessa della legge, ed è
dunque contenuto nel quadro della “non-contraddittorietà normativa”. Tuttavia la “possibilità”, intesa come
“attuabilità” della norma, appartiene anche alla sfera pratica e pastorale. Nel testo citato il mio predecessore
parla, precisamente, da questo punto di vista.

201
6. Si può qui aggiungere una considerazione: il fatto che tutto il retroterra biblico, denominato “teologia del
corpo”, ci offra, anche se indirettamente, la conferma della verità della norma morale, contenuta
nella Humanae Vitae, ci prepara a considerare più a fondo gli aspetti pratici e pastorali del problema nel suo
insieme. I principi e i presupposti generali della “teologia del corpo” non erano forse estratti tutti quanti dalle
risposte che Cristo diede alle domande dei suoi concreti interlocutori? E i testi di Paolo - come ad esempio
quelli della lettera ai Corinzi - non sono forse un piccolo manuale riguardante i problemi della vita morale
dei primi seguaci di Cristo? E in questi testi troviamo certamente quella “regola di comprensione”, che
sembra tanto indispensabile di fronte ai problemi di cui tratta l’Humanae vitae, e che in questa enciclica è
presente.
Chi crede che il Concilio e l’enciclica non tengano abbastanza conto delle difficoltà presenti nella vita
concreta, non comprende la preoccupazione pastorale che fu all’origine di quei documenti. Preoccupazione
pastorale significa ricerca del vero bene dell’uomo, promozione dei valori impressi da Dio nella sua persona;
significa cioè attuazione di quella “regola di comprensione”, che mira alla scoperta sempre più chiara del
disegno di Dio sull’amore umano, nella certezza che l’unico e vero bene della persona umana consiste
nell’attuazione di questo disegno divino.
Si potrebbe dire che, proprio nel nome della citata “regola di comprensione” il Concilio ha posto la questione
dell’“accordo dell’amore umano col rispetto della vita” (Gaudium et Spes, 51), e l’enciclica Humanae
Vitae ha in seguito ricordato non soltanto le norme morali che obbligano in questo ambito, ma si occupa
inoltre ampiamente del problema della “possibilità dell’osservanza della legge divina”.
Le presenti riflessioni sul carattere del documento Humanae Vitae ci preparano a trattare in seguito il tema
della “paternità responsabile”.

Mercoledì, 1 agosto 1984

1. Per oggi abbiamo scelto il tema della “paternità e maternità responsabili” alla luce della
costituzione Gaudium et Spes e dell’enciclica Humanae Vitae.
La Costituzione conciliare, nell’affrontare l’argomento, si limita a ricordare le premesse fondamentali; il
documento pontificio invece va oltre, dando a queste premesse contenuti più concreti.
Il testo conciliare suona così: “. . . Quando si tratta di comporre l’amore coniugale con la trasmissione
responsabile della vita, il carattere morale del comportamento non dipende solo dalla sincera intenzione e
dalla valutazione dei motivi, ma va determinato da criteri oggettivi, che hanno il loro fondamento nella
natura stessa della persona umana e dei suoi atti e sono destinati a mantenere in un contesto di vero amore
l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana; e tutto ciò non sarà possibile se non
venga coltivata con sincero animo la virtù della castità coniugale”.
E il Concilio aggiunge: “I figli della Chiesa, fondati su questi principi, nel regolare la procreazione non
potranno seguire strade che sono condannate dal magistero” (Gaudium et Spes, 51. 50).
2. Prima del passo citato, il Concilio insegna che i coniugi “adempiranno il loro dovere con umana e
cristiana responsabilità e con docile riverenza verso Dio”. Il che vuol dire che: “con riflessione e impegno
comune si formeranno un retto giudizio, tenendo conto sia del proprio bene personale che di quello dei figli,
tanto di quelli nati che di quelli che si prevede nasceranno, valutando le condizioni di vita del proprio tempo
e del proprio stato di vita, nel loro aspetto tanto materiale, che spirituale; e, infine, salvaguardando la scala
dei valori del bene della comunità familiare, della società temporale e della stessa Chiesa”.
A questo punto seguono parole particolarmente importanti per determinare con maggiore precisione il
carattere morale della “paternità e maternità responsabili”. Leggiamo: “Questo giudizio, in ultima analisi,
lo devono formulare, davanti a Dio, gli sposi stessi”.
E proseguendo: “Però nella loro linea di condotta i coniugi cristiani siano consapevoli che non possono
procedere a loro arbitrio, ma devono sempre essere retti da una coscienza che sia conforme alla legge divina
stessa, docili al magistero della Chiesa, che in modo autentico quella legge interpreta alla luce del Vangelo.
Tale legge divina manifesta il significato pieno dell’amore coniugale, lo salvaguarda e lo sospinge verso la
sua perfezione veramente umana” (Gaudium et Spes, 50).

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3. La costituzione conciliare, limitandosi a ricordare le premesse necessarie per una “paternità e maternità
responsabili”, le ha rilevate in maniera del tutto univoca, precisando gli elementi costitutivi di tale paternità e
maternità, cioè il giudizio maturo della coscienza personale nel suo rapporto con la legge divina,
autenticamente interpretata dal magistero della Chiesa.
4. L’enciclica Humanae Vitae, basandosi sulle medesime premesse, prosegue oltre, offrendo indicazioni
concrete. Lo si vede prima nel modo di definire la “paternità responsabile” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10).
Paolo VI cerca di precisare questo concetto, risalendo ai suoi vari aspetti ed escludendo in anticipo la sua
riduzione a uno degli aspetti “parziali”, come fanno coloro che parlano esclusivamente di controllo delle
nascite. Fin dall’inizio, infatti, Paolo VI è guidato nella sua argomentazione da una concezione integrale
dell’uomo (cf. Ibid., 7) e dell’amore coniugale (cf. Ibid., 8. 9).
5. Si può parlare di responsabilità nell’esercizio della funzione paterna e materna sotto diversi aspetti. Così,
egli scrive, “in rapporto ai processi biologici, paternità responsabile significa conoscenza e rispetto delle loro
funzioni: l’intelligenza scopre, nel potere di dare la vita, leggi biologiche che fanno parte della persona
umana” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10). Quando poi si tratta della dimensione psicologica delle “tendenze
dell’istinto e delle passioni, la paternità responsabile significa il necessario dominio che la ragione e la
volontà devono esercitare su di esse” (Ibid., 10).
Supposti i suddetti aspetti intra-personali e aggiungendo ad essi “le condizioni economiche e sociali”,
occorre riconoscere che “la paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e generosa di
far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge
morale, di evitare temporaneamente e anche a tempo indeterminato, una nuova nascita” (Pauli VI, Humanae
Vitae, 10).
Ne consegue che nella concezione della “paternità responsabile” è contenuta la disposizione non soltanto ad
evitare “una nuova nascita” ma anche a far crescere la famiglia secondo i criteri della prudenza. In questa
luce, in cui bisogna esaminare e decidere la questione della “paternità responsabile”, resta sempre centrale
“l’ordine morale oggettivo, stabilito da Dio, e di cui la retta coscienza è fedele interprete” (Ibid., 10).
6. I coniugi adempiono in questo ambito “i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso
la società, in una giusta gerarchia dei valori” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10). Non si può dunque parlare qui
di “procedere a proprio arbitrio”. Al contrario, i coniugi devono “conformare il loro agire all intenzione
creatrice di Dio” (Ibid., 10).
A partire da questo principio l’enciclica fonda la sua argomentazione sull’“intima struttura dell’atto
coniugale” e sulla “connessione inscindibile dei due significati dell’atto coniugale” (cf. Ibid., 12); il che è
stato già in precedenza riferito. Il relativo principio della morale coniugale risulta essere, pertanto, la fedeltà
al piano divino, manifestato nell’“intima struttura dell’atto coniugale” e nella “connessione inscindibile dei
due significati dell’atto coniugale”.

Mercoledì, 8 agosto 1984

1. Abbiamo detto precedentemente che il principio della morale coniugale, insegnato dalla Chiesa (Concilio
Vaticano II, Paolo VI), è il criterio della fedeltà al piano divino.
In conformità con questo principio l’enciclica Humanae Vitae distingue rigorosamente tra quello che
costituisce il modo moralmente illecito della regolazione delle nascite o, con più precisione, della
regolazione della fertilità e quello moralmente retto.
In primo luogo, è moralmente illecita “l’interruzione diretta del processo generativo già iniziato” (“aborto”)
(Ibid., 14), la “sterilizzazione diretta” e “ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo
compimento, o nello sviluppo delle conseguenze naturali si proponga, come scopo o come mezzo, di rendere
impossibile la procreazione” (Ibid., 14), quindi, tutti i mezzi contraccettivi. È invece moralmente lecito “il
ricorso ai periodi infecondi” (Ibid., 16): “Se dunque per distanziare le nascite esistono seri motivi, derivanti
o dalle condizioni fisiche o psicologiche dei coniugi, o da circostanze esteriori, la Chiesa insegna essere

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allora lecito tener conto dei ritmi naturali immanenti alle funzioni generative per l’uso del matrimonio nei
soli periodi infecondi e così regolare la natalità senza offendere i principi morali . . .” (Ibid., 16).
2. L’enciclica sottolinea in modo particolare che “tra i due casi esiste una differenza essenziale” e cioè
una differenza di natura etica: “Nel primo caso, i coniugi usufruiscono legittimamente di una disposizione
naturale; nell’altro caso, essi impediscono lo svolgimento dei processi naturali” (Pauli VI, Humanae Vitae,
16).
Ne derivano due azioni con qualificazione etica diversa, anzi, addirittura opposta: la regolazione naturale
della fertilità è moralmente retta, la contraccezione non è moralmente retta. Questa differenza essenziale tra
le due azioni (modi di agire) concerne la loro intrinseca qualificazione etica, sebbene il mio predecessore
Paolo VI affermi che “nell’uno e nell’altro caso, i coniugi concordano nella volontà positiva di evitare la
prole per ragioni plausibili”, e persino scriva: “cercando la sicurezza che non verrà” (Ibid., 16). In queste
parole il documento ammette che, sebbene anche coloro che fanno uso delle pratiche anticoncezionali
possano essere ispirati da “ragioni plausibili”, tuttavia ciò non cambia la qualificazione morale che si fonda
sulla struttura stessa dell’atto coniugale come tale.
3. Si potrebbe osservare, a questo punto, che i coniugi, i quali ricorrono alla regolazione naturale della
fertilità, potrebbero essere privi delle ragioni valide, di cui si è parlato in precedenza: ciò costituisce,
però, un problema etico a parte, quando si tratti del senso morale della “paternità e maternità responsabili”.
Supponendo che le ragioni per decidere di non procreare siano moralmente rette, resta il
problema morale del modo di agire in tale caso, e questo si esprime in un atto che - secondo la dottrina della
Chiesa trasmessa nell’enciclica - possiede una sua intrinseca qualificazione morale positiva o negativa. La
prima, positiva, corrisponde alla “naturale” regolazione della fertilità; la seconda, negativa, corrisponde alla
“contraccezione artificiale”.
4. Tutta la precedente argomentazione si riassume nell’esposizione della dottrina contenuta nella Humanae
Vitae, rilevandone il carattere normativo e insieme pastorale. Nella dimensione normativa si tratta di
precisare e chiarire i principi morali dell’agire; nella dimensione pastorale si tratta soprattutto di illustrare la
possibilità di agire secondo questi principi (“possibilità dell’osservanza della legge divina”: Humanae Vitae,
20).
Dobbiamo soffermarci sull’interpretazione del contenuto dell’enciclica. A tal fine occorre vedere quel
contenuto, quell’insieme normativa-pastorale alla luce della teologia del corpo, quale emerge dall’analisi dei
testi biblici.
5. La teologia del corpo non è tanto una teoria, quanto piuttosto una specifica, evangelica, cristiana
pedagogia del corpo. Ciò deriva dal carattere della Bibbia, e soprattutto dal Vangelo che, come messaggio
salvifico, rivela ciò che è il vero bene dell’uomo, al fine di modellare - a misura di questo bene - la vita sulla
terra nella prospettiva della speranza del mondo futuro.
L’enciclica Humanae Vitae, seguendo questa linea, risponde al quesito sul vero bene dell’uomo come
persona, in quanto maschio e femmina; su ciò che corrisponde alla dignità dell’uomo e della donna, quando
si tratta dell’importante problema della trasmissione della vita nella convivenza coniugale.
A questo problema dedicheremo ulteriori riflessioni.

