Stile e Narrativa Nel Basso Inferno
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Stile e narrativa
nel basso inferno dantesco.
Introdotto dalla
diciottesimo complessa
canto transizione
dell'Inferno costituiscedei
un canti XVI
enfatico e XVII,
nuovo ini il
zio collocato alla metà della cantica, al suo narrativo « mezzo del cam
min ». « Luogo è in inferno detto Malebolge », comincia il canto,
con un verso che è seccamente informativo, esplicitamente introdut
tivo e patentemente dedicato alla differenziazione:1 questo è un posto
nuovo, un nuovo locus. Dopo la descript io loci annunciata dall'ini
ziale « Luogo è »,2 l'attenzione del narratore si sposta ai viandanti.
In due terzine apparentemente molto semplici, Dante attiva la poe
tica del nuovo, fondata sull'isolamento di questo luogo, questo posto
in quanto distinto da qualsiasi altro:
In questo luogo, de la schiena scossi
di Gerion, trovammoci; e Ί poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.
A la man destra vidi nova pietà,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.
(Inf. XVIII, 19-24)
3 J. M. Lotman nota che per Dante il peggiore dei peccati è « un uso falso dei
segni » (Il viaggio di Ulisse nella Divina Commedia di Dante, in Testo e contesto, Bari,
Laterza 1980, p. 92). Sull'Inferno nel suo insieme, vedi anche F. Chiappelli, Il colore
della menzogna nell'Inferno dantesco, in «Letture Classensi», XVIII (1989),pp. 115-128.
4 « In quanto alla forma, la parola fa sì che il nostro verso proemiale proponga,
con esemplare sinteticità, quello che costituirà l'aspetto più singolare dell'intero canto,
vale a dire l'accostamento di linguaggio elevato e linguaggio violentemente realistico »
(Arte del prologo e arte della transizione, p. 126).
5 La poetica malebolgiana di Dante ricorda le raccomandazioni di Agostino in
De Doctrina Christiana IV, xxn, 51: « Nec quisquam praeter disciplinant esse existimet
ista miscere: imo quantum congrue fieri potest, omnibus generibus dictio varianda est.
Nam quando prolixa est in uno genere, minus detinet auditorem. Cum vero fit in aliud
ab alio transitus, etiamsi longius eat, decentius procedit oratio » (Patrologiae latinae,
ed. J.-P. Migne, Turnhout, Brepols 1841, voi. 34, col. 114). Il quarto libro di De
Doctrina Christiana si occupa particolarmente del ruolo della retorica nel discorso vero,
un problema su cui Dante si sofferma con il suo uso di comedìa.
6 Vedi T. Barolini, Dante's Poets: Textuality and Truth in the Comedy, Princeton,
Princeton U. Press 1984, cap. 3, dove queste formule sono discusse nel contesto del
significato di comedìa. La frase ver c'ha faccia di menzogna è usata per descrivere
Gerione in Inferno XVI, mentre cosa incredibile e vera appartiene all'esposizione di
Cacciaguida sull'antica Firenze in Paradiso XVI; mira vera si riferisce alla meraviglia
del flauto cantante nella seconda egloga di Dante.
7 Vedi Interpretazione di Malebolge, p. 14, e Arte del prologo, pp. 190-192.
L'accoppiamento di una figura classica con una contemporanea è un tratto della lettera
tura esemplare; vedi C. Delcorno, che scrive: « L'irruzione dell'attualità nel repertorio
esemplare, che già segnava originalmente la predicazione e la letteratura dei Mendicanti,
diventa il tratto più caratteristico della Commedia » (Dante e /'« Exemplum » medievale,
in «Lettere Italiane», XXXV (1983), p. 6).
8 Sui cambiamenti linguistici tra i canti XXVI e XXVII, vedi Dante's Poets,
pp. 228-233; per il significato delle coppie classico/contemporaneo, che possono anche
essere interpretate come immaginario/reale, vedi la lettura di Sinone e Mastro Adamo,
pp. 233-238.
