Stile e Narrativa Nel Basso Inferno

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco

Author(s): Teodolinda Barolini and Flaminio Di Biagi


Source: Lettere Italiane , APRILE-GIUGNO 1990, Vol. 42, No. 2 (APRILE-GIUGNO 1990),
pp. 173-207
Published by: Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.

Stable URL: https://www.jstor.org/stable/26264658

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LETTERE ITALIANE
Anno XLII - N. 2 Aprile-Giugno 1990

Stile e narrativa
nel basso inferno dantesco.

Introdotto dalla
diciottesimo complessa
canto transizione
dell'Inferno costituiscedei
un canti XVI
enfatico e XVII,
nuovo ini il
zio collocato alla metà della cantica, al suo narrativo « mezzo del cam
min ». « Luogo è in inferno detto Malebolge », comincia il canto,
con un verso che è seccamente informativo, esplicitamente introdut
tivo e patentemente dedicato alla differenziazione:1 questo è un posto
nuovo, un nuovo locus. Dopo la descript io loci annunciata dall'ini
ziale « Luogo è »,2 l'attenzione del narratore si sposta ai viandanti.
In due terzine apparentemente molto semplici, Dante attiva la poe
tica del nuovo, fondata sull'isolamento di questo luogo, questo posto
in quanto distinto da qualsiasi altro:
In questo luogo, de la schiena scossi
di Gerion, trovammoci; e Ί poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.
A la man destra vidi nova pietà,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.
(Inf. XVIII, 19-24)

1 Riguardo all'apertura del canto XVIII, R. Kirkpatrick commenta: « the déclara


tion ' Luogo è in inferno detto Malebolge ' has indeed far more the appearance of
a true beginning than the oblique and hésitant opening of Inferno I »; vedi Dante's
Inferno: Difficulty and Dead Poetry, Cambridge, Cambridge U. Press 1987, p. 237.
2 Sulla descriptio loci di Inferno XVIII e i suoi antecedenti virgiliani, vedi E. San
guineti, capitolo 1 di Interpretazione di Malebolge, Firenze, Olschki 1961, e la lectura
di M. Barchiesi del canto XVIII, Arte del prologo e arte della transizione, in « Studi
danteschi », XLIV (1967), pp. 115-207. Il libro di Sanguineti è notevole sia per motiva
zione ideologica che per la critica pratica; l'autore intende la sua « lettura narrativa dei
canti di Malebolge » (p. xx) come una sfida metodologica all'enfasi attribuita da Croce
alle « liriche » della Commedia. Sebbene i 13 capitoli di Sanguineti su ognuno dei
13 canti di Malebolge diano più spesso dettagliate letture dei singoli canti piuttosto
che una « lettura narrativa » complessiva, il suo sforzo contiene analisi penetranti della
dimensione narrativa del poema.

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174 Teodolinda Barolini

Accanto al triplo uso di novo, che echegg


del canto VI, notiamo la precisione numeri
che si aggiunge al precedente « distinto in
i numeri saranno usati per tutto il basso in
di un sistema d'ordine soffocantemente prec
troviamo non solo « prima bolgia », ma a
« argine secondo » (101); nel canto XIX tro
« l'argine quarto » (40) e « dal quarto al qu
sti numeri ci preparano ai luoghi di racco
rosi, ai più frequenti incontri con il nuov
basso inferno; e ancora, il canto XVIII sta
sto più intenso ritmo narrativo dandoci, p
la prima delle quali e ulteriormente suddiv
di peccatori: i ruffiani e i seduttori. Infin
di proemio del canto XVIII, il suo sancire
tese quasi da Inferno I, è sottolineato d
come rimodellandolo, l'ultimo verso del pri
e io li tenni dietro » è diventato « Ί poet
dietro mi mossi ». Ancora una volta, du
canto I, il viaggio è cominciato.
Tuttavia, è nuovamente cominciato in u
come testimoniato dalla accurata inserzione
di Gerion » nel preambolo del nuovo in
ma in realtà i canti di tutto il basso inferno - dal momento che la
frode governa sia l'ottavo che il nono cerchio - sono composti sotto
il segno di Gerione: una rappresentazione di frode che mette in forse
proprio i valori rappresentativi usati per raffigurarla. Così, da un lato
questi canti si affidano allo stesso tipo di illusionismo rappresentativo
che era stato inaugurato dall'iscrizione sulla porta dell'inferno; il
verso « Luogo è in inferno detto Malebolge », ad esempio, confe
risce uno status di verità al luogo che nomina insinuando che viene
chiamato così da altri - da chi, in fin dei conti, questo posto è « detto »
Malebolge? Quando il poeta parla con la propria voce nel verso 6 -
« di cui suo loco dicerò l'ordigno » - il suo « dicerò » è reso auto
revole dall'anonimo « detto » che lo precede; Dante ci sta dicendo
ciò che è risaputo, e quindi ciò che è vero. Tuttavia, mentre lo status
di verità della sua stessa rappresentazione continua a essere mante
nuto, Dante userà questi canti per mettere in discussione la base di
ogni umana rappresentazione, per sondare inesorabilmente la frode
inerente al linguaggio e invero a ogni sistema di segni. In questi

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 175

canti la frode è costantemente trattata come peccato semiotico, un


peccato in cui sistemi semiotici devono essere violati perché si possa
commettere l'atto fraudolento.3 Il canto XVIII, con i suoi seduttori
e adulatori orientati linguisticamente, allestisce la scena per una medi
tazione sulla falsità rappresentativa che si estende attraverso Male
bolge (un cerchio che culmina, non lo si dimentichi, con i falsificatori
di parole); questa meditazione genera sia contenuto - i tipi di pec
cati che Dante comprende sotto la voce frode, lo sforzo di caratteriz
zare quei peccati linguisticamente - che forma poetica. Da un punto
di vista stilistico, questi canti frequentano altrettanto agevolmente
sia gli stili bassi che gli stili alti. Anche in questo, il canto XVIII è
paradigmatico, muovendosi nel suo breve ambito dall'umor nero vol
gare (« Ahi come facean lor levar le berze / a le prime percosse! già
nessuno / le seconde aspettava né le terze» [37-39]) alla solennità
con cui Virgilio indica Giasone (« Guarda quel grande che vene »
[83]) alla spiacevolezza di quel merda in cui gli adulatori sono im
mersi. Per Barchiesi, tali transizioni costituiscono l'essenza del canto
XVIII; egli suggerisce che l'aspetto più singolare del canto sia la sua
violenta giustapposizione di linguaggio elevato con linguaggio reali
stico, del latinismo « Luogo è » con il neologismo plebeo « Male
bolge ».4 Questa intuizione può essere estesa ai canti di Malebolge
come gruppo, le cui violente transizioni stilistiche forniscono un im
plicito commento sulle questioni di genere e stile che sorsero intorno
al poema per l'uso del termine comedia nell'episodio di Gerione.
Transizioni in stile e registro occorrono con singolare frequenza
in Malebolge.5 Questi cambi di stile marcati e improvvisi segnalano
un'esplorazione dei limiti del decoro rappresentativo che è collegata

3 J. M. Lotman nota che per Dante il peggiore dei peccati è « un uso falso dei
segni » (Il viaggio di Ulisse nella Divina Commedia di Dante, in Testo e contesto, Bari,
Laterza 1980, p. 92). Sull'Inferno nel suo insieme, vedi anche F. Chiappelli, Il colore
della menzogna nell'Inferno dantesco, in «Letture Classensi», XVIII (1989),pp. 115-128.
4 « In quanto alla forma, la parola fa sì che il nostro verso proemiale proponga,
con esemplare sinteticità, quello che costituirà l'aspetto più singolare dell'intero canto,
vale a dire l'accostamento di linguaggio elevato e linguaggio violentemente realistico »
(Arte del prologo e arte della transizione, p. 126).
5 La poetica malebolgiana di Dante ricorda le raccomandazioni di Agostino in
De Doctrina Christiana IV, xxn, 51: « Nec quisquam praeter disciplinant esse existimet
ista miscere: imo quantum congrue fieri potest, omnibus generibus dictio varianda est.
Nam quando prolixa est in uno genere, minus detinet auditorem. Cum vero fit in aliud
ab alio transitus, etiamsi longius eat, decentius procedit oratio » (Patrologiae latinae,
ed. J.-P. Migne, Turnhout, Brepols 1841, voi. 34, col. 114). Il quarto libro di De
Doctrina Christiana si occupa particolarmente del ruolo della retorica nel discorso vero,
un problema su cui Dante si sofferma con il suo uso di comedìa.

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176 Teodolinda Barolini

alla prima formulazione di genere fatta


suo uso di comedìa nel canto XVI verrà
un uso singolare di tragedia: alta traged
l'Eneide. In una mia precedente lettura d
poema, ho tentato di indicare come la cre
si trova nell'Inferno sia anche, necessaria
gedia; il poema vuole dimostrare che l'al
bassa comedia, perché meno vera di quel
che affronta l'impresa di rappresentare c
rire menzogna, ma è verità sempre: è un
un mirum verum. una cosa incredibile e vera.6 Ciò su cui intendo
soffermarmi qui è il correlativo stilistico delle rivendicazioni di verità
della comedìa, che io considero essere la sua molteplicità; il vertigi
noso schieramento di registro e stile del basso inferno testimonia
intenzionalmente che la comedìa è un genere vorace, un genere che
- in quanto dice la verità - si sforza di abbracciare e rappresentare
la realtà nella sua totalità. Non è più mia intenzione dimostrare l'im
plicito contrasto che Dante stabilisce tra comedìa e tragedia, verità
e menzogna-, tuttavia, m'è d'obbligo ricordare al lettore che tutte le
formulazioni di che cosa la comedìa è, in questo poema si presen
tano in tandem con ciò che comedìa non è. Così, non è casuale che
Malebolge contenga una serie di coppie classico/contemporaneo; que
ste coppie servono a evidenziare l'opposizione che si trova alla base
della meditazione dantesca su genere e stile, l'opposizione tra comedìa
e tragedia. Per tornare al canto XVIII, che resta sempre paradigma
tico per tutto Malebolge, Sanguineti nota che il canto contiene una
figura moderna e una classica in ognuna delle due bolge; Barchiesi
commenta la simmetria con cui il pellegrino si rivolge ai due con
temporanei, mentre Virgilio si incarica di descrivere entrambi i pec
catori classici.7 Si potrebbe ulteriormente notare che le due coppie

6 Vedi T. Barolini, Dante's Poets: Textuality and Truth in the Comedy, Princeton,
Princeton U. Press 1984, cap. 3, dove queste formule sono discusse nel contesto del
significato di comedìa. La frase ver c'ha faccia di menzogna è usata per descrivere
Gerione in Inferno XVI, mentre cosa incredibile e vera appartiene all'esposizione di
Cacciaguida sull'antica Firenze in Paradiso XVI; mira vera si riferisce alla meraviglia
del flauto cantante nella seconda egloga di Dante.
7 Vedi Interpretazione di Malebolge, p. 14, e Arte del prologo, pp. 190-192.
L'accoppiamento di una figura classica con una contemporanea è un tratto della lettera
tura esemplare; vedi C. Delcorno, che scrive: « L'irruzione dell'attualità nel repertorio
esemplare, che già segnava originalmente la predicazione e la letteratura dei Mendicanti,
diventa il tratto più caratteristico della Commedia » (Dante e /'« Exemplum » medievale,
in «Lettere Italiane», XXXV (1983), p. 6).