Mercoledì, 22 agosto 1984

1. Qual è l’essenza della dottrina della Chiesa circa la trasmissione della vita nella comunità coniugale, di
quella dottrina che ci è stata ricordata dalla costituzione pastorale del Concilio Gaudium et Spes e
dall’enciclica Humanae Vitae di papa Paolo VI?
Il problema sta nel mantenere l’adeguato rapporto tra ciò che viene definito “dominio . . . delle forze della
natura” (Pauli VI, Humanae Vitae, 2) e la “padronanza di sé” (Ibid., 21) indispensabile alla persona umana.
L’uomo contemporaneo manifesta la tendenza a trasferire i metodi propri del primo ambito a quelli del
secondo. “L’uomo ha compiuto progressi stupendi nel dominio e nell’organizzazione razionale delle forze

204
della natura - leggiamo nell’enciclica - talché tende ad estendere questo dominio al suo stesso essere globale:
al corpo, alla vita psichica, alla vita sociale, e perfino alle leggi che regolano la trasmissione della vita”
(Ibid., 2).
Tale estensione della sfera dei mezzi di “dominio . . . delle forze della natura”, minaccia la persona umana,
per la quale il metodo della “padronanza di sé” è e rimane specifico. Essa - la padronanza di sé - infatti
corrisponde alla costituzione fondamentale della persona: è appunto un metodo “naturale”. Invece la
trasposizione dei “mezzi artificiali” infrange la dimensione costitutiva della persona, priva l’uomo della
soggettività che gli è propria e fa di lui un oggetto di manipolazione.
2. Il corpo umano non è soltanto il campo di reazioni di carattere sessuale, ma è, al tempo stesso, il mezzo di
espressione dell’uomo integrale, della persona, che rivela se stessa attraverso il “linguaggio del corpo”.
Questo “linguaggio” ha un importante significato interpersonale, specialmente quando si tratta dei rapporti
reciproci tra l’uomo e la donna. Per di più, le nostre analisi precedenti mostrano che in questo caso il
“linguaggio del corpo” deve esprimere, a un determinato livello, la verità del sacramento. Partecipando
all’eterno piano d’amore “Sacramentum absconditum in Deo” il “linguaggio del corpo” diventa infatti quasi
un “profetismo del corpo”.
Si può dire che l’enciclica Humanae Vitae porta alle estreme conseguenze, non soltanto logiche e morali, ma
anche pratiche e pastorali, questa verità sul corpo umano nella sua mascolinità e femminilità.
3. L’unità dei due aspetti del problema - della dimensione sacramentale (ossia teologica) e di quella
personalistica - corrisponde alla globale “rivelazione del corpo”. Da qui deriva anche la connessione della
visione strettamente teologica con quella etica, che si richiama alla “legge naturale”.
Il soggetto della legge naturale è infatti l’uomo non soltanto nell’aspetto “naturale” della sua esistenza, ma
anche nella verità integrale della sua soggettività personale. Egli ci si manifesta, nella rivelazione, come
maschio e femmina, nella sua piena vocazione temporale ed escatologica. Egli è chiamato da Dio ad essere
testimone e interprete dell’eterno disegno dell’amore, divenendo ministro del sacramento, che “da principio”
è costituito nel segno dell’“unione della carne”.
4. Come ministri di un sacramento che si costituisce attraverso il consenso e si perfeziona attraverso l’unione
coniugale, l’uomo e la donna sono chiamati ad esprimere quel misterioso “linguaggio” dei loro corpi in
tutta la verità che gli è propria. Per mezzo dei gesti e delle reazioni, per mezzo di tutto il dinamismo,
reciprocamente condizionato, della tensione e del godimento - la cui diretta sorgente è il corpo nella sua
mascolinità e femminilità, il corpo nella sua azione e interazione - attraverso tutto questo “parla” l’uomo, la
persona.
L’uomo e la donna svolgono nel “linguaggio del corpo” quel dialogo che - secondo la Genesi ( Gen 2, 24-25)
- ebbe inizio nel giorno della creazione. È appunto a livello di questo “linguaggio del corpo” - che è qualcosa
di più della sola reattività sessuale e che, come autentico linguaggio delle persone, è sottoposto alle esigenze
della verità, cioè a norme morali obiettive - l’uomo e la donna esprimono reciprocamente se stessi nel modo
più pieno e più profondo, in quanto è loro consentito dalla stessa dimensione somatica . . . mascolinità e
femminilità: l’uomo e la donna esprimono se stessi nella misura di tutta la verità della loro persona.
5. L’uomo è appunto persona perché è padrone di sé e domina se stesso. In quanto infatti è padrone di se
stesso può “donarsi” all’altro. Ed è questa dimensione della libertà del dono - che diventa essenziale e
decisiva per quel “linguaggio del corpo”, in cui l’uomo e la donna si esprimono reciprocamente nell’unione
coniugale. Dato che questa è comunione di persone, il “linguaggio del corpo” deve essere giudicato secondo
il criterio della verità. Proprio tale criterio richiama l’enciclica Humanae Vitae, come è confermato dai passi
citati in precedenza.
6. Secondo il criterio di questa verità, che deve esprimersi nel “linguaggio del corpo”, l’atto coniugale
“significa” non soltanto l’amore, ma anche la potenziale fecondità, e perciò non può essere privato del suo
pieno e adeguato significato mediante interventi artificiali. Nell’atto coniugale non è lecito separare
artificialmente il significato unitivo dal significato procreativo, perché l’uno e l’altro appartengono alla verità
intima dell’atto coniugale: l’uno si attua insieme all’altro e in certo senso l’uno attraverso l’altro. Così
insegna l’enciclica (cf. Humanae Vitae, 12). Quindi in tal caso l’atto coniugale privo della sua verità
interiore, perché privato artificialmente della sua capacità procreativa, cessa anche di essere atto di amore.
7. Si può dire che nel caso di un’artificiale separazione di questi due significati, nell’atto coniugale si compie
una reale unione corporea, ma essa non corrisponde alla verità interiore e alla dignità della comunione

205
personale: “communio personarum”. Tale comunione esige infatti che il “linguaggio del corpo” sia espresso
reciprocamente nell’integrale verità del suo significato. Se manca questa verità, non si può parlare ne della
verità del reciproco dono e della reciproca accettazione di sé da parte della persona. Tale violazione
dell’ordine interiore della comunione coniugale, che affonda le sue radici nell’ordine stesso della
persona, costituisce il male essenziale dell’atto contraccettivo.
8. La suddetta interpretazione della dottrina morale, esposta nell’enciclica Humanae Vitae, si situa sul vasto
sfondo delle riflessioni connesse con la teologia del corpo. Specialmente valide per questa interpretazione
sono le riflessioni sul “segno” in connessione col matrimonio, inteso come sacramento. E l’assenza della
violazione che turba l’ordine interiore dell’atto coniugale non può essere intesa in modo teologicamente
adeguato, senza le riflessioni sul tema della “concupiscenza della carne”.

Mercoledì, 29 agosto 1984

1. L’enciclica Humanae Vitae, dimostrando, il male morale della contraccezione, al tempo stesso approva
pienamente la regolazione naturale della fertilità e, in questo senso, approva la paternità e maternità
responsabili. Bisogna qui escludere che possa qualificarsi “responsabile” dal punto di vista etico quella
procreazione nella quale si ricorre alla contraccezione per attuare la regolazione della fertilità. Il vero
concetto di “paternità e maternità responsabili” è invece connesso con la regolazione della fertilità onesta dal
punto di vista etico.
2. Leggiamo a proposito: “Un’onesta pratica di regolazione della natalità richiede anzitutto dagli sposi che
acquistino e posseggano solide convinzioni circa i veri valori della vita e della famiglia, e che tendano ad
acquistare una perfetta padronanza di sé. Il dominio dell’istinto, mediante la ragione e la libera volontà,
impone indubbiamente un’ascesi, affinché le manifestazioni affettive della vita coniugale siano secondo il
retto ordine e in particolare per l’osservanza della continenza periodica. Ma questa disciplina, propria della
purezza degli sposi, ben lungi dal nuocere all’amore coniugale, gli conferisce invece un più alto valore
umano. Esige un continuo sforzo, ma grazie al suo benefico influsso i coniugi sviluppano integralmente la
loro personalità arricchendosi di valori spirituali . . . (Pauli VI, Humanae Vitae, 21).
3. L’enciclica illustra poi le conseguenze di tale comportamento non soltanto per gli stessi coniugi, ma anche
per tutta la famiglia, intesa come comunità di persone. Occorrerà riprendere in considerazione questo
argomento. Essa sottolinea che la regolazione eticamente onesta della fertilità esige dai coniugi anzitutto un
determinato comportamento familiare e procreativo: esige cioè “che acquistino e posseggano solide
convinzioni circa i valori della vita e della famiglia” (Humanae Vitae, 21). Partendo da questa premessa, è
stato necessario procedere a una considerazione globale della questione, come fece il Sinodo dei Vescovi del
1980 (De muneribus familiae christianae). In seguito, la dottrina relativa a questo particolare problema della
morale coniugale e familiare, di cui tratta l’enciclica Humanae Vitae, ha trovato il giusto posto e l’ottica
opportuna nel complessivo contesto dell’esortazione apostolica Familiaris Consortio. La teologia del corpo,
particolarmente come pedagogia del corpo, affonda le radici, in certo senso, nella teologia della famiglia e,
ad un tempo, ad essa conduce. Tale pedagogia del corpo, la cui chiave oggi è l’enciclica Humanae Vitae, si
spiega soltanto nel pieno contesto di una corretta visione dei valori della vita e della famiglia.
4. Nel testo sopra citato papa Paolo VI si richiama alla castità coniugale, scrivendo che l’osservanza della
continenza periodica è la forma di padronanza di sé, in cui si manifesta “la purezza degli sposi” (Pauli
VI, Humanae Vitae, 21).
Nell’intraprendere ora un’analisi più approfondita di questo problema, occorre tener presente tutta la dottrina
sulla purezza intesa come vita dello Spirito (cf. Gal 5, 25), considerata da noi già in precedenza, per
comprendere così le rispettive indicazioni dell’enciclica sul tema della “continenza periodica”. Quella
dottrina resta infatti la vera ragione, a partire dalla quale l’insegnamento di Paolo VI definisce la
regolazione della natalità e la paternità e maternità responsabili come eticamente oneste.