9 Vorrei ricordare al lettore che non mi riferisco al buffo, neanche nella sofisticata
veste di « ludico ». A mia opinione, l'uso che Dante fa dei termini comedìa e tragedia
deve essere inteso nel contesto di verità e falsità.
10 Per il collegamento tra Virgilio e Giasone, vedi G. Mazzotta, Dante, Poet of
the Desert, Princeton, Princeton U. Press 1979, p. 158, e Dante's Poets, p. 280 nota.
11 La parola ornata di Virgilio il più delle volte trova espressione nel suo uso
della captatio benevolentiae\ Catone risponde alla captatio di Virgilio con il rimprovero
«non c'è mestier lusinghe» (Purg. I, 92). I quattro usi di lusinga/lusingar sembrano
delineare una graduale messa in discussione del discorso ornato. Lusinga appare prima
in rapporto alla frode, nel sommario di Malebolge che si trova in Inferno XI (« ipocresia,
lusinghe e chi affattura» [58]); ricompare nella bolgia degli adulatori, contrapposta alle
parole ornate di Giasone, nell'auto accusa di Alessio (« Qua giù m'hanno sommerso le
lusinghe» [XVIII, 125]). I due usi finali indicano entrambi i limiti della captatio
benevolente-, il punto di vista infernale è espresso da Bocca: « mal sai lusingar per
questa lama! » (XXXII, 96); e quello del purgatorio da Catone: « non c'è mestier
lusinghe ».
12 L'uso delle rime aspre appartiene per lo più alla bolgia degli adulatori; a partire
dalla riga 101, troviamo rime come « s'incrocicchia », « nicchia », « scuffa », « picchia »,
« muffa », « zuffa » e « zucca ». Queste le rileva Barchiesi, a p. 198. H. W. Storey fa
notare anche le rime dure dell'inizio del canto XVIII, -oscio compreso, che, nota
Storey, è «used only once by Dante» (p. 31); vedi Mapping Out the New Poetic
Terrain: Malebolge and Inferno XVIII, in « Lectura Dantis », IV (1989), pp. 30-41.
13 Sebbene Dante si sforzi di colpire lo stile alto consistentemente associato con
l'epica classica, non intende dire che lo stile alto sia sempre sbagliato (vedi Dante's
Poets, p. 238 nota) ma che solo uno stile misto può catturare tutta la realtà. Come
nota Z. G. Baranski, la Commedia è un « ' middle style ' not on account of a prescribed
set of features, but because it was the point where potentially every form of expression
could meet » (Reviewing Dante, in « Romance Philology », XLII (1988), p. 59). Lo
stile alto del canto XIX è, in ogni caso, ispirato biblicamente piuttosto che classicamente;
i suoi contrassegni retorici riappariranno in invettive politiche successive, come quella
del Purgatorio VI.
18 II lettore faccia riferimento a Dante's Poets, pp. 215-222, e alla mia lectura,
True and False See-ers in Inferno XX, in « Lectura Dantis », IV (1989), pp. 42-54,
dove si sostiene che la revisione che Dante fa dell 'Eneide investe non solo il contenuto
del poema epico ma anche lo stile, che viene parodiato nell'excursus su Mantova.
19 II problema è stato posto implicitamente nell'episodio di Pier della Vigna, dove
Dante garantisce la credibilità del proprio testo drammatizzando l'incapacità del pelle
grino di credere a quello di Virgilio; vedi Dante's Poets, p. 212.
del canto XXII (p. 121). Agostino fa riferimento alla tromba in quanto parte della sua
discussione sui segni nei capitoli iniziali del secondo libro del De Doctrina Christiana.
23 La risposta da una torre all'altra è descritta con l'espressione « render cenno »
(Inf. Vili, 5).
27 Può darsi che Boccaccio abbia avuto in mente quest'episodio nel comporre
Decameron IV, 2, la storia di frate Alberto e madonna Lisetta: il salto del frate nel
Canal Grande verso la salvezza e lontano dagli irati fratelli di Lisetta sembra modellato
sul balzo di Ciampolo nella pece. A sostegno di questa interpretazione, vorrei ricordare
che la seconda novella della quarta giornata è la storia veneziana di Boccaccio, e che la
bolgia dei barattieri comincia con la similitudine dell'arsenale veneziano; e più impor
tante ancora, quella è una storia anomala per il Decameron, per il fatto che l'ingegno
di frate Alberto non riesce alla fine a salvarlo. Come Ciampolo, Alberto gioca un gioco
in cui non si vince, un nuovo ludo. Si noti che, rispetto a un peccatore, nuovo ha
assunto un capovolto significato infernale; si riferisce alla incapacità di andare avanti,
di essere mai « nuovo ». Usi simili sono il « color novo » e le « novelle spalle » assunti
dai ladri nelle loro immote metamorfosi (Inf. XXV, 119, 139). Per contrasto, riferendosi
al pellegrino, l'aggettivo conserva la sua valenza positiva, implicando la sua capacità di
rinascita e movimento in avanti; vedi Inferno XXIII, 71-72.
28 Kirkpatrick si riferisce a « the ' humble ' speech of the fable » (p. 279). Un'ulte
riore complicazione intertestuale è l'eco del cavalcantiano « e vanno soli, sanza com
pagnia, / e son pien' di paura » (« Io non pensava che lo cor giammai », 51-52).
29 « Far from being wrong, the pilgrim's wish to listen is right, for his is the
comedic desire to confront evil and to bear witness to ali of reality, including Hell »
(Dante's Poets, p. 238). D. L. Yowell sottolinea l'importanza dell'esortazione di Maestro
Adamo a guardare e ascoltare; vedi « Guardate e attendete »: Inferno XXX and the
Threat of Sensationalism, in « Lectura Dantis », VI (1990), in corso di pubblicazione.
30 Guido usa istra, una variante di issa: « Ο tu a cu' io drizzo / la voce e che
parlavi mo lombardo, / dicendo ' Istra ten va, più non t'adizzo ' » (ί«/. XXVII, 19-21);
per le implicazioni di questi versi, vedi Dante's Poets, pp. 231-232. Bonagiunta usa
issa per segnalare la sua conversione al comprendere: « ' Ο frate, issa vegg'io ', diss'elli,
' il nodo / che Ί Notato e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch'i'
odo! ' » (Purg. XXIV, 55-57).
32 II più straordinario uso di già per manipolare il tempo narrativo si trova nei
versi finali del poema, dove il suo uso in « ma già volgeva il mio disio e Ί velie »
contribuisce a creare l'illusione di tutto il tempo fuso in un eterno presente. Sanguineti
penetrantemente si riferisce al già di Dante come a uno « ' iam ' narrativo », e ne nota
l'uso frequente negli inizi dei canti (pp. 72 nota e 257).
33 Dicendoci che l'arrivo nella sesta bolgia rimuove ogni causa di paura - « ma
non lì era sospetto: / ché l'alta provedenza che lor volle / porre ministri de la fossa
quinta, / poder di partirs' indi a tutti tolle » (54-57) - il poeta se non altro implica
che c'era causa di sospetto nella quinta bolgia. L'illusione della presenza del pericolo
nell'inferno è simile all'illusione della presenza del peccato nel purgatorio, come dram
matizzato dall'arrivo del serpente nella valletta dei principi. Come la caccia dei diavoli,
la minaccia del serpente costituisce un gioco di prestigio narrativo, che serve a creare
tensione e a generare suspense in quella che sarebbe altrimenti una piatta esperienza
testuale. Di nuovo, questi esempi dimostrano la volontà di Dante di prendere provvedi
menti per controbattere la sua trama troppo prestabilita, con tutto che così facendo
oscura i nitidi contorni morali della sua narrazione. Russo nota l'esistenza di « momenti,
reali sul piano dell'intreccio narrativo, di timore, debolezza, negligenza, smarrimento,
stanchezza, impedimento, che spesso (con congrua rarefazione di frequenza dall'Inferno
al Paradiso) mettono in forse ο in crisi Π procedere oltremondano del personaggio,
creando di volta in volta nel lettore effetti di tensione narrativa atti a suscitare reazioni
40 H. Shankland fa notare che quel « dei remi facemmo ali » di Dante è « actually
a reversai of the Virgilian tag retnigium alarum, that is ' delle ali remi originally
applied to the sure flights of Mercury and Daedalus in Aeneid 1.301 and 6.10» (Dante
Aliger and Ulysses, in « Italian Studies », XXXII (1977), p. 30). L'immagine ricorre
nel racconto ovidiano della caduta di Icaro: le ali del ragazzo si sciolgono ed egli sbatte
invano le braccia nude, « remigioque carens » (Metam. Vili, 228). Dunque, in Virgilio
e in Ovidio l'immagine che Dante adotta come emblema principale di Ulisse è associata
a Icaro e a Dedalo, stabilendo la doppia analogia della Commedia·, come volatore spa
ventato, il pellegrino è paragonato a Icaro; come artista che completa il proprio volo,
Dante è analogo a Dedalo, che arrivò a Cuma. Per la derivazione neoplatonica di
remigium alarum, vedi J. Freccerò, The Prologue Scene, orig. 1966, in Oante: The
Poetics of Conversion, ed. R. Jacoff, Cambridge, Harvard U. Press 1986.
41 I versi citati sono, nell'ordine: Metamorfosi Vili, 188-189, 195, 215, 220, 234.
Il testo è tratto dall'edizione Loeb di F. J. Miller, 2 voli., orig. 1916, Cambridge,
Harvard U. Press 1971.
42 Vedi E. R. Curtius, The Ape as Metaphor, in European Literature and the
Latin Middle Ages, orig. 1948, Princeton, Princeton U. Press 1973, pp. 538-540. La
metafora è ancora d'uso corrente, come testimoniato dal titolo Art, the Ape of Nature
(Studies in Honor of H. W. Janson, eds. M. Barasch and L. F. Sandler, New York,
Abrams 1981). Curtius non include nella sua raccolta il passaggio del Convivio in cui
Dante nega che i pappagalli parlino come uomini ο che le scimmie si comportino come
gli uomini; la loro rappresentazione non è reale, perché non guidata dalla ragione:
« Onde è da sapere che solamente l'uomo intra li animali parla, e ha reggimenti e atti
che si dicono razionali, però che solo elli ha in sé ragione. E se alcuno volesse dire
contra, dicendo che alcuno uccello parli, sì come pare di certi, massimamente de la gazza
e del pappagallo, e che alcuna bestia fa atti ο vero reggimenti, sì come pare de la scimia
e d'alcun altro, rispondo che non è vero che parlino né che abbiano reggimenti, però
che non hanno ragione, da la quale queste cose convegnono procedere; né è in loro lo
principio di queste operazioni, né conoscono che sia ciò, né intendono per quello alcuna
cosa significare, ma solo quello che veggiono e che odono ripresentare» (III, vii, 8-9).
A differenza delle scimmie, i falsari posseggono la ragione, e sono quindi responsabili
delle loro imitazioni. Nel contesto dell'imitazione poetica, è interessante notare che la
Commedia fu accusata di essere una « bella simia de' poeti »; vedi G. Gorni, Il nodo
della lingua e il verbo d'amore, Firenze, Olschki 1981, p. 137.
46 Le prime tre parole del canto possono così essere prese, fuori contesto, per
annunciarne il tema.
47 L'idea dell'attraversare è presente nel De Vulgari Eloquentia, dove Dante discute
la doppia natura del linguaggio in termini di bisogno per il genere umano di attraversare
la distanza tra il razionale ed il sensibile, usando il verbo pertransire·. « Quare, si tantum
rationale esset, pertransire non posset; si tantum sensuale, nec a ratione accipere nec
in rationem deponere potuisset » (I, in, 2). Si potrebbe guardare alla Commedia come
a un oggetto che da un lato cerca di eliminare il bisogno di passare dal suono percepibile
(il significante) al suo senso razionale (il significato) rendendoli indivisibili, e che
dall'altro è consapevole dell'impossibilità di un'impresa il cui consumarsi ci renderebbe
angeli. In questo senso, la Commedia è, come la torre di Babele, una « ovra inconsumma
bile » (Par. XXVI, 125).
48 L'uso di convenire al secondo verso del canto XXXII echeggia il decoro infer
nale del canto precedente, che ha costretto Nembrot a farfugliare un discorso inintelle
gibile, dato che si tratta di uno « cui non si convenia più dolci salmi » (XXXI, 69).
49 Dante aveva a lungo cercato quel che G. Contini chiama « la conversione del
contenuto nella forma »: nei versi « Così nel mio parlar voglio esser aspro / com'è
ne li atti questa bella petra », si osserva una prima versione dei dir e fatto che troviamo
in Inferno XXXII. (Per il commento di Contini, vedi la sua edizione delle Rime di
Dante, orig. 1946, Torino, Einaudi 1970, p. 165). Nella stessa canzone il poeta ci dice
che il peso che lo sommerge « è tal che non potrebbe adequar rima » (21). Molto pro
babilmente Dante aveva in testa il suo precedente esperimento di discorso aspro quando
compose Inferno XXXII: l'ultima stanza della canzone comincia «S'io avessi le belle
trecce prese », un verso che troverà eco in « S'io avessi le rime aspre e chiocce ». In
più, nel canto XXXII il desiderio di tirare le trecce della canzone diventa « realtà »
quando il pellegrino tira i capelli di Bocca degli Abati. Laddove io vedo il tentativo di
forgiare un linguaggio duro come deliberata scelta rappresentativa, Kirkpatrick vede
in questi echi delle rime petrose una conferma della sua tesi sull'Inferno come testo
sempre più immorale (pp. 410-411). Se nel canto XXI l'autore della Commedia si coin
volge « in a piece of narrative chicanery » (p. 276) inventando un ponte rotto, e se il
brano della baratteria nel suo complesso mette a rischio « the literary integrity of the
Commedia itself » (p. 268), quando si arriva a Branca Doria alla fine del canto XXXIII
Dante sta ormai componendo poesia di cui « he might have been ashamed » (p. 432).
L'eterogeneità stilistica del basso inferno costituisce dunque una deviazione morale
da parte del poeta, piuttosto che una rappresentazione di una deviazione morale da
parte dei peccatori: « The desire for free and simple utterance was the heartfelt motive
of his earlier poetry; in writing a narrative as many-voiced as the Inferno, the poet
has put in jeopardy, or even risked betraying, the origin and end of that authentic
inspiration » (p. 432). Questa interpretazione dimostra come l'interesse di Kirkpatrick
per le proprietà narrative del poema sia distorto dalle lenti morali con cui vede le
preoccupazioni formali; il suo interesse per «the ethical act of writing» (p. 435) lo
porta a confondere il contenuto del testo con la sua forma. Dentro la sala degli specchi
di Dante, Kirkpatrick ha girato una volta di troppo: piuttosto che semplicemente
teologizzare ciò che è stato rappresentato, come Dante si sforza di farci fare, egli teolo
gizza l'atto stesso della rappresentazione.
56 II canto XXXIII include anche estremi stilistici, poiché, come rileva Boitani,
il tono di Alberigo è tanto « basso » quanto è « alto » quello di Ugolino; vedi Inferno
XXXIII, in Cambridge Readings in Dante's Comedy, eds. Kenelm Foster e Patrick
Boyde, Cambridge, Cambridge U. Press 1981, p. 86.
57 La condizione degli ignavi, di cui Dante scrive all'inizio del viaggio - come
Teodolinda Barolini