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 177

classico/contemporaneo del primo canto di Malebolge (Venedico Cac


cianemico e Giasone, Alessio Interminelli e Taide) fronteggiano le
due coppie classico/contemporaneo dell'ultimo canto di Malebolge,
il XXX (Gianni Schicchi e Mirra, Maestro Adamo e Sinone). Incor
niciata da questi gruppi di figure classico/contemporaneo, è la pièce
de résistance, Ulisse e Guido da Montefeltro, dove l'allineamento tra
Virgilio e Ulisse da una parte e Dante e Guido dall'altra viene dichia
rato; Virgilio sente di dover rivolgersi all'eroe greco, mentre il pelle
grino può parlare al suo corrispondente italiano. In questo dittico
cruciale e centrale l'accoppiamento classico/contemporaneo segnala
un'opposizione stilistica in grande scala, spostandosi dal discorso eroico
del canto XXVI al linguaggio quotidiano del canto XXVII8 L'op
posizione tra i canti XXVI e XXVII è programmatica: un'indica
zione alla poetica di Malebolge; ed è già implicita, in scala minore,
nelle simili opposizioni che compongono il tessuto stilistico di In
ferno XVIII.
Le coppie classico/contemporaneo che punteggiano Malebolge
sono emblemi di quello stile misto che è l'essenza della maniera
« comedica »Mentre Giasone « con segni e con parole ornate /
Isifile ingannò » (91-92) - espressione che attira l'attenzione sulla
natura semiotica del suo peccato - il pellegrino adotta una « chiara
favella » (53) che « sforza » Venedico a rivelarsi, e il linguaggio del
poeta non potrebbe essere più distante dall'ornato nel descrivere la
testa di Alessio «di merda lordo» (116) e le «unghie merdose»
(131) di Taide. Il collegamento tra Virgilio e Giasone è istituito dalla
predilezione del poeta latino per la parola ornata, un aspetto del suo
personaggio fattoci conoscere da Beatrice in Inferno II; 10 nel canto
XVIII, poi, i cambi di registro stilistico fanno in modo di associare
la cultura classica (Giasone, Virgilio) con l'ornamento e l'inganno
linguistico, con quella « lusinga » di cui Catone accuserà Virgilio in
Purgatorio I." Non pare casuale che, nell'economia del canto XVIII,

8 Sui cambiamenti linguistici tra i canti XXVI e XXVII, vedi Dante's Poets,
pp. 228-233; per il significato delle coppie classico/contemporaneo, che possono anche
essere interpretate come immaginario/reale, vedi la lettura di Sinone e Mastro Adamo,
pp. 233-238.
9 Vorrei ricordare al lettore che non mi riferisco al buffo, neanche nella sofisticata
veste di « ludico ». A mia opinione, l'uso che Dante fa dei termini comedìa e tragedia
deve essere inteso nel contesto di verità e falsità.
10 Per il collegamento tra Virgilio e Giasone, vedi G. Mazzotta, Dante, Poet of
the Desert, Princeton, Princeton U. Press 1979, p. 158, e Dante's Poets, p. 280 nota.
11 La parola ornata di Virgilio il più delle volte trova espressione nel suo uso
della captatio benevolentiae\ Catone risponde alla captatio di Virgilio con il rimprovero

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178 Teodolinda Barolini

il linguaggio del poeta si faccia forteme


finale, quando minaccia coloro che sono
(la stessa parola con cui Catone colpisce
dopo l'incontro con la classica parola orna
e il tipo di rima dura che in Inferno XXX
come mezzo per rappresentare l'abisso in
nel canto XVIII a chiarificare poeticamen
per la prima volta al termine del canto X
tratta di un genere capace di sfruttare gli s
di stile comedico si va svolgendo a mano
che la sua sfera d'influenza è esclusivame
un errore, come il canto XIX - un grande
dico - dimostra.13 Di nuovo, il punto è la
due canti: dallo stile relativamente semp
del canto XVIII alla profusione retoric
zione da uno stile letterale e retoricamente non elaborato a un lin
guaggio di grande densità metaforica trova il proprio emblema nella
transizione dal letterale « puttana » riferito a Taide (XVIII, 133), al
metaforico « puttaneggiar coi regi » (XIX, 108) della chiesa nell'in
teresse dei papi ruffiani. L'uso ravvicinato di puttana e puttaneggiar
(il primo usato solo due altre volte, entrambe in Purgatorio XXXII
per la chiesa, il secondo un hapax), sottolinea la transizione da un

«non c'è mestier lusinghe» (Purg. I, 92). I quattro usi di lusinga/lusingar sembrano
delineare una graduale messa in discussione del discorso ornato. Lusinga appare prima
in rapporto alla frode, nel sommario di Malebolge che si trova in Inferno XI (« ipocresia,
lusinghe e chi affattura» [58]); ricompare nella bolgia degli adulatori, contrapposta alle
parole ornate di Giasone, nell'auto accusa di Alessio (« Qua giù m'hanno sommerso le
lusinghe» [XVIII, 125]). I due usi finali indicano entrambi i limiti della captatio
benevolente-, il punto di vista infernale è espresso da Bocca: « mal sai lusingar per
questa lama! » (XXXII, 96); e quello del purgatorio da Catone: « non c'è mestier
lusinghe ».
12 L'uso delle rime aspre appartiene per lo più alla bolgia degli adulatori; a partire
dalla riga 101, troviamo rime come « s'incrocicchia », « nicchia », « scuffa », « picchia »,
« muffa », « zuffa » e « zucca ». Queste le rileva Barchiesi, a p. 198. H. W. Storey fa
notare anche le rime dure dell'inizio del canto XVIII, -oscio compreso, che, nota
Storey, è «used only once by Dante» (p. 31); vedi Mapping Out the New Poetic
Terrain: Malebolge and Inferno XVIII, in « Lectura Dantis », IV (1989), pp. 30-41.
13 Sebbene Dante si sforzi di colpire lo stile alto consistentemente associato con
l'epica classica, non intende dire che lo stile alto sia sempre sbagliato (vedi Dante's
Poets, p. 238 nota) ma che solo uno stile misto può catturare tutta la realtà. Come
nota Z. G. Baranski, la Commedia è un « ' middle style ' not on account of a prescribed
set of features, but because it was the point where potentially every form of expression
could meet » (Reviewing Dante, in « Romance Philology », XLII (1988), p. 59). Lo
stile alto del canto XIX è, in ogni caso, ispirato biblicamente piuttosto che classicamente;
i suoi contrassegni retorici riappariranno in invettive politiche successive, come quella
del Purgatorio VI.

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 179

puttenaggiare letterale a uno metaforico e dunque le differenze reto


riche tra i canti: la narrativa schietta e semplice del XVIII contrasta
bruscamente con la magniloquenza del XIX, un canto che contiene
tre apostrofi, che invero si apre con la squillante apostrofe diretta a
Simon Mago e ai suoi seguaci prostitutori de « le cose di Dio ».14
Mi riferisco a uno squillare di tromba con ragione, poiché questa
è la metafora adottata dal poeta nell'attaccare i simoniaci: « or con
vien che per voi suoni la tromba, / però che ne la terza bolgia state »
(5-6). Chiamando il suo discorso poetico un suonare di tromba, Dante
allinea il proprio testo alla « angelica tromba » (Inf. VI, 95) che suo
nerà nel Giorno del Giudizio, come più in là nel canto rafforzerà la
sua denuncia dei papi simoniaci invocando San Giovanni Evangelista,
che lui credeva autore dell'Apocalisse. L'Apocalisse è la fonte privi
legiata da Dante nel canto XIX, come lo sarà anche nei canti che nar
rano la processione e i tableaux vivants del paradiso terrestre; il pel
legrino cita specificamente San Giovanni come sua fonte autorevole
quando accusa i papi con un linguaggio preso direttamente dall'Apo
calisse: « Di voi pastor s'accorse il Vangelista, / quando colei che
siede sopra l'acque / puttaneggiar coi regi a lui fu vista » (/«/. XIX,
106-108). San Giovanni stesso era un araldo trombettiere; in Para
diso XXVI Dante chiama il suo Vangelo « l'alto preconio che grida
l'arcano / di qui là giù sovra ogne altro bando » (44-45). Anche nella
Monarchia Dante fa riferimento alla « tuba evangelica ».15 Ci sono
dunque motivi a sufficienza per associare il suonar di tromba del poeta
a un'arte ispirata, il tipo di arte che pochi versi più oltre spingerà
Dante a erompere nella seconda apostrofe del canto XIX, indirizzata
a Dio e relativa all'arte suprema di Dio, l'arte della giustizia: « Ο
somma giustizia, quante è l'arte / che mostri in cielo, in terra e nel
mal mondo » (10-11). La comedìa in questo canto viene così model
lata nello stile alto dell'invettiva biblica, colma di apostrofi, domande
retoriche, esclamazioni, sarcasmo pungente e densità metaforica; in
più, viene mostrata come arte analoga alla proclamazione evangelica,
l'arte manifestata (o la tuba suonata) da Dio. Il canto XIX, quindi,
contiene anche i segni necessari dell'« ulissiana » inquietudine del

14 Kirkpatrick caratterizza il cambiamento diversamente: « It is one of the most


surprising features of the transition from Canto XVIII to Canto XIX that Dante should
[have] exchanged the ugly triviality of the one for the scriptural simplicity of the
other: ' low ' language now becomes sermo humilis » (p. 255). A me sembra che il
linguaggio del canto XIX sia più biblica magniloquenza che biblico sermo humilis.
15 « Hanc veritatem etiam Gentiles ante tubam evangelicam cognoscebant » (Mon.
II, ix, 7).

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180 Teodolinda Barolini

poeta, vale a dire una doppia mossa difen


passato narrativo che il presente: il narrat
che riguarda la rottura potenzialmente sac
male nel battistero fiorentino, usando l
smentire tutti gli altri resoconti dell'eve
ch'ogn' omo sganni» [21]); 16 lo scrittore
tiva del pellegrino contro Niccolò III con
d'autore caratterizzata dalla ulissiana parol
fui qui troppo folle » (88). Come sempre
mili servono a disinnescare l'inquietudine d
affermazioni e permettergli così di essere
che il pellegrino ha finito di denunciare il
Virgilio ha ascoltato con « contenta labb
vere espresse » (122-123).17
Quelle del poeta sono parole vere perché
è stato rivelato, così come quanto è conte
lazione era stato rivelato a San Giovanni, d
« puttaneggiar »; il passivo sottolinea la fu
ficiario di rivelazione divina. La simile co
evidenziata dalla sua passiva accettazione d
verso del canto XIX: « Indi un altro vallon
che è « scoperto » a quest'uomo, le cui
espressamente definite vere, è la bolgia ch
affermarono falsamente di essere beneficiari
zogneri profeti le cui parole non erano ve
il canto dei falsi profeti, segue così un can
profeta del nostro poeta è stata convalida
colare versione comedica - e in questo c
comica - di vera profezia del canto XIX, ov

16 La crociata di Sanguineti contro romantiche lett


media lo porta a ridicolizzare il suggerimento del D
grafica sia collegata all'aspetto sacrilego del canto X
l'acceso fraseggio, troppo coinvolto rispetto agli appro
nostri tempi, D'Ovidio colpisce il tasto chiave quando
il poeta affronta « un peccato essenzialmente sacrileg
che egli medesimo non fosse del tutto libero dalla tac
pretazione di Malebolge, p. 41 nota). Vale la pena rico
anomalo tra i dantisti italiani dei primi anni sessan
polemica contro Croce, ma critica anche d'abitudin
favore di uno Spitzer ο un Singleton.
17 Le sole altre parole nella Commedia specificamen
Beatrice; per un'elaborazione di questo punto, vedi

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 181

colò III per il definitivo arrivo in questa bolgia dell'ancora vivo


Bonifacio Vili. Nel canto XX la questione delle false profezie sarà
esaminata da un punto di vista testuale: i profeti che incontriamo
sono per lo più personaggi classici di testi classici; la presentazione
di Manto dà spunto alla più esplicita revisione dantesca dell'Eneide,
proprio nel canto in cui il testo di Virgilio è battezzato alta tragedia."
L'attenzione testuale del canto XX viene anticipata nel canto XIX,
dove Niccolò reagisce al presunto arrivo del suo successore dicendo:
« Di parecchi anni mi mentì lo scritto » (XIX, 54), avviando così il
tema dei testi menzogneri contro ai testi veritieri che costituisce l'ar
gomento più importante del canto XX. L'insistenza del canto XX sugli
aspetti tecnici della costruzione testuale - il suo uso unico di un gergo
testuale del tipo « ventesimo canto / de la prima canzon » (2-3) e il
termine « tragedia » (113) - viene anch'essa anticipata nel canto XIX,
in cui troviamo « metro » e « note » che incorniciano la grande invet
tiva del pellegrino (89, 118). Un'esplicita autoconsapevolezza testuale
di questa sorte era stata introdotta nel poema dall'episodio di Ge
rione, dove per la prima volta il poeta scrive de « le note / di questa
comedìa » {Inf. XVI, 127-128) e dove per la prima volta pone aper
tamente la questione della credibilità del suo testo.19 La questione
della veridicità della Commedia è drammaticamente riproposta nel
canto XIX, dove il testo di Dante viene associato con quello dell'evan
gelista, ed è ancora il centro dell'attenzione nel canto XX, dove il
testo di Dante viene vigorosamente ^associato dai testi classici da
cui provengono i profeti menzogneri della bolgia. Nel canto XIX
Dante insiste sulla propria credibilità; riguardo all'incidente del Bat
tistero, ci intima di fare della sua versione il « suggel ch'ogn' omo
sganni » (21). Nel canto XX Virgilio usa un linguaggio simile per
implicare la fraudolenza della sua stessa versione, nel decimo libro
dell'Eneide, della fondazione di Mantova; ci ammonisce che « la ve
rità nulla menzogna frodi » (99) - in altre parole, a non dar credito
a versioni che non siano quella raccontata in Inferno XX. Questi lapi
dari imperativi - « questo sia suggel ch'ogn' omo sganni » e « la ve

18 II lettore faccia riferimento a Dante's Poets, pp. 215-222, e alla mia lectura,
True and False See-ers in Inferno XX, in « Lectura Dantis », IV (1989), pp. 42-54,
dove si sostiene che la revisione che Dante fa dell 'Eneide investe non solo il contenuto
del poema epico ma anche lo stile, che viene parodiato nell'excursus su Mantova.
19 II problema è stato posto implicitamente nell'episodio di Pier della Vigna, dove
Dante garantisce la credibilità del proprio testo drammatizzando l'incapacità del pelle
grino di credere a quello di Virgilio; vedi Dante's Poets, p. 212.

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182 Teodolinda Barolini

rità nulla menzogna frodi » - sottolineano


linguaggio e frode: il linguaggio è uno stru
che sgannare.
Il rapporto tra linguaggio e frode occup
nella bolgia dei barattieri. Sebbene il pecc
chiaramente linguistico della lusinga ο del
cupa di caratterizzare questi peccatori s
modo di parlare: così come i ruffiani sono
Bologna indicata da una perifrasi linguisti
son ora apprese / a dicer ' sipa ' tra Sàven
allo stesso modo i barattieri sono caratteri
prima come cittadini di Lucca, dove « del no,
(XXI, 42), e più in là come sardi, dal discor
e dalle lingue che « a dir di Sardigna / ...
(XXII, 89-90). Il barattiere navarrese senz
di un significante per questo personaggio è
rare l'attenzione sul valore dei segni) cont
nalismo linguistico vantandosi di poter fa
e lombardi perché Dante li possa interroga
per eccellenza di questa bolgia, indubbiame
tiera » di Malacoda.21 Questo uso fraudole
nesca una sequenza che tratta con partico
dei segni, come rivelato dai segnali diabolic
del canto XXI: « ma prima avea ciascun la
verso lor duca, per cenno-, / ed elli avea
(137-139; il corsivo è mio). Questi «cenn
tura, in chiave di parodia epica, del canto
tipo militare che si ritrovano lungo tutta
momento che la baratteria civica è una sp
stato) divengono una focalizzata messa in

20 Ciampolo, come viene chiamato dai commentato


di Dante e di Virgilio; i modi di parlare di guida e p
tema semiotico che verrà sviluppato in Malebolge.
21 Per la menzogna veritiera di Malacoda e il suo r
c'ha faccia di menzogna», vedi Dante's Poets, pp. 22
canto XXI è controbilanciata da un ulteriore abuso
Ciampolo promette di richiamare i suoi compagni fis
riva è sgombra (103-105). Questi abusi dei sistemi di
e dei diavoli sono compensati, ironicamente, dal comp
aiutano i marinai segnalando le tempeste in arrivo
XXII, 19-20]).
22 Sanguineti si riferisce alla « amplificazione cata

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 183

significato di questo brano per la Commedia nel suo insieme, per il


suo continuo discorso semiotico, è chiarito dalla sua finale evocazione
di una nave il cui viaggio è governato da segni da terra e cielo, com
preso il segno - « stella » - che ci si offrirà ua volta emersi dal
l'inferno:

Io vidi già cavalier muover campo

quando con trombe, e quando con campane,


con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra ο di stella.

(Inf. XXII, 1, 7-12; il corsivo è mio)

I « cenni di castella » richiamano i segnali minacciosi intercorsi tra


le torri demoniache all'inizio di Inferno Vili;23 troviamo anche l'ul
timo uso di tromba nella Commedia, dopo la tromba del poeta accor
data evangelicamente nel canto XIX e la bùccina tutt'altro che ange
lica di Barbariccia nel canto XXI. Di nuovo, il punto sembra essere
che il vorace genere della comedìa comprende ogni sorta di attività
semiotica; il discorso del realismo esige tanto l'angelica tromba che
la demoniaca trombetta.
All'inizio della bolgia dei barattieri veniamo a sapere della « di
vin' arte » alla cui mirata volontà si deve la pece in cui ribollono i
peccatori (« tal, non per foco ma per divin' arte, / bollia là giuso
una pegola spessa» [Inf. XXI, 17-18]); nella stessa sequenza ini
ziale, veniamo a sapere che l'arte di Dante è similmente deliberata,
che essa non registra altro che il necessario: « Così di ponte in ponte,
altro parlando / che la mia comedìa cantar non cura » (Inf. XXI, 1-2).
Notiamo che comedìa appare qui per l'ultima volta e che si trova in
serito in una proposizione che funziona da accumulatore subliminale
di verosimiglianza: i versi danno vita al testo insistendo come per
caso su una vita al di fuori del testo, una realtà indipendente che il
testo sceglie di non rivelare. Notiamo inoltre l'associazione di comedìa

del canto XXII (p. 121). Agostino fa riferimento alla tromba in quanto parte della sua
discussione sui segni nei capitoli iniziali del secondo libro del De Doctrina Christiana.
23 La risposta da una torre all'altra è descritta con l'espressione « render cenno »
(Inf. Vili, 5).

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184 Teodolinda Barolini

con l'arte divina di cui la comedìa racconta l


che introduce un brano notevole per plenitud
pido virare dall'alto verso il basso, emblemat
epico - né alto né basso - del canto XXII.
rava l'esordio un modo di fare ammenda pe
vamente bassa del canto precedente;25 invec
tenzione sulla intenzionalità di quella conclus
quanto voluta esibizione degli elementi dispa
stile misto.26 Questi canti sono infatti un ma
il loro precetto di decoro stilistico è il prove
coi santi, e in taverna coi ghiottoni» del
esempio del contrappunto stilistico affidato
il contrasto tra l'alto latinismo ludo (« Ο tu

24 La stessa associazione è fatta all'inizio di Inferno


fronte all'arte divina - « di giustizia orribil arte » - e al
è di narrarla: « A ben manifestar le cose nove, / dico
dente presentata dai primi versi del canto XXI si manif
notare Sanguineti, questo episodio è eccezionale per il «
nomia drammatica » (p. 141) che permetterà a Dante e
mentre Ciampolo e i diavoli occupano la scena.
25 A proposito dell'inizio del canto XXII, il commen
« vult se excusare de turpi recitatione quam fecit supra
per id quod scribit Socrates, dicens: ' Que facere turp
puto ' » (G. Biagi, ed., La Divina Commedia nella figur
commento, 3 voli., Torino, Unione Tipografico-Editri
p. 531).
26 Per D. De Robertis, l'esordio è contrassegnato da « epicità » (In viaggio coi
demòni, in « Studi danteschi», LIII (1981), pp. 1-29). Sui registri stilistici dell'episodio,
vedi L. Spitzer, The Farcical Eléments in Inferno, Cantos XXI-XXIII, in « MLN »,
LIX (1944), pp. 83-88; V. Russo, Inf. XXII ο del «grottesco sublime», in II romanzo
teologico, Napoli, Liguori 1984, pp. 95-123; e, più di recente, M. Picone, che legge
i canti XXI-XXII sullo sfondo di « comiche » modalità culturali romanze, come incarnate
dai jongleurs e da testi come il Roman de la rose e il Fiore (vedi Giulleria e poesia nella
Commedia: una lettura intertestuale di Inferno XXI-XXII, in « Letture Classensi »,
XVIII (1989), pp. 11-30). Per la « carnevalizzazione del canto XXI », vedi P. Campo
resi, Il carnevale all'inferno, in II paese della fame, Bologna, Il Mulino 1978, pp. 23-51;
non sono d'accordo, tuttavia, con il suggerimento di Camporesi che il modo ludico
penetri nell'Inferno contro la volontà di Dante (« È l'inferno-carnevale della tradizione
subalterna a sforzare la penna dantesca» [p. 26]). Al contrario, vi entra come parte
della varietà narrativa decantata dal Tommaseo: « Sembra quasi che, dopo sfoggiata
nel XX Canto erudizione profana, e nel XIX dottrina sacra e poetico sdegno, in questi
due voglia riposare la propria mente e de' lettori con imagini che ben s'addicono al
titolo del Poema. All'aridità del II Canto abbiamo così veduta succedere la bellezza
del III; e alle enumerazioni del IV la grande poesia del seguente; e alla disputa sulla
Fortuna il furor dell'Argenti, e a questo la venuta dell'Angelo e le scene dei Farinata
e del Cavalcanti; e dopo la scolastica precisione del Canto XI e le enumerazioni del XII,
il Canto dei suicidi; e dopo la descrizione de' fiumi d'Inf., la scena con Brunetto e coi
tre Fiorentini; e innanzi alla tromba che suona pe' simoniaci, la faceta rappresentazione
di Venedico, d'Alessio, di Taide. Varietà mirabile se pensata; se inavvertita, più mirabile
ancora» (Biagi, vol. 1, p. 529).

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 185

ludo » [Inf. XXII, 118]) e il suo equivalente vernacolo, il basso buffa


(« Irato Calcabrina de la buffa » [Inf. XXII, 133]) ο beffa (« Questi
per noi / sono scherniti con danno e con beffa » [Inf. XXIII, 13-14]).
Tutti e tre i termini sono usati con riferimento alla serie di eventi in
cui Ciampolo inganna i diavoli riuscendo a rituffarsi nella pece, una
scena raccontata nell'ultimo terzo del canto XXI. La storia qui rac
contata è una storia bassa, colma di immagini prese dal mondo ani
male - una beffa alla Boccaccio se non fosse per la dimensione esca
tologica che richiede l'alto linguaggio « tragico »: questo è un nuovo
ludo, un gioco in cui non ci sono vincitori.27 La beffa perpetrata da
Ciampolo a danno dei suoi tormentatori porta alla rissa tra diavoli
alla fine del canto XXII, per cui i cuochi finiscono cucinati; questo
brano costituisce un alquanto schietto resoconto in forma novellistica
di ciò che difficilmente si potrebbe definire eventi « alti ». Tuttavia,
l'apertura del canto XXIII complicherà e intellettualizzerà retrospet
tivamente la fine, apparentemente semplice, del canto XXII, parago
nando la rissa dei diavoli ad un testo.
La « presente rissa » viene interpretata dal pellegrino in maniera
tale da sorreggere la notevole densità semiotica di questi canti; il
disagio nei confronti dei diavoli umiliati lo fa pensare alla storia della
rana e del topo nelle Favole di Esopo:

Vòlt'era in su la favola d'Isopo


lo mio pensier per la presente rissa,
dov'el parlò de la rana e del topo;
ché più non si pareggia « mo » e « issa »
che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia
principio e fine con la mente fissa.
(!«/. XXIII, 4-9)

27 Può darsi che Boccaccio abbia avuto in mente quest'episodio nel comporre
Decameron IV, 2, la storia di frate Alberto e madonna Lisetta: il salto del frate nel
Canal Grande verso la salvezza e lontano dagli irati fratelli di Lisetta sembra modellato
sul balzo di Ciampolo nella pece. A sostegno di questa interpretazione, vorrei ricordare
che la seconda novella della quarta giornata è la storia veneziana di Boccaccio, e che la
bolgia dei barattieri comincia con la similitudine dell'arsenale veneziano; e più impor
tante ancora, quella è una storia anomala per il Decameron, per il fatto che l'ingegno
di frate Alberto non riesce alla fine a salvarlo. Come Ciampolo, Alberto gioca un gioco
in cui non si vince, un nuovo ludo. Si noti che, rispetto a un peccatore, nuovo ha
assunto un capovolto significato infernale; si riferisce alla incapacità di andare avanti,
di essere mai « nuovo ». Usi simili sono il « color novo » e le « novelle spalle » assunti
dai ladri nelle loro immote metamorfosi (Inf. XXV, 119, 139). Per contrasto, riferendosi
al pellegrino, l'aggettivo conserva la sua valenza positiva, implicando la sua capacità di
rinascita e movimento in avanti; vedi Inferno XXIII, 71-72.

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186 Teodolinda Barolini

L'implicito parallelo tra la storia racconta


vola che la chiosa, sorregge l'identificazio
lo stile basso, uno stile che non rifugge d
che non ha più paura di umiliarsi di quan
scani a cui i due viandanti vengono para
XXIII: « Taciti, soli, sanza compagnia /
l'altro dopo, / come frati minor vanno p
Invero, la volgare rissa a cui il poeta si rif
canto XXIII è stata raccontata senza ver
ressante notare che il solo altro uso di rissa è la forma verbale adot
tata da Virgilio in risposta a quello che egli considera un eccessivo
interesse da parte del pellegrino per il piato ο litigio tra Sinone e
Maestro Adamo: « Or pur mira, / che per poco che teco non mi
risso! » (Inf. XXX, 131-132). Dunque Virgilio suscita vergogna nel
pellegrino per quell'interesse nell'osservare una rissa, ma il poeta
non mostra alcuna vergogna per aver narrato una rissa simile nel
canto XXII; piuttosto, colloca la sua rappresentazione entro l'umile
moralità della tradizione esopica. Questo passaggio quindi conforta
la mia precedente lettura del canto XXX, in cui sostenevo che Vir
gilio aveva torto a rimproverare il pellegrino per voler affrontare
tutta la realtà che l'inferno può offrire; se non guarda e ascolta, come
farà dopo a raccontare? 29 Significative come emblemi del basso stile
sono anche le umili parole che vogliono dire « adesso » - il momento
della conversione, della comprensione - che rappresentano i due ter
mini del paragone: m ο è usato in tutta la Commedia, mentre issa è
accostato prima alla favola di Esopo, poi allo sgonfiamento che Guido
da Montefeltro fa dell'elevato linguaggio eroico di Virgilio, e infine
al tributo di Bonagiunta a uno stile trascendentalmente piano, il dolce
stile nuovo che porterà al nuovo stile per eccellenza: la comedian

28 Kirkpatrick si riferisce a « the ' humble ' speech of the fable » (p. 279). Un'ulte
riore complicazione intertestuale è l'eco del cavalcantiano « e vanno soli, sanza com
pagnia, / e son pien' di paura » (« Io non pensava che lo cor giammai », 51-52).
29 « Far from being wrong, the pilgrim's wish to listen is right, for his is the
comedic desire to confront evil and to bear witness to ali of reality, including Hell »
(Dante's Poets, p. 238). D. L. Yowell sottolinea l'importanza dell'esortazione di Maestro
Adamo a guardare e ascoltare; vedi « Guardate e attendete »: Inferno XXX and the
Threat of Sensationalism, in « Lectura Dantis », VI (1990), in corso di pubblicazione.
30 Guido usa istra, una variante di issa: « Ο tu a cu' io drizzo / la voce e che
parlavi mo lombardo, / dicendo ' Istra ten va, più non t'adizzo ' » (ί«/. XXVII, 19-21);
per le implicazioni di questi versi, vedi Dante's Poets, pp. 231-232. Bonagiunta usa
issa per segnalare la sua conversione al comprendere: « ' Ο frate, issa vegg'io ', diss'elli,
' il nodo / che Ί Notato e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch'i'
odo! ' » (Purg. XXIV, 55-57).

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 187

Nonostante le sue implicazioni riguardo il valore dello stile basso,


il parallelo tra la presente rissa narrata alla fine del canto XXII e la
favola della rana e del topo non genera certo chiarezza testuale. Rico
struiamo la successione degli eventi. Ciampolo propone di far venire
« suffolando » alcuni compagni barattieri, chiedendo che i diavoli si
tirino in disparte dall'orlo della ripa dove possono essere visti; quando
i diavoli accondiscendono, incitati da Alichino, Ciampolo si rituffa
nella pece, inducendo Alichino a tuffarglisi appresso, ma invano. Cal
cabrina, irato dalla fuga di Ciampolo, insegue Alichino, non per
aiutarlo ma per attaccarlo; si artigliano, e alla fine del canto sono
« impaniati » nella pece. Così come mo « pareggia » issa (Inf. XXIII,
7), questi eventi vengono definiti simili a duelli raccontati nella fa
vola del topo che domanda aiuto a una rana per attraversare un
fiume; dopo essersi legata il topo alla zampa, la rana si avvia e, nel
mezzo della corrente, comincia a immergersi, con l'intenzione di ucci
dere il topo. Il topo resiste; un nibbio giungendo a volo ghermisce
il topo e, per via del legaccio, si ha in premio pure la rana maligna.
Secondo la più comune interpretazione di questo passaggio Alichino
sarebbe il topo, Calcabrina la rana che avrebbe dovuto aiutarlo, e la
pece il nibbio che trionfa su di entrambi. Più recentemente, gli stu
diosi hanno cominciato a concentrarsi su un secondo livello di signi
ficati, suggerendo un'analogia prolettica tra la favola e la « caccia »
(/«/. XXIII, 33) che sta per aver luogo, per cui Dante sarebbe il
topo, Virgilio un'inconsapevole rana che mette in pericolo il topo,
e i Malebranche sarebbero il nibbio. Ciò che mi interessa qui, co
munque, non è la corretta interpretazione del passaggio, ma il fatto
che la sua interpretazione si è tradizionalmente dimostrata così ardua.
Il tentativo di stabilire le equivalenze tra i due gruppi di segni (ma
in realtà tre gruppi, se aggiungiamo la storia di Dante, Virgilio e i
diavoli) ha creato altrettante interpretazioni di quanti sono i modi
di combinare le varianti - i segni - che Dante ci ha fornito. Così
oltre alla lettura più accettata menzionata sopra, le possibilità esege
tiche che Hollander ha riassunto comprendono le seguenti combina
zioni:31 Ciampolo come topo, Alichino come rana, Calcabrina come
nibbio; Alichino come rana, Calcabrina come nibbio; Ciampolo come
rana, i diavoli come topo; Alichino come topo, Calcabrina come rana,
Barbariccia come nibbio; Dante e Virgilio come topo, i diavoli come

31 Vedi R. Hollander, Virgil and Dante as Mind-Readers (Inferno XXI and


XXIII), in «Medioevo Romaico», IX (1984), pp. 85-100.

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188 Teodolinda Barolini

rana, con l'aggiunta a volte di Ciampolo c


rana all'inizio, Calcabrina come rana alla
topo, Calcabrina e Virgilio come rana,
volte; Ciampolo e Dante come topo, Alich
Calcabrina e i diavoli come nibbio. Sen
equivalenze sono più plausibili di altre; ciò
che Dante abbia seminato un terreno semiotico abbastanza fertile da
farle germogliare tutte, persino la meno attendibile. In altre parole,
la storica mancanza di accordo critico riguardo l'applicazione della
favola agli eventi del poema fa parte di ciò che intende Dante, ov
vero l'ambiguità - la gerionesca fraudolenza - di tutti i segni, tutte
le rappresentazioni. Adottare un gruppo di segni (il testo della favola)
ad un altro (il testo del poema) non produce chiarezza ma confu
sione. E in realtà i due segni - we issa - la cui identità viene defi
nita base del paragone tra i più grandi gruppi di segni, sono essi stessi
irriducibilmente diversi.
L,a sequenza iniziale aei canto λλιιι e notevole ancne per la su
spense narrativa creata di contro alla « caccia » dei diavoli; sebbene
da un punto di vista teologico i viandanti sembrerebbero essere in
vulnerabili, protetti come sono da un mandato divino, da un punto
di vista narrativo è importante che il poeta possa stornare la narra
zione dal tedio potenziale di un intreccio interamente preordinato.
Un primo caso di tale intervento d'autore si trova nella sequenza
delle porte di Dite, dove Dante riesce a insinuare preoccupazione per
lo sviluppo degli eventi nella sua storia, più drammaticamente tra
mite il dubbio che coglie Virgilio nell'aspettare l'arrivo del messag
gero celeste: « ' Pur a noi converrà vincer la punga ', / cominciò el,
' se non ... ' » (Inf. IX, 7-8). L'anomala ellissi con cui Virgilio si in
terrompe crea un'atmosfera di suspense negativa, che controbilancia
la suspense positiva creata dalla fiducia con cui aveva annunciato
l'imminente arrivo del messo alla fine del canto precedente: « e già
di qua da lei discende l'erta » {Inf. Vili, 128). La manipolazione del
tempo narrativo per creare suspense - una letterale sospensione degli
eventi per generare incertezza riguardo il loro prossimo sviluppo - è
segnalata, nel canto Vili, dall'uso che fa il poeta di già.32 In In

32 II più straordinario uso di già per manipolare il tempo narrativo si trova nei
versi finali del poema, dove il suo uso in « ma già volgeva il mio disio e Ί velie »
contribuisce a creare l'illusione di tutto il tempo fuso in un eterno presente. Sanguineti
penetrantemente si riferisce al già di Dante come a uno « ' iam ' narrativo », e ne nota
l'uso frequente negli inizi dei canti (pp. 72 nota e 257).

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 189

ferno XXIII assistiamo ad un uso accelerato della medesima tecnica:


« Già mi sentia tutti arricciar li peli / de la paura » (19) è il verso
che inizia a costruire la suspense narrativa; poi il pellegrino avverte
Virgilio della sua paura dei Malebranche, dicendo « Noi li avem già
dietro; / io li 'magino sì, che già li sento » (23-24; il corsivo è mio).
Non appena Virgilio ha suggerito un modo per poter sfuggire a
P« imaginata caccia » (33), il narratore interviene con un altro già·.
« Già non compiè di tal consiglio rendere, / ch'io li vidi venir con
l'ali tese » (34-35). Il compito di già qui è di fare ciò che il narra
tore, vincolato dalla successione temporale, non può; l'avverbio sug
gerisce simultaneità, ci dà l'impressione che i diavoli siano addosso ai
viandanti prima che Virgilio abbia finito di parlare (mentre natural
mente, di fatto, il narratore è stato obbligato a registrare prima tutte
le parole di Virgilio, e soltanto dopo può passare agli inseguitori).
In tutto l'episodio c'è una tensione tra gli avverbi temporali, da un
lato, che denotano urgenza ed immediatezza (non solo già, ma tosta
mente [22], tosto [27], pur mo [28], sùbito [37], « tosto [46],
a pena [52]) e la parola imaginare, dall'altro, che relega i diavoli
all'eccitata immaginazione del pellegrino (« io li 'magino sì », « ima
ginata caccia »). Questa tensione rispecchia l'ambivalenza fondamen
tale del passaggio, causata dal conflitto tra principi teologici e narra
tivi: può essere fatto del male al pellegrino? I diavoli costituiscono
un vero pericolo? Dante manipola la sua narrativa in modo tale da
suggerire di sì, mettendosi contemporaneamente al sicuro da un punto
di vista teologico: la conclusione dell'episodio proclama l'impotenza
totale dei demoni al di fuori della loro bolgia, ma il poeta non chia
risce se gli avrebbero potuto fare del male mentre vi si trovava.33

33 Dicendoci che l'arrivo nella sesta bolgia rimuove ogni causa di paura - « ma
non lì era sospetto: / ché l'alta provedenza che lor volle / porre ministri de la fossa
quinta, / poder di partirs' indi a tutti tolle » (54-57) - il poeta se non altro implica
che c'era causa di sospetto nella quinta bolgia. L'illusione della presenza del pericolo
nell'inferno è simile all'illusione della presenza del peccato nel purgatorio, come dram
matizzato dall'arrivo del serpente nella valletta dei principi. Come la caccia dei diavoli,
la minaccia del serpente costituisce un gioco di prestigio narrativo, che serve a creare
tensione e a generare suspense in quella che sarebbe altrimenti una piatta esperienza
testuale. Di nuovo, questi esempi dimostrano la volontà di Dante di prendere provvedi
menti per controbattere la sua trama troppo prestabilita, con tutto che così facendo
oscura i nitidi contorni morali della sua narrazione. Russo nota l'esistenza di « momenti,
reali sul piano dell'intreccio narrativo, di timore, debolezza, negligenza, smarrimento,
stanchezza, impedimento, che spesso (con congrua rarefazione di frequenza dall'Inferno
al Paradiso) mettono in forse ο in crisi Π procedere oltremondano del personaggio,
creando di volta in volta nel lettore effetti di tensione narrativa atti a suscitare reazioni

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190 Teodolinda Barolini

Tra l'analogia alla favola di Esopo e la


voli, la sequenza iniziale del canto XXIII h
sia semantiche che strutturali. La lunga
con cui si apre il canto XXIV riprende l'am
rata dal confronto tra la favola e la riss
vere lo sgomento del pellegrino di front
cessiva riassicurazione quando la sua guid
tegno, Dante introduce la similitudine in
costernato da quello che pensa sia nev
scoperta che la neve è brina:

In quella parte del giovanetto anno


che Ί sole i crin sotto l'Aquario tem
e già le notti al mezzo dì sen vann
quando la brina in su la terra assemp
l'imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra
lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagn
biancheggiar tutta; ond'ei si batte l'
ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come Ί tapin che non sa che si facc
poi riede, e la speranza ringavagna,
veggendo Ί mondo aver cangiata facc
in poco d'ora, e prende suo vincastr
e fuor le pecorelle a pascer caccia.

(.Inf. XXIV, 1-15)

All'interpretazione più ovvia, secondo


flitto e Virgilio la campagna, dapprima
benigno, si può aggiungere almeno un al
secondo cui Virgilio è il villano (tratto i
Virgilio lo è da Malacoda) e Dante è la p
portamento del suo protettore e poi cond

di ' sorpresa ', curiosità, attenzione » (Il romanzo te


fa della figura di Virgilio come primo agente contro
vedi il mio Q: Does Dante Hope for Vergil's Salva
the Very Reason We Should Not Ask the Question
di pubblicazione.

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 191

tranquillo di lui.34 La possibilità di più di una interpretazione serve


di nuovo a drammatizzare la natura mutevole e per questo fonda
mentale ingannevole del linguaggio. Questa similitudine, che ci si
offre con minore polivalenza dell'analogia alla favola di Esopo, co
mincia ad esplorare le implicazioni di fallimento semiotico in un
altro modo, sollevando il problema della rappresentazione tramite
l'uso di un linguaggio artistico/mimetico. Il villanello crede erronea
mente che la brina sia neve perché la brina ha imitato la neve; ser
vendosi del lessico della mimesi, il poeta ci dice che la brina « assem
pra / l'imagine di sua sorella bianca ». Nel tentativo di raffigurare
neve, la brina si appropria dei modi dell'arte, e fallisce, perché come
ogni arte - ogni rappresentazione umana - è caduca, soggetta al
tempo: « poco dura a la sua penna tempra ». In contrasto alla situa
zione che troviamo in Purgatorio X, dove l'arte è equiparata alla na
tura e diventa reale, infallibile, qui la natura è equiparata all'arte,
facendosi fallibile, corruttibile, soggetta al tempo.35 Da un interesse
per i mutevoli valori dei segni, la meditazione di Dante si estende
ad affrontare le costrizioni della rappresentazione umana.
La similitudine, che è stata criticata per la sua erudizione e pre
ziosità, serve anche a marcare la transizione dallo stile novellistico
generalmente più basso che caratterizza i canti XXI-XXIII al più alto
stile classicamente ispirato che caratterizza i canti XXIV-XXV. Nella
bolgia dei ladri il poeta drammatizza il concetto di metamorfosi quale
rinascita, cambiamento, e movimento in avanti - scaturigini basilari
di questo poema - descrivendo la sua variante infernale: una meta
morfosi che non è cambiamento, non è rinascita, non è movimento
in avanti. Qui ci imbattiamo in anime eternamente soggette a una
copula grottesca in cui gli uomini diventano serpenti ο si fondono
con serpenti a formare un'empia unione dei due, solo per invertire e
ripetere la stessa trasformazione all'infinito. Per rappresentare questi

34 Vedi le note di M. Musa su questo canto, Dante's Inferno, Bloomington, Indiana


U. Press 1971, p. 202.
35 J. Ferrante nota che « Normally, we think of art imitating nature (cf. Inf. XI,
97-105), but here nature seems to imitate art, using its tools just long enough to deceive
its audience » (Good Thieves and Bad Thieves: A Reading of Inferno XXIV, in « Dante
Studies », CIV (1986), p. 87). La meditazione semiotica del basso inferno offrirà un
altro esempio di natura come artista imperfetta in Inferno XXXI, dove Dante si con
gratula con la natura per aver abbandonato l'arte di creare giganti: « Natura certo,
quando lasciò l'arte / di sì fatti animali, assai fé bene / per tórre tali essecutori a
Marte » (49-51). Per la problematica mimetica in Purgatorio X, vedi il mio Re-presenting
Wbat God Presented: The Arachnean Art of the Tenace of Pride, in « Dante Studies »,
CV (1987), in corso di pubblicazione.

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192 Teodolinda Barolini

scambi Dante forgia un linguaggio realistico


del poema:36
Co' piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterior le braccia prese;
poi li addentò e l'uno e l'altra guancia;
li deretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra 'mbedue
e dietro per le ren sù la ritese.
(/»/. XXV, 52-57)

Allo stesso tempo insignisce il contrapasso di piena dignità classica,


mettendo esplicitamente in relazione le sue metamorfosi con i poemi
epici classici che gli sono modello, vantandosi della sua superiorità
rispetto a Lucano e Ovidio. Un ibridismo stilistico particolarmente
aggravato balza all'attenzione in questi canti: non un prolungato stile
alto, né un prolungato stile basso, ma un ibrido che si potrebbe con
siderare il correlativo stilistico delle metamorfosi del canto XXV.37
Il linguaggio che descrive quelle metamorfosi rende in modo adatto
lo stile ibrido: si potrebbe pensare in termini di una perdita di iden
tità stilistica, e definirlo una fusione di due stili che si risolve in una
perversione inclassificabile, al punto che, come con il mostro creato
nella prima metamorfosi, « due e nessun l'imagine perversa parea »
{Inf. XXV, 77-78); ο si potrebbe pensare al modo in cui i due stili
si contaminano l'uno con l'altro, al punto che finiscono per rispec
chiarsi stranamente, scambiandosi la loro natura come nella seconda
metamorfosi, in cui « amendue le forme / a cambiar loro matera fosser
pronte » (Inf. XXV, 101-102). Dall'esortazione di Virgilio sulla fama,
così eloquentemente classica, e dal catalogo di rettili esotici, che ri
chiama la Farsalia di Lucano, alla volgarità linguistica e semiotica di
Vanni Fucci, il mulo che scaglia il suo gesto osceno contro Dio (ma

36 G. Almansi glossa la « stupenda turpitudine » di questo episodio notando,


rispetto al passaggio successivo, che « L'adesione, ovviamente, non è geometrica ο
matematica, bensì squisitamente sessuale » (I serpenti infernali, in L'estetica dell'osceno,
Torino, Einaudi 1974, pp. 37-88).
37 In Dante's Anti-Virgilian Villanello (Inf. XXIV, 1-21), in «Dante Studies »,
CU (1984), pp. 81-109, M. Frankel legge la similitudine come scritta in « two distinct
styles, one highly literary and rhetorically ornate, the other humble like an Evangelical
parable » (p. 92). Secondo questa prospettiva, si potrebbe vedere nella similitudine
l'inizio dello stile ibrido dei canti XXIV-XXV. Kirkpatrick nota « the incongruity
between the grandiloquence of the simile and the relative simplicity of the subject to
which it refers » (p. 303) e fa riferimento al « consciously ' vernacolar ' idiom of
Canto XXV » (p. 308).

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 193

capace anche di involuta oratoria profetica), questi canti raggiungono


una sintesi particolare, una nuova specie di stile che sa imitare l'or
rido operare di Dio, l'osceno scolpire che ridistribuisce la materia
secondo perverse nozioni di genere e forma. Se, come afferma il poeta,
la sua penna a volte mette insieme le cose alla rinfusa (« e qui mi
scusi / la novità se fior la penna abhorra» [Inf. XXV, 143-144]),
è perché è chiamato a rappresentare confusione; gli ibridi a cui deve
dar forma danno vita a un'arte ibrida che davvero è una novità.
Il canto XXIV è il settimo - e quello centrale - dei tredici di
Malebolge; è il primo di una serie di quattro canti fondamentali per
l'intera serie nel suo complesso. Il fatto che il canto XXIV segni un
nuovo inizio narrativo è indicato dalla risposta del pellegrino al
l'esortazione della sua guida; il suo « Va, ch'i' son forte e ardito »
(60) echeggia il precedente ammonimento di Virgilio, pronunciato
nell'entrare in Malebolge quando i viandanti si preparano a salire su
Gerione, « Or sie forte e ardito. / Ornai si scende per sì fatte scale »
{Inf. XVI, 81-82). Anche il secondo di questi versi viene ripreso nel
canto XXIV, laddove Virgilio ricorda al suo protetto che « Più lunga
scala convien che si saglia » (55); il verso successivo, « non basta da
costoro esser partito » (56), asserisce succintamente l'imperativo in
cessante del nuovo: non è sufficiente essersi lasciati alle spalle gli
ipocriti, poiché l'essenza del movimento in avanti dei viandanti è di
essere « nuovi / di compagnia ad ogne mover d'anca » {Inf. XXII,
71-72). Il nodo fondamentale a cui il nuovo inizio del canto XXIV dà
l'avvio include la più importante coppia classico/contemporaneo di
Malebolge, Ulisse e Guido. Dal momento che gli accoppiamenti di
Malebolge tra figure classiche e contemporanee servono, ora è chiaro,
ad articolare lo stile ibrido a livello di contenuto, si può dire che i
canti XXVI e XXVII ricapitolano i canti XXIV e XXV in forma radi
calmente diversa. Ciò che i canti XXIV-XXV realizzano unitamente,
grazie alla loro eterogeneità stilistica eccezionalmente omogenea, i
canti XXVI e XXVII raggiungono in maniera dialettica, opponendosi
l'un l'altro stilisticamente come i due protagonisti si oppongono sto
ricamente. I due protagonisti sono i mezzi attraverso cui tutti gli
interessi stilistici vengono trasmessi in questi canti, che sono tanto
psicologicamente densi quanto i canti precedenti sono psicologica
mente superficiali. Infatti, i canti XXVI e XXVII sono collegati non
solo perché entrambi descrivono la stessa bolgia, ma perché rappre
sentano in maniera simile, anomala in Malebolge: questi sono i soli
canti, dei tredici, in cui viene dato corpo ai drammi umani e in cui

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194 Teodolinda Barolini

si trovano personalità dominanti con le


coinvolti. Il fatto che questi due episodi
standosi in tandem, conferisce loro un p
dell'economia narrativa di Malebolge. D
perno (né desta sorpresa il fatto che sia i
diciassette che costituiscono la seconda m
se da un lato il suo stile alto sarà smascherato dal tono vernacolo del
canto successivo, dall'altro il suo alto stile costituisce un risultato ge
nuino, esso é - come l'eroe cui appartiene - veramente e consisten
temente « grande », limitato solo e precisamente dal non conoscere
limitazioni, dalla propria grandezza. Qui non c'è mescolanza: niente
è picciolo, tutto è alto·, in confronto ai vistosi fuochi d'artificio del
canto XXV, la retorica del canto XXVI è austera, sublimamente sem
plice. L'iniziale apostrofe a Firenze si mantiene legata agli ornamenti
oratori e ai virtuosismi della bolgia precedente; col progredire del
canto la voce narrativa prende sempre più la nota di passione a-passio
nata che caratterizzerà il proprio eroe, che davvero ne fa un eroe,
finché in ultimo la voce si smorza, assume la divina distensione della
voce di Dio, come la piatta superficie del mare che sommergerà Ulisse,
schiacciando le sue elevate ambizioni. L'alto stile anti-oratorio che
giunge al culmine alla fine del canto XXVI è forse la più chiara indi
cazione dell'impegno del poeta verso il protagonista di questo canto,
al quale conferisce almeno le cadenze di un'autentica nobiltà.
Con tutta la loro disparità, i canti XXVI e XXVII presentano un
fronte compatto, perché sono così diversi dai canti che li racchiu
dono; il canto XXVIII è infatti molto simile al XXV, psicologicamente
poco profondo e visivamente abbagliante. Anche retoricamente, in
dica la sua vistosità dall'inizio, esordiendo con una domanda retorica
(insolita per un gambetto iniziale) che illumina il narratore e la sua
arte: « Chi poria mai pur con parole sciolte / dicer del sangue e de
le piaghe a pieno / ch'i' ora vidi, per narrar più volte? » (Inf.
XXVIII, 1-3). Subito segue la mossa strategica quintessenzialmente
dantesca della contro-affermazione; i limiti della parola e della me
moria umana sono tali che qualsiasi lingua che intraprendesse questa
narrazione (il narrar del verso 3 è il terzo ed ultimo uso di questo
verbo in Inferno) fallirebbe sicuramente: « Ogne lingua per certo
verria meno / per lo nostro sermone e per la mente » (4-5). E tut
tavia il poeta narra, e la sua narrazione è notevolmente letteraria.
Incontriamo adesso la lunga accumulazione di Romani, Angioini, e
altri combattenti mutilati che caddero sui campi di battaglia del mez

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 195

zogiorno d'Italia; se essi s'adunassero e ognuno mostrasse le proprie


ferite, « d'aequar sarebbe nulla / il modo de la nona bolgia sozzo »
(20-21). Di nuovo notiamo l'auto-consapevolezza del testo per quanto
riguarda la sua missione raffigurativa; la sua impresa è di eguagliare
in modo testuale il « modo sozzo » adottato dalla realtà infernale,
che è classificata come se anch'essa fosse un genere ο uno stile, uno
stile sconcio, un « modo sozzo ». Questa suggestiva definizione po
trebbe essere interpretata come un altro modo di descrivere lo spe
ciale ibridismo che caratterizza la poetica di Malebolge; come nella
bolgia dei ladri, troviamo qui una materia sconciamente realistica
sposata ad una retorica elevata, le due congiunte in uno stile il cui
tratto distintivo è l'abilità di includere nell'arco di venti versi rife
rimenti tanto a Livio che al « tristo sacco / che merda fa di quel che
si trangugia » (26-27). Anche i canti XXV e XXVIII sono simili - e
tipici di una poetica post-Gerione - nella loro insistenza sulla verità
delle loro fantastiche rappresentazioni, come enfaticamente dimostrato
dall'intervento del poeta che precede l'arrivo di Bertran de Born:
« Io vidi certo, ed ancor par ch'io Ί veggia, / un busto sanza capo »
(118-119); qui l'applicazione del « principio di Gerione » è ulterior
mente rafforzata dall'uso del presente con l'avverbio ancora che con
ferisce l'intero peso dell'autorità visionaria del poeta.38 In più, viene
introdotta una variante nella strategia di Gerione; laddove nel canto
XVI Gerione era una verità fantastica (un ver c'ha faccia di menzogna,
un mirum verum, una cosa incredibile e vera) che il pellegrino doveva
assimilare, ora i ruoli vengono rovesciati. Ora il pellegrino diventa
la fonte di meraviglia per le anime; egli provoca in loro la stessa
maraviglia che Gerione gli aveva provocato (« s'arrestaron nel fosso a
riguardarmi / per maraviglia » [53-54]). Qui Virgilio assume il ruolo
del poeta, insistendo sulla verità di ciò che ha appena raccontato,
cioè lo straordinario itinerario del pellegrino: « e quest'è ver com'io
ti parlo » (51). Virgilio è analogo al poeta, il pellegrino all'incredibile
verità, il ver c'ha faccia di menzogna, narrato dal poeta, e i peccatori
sono analoghi a noi, i lettori chiamati a credere. In questo modo
Dante carica la già enorme auto-consapevolezza dell'episodio di Ge

38 Con « principio di Gerione » mi riferisco alla strategia, inaugurata con l'arrivo


di Gerione, per cui Dante collega gli elementi meno verosimili del suo poema alle più
spavalde affermazioni di essere un raccontatore di verità. Per una ulteriore elaborazione
su come questa strategia viene sviluppata in Inferno XVI, vedi il mio Arachne, Argus,
and St. John: Transgressive Art in Dante and Ovid, in « Mediaevalia », XIII (1989),
pp. 207-226.

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196 Teodolinda Barolini

rione con un'ancora più grande - se possib


che cela le sue tracce restando interamente d
stesso momento in cui subliminalmente ci
la nostra reazione, ed assegnandoci ruoli n
Lo stile ibrido raggiunge l'apice nei canti
grottesche patologie fanno da sfondo a un
prende lamenti in stile cavalcantiano che p
litudini domestiche di teglie e maiali, una
volentiae basata sul desquamarsi come un p
ovidiane, echi biblici e la volgare rissa tra
La giustapposizione tra il crudo verbo lecca
per indicare l'acqua crea il verso « e per
cisso » (/«/. XXX, 128), scelto da Battagli
della poetica che governa questi canti.39 D
il modo in cui l'ultima bolgia porta a comp
dolenza semiotica e raffigurativa; raggrup
impersonifica tori, falsari e bugiardi sotto la
(.Inf. XXIX, 57), Dante commenta su travis
ingannevoli, i pericoli della mimesi. In par
zioni affiorano nell'incontro con gli alchim
Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioc
« I' mi saprei levar per l'aere a vol
e quei, ch'avea vaghezza e senno po
volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo
perch'io noi feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l'avea per figliolo.
{Inf. XXIX, 112-117

Grifïolino qui evoca lo spettro di un'art


avrebbe dovuto insegnare a Albero da Sie
volo nell'aria, l'arte di farsi Dedalo. Dante

39 La Battaglia Ricci scrive dell'« imprevedibile alle


zionalmente antitetici » e di un « discorso letterari
stilnovistica, ora giocoso-realistica ora biblica, ora vir
la tradizione letteraria medievale, Pisa, Giardini 198
che « the play of language between the pôles of rhet
(note 'Dedalo' at 116) and banter, gossip and anecd
procedure throughout the Malebolge » (p. 382). Anc
due canti di Malebolge in questi termini, notando le
imprevedibili » (p. 322) del canto XXIX, e caratteriz
esempio di «politonalità» dantesca (p. 337).

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 197

consumata che riesce a violare i confini tra arte e natura, consentendo


agli uomini di fare ciò di cui la natura non li ha dotati: volare, come
dice Virgilio di Dedalo, con il « remare delle ali » (« remigium ala
rum »), mentre l'Ulisse di Dante riesce a volare « sulle ali dei remi ».40
Farsi Dedalo vuol dire, secondo il racconto ovidiano, riuscire a rivol
gere il pensiero a arti sconosciute e cambiare le leggi della natura
(« ignotas animum dimittit in artes / naturamque novat »), creare
per imitazione ali che sembrino e funzionino come le vere ali degli
uccelli (« ut veras imitetur aves »), possedere abilità fatali (« damno
sas ... artes ») che mettano in grado di essere presi per un Dio (« cre
didit esse deos »), e che si arrivi ad esecrare (« devovitque suas
artes »).41 Il fatto che queste arti trasgressive siano mimetiche è evi
denziato dal secondo alchimista, Capocchio, che ricorda al pellegrino
come lui fu « di natura buona scimia » (Inf. XXIX, 139), dandoci
così essenzialmente una definizione di mimesi.42 Ma se Dante qui con

40 H. Shankland fa notare che quel « dei remi facemmo ali » di Dante è « actually
a reversai of the Virgilian tag retnigium alarum, that is ' delle ali remi originally
applied to the sure flights of Mercury and Daedalus in Aeneid 1.301 and 6.10» (Dante
Aliger and Ulysses, in « Italian Studies », XXXII (1977), p. 30). L'immagine ricorre
nel racconto ovidiano della caduta di Icaro: le ali del ragazzo si sciolgono ed egli sbatte
invano le braccia nude, « remigioque carens » (Metam. Vili, 228). Dunque, in Virgilio
e in Ovidio l'immagine che Dante adotta come emblema principale di Ulisse è associata
a Icaro e a Dedalo, stabilendo la doppia analogia della Commedia·, come volatore spa
ventato, il pellegrino è paragonato a Icaro; come artista che completa il proprio volo,
Dante è analogo a Dedalo, che arrivò a Cuma. Per la derivazione neoplatonica di
remigium alarum, vedi J. Freccerò, The Prologue Scene, orig. 1966, in Oante: The
Poetics of Conversion, ed. R. Jacoff, Cambridge, Harvard U. Press 1986.
41 I versi citati sono, nell'ordine: Metamorfosi Vili, 188-189, 195, 215, 220, 234.
Il testo è tratto dall'edizione Loeb di F. J. Miller, 2 voli., orig. 1916, Cambridge,
Harvard U. Press 1971.
42 Vedi E. R. Curtius, The Ape as Metaphor, in European Literature and the
Latin Middle Ages, orig. 1948, Princeton, Princeton U. Press 1973, pp. 538-540. La
metafora è ancora d'uso corrente, come testimoniato dal titolo Art, the Ape of Nature
(Studies in Honor of H. W. Janson, eds. M. Barasch and L. F. Sandler, New York,
Abrams 1981). Curtius non include nella sua raccolta il passaggio del Convivio in cui
Dante nega che i pappagalli parlino come uomini ο che le scimmie si comportino come
gli uomini; la loro rappresentazione non è reale, perché non guidata dalla ragione:
« Onde è da sapere che solamente l'uomo intra li animali parla, e ha reggimenti e atti
che si dicono razionali, però che solo elli ha in sé ragione. E se alcuno volesse dire
contra, dicendo che alcuno uccello parli, sì come pare di certi, massimamente de la gazza
e del pappagallo, e che alcuna bestia fa atti ο vero reggimenti, sì come pare de la scimia
e d'alcun altro, rispondo che non è vero che parlino né che abbiano reggimenti, però
che non hanno ragione, da la quale queste cose convegnono procedere; né è in loro lo
principio di queste operazioni, né conoscono che sia ciò, né intendono per quello alcuna
cosa significare, ma solo quello che veggiono e che odono ripresentare» (III, vii, 8-9).
A differenza delle scimmie, i falsari posseggono la ragione, e sono quindi responsabili
delle loro imitazioni. Nel contesto dell'imitazione poetica, è interessante notare che la
Commedia fu accusata di essere una « bella simia de' poeti »; vedi G. Gorni, Il nodo
della lingua e il verbo d'amore, Firenze, Olschki 1981, p. 137.

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198 Teodolinda Barolini

danna la mimesi dei falsari come travisam


neamente insiste sull'immunità della sua s
zione unica è riaffermata in questo canto p
stizia infallibile, a cui sola spetta di punire i
in questo testo: « infallibil giustizia / pun
gistra » (Inf. XXIX, 56-57).43 Ancora una
il problema del suo realismo, della sua arr
quella di Dedalo, dimostrando di essere con
ulissianamente « folle » del suo progetto,
proprio mandato di poter praticare tali art
Il canto XXXI è più descrittivo che dram
sizione (dall'ottavo al nono cerchio) e di an
nominato per la prima volta in XXXI, 143),
l'ideologia della superbia della Commedi
mente una ribellione, e quindi una trasgre
gno come nel caso di Fialte, « Questo s
esperto / di sua potenza contra Ί sommo Gio
Non senza significato, alla luce della medit
venuti tracciando, la superbia e i danni ch
una focalizzazione linguistica, in relazione
da parte di Nembrot della torre di Babele,
linguaggio nel mondo non s'usa » (78). La t
suo desiderio di essere « alto » come Dio (n
suo « alto corno » [12] e dell'« alta guerr
« santa gesta » [17] di Carlomagno),45 risu

43 Seguo il suggerimento di R. Hollander per il q


i falsador che qui registra » si riferisce al testo dell
of the Dead »: A Note on Inferno XXIX 57, in « S
pp. 31-51, dove Hollander nota anche che gli alchimis
of the poet's role of fabricator » (p. 34).
44 II desiderio di Fialte di essere esperto ricorda
« del mondo esperto » e il suo successivo invito a «
mondo sanza gente» (Inf. XXVI, 98, 116-117). L'imp
cato di superbia in Inferno XXXI sarà confermata in
di superbia ripropongono la stessa configurazione
compreso Nembrot, e - come controfigura di Ulisse -
45 Kirkpatrick nota che lo squillo di tromba di R
sequence dominated by images of the Apocalypse - to
Last Judgement » (p. 393); allo stesso tempo cons
type » (392). Tale eterogeneità caratterizza lo stile
questa ragione Kirkpatrick può affermare sia che « Th
in the last two bolge, where the two most spectacu
- War and Pestilence - are allowed free rein » (p.
« triviality reaches its climax» (p. 382).

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 199

che affligge il genere umano nella forma di diversità, mancanza di


identità, perdita di « una medesima lingua » (l).46 Per di più, il falli
mento in questo ambito è necessariamente comunicabile; l'incom
prensibile balbettio di Nembrot minaccia i viandanti con la sua stessa
incomprensibilità, come suggerisce Virgilio: « Lasciànlo stare e non
parliamo a vóto; / ché così è a lui ciascun linguaggio / come Ί suo
ad altrui, ch'a nullo è noto » (79-81). La frase parlare a vuoto indica
l'insuperabile distanza, lo spazio vuoto tra res e signum che è parte
della decaduta condizione dell'uomo. Come di consueto in Dante, il
riconoscere la radicale inadeguatezza raffigurativa consolida la sua
dedizione a superare tali mancanze, a essere di natura buona scimia,
a trovare il linguaggio che eliminerà la diversità, attraversando lo
spazio tra ciò che il De Vulgari Eloquentia definisce gli aspetti razio
nali e sensibili del linguaggio, cioè tra il senso e il suono, il significato
e il significante, « sì che dal fatto il dir non sia diverso » (Inf. XXXII,
12).47 Arrivare a un linguaggio che sia indivisibile dalla realtà, che
adempia al compito di « discriver fondo a tutto l'universo », è l'« im
presa » che il poeta stesso si assegna esplicitamente nel grande esordio
che segna l'ultima delle divisioni dell'inferno, quasi l'ultimo suo nuovo
inizio, e certo l'inizio della sua fine:

S'io avessi le rime aspre e chiocce,


come si converrebbe al tristo buco
sovra Ί qual pontan tutte l'altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch'io non l'abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
né da lingua che chiami mamma ο babbo.

46 Le prime tre parole del canto possono così essere prese, fuori contesto, per
annunciarne il tema.
47 L'idea dell'attraversare è presente nel De Vulgari Eloquentia, dove Dante discute
la doppia natura del linguaggio in termini di bisogno per il genere umano di attraversare
la distanza tra il razionale ed il sensibile, usando il verbo pertransire·. « Quare, si tantum
rationale esset, pertransire non posset; si tantum sensuale, nec a ratione accipere nec
in rationem deponere potuisset » (I, in, 2). Si potrebbe guardare alla Commedia come
a un oggetto che da un lato cerca di eliminare il bisogno di passare dal suono percepibile
(il significante) al suo senso razionale (il significato) rendendoli indivisibili, e che
dall'altro è consapevole dell'impossibilità di un'impresa il cui consumarsi ci renderebbe
angeli. In questo senso, la Commedia è, come la torre di Babele, una « ovra inconsumma
bile » (Par. XXVI, 125).

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200 Teodolinda Barolini

Ma quelle donne aiutino il mio verso


ch'aiutaro Anfìone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.

(Inf. XXXII, 1-12)

Questa grande cascata di linguaggio metapoetico celebra il principio


fondamentale del decoro stilistico dantesco: il linguaggio non deve
differire dalla realtà. Ciò che è stilisticamente conveniens48 è ciò che
si adatta meglio alla realtà da rappresentare, sì che dal fatto il dir non
sia diverso. Di conseguenza, abbiamo raggiunto un « loco onde par
lare è duro » (/«/. XXXII, 14), dove il linguaggio deve farsi altret
tanto duro quanto quel che descrive.49
Il narratore si avvicina alla fine della prima tappa del suo viaggio.
Il suo desiderio di far coincidere il dir con il fatto rimanda all'inizio
del viaggio, quando ha espresso la preoccupazione che « molte volte
al fatto il dir vien meno » (Inf. IV, 147; il corsivo è mio). Nel rag

48 L'uso di convenire al secondo verso del canto XXXII echeggia il decoro infer
nale del canto precedente, che ha costretto Nembrot a farfugliare un discorso inintelle
gibile, dato che si tratta di uno « cui non si convenia più dolci salmi » (XXXI, 69).
49 Dante aveva a lungo cercato quel che G. Contini chiama « la conversione del
contenuto nella forma »: nei versi « Così nel mio parlar voglio esser aspro / com'è
ne li atti questa bella petra », si osserva una prima versione dei dir e fatto che troviamo
in Inferno XXXII. (Per il commento di Contini, vedi la sua edizione delle Rime di
Dante, orig. 1946, Torino, Einaudi 1970, p. 165). Nella stessa canzone il poeta ci dice
che il peso che lo sommerge « è tal che non potrebbe adequar rima » (21). Molto pro
babilmente Dante aveva in testa il suo precedente esperimento di discorso aspro quando
compose Inferno XXXII: l'ultima stanza della canzone comincia «S'io avessi le belle
trecce prese », un verso che troverà eco in « S'io avessi le rime aspre e chiocce ». In
più, nel canto XXXII il desiderio di tirare le trecce della canzone diventa « realtà »
quando il pellegrino tira i capelli di Bocca degli Abati. Laddove io vedo il tentativo di
forgiare un linguaggio duro come deliberata scelta rappresentativa, Kirkpatrick vede
in questi echi delle rime petrose una conferma della sua tesi sull'Inferno come testo
sempre più immorale (pp. 410-411). Se nel canto XXI l'autore della Commedia si coin
volge « in a piece of narrative chicanery » (p. 276) inventando un ponte rotto, e se il
brano della baratteria nel suo complesso mette a rischio « the literary integrity of the
Commedia itself » (p. 268), quando si arriva a Branca Doria alla fine del canto XXXIII
Dante sta ormai componendo poesia di cui « he might have been ashamed » (p. 432).
L'eterogeneità stilistica del basso inferno costituisce dunque una deviazione morale
da parte del poeta, piuttosto che una rappresentazione di una deviazione morale da
parte dei peccatori: « The desire for free and simple utterance was the heartfelt motive
of his earlier poetry; in writing a narrative as many-voiced as the Inferno, the poet
has put in jeopardy, or even risked betraying, the origin and end of that authentic
inspiration » (p. 432). Questa interpretazione dimostra come l'interesse di Kirkpatrick
per le proprietà narrative del poema sia distorto dalle lenti morali con cui vede le
preoccupazioni formali; il suo interesse per «the ethical act of writing» (p. 435) lo
porta a confondere il contenuto del testo con la sua forma. Dentro la sala degli specchi
di Dante, Kirkpatrick ha girato una volta di troppo: piuttosto che semplicemente
teologizzare ciò che è stato rappresentato, come Dante si sforza di farci fare, egli teolo
gizza l'atto stesso della rappresentazione.

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 201

giungere la conclusione, il viaggio narrativo si ricapitola e rispecchia,


come se il ghiaccio vetroso di Cocito fornisse uno specchio all'auto
analisi del poeta oltre che del pellegrino. Così, una figura all'interno
della rappresentazione, Bocca degli Abati, costruisce una rappresen
tazione della stessa rappresentazione, rispecchiando le tecniche raffi
gurative del poeta; al pellegrino che si è presentato come racconta
tore di verità, dicendo « io porterò di te vere novelle » (Inf. XXXII,
111), Bocca replica appropriandosi della più fondamentale strategia
della Commedia, quella di dire « Io vidi »: « ' Io vidi potrai dir,
' quel da Duera / là dove i peccatori stanno freschi ' » {Inf. XXXII,
116-117). Egli - un personaggio dentro una finzione la quale sostiene
che il proprio protagonista ha visto davvero quel che dice di aver
visto - dice al protagonista cosa dire di aver visto. Il risultato è che
ancora una volta Dante carica vertiginosamente uno dei suoi mecca
nismi di autenticazione; lo fa ο attirando l'attenzione verso di essi
in quanto oltraggiosamente inautentici (nel caso di Gerione), ο li sep
pellisce dentro la narrazione, cosicché ne siamo manipolati senza sa
pere che vi si trovano. Se da un lato si possa dire che una tecnica di
questo tipo dimostra auto-consapevolezza d'autore, ben più formida
bilmente dimostra l'abilità dell'autore di manipolare il gioco di spec
chi testuale a vantaggio della propria narrativa. Un sommo esempio
di tale specularità testuale si trova alla fine di Inferno XXXIII, nel
l'incontro del pellegrino con frate Alberigo, che spiega come le anime
della zona Tolomea siano, in via eccezionale, già all'inferno mentre
i loro corpi sono ancor sulla terra, dove sono posseduti da diavoli.
Dante in questo punto sta caricando la sua finzione maestra: invece
di morti che « vivono », dobbiamo ora confrontarci con l'idea di vivi
già morti. Quando i lineamenti della finzione divengono più difficili
da afferrare, si soccombe ad essa più prontamente, specialmente quando
il testo riproduce al suo interno il nostro rapporto con esso, come
accade nel dialogo tra il pellegrino e Alberigo: sembra che Branca
Doria, un nobile genovese condannato al nono cerchio per l'omicidio
di suo suocero, Michele Zanche (un sardo collocato da Dante tra i
barattieri), sia in realtà morto. Il pellegrino è incredulo; Alberigo sta
certo mentendo: « ' Io credo ', diss'io lui, " che tu m'inganni; / ché
Branca Doria non morì unquanque, / e mangia e bee e dorme e veste
panni ' » {Inf. XXXIII, 139-141). Così il pellegrino è adesso nella
posizione del lettore, di fronte a una verità incredibile, un ver c'ha
faccia di menzogna (così come precedentemente, nella versione di
questo gioco di specchi data dal canto XXVIII, i peccatori interpre

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202 Teodolinda Barolini

tavano il ruolo del lettore). Come fa Albe


tiene alla finzione - a persuadere il pelleg
appello alla « realtà », vale a dire alla stes
appartiene. La sua replica è uno dei mome
dinari della Commedia, poiché il testo fa
narrazione sorregge la credibilità della nar
diss'el, ' de' Malebranche, / là dove bolle
ancora giunto Michel Zanche, / che que
vece / nel corpo suo ' » (Inf. XXXIII, 1
menti al testo dell' Inferno - ai Malebranc
bolgia dei barattieri - il pellegrino è conv
specchiato e in questo modo sovvertito su
a credere del lettore, conclude il canto aff
tutto normale ciò che ha saputo da Alber
vato - « trovai » (155) - uno spirito che in
mentre in corno era ancora sulla terra.50
Tra queste concentrate repliche della po
c'ha faccia di menzogna si trova l'ultimo
narrativo dell'Inferno, il rimodellamen
« bestiai segno » che già lo caratterizza alla f
zannare la nuca di Ruggieri — nel più orn
sua orazione nel canto XXXIII. La consape
storia che Ugolino ha, l'estrema astuzia n
di attirarsi la simpatia del pellegrino, son
mentate in anni recenti.51 Per quel ch
vrebbe notare che l'auto-consapevolezza d
che un'auto-analisi d'autore: dopotutto la

50 Ora che la finzione è stata accettata come re


finzione: « e in corpo par vivo ancor di sopra » (1
sufficientemente scandalosa da aver provocato una r
cui Branda Doria (che sembra fosse ancora vivo n
facendolo picchiare (vedi G. Papanti, ed., Dante, sec
Livorno, Vigo 1873, pp. 151-153). In più, la strategia
mente oltraggiosa di quanto lo è testualmente, dato
anime dell'opportunità di pentirsi dei loro peccati. C
of thought, the passage is not only heretical, but also
principles of Dante's Christianity: first, his underst
soul as both a sacred and a logicai necessity; and, sec
responsibility of the human will » (p. 429). Si dovreb
Niccolò III riguardo la ventura dannazione di Bonif
blematico rispetto alla libera volontà di Bonifacio.
51 Vedi G. Barberi Squarotti, L'orazione del con
liane », XXIII (1971), pp. 3-28; P. Boitani, Ugolino
teschi », LUI (1981), pp. 31-52.

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 203

lino include il racconto di un paesaggio fantastico molto vicino a


quello di Inferno I, dove pure compaiono e rivestono significato lupi
e cani da caccia allegorici. In più, la latente componente auto-rifles
siva del canto XXXIII è potenzialmente più esplosiva, per esempio,
della componente auto-riflessiva di Inferno V, che investe il passato
lirico del poeta piuttosto che il suo presente narrativo. Se il sogno
profetico è un meccanismo narrativo che Ugolino sa sfruttare, allora
indubbiamente è un meccanismo narrativo che Dante sa utilizzare
altrettanto bene;52 se Ugolino è un raccontatore troppo bravo, troppo
bravo è anche il narratore della Commedia. Di conseguenza, il poeta
fa valere la propria autorità narrativa su quella di Ugolino con forza
e aggressività singolari, lanciando la feroce invettiva contro Pisa, e
attirando l'attenzione su di sé, come codificatore semiotico del « bel
paese là dove Ί sì suona » (!«/. XXXIII, 80),53 e come narratore dal
supremo controllo artistico sul discorso di Ugolino: « Innocenti facea
l'età novella, / novella Tebe, Uguccione e Ί Brigata / e li altri due
che Ί canto suso appella » (!«/. XXXIII, 88-90; il corsivo è mio).
Questa terzina ostentatamente riafferma l'autorità del narratore sopra
il proprio testo, il canto in cui questi nomi sono stati iscritti,54 per di
più appropriandosi della parola con cui Ugolino aveva cominciato il
suo discorso, rinovellare, e interpretandola in termini di poetica del
nuovo. Mentre Ugolino comincia il suo discorso con una formula vir
giliana - « Tu vuo' ch'io rinovelli / disperato dolor » (Inf. XXXIII,
4-5) - che suggerisce come il dannato aspiri a rinnovarsi grazie alla

52 Interessantemente, Boitani categorizza sia l'esordio dantesco del canto XXXII


che il sogno di Ugolino come meccanismi narrativi di autenticazione, riferendosi a
M. Bloomfield, Autbenticating Realism and the Realism of Chaucer, in « Thought »,
XXXIX (1964), pp. 335-358.
53 Dante qui ci sta ricordando il trattato in cui classifica i vari linguaggi parlati
nel bel paese, e dove per la prima volta si riferisce all'italiano come la lingua di sì.
Per ulteriori rapporti tra il De Vulgari Eloquentia e questa parte del poema, in cui
ci viene fatto assistere a un « betrayal of [man's] very essence as speaker according
to the définition in the treatise » (p. 137), vedi D. L. Yowell, Ugolino's « bestiai
segno»: The De Vulgari Eloquentia in Inferno XXXII-XXXIII, in «Dante Studies »,
CIV (1986), pp. 121-143.
54 II contesto scritto che ha assorbito il canto, orale in origine, è connotato dal
l'avverbio suso-, il poeta fa riferimento ai giovani familiari i cui nomi sono registrati
sopra, nel testo scritto. Non sono d'accordo con J. Tambling, che vede nell'episodio
i segni di una « impasse » di Ugolino per cui « a writer who continued in the Inferno
mode would soon have to cease writing altogether » (Dante and Différence: Writing
in the Commedia, Cambridge, Cambridge U. Press 1988, p. 82). Questa interpretazione
procede dal sospendere la consapevolezza del poeta che compone, che non mostra alcuna
difficoltà nel passar oltre Ugolino, che non soffre di alcuna impasse, a cui non si secca
affatto la lineua nel rispondere alla narrazione di Ugolino con l'aspro atto d'accusa contro
Pisa. Non è abbastanza dire « The address to Pisa is a separate thing » (p. 82).

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204 Teodolinda Barolini

retorica, il poeta termina l'incontro con u


novella, il quale ci dice che Ugolino non s
varsi è solo per gli innocenti (come i figli
dalla loro età novella), coloro che sarann
fronde » alla fine del Purgatorio. Per cont
sere nuovo nel senso che Pisa è una novel
morta ripetizione, come le novelle spalle
fernali metamorfosi. La doppia appropriaz
del narratore, in risposta alla speranza di
Ugolino, è un modo di finirlo completame
fa il racconto, che procede oltre - verso il
voltarsi indietro, con quel « Noi passamm
del verso successivo.
La retorica di Ugolino mira a farci dimenticare che per lui i vin
coli familiari erano sempre stati vincoli politici, sempre legami che la
sua nocente avidità potesse sfruttare. E tuttavia il canto XXXIII,
preso nel suo insieme, non è evasivo; anzi, è impregnato delle per
sone e degli eventi che avevano forgiato la politica del conte, una
politica il cui nodo centrale era stato la Sardegna, possedimento pi
sano. Ugolino era il vicario di Sardegna del re Enzo, figlio di Fede
rico II; 55 il figlio di Ugolino, Guelfo, aveva sposato Elena, figlia di
Enzo, e i nipoti di Ugolino avevano ereditato i possedimenti sardi di
Enzo. Il genero di Ugolino, Giovanni Visconti, aveva anche lui po
tere sull'isola in quanto giudice di Gallura, come lo era il figlio di
Giovanni, e nipote di Ugolino, Nino Visconti, che Dante saluta nella
valletta dei principi con il suo titolo sardo: « giudice Nin » (Pur g.
Vili, 53). Questi vincoli cominciano a manifestarsi in Inferno XXXIII
quando Ugolino dice che Ruggieri gli apparve, in sogno, come « mae
stro e donno » (28); donno è parola sarda che troviamo solamente qui
e in Inferno XXII, dove viene usata nella descrizione dei barattieri
sardi. Uno di loro è « frate Gomita, / quel di Gallura » (Inf. XXII,
81-82), vicario di Nino Visconti, il signore ο donno di cui liberò i
nemici per denaro. L'altro è « donno Michel Zanche / di Logodoro »
{Inf. XXII, 88-89), un nobile sardo che dapprima parteggiava per
Genova invece che per Pisa; fu ucciso dal suo genero genovese Branca
Doria, ο per brama dei suoi possessi sardi ο a causa della sua succès

55 Vedi la voce Ugolino di S. Saffiotti Bernardi, nella Enciclopedia Dantesca,


Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana 1970-1978; a proposito del titolo di Ugolino,
fa notare che « probabilmente il conte usava questo titolo di vicario, ormai privo
di contenuto, per legittimare le sue pretese sarde » (voi. 5, p. 795).

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 205

siva propensione per Pisa. La Sardegna come catalizzatore di avidi in


teressi compare in tutte queste vicende drammatiche, e certo frate
Gomita, traditore di Nino Visconti, e Michel Zanche, tradito da Branca
Doria, parlano sempre della Sardegna: « e a dir di Sardigna / le lin
gue lor non si sentono stanche » (!«/. XXII, 89-90). La Sardegna
unisce tutti questi peccatori in quanto oggetto delle loro brame e con
tese, e Ugolino fu un protagonista altrettanto rapace (non per niente
in sogno si vede nelle vesti di un lupo) degli altri. La famiglia guelfa
dei Visconti e quella ghibellina dei Gherardesca, tradizionalmente
opposte, si allearono per proteggere i loro possessi sardi, un'alleanza
che portò Ugolino e suo nipote Nino a condividere la magistratura.
Così come il poeta collega i peccatori dei canti XXII e XXXIII me
diante le loro brame verso la Sardegna, allo stesso modo collega le
due città che desiderarono l'isola: il canto XXXIII contiene non solo
l'imprecazione contro Pisa, ma anche un'invettiva finale contro Ge
nova, le ultime due apostrofi civiche dell'inferno. Questi legami sono
importanti per capire lo sfondo storico contro cui Ugolino tradì e fu
tradito; essi inoltre fanno del canto XXXIII un magazzino di temi e
motivi infernali. Dalla menzogna veritiera simile a quella di Mala
coda con cui il pellegrino inganna frate Alberigo; al « e cortesia fu
lui esser villano » (/«/. XXXIII, 150), che echeggia il simile mani
festo di ordine rovesciato presente in Inferno XX, « Qui vive la pietà
quand'è ben morta » (28); dalla domanda del pellegrino ad Alberigo,
« or se' tu ancor morto? » (!«/. XXXIII, 121), che ricorda la prece
dente domanda di Niccolò III al pellegrino; agli espliciti richiami alla
pece e ai Malebranche nella bolgia dei barattieri - il canto XXXIII
riassume la poetica dell'inferno, nello stesso modo in cui Ugolino è
l'emblema definitivo della politica perversa e dell'umanità fallita lì
contenute.56
Inferno XXXIV è un canto di transizione, un canto la cui ma
niera narrativa esiste nello spazio liminare abitato dal pellegrino:
« Io non mori' e non rimasi vivo; / pensa oggimai per te, s'hai fior
d'ingegno, / qual io divenni, d'uno e d'altro privo » (Inf. XXXIV,
25-21). Non morì e non rimase vivo: Dante è tra la vita e la morte,
salvezza e dannazione, luce e oscurità, bene e male.57 È nello spazio

56 II canto XXXIII include anche estremi stilistici, poiché, come rileva Boitani,
il tono di Alberigo è tanto « basso » quanto è « alto » quello di Ugolino; vedi Inferno
XXXIII, in Cambridge Readings in Dante's Comedy, eds. Kenelm Foster e Patrick
Boyde, Cambridge, Cambridge U. Press 1981, p. 86.
57 La condizione degli ignavi, di cui Dante scrive all'inizio del viaggio - come

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206 Teodolinda Barolini

tra i tempi, il passato remoto e il presente


la cui essenza è contenuta dal verso « S
brutto » (34; mio il corsivo). È nello spazi
di transizione oramai/oggimai, usati ripet
lo spazio tra « ora » da una parte e « m
consacrato al divenire, come indicato dal t
m'io divenni allor gelato e fioco » (22),
d'altro privo » (27), « s'io divenni allora
pegnato nella delicata impresa di superar
fero (fisicamente e metafisicamente),58 senz
bloccato nel passato remoto dell'inferno,
m'era » (120). Il pellegrino deve supera
« quel punto ch'io avea passato » (93); de
che suscita autentica paura, ma non passi
processo del divenire, il processo del tran
emblematizza ciò che ci si deve lasciare al
zione del principio di Gerione alla sconcia d
è ottenuta in fretta, quasi di routine: « O
maraviglia / quand'io vidi tre facce a la su
è rappresentato in maniera tale da ricord
del bene; da un punto di vista narrativo,
ratamente trattato come un non-impegnativ
presente » contro-culmine. Allora, sorg
assenza e alcuni peccatori sono più « pre
forse che essi sono meno malvagi?
Si ritorna così, alla fine dell' Inferno, a
cipale problematica della cantica, che io c
meglio comprendendo che è, nel profond
tiva. Si potrebbe pensare ai problemi (teol
(narrativo) di Dante di istituzionalizzare l
dell'alto inferno in qualsiasi senso assolut
basso, in qualche modo meno dannate? (C
Virgilio, quando spiega « come incontin

adesso è alla fine - che « mai non fur vivi » (Inf. I


rendendoli anime che mai oltrepassarono la transizion
58 Con le parole « per cotali scale ... conviensi dip
Virgilio fa eco a « Ornai si scende per si fatte scale »,
partecipatoria del canto XVII. K. Verduin legge l'ep
pellegrino alla « essentially deathful condition of t
Satan: Augustinian Patterns in Inferno XXXIV.22-2
IV (1983), p. 211).

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Stile e narrativa nel basso inferno dantesco 207

men biasimo accatta» [XI, 83-84].) Sono le anime dell'antipurga


torio, e per estensione quelle dei cieli più bassi, in qualche modo
meno salve di quelle più in alto? In ultima analisi, Francesca è altret
tanto dannata di Ugolino, Belacqua altrettanto redento di Arnaut e
Piccarda altrettanto salva di Beatrice, ma Dante ha creato un sistema
in cui queste verità sono oscurate dai requisiti narrativi della gra
datici - della differenza. Si potrebbe sollevare la questione collegata
dei « grandi » peccatori, e suggerire che anime come Francesca e
Ulisse sono davvero privilegiate da Dante, non moralmente ο escato
logicamente, ma testualmente. In ultima analisi, dobbiamo deteolo
gizzare, e chiederci: come potrebbe un poeta rappresentare effettiva
mente l'assenza senza aver istituito una certa presenza con cui con
trobilanciarla? Come potrebbe creare contro-culmini, grandi ο pic
coli, senza creare anche culmini narrativi? Quando i requisiti della
narrativa sono in conflitto con le leggi della giustizia, Dante deve sot
tomettersi alla narrativa. Lavorando indefessamente per collocarci en
tro il suo spéculum, cerca di riorientarci: se guardiamo le cose dal
l'interno, da dentro il mondo possibile della Commedia, allora forse
non noteremo che le leggi che governano questo universo in defini
tiva testuale sono di fatto meno leggi di Dio di quanto non siano sue.

Teodolinda Barolini

(Traduzione di Flaminio Di Biagi)

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