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Sebbene la “periodicità” della continenza venga in questo caso applicata ai cosiddetti “ritmi naturali”
(Humanae Vitae, 16), tuttavia la continenza stessa è un determinato e permanente atteggiamento morale, è
virtù, e perciò tutto il modo di comportarsi, da essa guidato, acquista carattere virtuoso. L’enciclica sottolinea
abbastanza chiaramente che qui non si tratta solo di una determinata “tecnica”, ma dell’etica nel senso stretto
del termine come moralità di un comportamento.
Pertanto, opportunamente l’enciclica pone in rilievo, da un lato, la necessità di rispettare nel suddetto
comportamento l’ordine stabilito dal Creatore, e, dall’altro, la necessità dell’immediata motivazione di
carattere etico.
5. Riguardo al primo aspetto leggiamo: “Usufruire . . . del dono dell’amore coniugale rispettando le leggi del
processo generativo significa riconoscersi non arbitri delle sorgenti della vita umana, ma piuttosto ministri
del disegno stabilito dal Creatore” (Humanae Vitae, 13). “La vita umana è sacra” - come ha ricordato il
nostro predecessore Giovanni XXIII - fin dal suo affiorare impegna direttamente l’azione creatrice di Dio”
(Mater et magistra; cf. Humanae Vitae, 13). Quanto all’immediata motivazione, l’enciclica Humanae
Vitae richiede che “per distanziare le nascite esistano seri motivi, derivanti o dalle condizioni fisiche o
psicologiche dei coniugi, o da circostanze esteriori . . .” (Humanae Vitae, 16).
6. Nel caso di una regolazione moralmente retta della fertilità che si attua mediante la continenza periodica,
si tratta chiaramente di praticare la castità coniugale, cioè di un determinato atteggiamento etico. Nel
linguaggio biblico, diremo che si tratta di vivere dello Spirito (cf. Gal 5, 25).
La regolazione moralmente retta viene anche denominata “regolazione naturale della fertilità”, il che può
essere spiegato quale conformità alla “legge naturale”. Per “legge naturale” intendiamo qui l’“ordine della
natura” nel campo della procreazione, in quanto esso è compreso dalla retta ragione: tale ordine è
l’espressione del piano del Creatore sull’uomo. Ed è proprio questo che l’enciclica, insieme con tutta la
tradizione della dottrina e della pratica cristiana, sottolinea in modo particolare: il carattere virtuoso
dell’atteggiamento, che si esprime nella “naturale” regolazione della fertilità, è determinato non tanto dalla
fedeltà a un’impersonale “legge naturale” quanto al Creatore-persona, sorgente e Signore dell’ordine che si
manifesta in tale legge.
Da questo punto di vista, la riduzione alla sola regolarità biologica, staccata dall’“ordine della natura” cioè
dal “piano del Creatore” deforma l’autentico pensiero dell’enciclica Humanae Vitae (cf. Humanae Vitae, 14).
Il documento prosegue certamente quella regolarità biologica, anzi, esorta le persone competenti a studiarla
e ad applicarla in modo ancor più approfondito, ma intende sempre tale regolarità come l’espressione
dell’“ordine della natura” cioè del provvidenziale piano del Creatore, nella cui fedele esecuzione consiste il
vero bene della persona umana.

Mercoledì, 5 settembre 1984

1. Abbiamo precedentemente parlato dell’onesta regolazione della fertilità, secondo la dottrina contenuta
nell’enciclica Humanae Vitae (Pauli VI, Humane Vitae, n. 19), e nell’esortazione Familiaris Consortio. La
qualifica di “naturale”, che si attribuisce alla regolazione moralmente retta della fertilità (seguendo i ritmi
naturali, cf. Humanae Vitae, 16), si spiega con il fatto che il relativo modo di comportarsi corrisponde alla
verità della persona e quindi alla sua dignità: una dignità che “per natura” spetta all’uomo quale essere
ragionevole e libero. L’uomo, come essere ragionevole e libero, può e deve rileggere con perspicacia quel
ritmo biologico che appartiene all’ordine naturale. Può e deve conformarsi ad esso, al fine di esercitare
quella “paternità-maternità responsabile”, che, secondo il disegno del Creatore, è iscritta nell’ordine naturale
della fecondità umana. Il concetto di regolazione moralmente retta della fertilità non è altro che la rilettura
del “linguaggio del corpo” nella verità. Gli stessi “ritmi naturali immanenti alle funzioni
generative” appartengono alla verità oggettiva di quel linguaggio, che le persone interessate dovrebbero
rileggere nel suo pieno contenuto oggettivo. Bisogna aver presente che il “corpo parla” non soltanto con tutta
l’eterna espressione della mascolinità e della femminilità, ma anche con le strutture interne dell’organismo,

207
della reattività somatica e psicosomatica. Tutto ciò che deve trovare il posto che gli spetta in quel linguaggio,
con cui dialogano i coniugi, come persone chiamate alla comunione nell’“unione del corpo”.
2. Tutti gli sforzi che tendono alla conoscenza sempre più precisa di quei “ritmi naturali”, che si manifestano
in rapporto alla procreazione umana, tutti gli sforzi poi dei consultori familiari e infine degli stessi coniugi
interessati, non mirano a “biologizzare” il linguaggio del corpo (a “biologizzare l’etica”, come erroneamente
ritengono alcuni), ma esclusivamente ad assicurare l’integrale verità a quel “linguaggio del corpo”, con cui i
coniugi debbono esprimersi in modo maturo di fronte alle esigenze della paternità e maternità responsabili.
L’enciclica Humanae Vitae sottolinea a più riprese che la “paternità responsabile” è connessa a un continuo
sforzo e impegno, e che essa viene attuata a prezzo di una precisa ascesi (cf. Pauli VI, Humanae Vitae, 21).
Tutte queste e altre simili espressioni mostrano che nel caso della “paternità responsabile” ossia della
regolazione della fertilità moralmente retta, si tratta di ciò che è il vero bene delle persone umane e di ciò che
corrisponde alla vera dignità della persona.
3. L’usufruire dei “periodi infecondi” nella convivenza coniugale può diventare sorgente di abusi, se i
coniugi cercano in tal modo di eludere senza giuste ragioni la procreazione, abbassandola sotto il livello
moralmente giusto delle nascite nella loro famiglia. Occorre che questo giusto livello sia stabilito tenendo
conto non soltanto del bene della propria famiglia, come pure dello stato di salute e delle possibilità degli
stessi coniugi, ma anche del bene della società a cui appartengono, della Chiesa, e perfino dell’umanità
intera.
L’enciclica Humanae Vitae presenta la “paternità responsabile” come espressione di un alto valore etico.
In nessun modo essa è unilateralmente diretta alla limitazione e ancor meno all’esclusione della prole; essa
significa anche la disponibilità ad accogliere una prole più numerosa. Soprattutto, secondo
l’enciclica Humanae Vitae, la “paternità responsabile” attua “un più profondo rapporto all’ordine morale
chiamato oggettivo, stabilito da Dio e di cui la retta coscienza è fedele interprete” (Pauli VI, Humanae Vitae,
10).
4. La verità della paternità e maternità responsabile, e la sua messa in atto, è unita alla maturità morale della
persona, ed è qui che molto spesso si rivela la divergenza tra ciò a cui l’enciclica attribuisce esplicitamente il
primato e ciò a cui questo viene attribuito nella mentalità comune.
Nell’enciclica viene messa in primo piano la dimensione etica del problema, sottolineando il ruolo
della virtù della temperanza,rettamente intesa. Nell’ambito di questa dimensione c’è anche un adeguato
“metodo” secondo cui agire. Nel comune modo di pensare capita spesso che il “metodo”, staccato dalla
dimensione etica che gli è proprio, viene messo in atto in modo meramente funzionale, e perfino utilitario.
Separando il “metodo naturale” dalla dimensione etica, si cessa di percepire la differenza che intercorre tra
esso e gli altri “metodi” (mezzi artificiali) e si arriva a parlarne come se si trattasse soltanto di una diversa
forma di contraccezione.
5. Dal punto di vista dell’autentica dottrina, espressa dall’enciclica Humanae Vitae è dunque importante una
corretta presentazione del metodo stesso, di cui fa cenno il medesimo documento (cf. Pauli VI, Humanae
Vitae, 16); soprattutto è importante l’approfondimento della dimensione etica, nel cui ambito il metodo,
come “naturale”, acquista il significato di metodo onesto, “moralmente retto”. E perciò, nel quadro della
presente analisi, ci converrà volgere principalmente l’attenzione a ciò che l’enciclica asserisce sul tema della
padronanza di sé e sulla continenza. Senza un’interpretazione penetrante di quel tema non giungeremo né al
nucleo della verità morale, né al nucleo della verità antropologica del problema. Già prima è stato rilevato
che le radici di questo problema affondano nella teologia del corpo: è questa (quando diviene, come deve,
pedagogia del corpo) che costituisce in realtà il “metodo” moralmente onesto della regolazione della natalità,
inteso nel suo senso più profondo e più pieno.
6. Caratterizzando in seguito i valori specificamente morali della regolazione della natalità “naturale” (cioè
onesta, ossia moralmente retta), l’autore della Humanae Vitae così si esprime: “Questa disciplina . . . apporta
alla vita familiare frutti di serenità e di pace e agevola la soluzione di altri problemi; favorisce l’attenzione
verso l’altro coniuge, aiuta gli sposi a bandire l’egoismo, nemico del vero amore, e approfondisce il loro
senso di responsabilità. I genitori acquistano con essa la capacità di un influsso più profondo ed efficace per
l’educazione dei figli; la fanciullezza e la gioventù crescono nella giusta stima dei valori umani e nello
sviluppo sereno e armonioso delle loro facoltà spirituali e sensibili” (Pauli VI, Humanae Vitae, 21).

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7. Le frasi citate completano il quadro di ciò che l’enciclica Humanae Vitae (Pauli VI, Humane Vitae, n. 21)
intende per “onesta pratica di regolazione della natalità”. Questa è, come si vede, non soltanto un “modo di
comportarsi” in un determinato campo, ma un atteggiamento che si fonda sull’integrale maturità morale
delle persone e insieme la completa.

Mercoledì, 3 ottobre 1984

1. Riferendoci alla dottrina contenuta nell’enciclica Humanae Vitae, cercheremo di delineare ulteriormente la
vita spirituale dei coniugi.
Eccone le grandi parole: “La Chiesa, mentre insegna le esigenze inviolabili della legge divina, annunzia la
salvezza e apre con i sacramenti le vie della grazia, la quale fa dell’uomo una nuova creatura, capace di
corrispondere nell’amore e nella vera libertà al disegno supremo del suo Creatore e Salvatore e di trovare
dolce il giogo di Cristo.
Gli sposi cristiani, dunque, docili alla sua voce, ricordino che la loro vocazione cristiana iniziata col
Battesimo si è ulteriormente specificata e rafforzata col sacramento del matrimonio. Per esso i coniugi sono
corroborati e quasi consacrati per l’adempimento fedele dei propri doveri, per l’attuazione della propria
vocazione fino alla perfezione e per una testimonianza cristiana loro propria di fronte al mondo. Ad essi il
Signore affida il compito di rendere visibile agli uomini la santità e la soavità della legge che unisce l’amore
vicendevole degli sposi con la loro cooperazione all’amore di Dio autore della vita umana” (Pauli
VI, Humanae Vitae, 25).
2. Mostrando il male morale dell’atto contraccettivo, e delineando al tempo stesso un quadro possibilmente
integrale della pratica “onesta” della regolazione della fertilità, ossia della paternità e maternità responsabili,
l’enciclica Humanae Vitae crea le premesse che consentono di tracciare le grandi linee della spiritualità
cristiana della vocazione e della vita coniugale, e, parimente, di quella dei genitori e della famiglia.
Si può anzi dire che l’enciclica presuppone l’intera tradizione di questa spiritualità, la quale affonda le radici
nelle sorgenti bibliche, già in precedenza analizzate, offrendo l’occasione di riflettere nuovamente su di esse
e di costruire un’adeguata sintesi.
Conviene ricordare qui ciò ch’è stato detto sul rapporto organico tra la teologia del corpo e la pedagogia del
corpo. Tale “teologia-pedagogia”, infatti, costituisce già di per se stessa il nucleo essenziale della spiritualità
coniugale. E ciò è indicato anche dalle frasi sopraccitate dell’enciclica.
3. Certamente rileggerebbe ed interpreterebbe in modo erroneo l’enciclica Humanae vitae colui che vedesse
in essa soltanto la riduzione della “paternità e maternità responsabile” ai soli “ritmi biologici di fecondità”.
L’autore dell’enciclica energicamente disapprova e contraddice ogni forma di interpretazione riduttiva (e in
tal senso “parziale”), e ripropone con insistenza l’intendimento integrale. La paternità-maternità
responsabile, intesa integralmente, non è altro che un’importante componente di tutta la spiritualità
coniugale e familiare, di quella vocazione cioè di cui parla il testo citato della Humanae Vitae, quando
afferma che i coniugi debbono attuare la “propria vocazione fino alla perfezione” (Pauli VI, Humanae Vitae,
25). È il sacramento del matrimonio che li corrobora e quasi consacra a raggiungerla (cf. Humanae Vitae,
25).
Alla luce della dottrina, espressa nell’enciclica, conviene renderci maggiormente conto di quella “forza
corroborante” che è unita alla “consacrazione sui generis” del sacramento del matrimonio.
Poiché l’analisi della problematica etica del documento di Paolo VI era centrata soprattutto sulla giustezza
della rispettiva norma, l’abbozzo della spiritualità coniugale, che vi si trova, intende porre in rilievo proprio
queste “forze” che rendono possibile l’autentica testimonianza cristiana della vita coniugale.
4. “Non intendiamo affatto nascondere le difficoltà talvolta gravi inerenti alla vita dei coniugi cristiani: per
essi, come per ognuno, "è stretta la porta e angusta la via che conduce alla vita" (cf. Mt 7, 14). Ma la
speranza di questa vita deve illuminare il loro cammino, mentre coraggiosamente si sforzano di vivere con
saggezza, giustizia e pietà nel tempo presente, sapendo che la figura di questo mondo passa” (Humanae
Vitae, 25).

209
Nell’enciclica, la visione della vita coniugale è, ad ogni passo, contrassegnata da realismo cristiano, ed è
proprio questo che giova maggiormente a raggiungere quelle “forze” che consentono di formare la
spiritualità dei coniugi e dei genitori nello spirito di un’autentica pedagogia del cuore e del corpo.
La stessa coscienza “della vita futura” apre, per così dire, un ampio orizzonte ai quelle forze che debbono
guidarli per la via angusta (cf. Humanae Vitae, 25) e condurli per la porta stretta della vocazione evangelica.
L’enciclica dice: “Affrontino quindi gli sposi i necessari sforzi, sorretti dalla fede e dalla speranza che "non
delude, perché l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori con lo Spirito Santo, che ci è stato dato"” (Pauli
VI, Humanae Vitae, 25).
5. Ecco la “forza” essenziale e fondamentale: l’amore innestato nel cuore (“effuso nei cuori”) dallo Spirito
Santo. In seguito l’enciclica indica come i coniugi debbano implorare tale “forza” essenziale e ogni altro
“aiuto divino” con la preghiera; come debbano attingere la grazia e l’amore alla sorgente sempre viva
dell’Eucaristia; come debbano superare “con umile perseveranza” le proprie mancanze e i propri peccati nel
sacramento della Penitenza.
Questi sono i mezzi - infallibili e indispensabili - per formare la spiritualità cristiana della vita coniugale e
familiare. Con essi quella essenziale e spiritualmente creativa “forza” d’amore giunge ai cuori umani e,
nello stesso tempo, ai corpi umani nella loro soggettiva mascolinità e femminilità. Questo amore, infatti,
consente di costruire tutta la convivenza dei coniugi secondo quella “verità del segno”, per mezzo della quale
viene costruito il matrimonio nella sua dignità sacramentale, come rivela il punto centrale dell’enciclica
(cf. Humanae Vitae, 12).

Mercoledì, 10 ottobre 1984

1. Continuiamo a delineare la spiritualità coniugale nella luce dell’enciclica Humanae Vitae.


Secondo la dottrina in essa contenuta, conformemente alle fonti bibliche e a tutta la tradizione, l’amore è -
dal punto di vista soggettivo - “forza”, cioè capacità dello spirito umano, di carattere “teologico” (o piuttosto
“teologale”). Questa è dunque la forza data all’uomo per partecipare a quell’amore con cui Dio stesso ama
nel mistero della creazione e della redenzione. È quell’amore che “si compiace della verità” (1 Cor 13, 6),
nel quale cioè si esprime la gioia spirituale (il “frui” agostiniano) di ogni autentico valore: gaudio simile al
gaudio dello stesso Creatore, il quale al principio vide che “era cosa molto buona” (Gen 1, 31).
Se le forze della concupiscenza tentano di staccare il “linguaggio del corpo” dalla verità, tentano cioè
di falsificarlo, la forza dell’amore invece lo corrobora sempre di nuovo in quella verità, affinché il mistero
della redenzione del corpo possa fruttificare in essa.
2. Lo stesso amore, che rende possibile e fa sì che il dialogo coniugale si attui secondo la verità piena della
vita degli sposi, è a un tempo forza ossia capacità di carattere morale, orientata attivamente verso la
pienezza del bene e per ciò stesso verso ogni vero bene. E perciò il suo compito consiste nel salvaguardare
l’unità inscindibile dei “due significati dell’atto coniugale”, di cui tratta l’enciclica (Pauli VI, Humanae
Vitae, 12), vale a dire nel proteggere sia il valore della vera unione dei coniugi (cioè della comunione
personale) sia quello della paternità e maternità responsabili (nella loro forma matura e degna dell’uomo).
3. Secondo il linguaggio tradizionale, l’amore, quale “forza” superiore, coordina le azioni delle persone, del
marito e della moglie, nell’ambito dei fini del matrimonio. Sebbene né la costituzione conciliare né
l’enciclica, nell’affrontare l’argomento, usino il linguaggio un tempo consueto, essi trattano, tuttavia, di ciò a
cui si riferiscono le espressioni tradizionali.
L’amore, come forza superiore che l’uomo e la donna ricevono da Dio insieme alla particolare
“consacrazione” del sacramento del matrimonio, comporta una coordinazione corretta dei fini, secondo i
quali - nell’insegnamento tradizionale della Chiesa - si costituisce l’ordine morale (o piuttosto “teologale e
morale”) della vita dei coniugi.
La dottrina della costituzione Gaudium et Spes, come pure quella dell’enciclica Humanae Vitae, chiariscono
lo stesso ordine morale nel riferimento all’amore, inteso come forza superiore che conferisce adeguato

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contenuto e valore agli atti coniugali secondo la verità dei due significati, quello unitivo e quello procreativo,
nel rispetto della loro inscindibilità.
In questa rinnovata impostazione, il tradizionale insegnamento sui fini del matrimonio (e sulla loro
gerarchia) viene confermato e insieme approfondito dal punto di vista della vita interiore dei coniugi, ossia
della spiritualità coniugale e familiare.
4. Il compito dell’amore, che è “effuso nei cuori” (Rm 5, 5) degli sposi come la fondamentale forza spirituale
del loro patto coniugale, consiste - come si è detto - nel proteggere sia il valore della vera comunione dei
coniugi, sia quello della paternità-maternità veramente responsabile. La forza dell’amore - autentica nel
senso teologico ed etico - si esprime in questo che l’amore unisce correttamente “i due significati dell’atto
coniugale”, escludendo non solo nella teoria, ma soprattutto nella pratica, la “contraddizione” che potrebbe
verificarsi in questo campo. Tale “contraddizione” è il più frequente motivo di obiezione
all’enciclica Humanae Vitae e all’insegnamento della Chiesa. Occorre un’analisi ben approfondita, e non
soltanto teologica ma anche antropologica (abbiamo cercato di farla in tutta la presente riflessione), per
dimostrare che non bisogna qui parlare di contraddizione”, ma soltanto di “difficoltà”. Orbene, l’enciclica
stessa sottolinea tale “difficoltà” in vari passi.
E questa deriva dal fatto che la forza dell’amore è innestata nell’uomo insidiato dalla concupiscenza: nei
soggetti umani l’amore s’imbatte con la triplice concupiscenza (cf. 1 Gv 2, 16), in particolare con la
concupiscenza della carne che deforma la verità del “linguaggio del corpo”. E perciò anche l’amore non è in
grado di realizzarsi nella verità del “linguaggio del corpo”, se non mediante il dominio sulla concupiscenza.
5. Se l’elemento chiave della spiritualità dei coniugi e dei genitori - quella essenziale “forza” che i coniugi
debbono di continuo attingere dalla “consacrazione” sacramentale - è l’amore, questo amore, come risulta
dal testo dell’enciclica (cf. Pauli VI, Humanae Vitae, 20), è per sua natura congiunto con la castità che si
manifesta come padronanza di sé, ossia come continenza: in particolare, come continenza periodica. Nel
linguaggio biblico, sembra alludere a ciò l’autore della Lettera agli Efesini, quando nel suo “classico” testo
esorta gli sposi a essere “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
Si può dire che l’enciclica Humanae Vitae costituisca appunto lo sviluppo di questa verità biblica sulla
spiritualità cristiana coniugale e familiare. Tuttavia per renderlo ancor più manifesto occorre un’analisi più
profonda della virtù della continenza e del suo particolare significato per la verità del mutuo “linguaggio del
corpo” nella convivenza coniugale e (indirettamente) nell’ampia sfera dei reciproci rapporti tra l’uomo e la
donna.
Intraprenderemo questa analisi durante le successive riflessioni del mercoledì.

Mercoledì, 24 ottobre 1984

1. In conformità a quanto preannunciato, intraprendiamo oggi l’analisi della virtù della continenza.
La “continenza”, che fa parte della virtù più generale della temperanza, consiste nella capacità di dominare,
controllare e orientare le pulsioni di carattere sessuale (concupiscenza della carne) e le loro conseguenze,
nella soggettività psico-somatica dell’uomo. Tale capacità, in quanto disposizione costante della volontà,
merita di essere chiamata virtù.
Sappiamo dalle precedenti analisi che la concupiscenza della carne, e il relativo “desiderio” di carattere
sessuale da essa suscitato, si esprime con una specifica pulsione nella sfera della reattività somatica e inoltre
con un’eccitazione psico-emotiva dell’impulso sessuale.
Il soggetto personale per giungere a padroneggiare tale pulsione ed eccitazione deve impegnarsi in una
progressiva educazione all’autocontrollo della volontà, dei sentimenti, delle emozioni, che deve svilupparsi a
partire dai gesti più semplici, nei quali è relativamente facile tradurre in atto la decisione interiore. Ciò
suppone, com’è ovvio, la chiara percezione dei valori espressi nella norma e la conseguente maturazione di
salde convinzioni che, se accompagnate dalla rispettiva disposizione della volontà, danno origine alla
corrispondente virtù. Tale è appunto la virtù della continenza (padronanza di sé), che si rivela fondamentale
condizione sia perché il reciproco linguaggio del corpo rimanga nella verità, e sia perché i coniugi “siano

211
sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”, secondo le parole bibliche ( Ef 5, 21). Questa “sottomissione
reciproca” significa la comune sollecitudine per la verità del “linguaggio del corpo”, la sottomissione
invece “nel timore di Cristo” indica il dono del timore di Dio (dono dello Spirito Santo) che accompagna la
virtù della continenza.
2. Questo è molto importante per un’adeguata comprensione della virtù della continenza e, in particolare,
della cosiddetta “continenza periodica”, di cui tratta l’enciclica Humanae Vitae. La convinzione che la virtù
della continenza “si oppone” alla concupiscenza della carne è giusta, ma non è del tutto completa. Non è
completa, specialmente quando teniamo conto del fatto che questa virtù non appare e non agisce
astrattamente e quindi isolatamente, ma sempre in connessione con le altre (“nexus virtutum”), dunque in
connessione con la prudenza, giustizia, fortezza e soprattutto con la carità.
Alla luce di queste considerazioni, è facile intendere che la continenza non si limita a opporre resistenza alla
concupiscenza della carne, ma mediante questa resistenza si apre ugualmente a quei valori, più profondi e
più maturi, che ineriscono al significato sponsale del corpo nella sua femminilità e mascolinità, come anche
all’autentica libertà del dono nel reciproco rapporto delle persone. La concupiscenza stessa della carne, in
quanto cerca anzitutto il godimento carnale e sensuale, rende l’uomo, in certo senso, cieco e insensibile ai
valori più profondi che scaturiscono dall’amore e che nello stesso tempo costituiscono l’amore nella verità
interiore che gli è propria.
3. In tal modo si manifesta anche il carattere essenziale della castità coniugale nel suo legame organico con
la “forza” dell’amore, che è effuso nei cuori degli sposi insieme alla “consacrazione” del sacramento del
matrimonio. Diviene inoltre evidente che l’invito diretto ai coniugi, affinché siano “sottomessi gli uni agli
altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21), sembra aprire quello spazio interiore in cui entrambi divengono sempre
più sensibili ai valori più profondi e più maturi, che sono connessi con il significato sponsale del corpo e con
la vera libertà del dono.
Se la castità coniugale (e la castità in generale) si manifesta dapprima come capacità di resistere alla
concupiscenza della carne, in seguito essa gradualmente si rivela quale singolare capacità di percepire,
amare e attuare quei significati del “linguaggio del corpo”, che rimangono del tutto sconosciuti alla
concupiscenza stessa e che progressivamente arricchiscono il dialogo sponsale dei coniugi, purificandolo,
approfondendolo e insieme semplificandolo.
Perciò quell’ascesi della continenza, di cui parla l’enciclica (Pauli VI, Humanae Vitae, 21) non comporta
l’impoverimento delle “manifestazioni affettive”, anzi le rende più intense spiritualmente, e quindi ne
comporta l’arricchimento.
4. Analizzando in tal modo la continenza, nella dinamica propria di questa virtù (antropologica, etica e
teologica), ci accorgiamo che sparisce quell’apparente “contraddizione” che viene spesso obiettata
all’enciclica Humanae Vitae e alla dottrina della Chiesa sulla morale coniugale. Esisterebbe cioè
“contraddizione” (secondo coloro che muovono questa obiezione) tra i due significati dell’atto coniugale, il
significato unitivo e quello procreativo (cf. Humanae Vitae, 12), così che se non fosse lecito dissociarli i
coniugi verrebbero privati del diritto all’unione coniugale, quando non potessero responsabilmente
permettersi di procreare.
A questa apparente “contraddizione” dà risposta l’enciclica Humanae Vitae se studiata profondamente. Papa
Paolo VI conferma, infatti, che non esiste tale “contraddizione”, ma soltanto una “difficoltà” collegata con
tutta la situazione interiore dell’“uomo della concupiscenza”. Invece, precisamente in ragione di
questa “difficoltà”, viene assegnato all’impegno interiore e ascetico dei coniugi il vero ordine della
convivenza coniugale, in vista del quale essi vengono “corroborati e quasi consacrati” (Humanae Vitae, 25)
dal sacramento del matrimonio.
5. Quell’ordine della convivenza coniugale significa inoltre l’armonia soggettiva tra la paternità
(responsabile) e la comunione personale, armonia creata dalla castità coniugale. In essa, di fatto, maturano i
frutti interiori della continenza. Attraverso questa maturazione interiore lo stesso atto coniugale acquista
l’importanza e dignità che gli è propria nel suo significato potenzialmente procreativo; contemporaneamente
acquistano un adeguato significato tutte le “manifestazioni affettive” (Humanae Vitae, 21), che servono a
esprimere la comunione personale dei coniugi proporzionalmente alla ricchezza soggettiva della femminilità
e mascolinità.
6. Conformemente all’esperienza e alla tradizione, l’enciclica rivela che l’atto coniugale è anche una
“manifestazione di affetto” (Humanae Vitae, 16), ma una “manifestazione di affetto” particolare, perché, al

212
tempo stesso ha un significato potenzialmente procreativo, Di conseguenza, esso è orientato ad esprimere
l’unione personale, ma non soltanto quella. Contemporaneamente l’enciclica, sia pure in modo indiretto,
indica molteplici “manifestazioni di affetto”, efficaci esclusivamente ad esprimere l’unione personale dei
coniugi.
Il compito della castità coniugale, e ancor più precisamente quello della continenza, non sta solo nel
proteggere l’importanza e la dignità dell’atto coniugale in rapporto al suo significato potenzialmente
procreativo, ma anche nel tutelare l’importanza e la dignità proprie dell’atto coniugale in quanto espressivo
dell’unione interpersonale, svelando alla coscienza e all’esperienza dei coniugi tutte le altre possibili
“manifestazioni di affetto”, che esprimano tale loro comunione profonda.
Si tratta infatti di non recare danno alla comunione dei coniugi nel caso in cui per giuste ragioni essi
debbano astenersi dall’atto coniugale. E, ancor più, che tale comunione, costruita di continuo, giorno per
giorno, mediante conformi “manifestazioni affettive”, costituisca, per così dire, un vasto terreno su cui, nelle
condizioni opportune, matura la decisione di un atto coniugale moralmente retto.

Mercoledì, 31 ottobre 1984

1. Procediamo nell’analisi della continenza, alla luce dell’insegnamento contenuto nell’enciclica Humanae
Vitae. Si pensa spesso che la continenza provochi tensioni interiori, dalle quali l’uomo deve liberarsi. Alla
luce delle analisi compiute, la continenza, integralmente intesa, è piuttosto l’unica via per liberare l’uomo da
tali tensioni. Essa significa nient’altro che lo sforzo spirituale che mira ad esprimere il “linguaggio del
corpo” non solo nella verità, ma anche nell’autentica ricchezza delle “manifestazioni di affetto”.
2. È possibile questo sforzo? Con altre parole (e sotto altro aspetto) ritorna qui l’interrogativo circa
l’“attuabilità della norma morale”, ricordata e confermata dall’Humanae Vitae. Esso costituisce uno degli
interrogativi più essenziali (ed attualmente anche uno dei più urgenti) nell’ambito della spiritualità coniugale.
La Chiesa è pienamente convinta della giustezza del principio che afferma la paternità e maternità
responsabili - nel senso spiegato in precedenti catechesi - e questo non soltanto per motivi “demografici”, ma
per ragioni più essenziali. Responsabile chiamiamo la paternità e maternità che corrispondono alla dignità
personale dei coniugi come genitori, alla verità della loro persona e dell’atto coniugale. Di qui deriva lo
stretto e diretto rapporto che collega questa dimensione con tutta la spiritualità coniugale.
Il papa Paolo VI, nella Humanae Vitae, ha espresso ciò che d’altronde avevano affermato molti autorevoli
moralisti e scienziati anche non cattolici, e cioè precisamente che in questo campo, tanto profondamente ed
essenzialmente umano e personale, occorre anzitutto far riferimento all’uomo come persona, al soggetto che
decide di se stesso e non ai “mezzi” che lo fanno “oggetto” (di manipolazioni) e lo “depersonalizzano”. Si
tratta dunque qui di un significato autenticamente “umanistico” dello sviluppo e del progresso della civiltà
umana.
3. È possibile questo sforzo? Tutta la problematica dell’enciclica Humanae Vitae non si riduce
semplicemente alla dimensione biologica della fertilità umana (alla questione dei “ritmi naturali di
fecondità”), ma risale alla soggettività stessa dell’uomo, a quell’“io” personale, per cui egli è uomo o è
donna.
Già durante la discussione nel Concilio Vaticano II, in relazione al capitolo della Gaudium et Spes sulla
“Dignità del matrimonio e della famiglia e la sua valorizzazione” si parlava della necessità di un’analisi
approfondita delle relazioni (e anche delle emozioni) collegate con la reciproca influenza della mascolinità
e femminilità sul soggetto umano. Questo problema appartiene non tanto alla biologia quanto alla psicologia:
dalla biologia e psicologia passa in seguito nella sfera della spiritualità coniugale e familiare. Qui, infatti,
questo problema è in stretto rapporto con il metodo di intendere la virtù della continenza, ossia della
padronanza di sé e, in particolare, della continenza periodica.
4. Un’attenta analisi della psicologia umana (che è ad un tempo una soggettiva autoanalisi e in seguito
diviene analisi di un “oggetto” accessibile alla scienza umana), consente di giungere ad alcune affermazioni
essenziali. Di fatto, nelle relazioni interpersonali in cui si esprime l’influsso reciproco della mascolinità e

213
femminilità, si libera nel soggetto psico-emotivo nell’“io” umano, accanto a una reazione qualificabile come
“eccitazione”, un’altra reazione che può e deve essere chiamata “emozione”. Benché questi due generi di
reazioni appaiano congiunti, è possibile distinguerli sperimentalmente e “differenziarli” riguardo al
contenuto ovvero al loro “oggetto”.
La differenza oggettiva tra l’uno e l’altro genere di reazioni consiste nel fatto che l’ eccitazione è anzitutto
“corporea” e in questo senso, “sessuale”; l’emozione invece - sebbene suscitata dalla reciproca reazione della
mascolinità e femminilità - si riferisce soprattutto all’altra persona intesa nella sua “integralità”. Si può dire
che questa è una “emozione causata dalla persona”, in rapporto alla sua mascolinità o femminilità.
5. Ciò che qui affermiamo relativamente alla psicologia delle reciproche reazioni della mascolinità e
femminilità aiuta a comprendere la funzione della virtù della continenza, di cui si è parlato in precedenza.
Questa non è soltanto - e neppure principalmente - la capacità di “astenersi”, cioè la padronanza delle
molteplici reazioni che s’intrecciano nel reciproco influsso della mascolinità e femminilità: una tale funzione
potrebbe essere definita come “negativa”. Ma esiste anche un’altra funzione (che possiamo chiamare
“positiva”) della padronanza di sé: ed è la capacità di dirigere le rispettive reazioni, sia quanto al loro
contenuto sia quanto al loro carattere.
È stato già detto che, nel campo delle reciproche reazioni della mascolinità e femminilità, l’“eccitazione” e
l’“emozione” appaiono non soltanto come due distinte e differenti esperienze dell’“io” umano, ma molto
spesso appaiono congiunte nell’ambito della stessa esperienza quali due diverse componenti di essa. Da varie
circostanze di natura interiore ed esteriore dipende la reciproca proporzione in cui queste due componenti
appaiono in una determinata esperienza. Alle volte prevale nettamente una delle componenti, altre volte
piuttosto c’è equilibrio tra loro.
6. La continenza, quale capacità di dirigere l’“eccitazione” e l’“emozione” nella sfera dell’influsso reciproco
della mascolinità e femminilità, ha il compito essenziale di mantenere l’equilibrio tra la comunione in cui i
coniugi desiderano esprimere reciprocamente soltanto la loro unione intima e quella in cui (almeno
implicitamente) accolgono la paternità responsabile. Difatti, l’“eccitazione” e l’“emozione” possono
pregiudicare, da parte del soggetto, l’orientamento e il carattere del reciproco “linguaggio del corpo”.
L’eccitazione cerca anzitutto di esprimersi nella forma del piacere sensuale e corporeo, ossia tende all’atto
coniugale che (dipendente dai “ritmi naturali di fecondità”) comporta la possibilità di procreazione.
Invece l’emozione provocata da un altro essere umano come persona, anche se nel suo contenuto emotivo è
condizionata dalla femminilità o mascolinità dell’“altro”, non tende di per sé all’atto coniugale, ma si
limita ad altre “manifestazioni di affetto”, nelle quali si esprime il significato sponsale del corpo, e che
tuttavia non racchiudono il suo significato (potenzialmente) procreativo.
È facile comprendere quali conseguenze derivano da ciò rispetto al problema della paternità e maternità
responsabili. Queste conseguenze sono di natura morale.

Mercoledì, 7 novembre 1984

1. Proseguiamo l’analisi della virtù della continenza alla luce della dottrina contenuta
nell’enciclica Humanae Vitae. Conviene ricordare che i grandi classici del pensiero etico (e antropologico),
sia precristiani sia cristiani (Tommaso d’Aquino), vedono nella virtù della continenza non soltanto la
capacità di “contenere” le reazioni corporali e sensuali, ma ancor più la capacità di controllare e guidare tutta
la sfera sensuale ed emotiva dell’uomo. Nel caso in questione si tratta della capacità di dirigere sia la linea
dell’eccitazione verso il suo corretto sviluppo, sia anche la linea dell’emozione stessa, orientandola verso
l’approfondimento e l’intensificazione interiore del suo carattere “puro” e, in un certo senso,
“disinteressato”.
2. Questa differenziazione tra la linea dell’eccitazione e la linea dell’emozione non è una contrapposizione.
Essa non significa che l’atto coniugale, come effetto dell’eccitazione, non comporti nello stesso tempo la
commozione dell’altra persona. Certamente è così, o comunque, non dovrebbe essere altrimenti.

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Nell’atto coniugale, l’unione intima dovrebbe comportare una particolare intensificazione dell’emozione,
anzi, la commozione dell’altra persona. Ciò è anche contenuto nella Lettera agli Efesini, sotto forma di
esortazione, diretta ai coniugi: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
La distinzione tra “eccitazione” ed “emozione”, rilevata in questa analisi, comprova soltanto la soggettiva
ricchezza reattivo-emotiva dell’“io” umano; questa ricchezza esclude qualunque riduzione unilaterale e fa sì
che la virtù della continenza possa essere attuata come capacità di dirigere il manifestarsi sia dell’eccitazione
sia dell’emozione, suscitate dalla reciproca reattività della mascolinità e della femminilità.
3. La virtù della continenza, così intesa, ha un ruolo essenziale per mantenere l’equilibrio interiore tra i due
significati, l’unitivo e il procreativo, dell’atto coniugale (cf. Pauli VI, Humanae Vitae, 12), in vista di una
paternità e maternità veramente responsabili.
L’enciclica Humanae Vitae dedica la dovuta attenzione all’aspetto biologico del problema, vale a dire, al
carattere ritmico della fecondità umana. Sebbene tale periodicità possa essere chiamata, alla luce
dell’enciclica, indice provvidenziale per una paternità e maternità responsabili, tuttavia non solo a questo
livello si risolve un problema come questo, che ha un significato così profondamente personalistico e
sacramentale (teologico).
L’enciclica insegna la paternità e maternità responsabili “come verifica di un maturo amore coniugale” e
perciò contiene non soltanto la risposta al concreto interrogativo che si pone nell’ambito dell’etica della vita
coniugale, ma, come è già stato detto, indica altresì un tracciato della spiritualità coniugale, che desideriamo
almeno delineare.
4. Il corretto modo di intendere e praticare la continenza periodica quale virtù (ossia, secondo la Humanae
Vitae, 21, la “padronanza di sé”) decide anche essenzialmente della “naturalità” del metodo, denominato
anch’esso “metodo naturale”: questa è “naturalità” a livello della persona. Non si può quindi pensare a
un’applicazione meccanica delle leggi biologiche. La conoscenza stessa dei “ritmi di fecondità” – anche se
indispensabile – non crea ancora quella libertà interiore del dono, che è di natura esplicitamente spirituale e
dipende dalla maturità dell’uomo interiore. Questa libertà suppone una capacità tale di dirigere le reazioni
sensuali ed emotive, da rendere possibile la donazione di sé all’altro “io” in base al possesso maturo del
proprio “io” nella sua soggettività corporea ed emotiva.
5. Come è noto dalle analisi bibliche e teologiche fatte in precedenza, il corpo umano nella sua mascolinità e
femminilità è interiormente ordinato alla comunione delle persone (“communio personarum”). In questo
consiste il suo significato sponsale.
Proprio il significato sponsale del corpo è stato deformato, quasi alle sue stesse basi, dalla concupiscenza (in
particolare dalla concupiscenza della carne, nell’ambito della “triplice concupiscenza”). La virtù della
continenza nella sua forma matura svela gradatamente l’aspetto “puro” del significato sponsale del corpo. In
tal modo la continenza sviluppa la comunione personale dell’uomo e della donna, comunione che non è in
grado di formarsi e di svilupparsi nella piena verità delle sue possibilità unicamente sul terreno della
concupiscenza. Appunto ciò afferma l’enciclica Humanae Vitae. Tale verità ha due aspetti: quello
personalistico e quello teologico.

Mercoledì, 14 novembre 1984

1. Alla luce dell’enciclica Humanae Vitae l’elemento fondamentale della spiritualità coniugale è l’amore
effuso nei cuori degli sposi come dono dello Spirito Santo (cf. Rm 5, 5). Gli sposi ricevono nel sacramento
questo dono insieme a una particolare “consacrazione”. L’amore è unito alla castità coniugale che,
manifestandosi come continenza, realizza l’ordine interiore della convivenza coniugale.
La castità è vivere nell’ordine del cuore. Questo ordine consente lo sviluppo delle “manifestazioni affettive”
nella proporzione e nel significato loro propri. In tal modo viene confermata anche la castità coniugale come
“vita dello Spirito” (cf. Gal 5, 25), secondo l’espressione di san Paolo. L’apostolo aveva in mente non
soltanto le energie immanenti dello spirito umano, ma soprattutto l’influsso santificante dello Spirito Santo e
i suoi doni particolari.

215
2. Al centro della spiritualità coniugale sta dunque la castità, non solo come virtù morale (formata
dall’amore), ma parimente come virtù connessa con i doni dello Spirito Santo - anzitutto con il dono del
rispetto di ciò che viene da Dio (“donum pietatis”). Questo dono è nella mente dell’autore della Lettera agli
Efesini, quando esorta i coniugi ad essere “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” ( Ef 5, 21). Così
dunque l’ordine interiore della convivenza coniugale, che consente alle “manifestazioni affettive” di
svilupparsi secondo la loro giusta proporzione e significato, è frutto non solo della virtù in cui i coniugi si
esercitano, ma anche dei doni dello Spirito Santo con cui collaborano.
L’enciclica Humanae Vitae in alcuni passi del testo (particolarmente 21; 26), trattando della specifica ascesi
coniugale, ossia dell’impegno per acquistare la virtù dell’amore, della castità e della continenza, parla
indirettamente dei doni dello Spirito Santo, ai quali i coniugi divengono sensibili nella misura della
maturazione nella virtù.
3. Ciò corrisponde alla vocazione dell’uomo al matrimonio. Quei “due”, i quali - secondo l’espressione più
antica della Bibbia - “saranno una sola carne” (Gen 2, 24), non possono attuare tale unione al livello delle
persone (“communio personarum”), se non mediante le forze provenienti dallo spirito, e precisamente, dallo
Spirito Santo che purifica, vivifica, corrobora e perfeziona le forze dello spirito umano. “È lo Spirito che dà
la vita, la carne non giova a nulla” (Gv 6, 63).
Ne risulta che le linee essenziali della spiritualità coniugale sono “dal principio” iscritte nella verità biblica
sul matrimonio. Tale spiritualità è anche “da principio” aperta ai doni dello Spirito Santo. Se
l’enciclica Humanae Vitae esorta i coniugi ad una “perseverante preghiera” e alla vita sacramentale (dicendo:
“attingano soprattutto nell’Eucaristia la sorgente della grazia e della carità”; “ricorrano con umile
perseveranza alla misericordia di Dio, che viene elargita nel sacramento della Penitenza”, Pauli
VI, Humanae Vitae, 25), essa lo fa in quanto è memore dello Spirito che “dà vita” (2 Cor 3, 6).
4. I doni dello Spirito Santo, e in particolare il dono del rispetto di ciò che è sacro, sembrano avere qui un
significato fondamentale. Tale dono sostiene infatti e sviluppa nei coniugi una singolare sensibilità a tutto ciò
che nella loro vocazione e convivenza porta il segno del mistero della creazione e redenzione: a tutto ciò che
è un riflesso creato della sapienza e dell’amore di Dio. Pertanto quel dono sembra iniziare l’uomo e la donna
in modo particolarmente profondo al rispetto dei due significati inscindibili dell’atto coniugale, di cui parla
l’enciclica (Humanae Vitae, 12) in rapporto al sacramento del matrimonio. Il rispetto dei due significati
dell’atto coniugale può svilupparsi pienamente solo in base ad un profondo riferimento alla dignità
personale di ciò che nella persona umana è intrinseco alla mascolinità e femminilità, e inscindibilmente in
riferimento alla dignità personale della nuova vita, che può sorgere dall’unione coniugale dell’uomo e della
donna. Il dono del rispetto di quanto è creato da Dio si esprime appunto in tale riferimento.
5. Il rispetto del duplice significato dell’atto coniugale nel matrimonio, che nasce dal dono del rispetto per la
creazione di Dio, si manifesta anche come timore salvifico: timore di infrangere o di degradare ciò che porta
in sé il segno del mistero divino della creazione e redenzione. Di tale timore parla appunto l’autore della
Lettera agli efesini: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
Se tale timore salvifico si associa immediatamente alla funzione “negativa” della continenza (ossia alla
resistenza nei riguardi della concupiscenza della carne), esso si manifesta pure - e in misura crescente, via via
che tale virtù matura - come sensibilità piena di venerazione per i valori essenziali dell’unione coniugale: per
i “due significati dell’atto coniugale (ovvero, parlando nel linguaggio delle analisi precedenti, per la verità
interiore del mutuo “linguaggio del corpo”).
In base a un profondo riferimento a questi due valori essenziali, ciò che significa unione dei coniugi viene
armonizzato nel soggetto con ciò che significa paternità e maternità responsabili. Il dono del rispetto di ciò
che è creato da Dio fa sì che l’apparente “contraddizione” in questa sfera sparisca e la difficoltà derivante
dalla concupiscenza venga gradatamente superata, grazie alla maturità della virtù e alla forza del dono dello
Spirito Santo.
6. Se si tratta della problematica della cosiddetta continenza periodica (ossia del ricorso ai “metodi naturali”),
il dono del rispetto per l’opera di Dio aiuta, in linea di massima, a conciliare la dignità umana con i “ ritmi
naturali di fecondità”, cioè con la dimensione biologica della femminilità e mascolinità dei coniugi;
dimensione che ha anche un proprio significato per la verità del mutuo “linguaggio del corpo” nella
convivenza coniugale. In tal modo, anche ciò che - non tanto nel senso biblico, quanto addirittura in quello
“biologico” - si riferisce all’“unione coniugale del corpo”, trova la sua forma umanamente matura grazie alla
vita “secondo lo spirito”.

216
Tutta la pratica dell’onesta regolazione della fertilità, così strettamente unita alla paternità e maternità
responsabili, fa parte della cristiana spiritualità coniugale e familiare; e soltanto vivendo “secondo lo
Spirito” diventa interiormente vera e autentica.

Mercoledì, 21 novembre 1984

1. Sullo sfondo della dottrina contenuta nell’enciclica Humanae Vitae intendiamo tracciare un abbozzo della
spiritualità coniugale. Nella vita spirituale dei coniugi operano anche i doni dello Spirito Santo e, in
particolare, il “donum pietatis”, cioè il dono del rispetto per ciò che è opera di Dio.
2. Questo dono, unito all’amore e alla castità, aiuta a identificare, nell’insieme della convivenza
coniugale, quell’atto in cui, almeno potenzialmente, il significato sponsale del corpo si collega col significato
procreativo. Esso orienta a capire, tra le possibili “manifestazioni di affetto”, il significato singolare, anzi,
eccezionale di quell’atto: la sua dignità e la conseguente grave responsabilità ad esso connessa. Pertanto,
l’antitesi della spiritualità coniugale è costituita, in certo senso, dalla soggettiva mancanza di tale
comprensione, legata alla pratica e alla mentalità anticoncezionali. Oltre a tutto, ciò è un enorme danno dal
punto di vista dell’interiore cultura dell’uomo. La virtù della castità coniugale, e ancor più il dono del
rispetto per ciò che viene da Dio, modellano la spiritualità dei coniugi al fine di proteggere la particolare
dignità di questo atto, di questa “manifestazione di affetto”, in cui la verità del “linguaggio del corpo” può
essere espressa solo salvaguardando la potenzialità procreativa.
La paternità e maternità responsabili significano la spirituale valutazione - conforme alla verità - dell’atto
coniugale nella coscienza e nella volontà di entrambi i coniugi, che in questa “manifestazione di affetto”,
dopo aver considerato le circostanze interiori ed esterne, in particolare quelle biologiche, esprimono la loro
matura disponibilità alla paternità e maternità.
3. Il rispetto per l’opera di Dio contribuisce a far sì che l’atto coniugale non venga sminuito e privato
d’interiorità nell’insieme della convivenza coniugale - che non divenga “abitudine” - e che in esso si
esprima un’adeguata pienezza di contenuti personali ed etici, e anche di contenuti religiosi, cioè la
venerazione alla maestà del Creatore, unico e ultimo depositario della sorgente della vita, e all’amore
sponsale del Redentore. Tutto ciò crea e allarga, per così dire, lo spazio interiore della mutua libertà del
dono, in cui si manifesta pienamente il significato sponsale della mascolinità e femminilità.
L’ostacolo a questa libertà è dato dall’interiore costrizione della concupiscenza, diretta verso l’altro “io”
quale oggetto di godimento. Il rispetto di ciò che è creato da Dio libera da questa costrizione, libera da tutto
ciò che riduce l’altro “io” a semplice oggetto: corrobora la libertà interiore del dono.
4. Ciò può realizzarsi soltanto attraverso una profonda comprensione della dignità personale, sia dell’“io”
femminile che di quello maschile, nella reciproca convivenza. Tale comprensione spirituale è il frutto
fondamentale del dono dello Spirito che spinge la persona a rispettare l’opera di Dio. Da tale comprensione,
e dunque indirettamente da quel dono, attingono il vero significato sponsale tutte le “manifestazioni
affettive”, che costituiscono la trama del perdurare dell’unione coniugale. Questa unione si esprime
attraverso l’atto coniugale solo in circostanze determinate, ma può e deve manifestarsi continuamente, ogni
giorno, attraverso varie “manifestazioni affettive”, le quali sono determinate dalla capacità di una
“disinteressata” emozione dell’“io” in rapporto alla femminilità e - reciprocamente - in rapporto alla
mascolinità.
L’atteggiamento di rispetto per l’opera di Dio, che lo Spirito suscita nei coniugi, ha un
enorme significato per quelle “manifestazioni affettive”, poiché di pari passo con esso va la capacità del
profondo compiacimento, dell’ammirazione, della disinteressata attenzione alla “visibile” bellezza della
femminilità e mascolinità, e infine un profondo apprezzamento del dono disinteressato dell’“altro”.
5. Tutto ciò decide della identificazione spirituale di ciò che è maschile o femminile, di ciò che è “corporeo”
e insieme spirituale. Da questa spirituale identificazione emerge la consapevolezza dell’unione “attraverso il
corpo”, nella tutela della libertà interiore del dono. Mediante le “manifestazioni affettive” i coniugi si

217
aiutano vicendevolmente a perdurare nell’unione, e al tempo stesso queste “manifestazioni” proteggono in
ciascuno quella “pace del profondo” che è, in certo senso, la risonanza interiore della castità guidata dal dono
del rispetto per ciò che è creato da Dio.
Questo dono comporta una profonda e universale attenzione alla persona nella sua mascolinità e
femminilità, creando così il clima interiore idoneo alla comunione personale. Solo in tale clima di comunione
personale dei coniugi matura correttamente quella procreazione, che qualifichiamo come “responsabile”.
6. L’enciclica Humanae Vitae ci consente di tracciare un abbozzo della spiritualità coniugale. Questo è il
clima umano e soprannaturale in cui - tenendo conto dell’ordine “biologico” e, ad un tempo, in base alla
castità sostenuta dal “donum pietatis” - si plasma l’interiore armonia del matrimonio, nel rispetto di ciò che
l’enciclica chiama “duplice significato dell’atto coniugale” (Pauli VI,Humanae Vitae, 12). Questa armonia
significa che i coniugi convivono insieme nell’interiore verità del “linguaggio del corpo”.
L’enciclica Humanae Vitae proclama inscindibile la connessione tra questa “verità” e l’amore.

Mercoledì, 28 novembre 1984

1. L’insieme delle catechesi che ho iniziato da oltre quattro anni e che oggi concludo, può essere compreso
sotto il titolo: “L’amore umano nel piano divino”, o con maggior precisione: “La redenzione del corpo e la
sacramentalità del matrimonio”. Esse si dividono in due parti.
La prima parte è dedicata all’analisi delle parole di Cristo, che risultano adatte ad aprire il tema presente.
Queste parole sono state analizzate a lungo nella globalità del testo evangelico: e in seguito alla pluriennale
riflessione si è convenuto di porre in rilievo i tre testi, che sono sottoposti all’analisi appunto nella prima
parte delle catechesi. C’è anzitutto il testo in cui Cristo si riferisce “al principio” nel colloquio con i farisei
sull’unità e indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19, 8; Mc 10, 6-9). Proseguendo, ci sono le parole
pronunziate da Cristo nel discorso della montagna sulla “concupiscenza” come “adulterio commesso nel
cuore” (cf. Mt 5, 28). Infine, ci sono le parole trasmesse da tutti i sinottici, in cui Cristo si richiama alla
risurrezione dei corpi nell’“altro mondo” (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35).
La parte seconda della catechesi è stata dedicata all’analisi del sacramento in base alla Lettera agli Efesini
(Ef 5, 22-33) che si riporta al biblico “principio” del matrimonio espresso nelle parole del libro della Genesi:
“. . . l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”
(Gen 2, 24).
Le catechesi della prima e della seconda parte si servono ripetutamente del termine teologia del corpo.
Questo, in certo senso, è un termine “di lavoro”. L’introduzione del termine e del concetto di “ teologia del
corpo” era necessaria per fondare il tema: “La redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio” su
una base più ampia. Bisogna infatti osservare subito che il termine “teologia del corpo” oltrepassa
ampiamente il contenuto delle riflessioni fatte. Queste riflessioni non comprendono molteplici problemi che,
riguardo al loro oggetto, appartengono alla teologia del corpo (come per esempio il problema della
sofferenza e della morte, così rilevante nel messaggio biblico). Occorre dirlo chiaramente. Nondimeno,
bisogna anche riconoscere in modo esplicito che le riflessioni sul tema: “La redenzione del corpo e la
sacramentalità del matrimonio” possono essere svolte correttamente, partendo dal momento in cui la luce
della rivelazione tocca la realtà del corpo umano (ossia sulla base della “teologia del corpo”). Ciò è
confermato, tra l’altro, dalle parole del libro della Genesi: “I due saranno una sola carne”, parole che
originariamente e tematicamente stanno alla base del nostro argomento.
2. Le riflessioni sul sacramento del matrimonio sono state condotte nella considerazione delle due
dimensioni essenziali a questo sacramento (come ad ogni altro), cioè la dimensione dell’alleanza e della
grazia e la dimensione del segno.
Attraverso queste due dimensioni siamo risaliti continuamente alle riflessioni sulla teologia del corpo, unite
alle parole-chiave di Cristo. A queste riflessioni siamo risaliti anche intraprendendo, alla fine di tutto questo
ciclo di catechesi, l’analisi dell’enciclica Humanae Vitae.

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La dottrina contenuta in questo documento dell’insegnamento contemporaneo della Chiesa resta in rapporto
organico sia con la sacramentalità del matrimonio sia con tutta la problematica biblica della teologia del
corpo, centrata sulle “parole-chiave” di Cristo. In un certo senso si può perfino dire che tutte le riflessioni
che trattano della “redenzione del corpo e della sacramentalità del matrimonio”, sembrano costituire un
ampio commento alla dottrina contenuta appunto nell’enciclica Humanae Vitae.
Tale commento sembra assai necessario. L’enciclica infatti, nel dare risposta ad alcuni interrogativi di oggi
nell’ambito della morale coniugale e familiare, al tempo stesso ha suscitato anche altri interrogativi, come
sappiamo, di natura bio-medica. Ma anche (e anzitutto) essi sono di natura teologica; appartengono a
quell’ambito dell’antropologia e teologia, che abbiamo denominato “teologia del corpo”.
Le riflessioni fatte consistono nell’affrontare gli interrogativi sorti in rapporto all’enciclica Humanae Vitae.
La reazione, che ha suscitato l’enciclica, conferma l’importanza e la difficoltà di questi interrogativi. Essi
sono riaffermati anche dagli ulteriori enunciati di Paolo VI, ove egli rilevava la possibilità di approfondire
l’esposizione della verità cristiana in questo settore.
Lo ha ribadito inoltre l’esortazione Familiaris Consortio, frutto del Sinodo dei vescovi del 1980: “De
muneribus familiae christianae”. Il documento contiene un appello, diretto particolarmente ai teologi, a
elaborare in modo più completo gli aspetti biblici e personalistici della dottrina contenuta nella Humanae
Vitae.
Cogliere gli interrogativi suscitati dall’enciclica vuol dire formularli e al tempo stesso ricercarne la risposta.
La dottrina contenuta nella Familiaris Consortio chiede che sia la formulazione degli interrogativi, sia la
ricerca di un’adeguata risposta si concentrino sugli aspetti biblici e personalistici. Tale dottrina indica anche
l’indirizzo di sviluppo della teologia del corpo, la direzione dello sviluppo e pertanto anche la direzione del
suo progressivo completarsi e approfondirsi.
3. L’analisi degli aspetti biblici parla del modo di radicare la dottrina proclamata dalla Chiesa contemporanea
nella rivelazione. Ciò è importante per lo sviluppo della teologia. Lo sviluppo, ossia il progresso nella
teologia, si attua infatti attraverso un continuo riprendere lo studio del deposito rivelato.
Il radicamento della dottrina proclamata dalla Chiesa in tutta la tradizione e nella stessa rivelazione divina è
sempre aperto agli interrogativi posti dall’uomo e si serve anche degli strumenti più conformi alla scienza
moderna e alla cultura di oggi. Sembra che in questo settore l’intenso sviluppo dell’antropologia filosofica
(in particolare dell’antropologia che sta alla base dell’etica) s’incontri molto da vicino con gli
interrogativi suscitati dall’enciclica Humanae Vitae nei riguardi della teologia e specialmente dell’etica
teologica.
L’analisi degli aspetti personalistici della dottrina contenuta in questo documento ha un significato
esistenziale per stabilire in che cosa consista il vero progresso, cioè lo sviluppo dell’uomo. Esiste infatti in
tutta la civiltà contemporanea - specie nella civiltà occidentale - un’occulta e insieme abbastanza esplicita
tendenza a misurare questo progresso con la misura delle “cose”, cioè dei beni materiali.
L’analisi degli aspetti personalistici della dottrina della Chiesa, contenuta nell’enciclica di Paolo VI, mette in
evidenza un appello risoluto a misurare il progresso dell’uomo con la misura della “persona”, ossia di ciò che
è un bene dell’uomo come uomo, che corrisponde alla sua essenziale dignità. L’analisi degli aspetti
personalistici porta alla convinzione che l’enciclica presenta come problema fondamentale il punto di vista
dell’autentico sviluppo dell’uomo; tale sviluppo si misura infatti, in linea di massima, con la misura dell’etica
e non soltanto della “tecnica”.
4. Le catechesi dedicate all’enciclica Humanae Vitae costituiscono solo una parte, la parte finale, di quelle
che hanno trattato della redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio.
Se richiamo particolarmente l’attenzione proprio a queste ultime catechesi, lo faccio non solo perché il tema
da esse trattato è più strettamente unito alla nostra contemporaneità, ma anzitutto per il fatto che da esso
provengono gli interrogativi, che permeano, in certo senso, l’insieme delle nostre riflessioni. Ne consegue
che questa parte finale non è artificiosamente aggiunta all’insieme, ma è unita con esso in modo organico e
omogeneo. In certo senso, quella parte che nella disposizione complessiva è collocata alla fine, si trova in
pari tempo all’inizio di quest’insieme. Ciò è importante dal punto di vista della struttura e del metodo.
Anche il momento storico sembra avere il suo significato: difatti, le presenti catechesi sono state iniziate nel
periodo dei preparativi al Sinodo dei vescovi 1980 sul tema del matrimonio e della famiglia (“De muneribus
familiae christianae”), e terminano dopo la pubblicazione dell’esortazione Familiaris Consortio, che è frutto
di lavori di questo Sinodo. È a tutti noto che il Sinodo del 1980 ha fatto riferimento anche
all’enciclica Humanae Vitae e ne ha riconfermato pienamente la dottrina.

219
Tuttavia il momento più importante sembra quello essenziale, che, nell’insieme delle riflessioni compiute, si
può precisare nel modo seguente: per affrontare gli interrogativi che suscita l’enciclica Humanae Vitae,
soprattutto in teologia, per formulare tali interrogativi e cercarne la risposta, occorre trovare quell’ambito
biblico teologico, a cui si allude quando parliamo di “redenzione del corpo e di sacramentalità del
matrimonio”. In questo ambito si trovano le risposte ai perenni interrogativi della coscienza di uomini e
donne, e anche ai difficili interrogativi del nostro mondo contemporaneo a riguardo del matrimonio e della
procreazione.

finito di compilare
per R.M.S.
il 12 aprile 2019

220
SOMMARIO

1° gruppo: 23 udienze dal 05/09/1979 al 02/04/1980: il piano di Dio "alle origini" circa l'uomo e la
donna in risposta alla domanda che i farisei fanno a Gesù "E' permesso ripudiare la propria moglie?"
(Mt 19,3-9)
Mercoledì, 5 settembre 1979 p. 2
Mercoledì, 12 settembre 1979 3
Mercoledì, 19 settembre 1979 5
Mercoledì, 26 settembre 1979 7
Mercoledì, 10 ottobre 1979 9
Mercoledì, 24 ottobre 1979 11
Mercoledì, 31 ottobre 1979 12
Mercoledì, 7 novembre 1979 14
Mercoledì, 14 novembre 1979 16
Mercoledì, 21 novembre 1979 18
Mercoledì, 12 dicembre 1979 20
Mercoledì, 19 Dicembre 1979 22
Mercoledì, 2 Gennaio 1980 24
Mercoledì, 9 Gennaio 1980 25
Mercoledì, 16 Gennaio 1980 27
Mercoledì, 30 Gennaio 1980 29
Mercoledì, 6 Febbraio 1980 31
Mercoledì, 13 Febbraio 1980 33
Mercoledì, 20 Febbraio 1980 34
Mercoledì, 5 Marzo 1980 36
Mercoledì, 12 Marzo 1980 38
Mercoledì, 26 Marzo 1980 40
Mercoledì, 2 Aprile 1980 42

2° gruppo: 40 udienze = 16/04/1980 - 06/05/1981: riflessione sulla purezza del cuore, prendendo le
mosse dal Discorso della montagna (Mt 5,27-28)
Mercoledì, 16 aprile 1980 45
Mercoledì, 23 aprile 1980 46
Mercoledì, 30 aprile 1980 48

221
Mercoledì, 14 maggio 1980 50
Mercoledì, 28 maggio 1980 52
Mercoledì, 4 giugno 1980 54
Mercoledì, 18 giugno 1980 56
Mercoledì, 25 giugno 1980 57
Mercoledì, 23 luglio 1980 59
Mercoledì, 30 luglio 1980 60
Mercoledì, 6 agosto 1980 62
Mercoledì, 13 agosto 1980 63
Mercoledì, 20 agosto 1980 65
Mercoledì, 27 agosto 1980 67
Mercoledì, 3 settembre 1980 69
Mercoledì, 10 settembre 1980 70
Mercoledì, 17 settembre 1980 72
Mercoledì, 24 settembre 1980 74
Mercoledì, 1 ottobre 1980 75
Mercoledì, 8 ottobre 1980 77
Mercoledì, 15 ottobre 1980 79
Mercoledì, 22 ottobre 1980 81
Mercoledì, 29 ottobre 1980 83
Mercoledì, 5 novembre 1980 85
Mercoledì, 12 novembre 1980 87
Mercoledì, 3 dicembre 1980 88
Mercoledì, 10 dicembre 1980 90
Mercoledì, 17 dicembre 1980 92
Mercoledì, 7 gennaio 1981 95
Mercoledì, 14 gennaio 1981 97
Mercoledì, 28 gennaio 1981 98
Mercoledì, 4 febbraio 1981 100
Mercoledì, 11 febbraio 1981 102
Mercoledì, 18 marzo 1981 103
Mercoledì, 1 aprile 1981 105
Mercoledì, 8 aprile 1981 107
Mercoledì, 15 aprile 1981 109
Mercoledì, 22 aprile 1981 111
Mercoledì, 29 aprile 1981 112
Mercoledì, 6 maggio 1981 114

222
3° gruppo: n° 45 udienze = 11/11/1981 - 09/02/1983: dalla risposta di Gesù ai sadducei circa la
resurrezione (Mc 12,20-23)
Mercoledì, 11 novembre 1981 116
Mercoledì, 18 novembre 1981 117
Mercoledì, 2 dicembre 1981 119
Mercoledì, 9 dicembre 1981 121
Mercoledì, 16 dicembre 1981 122
Mercoledì, 13 gennaio 1982 124
Mercoledì, 27 gennaio 1982 126
Mercoledì, 3 febbraio 1982 128
Mercoledì, 10 febbraio 1982 129
Mercoledì, 10 marzo 1982 131
Mercoledì, 17 marzo 1982 132
Mercoledì, 24 marzo 1982 134
Mercoledì, 31 marzo 1982 136
Mercoledì, 7 aprile 1982 137
Mercoledì, 14 aprile 1982 139
Mercoledì, 21 aprile 1982 140
Mercoledì, 28 aprile 1982 142
Mercoledì, 5 maggio 1982 144
Mercoledì, 23 giugno 1982 146
Mercoledì, 30 giugno 1982 147
Mercoledì, 7 luglio 1982 149
Mercoledì, 14 luglio 1982 151
Mercoledì, 21 luglio 1982 153
Mercoledì, 28 luglio 1982 154
Mercoledì, 4 agosto 1982 156
Mercoledì, 11 agosto 1982 157
Mercoledì, 18 agosto 1982 159
Mercoledì, 25 agosto 1982 161
Mercoledì, 1 settembre 1982 163
Mercoledì, 8 settembre 1982 164
Mercoledì, 15 settembre 1982 166
Mercoledì, 22 settembre 1982 168
Mercoledì, 29 settembre 1982 170
Mercoledì, 6 ottobre 1982 171

223
Mercoledì, 13 ottobre 1982 173
Mercoledì, 20 ottobre 1982 175
Mercoledì, 27 ottobre 1982 176
Mercoledì, 24 novembre 1982 178
Mercoledì, 1 dicembre 1982 180
Mercoledì, 15 dicembre 1982 182
Mercoledì, 5 gennaio 1983 184
Mercoledì, 12 gennaio 1983 185
Mercoledì, 19 gennaio 1983 187
Mercoledì, 26 gennaio 1983 189
Mercoledì, 9 febbraio 1983 190

4° gruppo: n° 21 udienze = 23/05/1984 - 28/11/1984: di cui quindici dedicate a commento della


Humanae vitae di Paolo VI
Mercoledì, 23 maggio 1984 191
Mercoledì, 30 maggio 1984 193
Mercoledì, 6 giugno 1984 194
Mercoledì, 27 giugno 1984 195
Mercoledì, 4 luglio 1984 197
Mercoledì, 11 luglio 1984 198
Mercoledì, 18 luglio 1984 199
Mercoledì, 25 luglio 1984 201
Mercoledì, 1 agosto 1984 202
Mercoledì, 8 agosto 1984 203
Mercoledì, 22 agosto 1984 204
Mercoledì, 29 agosto 1984 206
Mercoledì, 5 settembre 1984 207
Mercoledì, 3 ottobre 1984 209
Mercoledì, 10 ottobre 1984 210
Mercoledì, 24 ottobre 1984 211
Mercoledì, 31 ottobre 1984 213
Mercoledì, 7 novembre 1984 214
Mercoledì, 14 novembre 1984 215
Mercoledì, 21 novembre 1984 217
Mercoledì, 28 novembre 1984 218

224