Kurz-Sinistrainrete - Info-La Storia Della Terza Rivoluzione Industriale (Il Libro Nero Del Capitalismo)
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1. Visioni dell’automazione
di Robert Kurz
Iniziamo qui la pubblicazione della sezione
VIII di uno dei libri più famosi di Robert
Kurz, lo Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro
nero del capitalismo”). