Il Primo e Il Secondo Wittgenstein

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Il primo e il secondo Wittgenstein

Si definisce il primo Wittgenstein quello del Tractatus logicophilosophicus, mentre il secondo


Wittgenstein è quello dei due Quaderni e delle Ricerche.

Il primo Wittgenstein affronta un’opera di chiarificazione del linguaggio dal punto di vista logico,
attraverso la formulazione una vera e propria teoria del linguaggio come totalità.

Il secondo Wittgenstein si dedica alla descrizione degli usi concreti del linguaggio comune, esercitando
un notevole influsso sulla filosofia analitica di J.L. Austin e G. Ryle.

La filosofia come critica del linguaggio

Nel Tractatus Wittgenstein intende determinare le condizioni in cui il linguaggio può essere ritenuto
sensato e di conseguenza rispecchiare fedelmente il mondo. Per fare ciò, parte dalla constatazione che il
linguaggio è la raffigurazione logica del mondo e afferma che esso, in quanto costituito dalla «totalità
delle proposizioni», rappresenta la «totalità dei fatti».

Il passaggio successivo è dato dall’analisi accurata dei vari tipi di proposizioni, che Wittgenstein distingue
in molecolari o atomiche e, poiché le prime sono formate dalle seconde:

Una proposizione molecolare è vera se è costituita da proposizioni atomiche vere

Una proposizione atomica, o elementare, è vera se a essa corrisponde un fatto atomico reale (un dato
empirico semplice immediato), cioè se sussiste nella realtà lo stato di cose da essa raffigurato.

Date queste premesse, i principi della logica vengono definiti tautologici e quindi sono inevitabilmente
sempre veri, se usati correttamente, indipendentemente dalle proposizioni atomiche che collegano.

Le proposizioni della filosofia classica sono invece, secondo Wittgenstein, prive di senso, perché non
riconducibili a fatti atomici. La filosofia deve quindi perdere il carattere di dottrina per acquisire quello di
attività, la cui funzione sarà appunto la chiarificazione logica dei pensieri, cioè la critica del linguaggio.

Ci sono cose di cui è impossibile parlare

Le proposizioni della metafisica, dell’etica, dell’estetica non sono vere o false, ma semplicemente prive
di senso, secondo Wittgenstein, in quanto non raffigurano dei fatti.

Non si tratta peraltro di negare valore a tali discipline, ma piuttosto di essere consapevoli che è
impossibile affrontare con il nostro linguaggio le questioni essenziali per l’uomo, cioè Dio, la morte, il
senso e il valore del mondo e della vita.

Da tale consapevolezza bisogna trarre le debite conseguenze in sede filosofica: “Tutto ciò che si può dire
lo si può dire chiaramente. Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere“, afferma il filosofo.

Il secondo Wittgenstein e il linguaggio come attività concreta

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A partire dal 1930, Wittgenstein ribalta completamente la sua prospettiva sul linguaggio. Il Tractatus
tratta infatti di un linguaggio ideale, perfettamente coerente secondo i canoni della logica formale, di cui
si tratta di determinare le condizioni di verità o di falsità, ma tutto ciò rende ragione solo di una parte
molto ridotta del nostro uso effettivo del linguaggio.

Il secondo Wittgenstein critica questo approccio e in particolare la teoria del linguaggio come
raffigurazione logica del mondo, e rivendica come compito della filosofia quello di indagare il linguaggio
come attività concreta connessa con il comportamento umano.

La nostra attività comunicativa viene a questo punto considerata come un insieme di giochi linguistici,
cioè di espressioni che svolgono funzioni molto diverse, nell’ambito di pratiche differenti.

Per il secondo Wittgenstein, il linguaggio diventa così una pratica intersoggettiva, che consiste in una
pluralità di giochi linguistici, non riconducibili a un modello normativo unitario. Il significato dei segni
non è infatti determinabile indipendentemente dal loro uso, ma dipende dal gioco linguistico in cui
l’espressione è inserita.

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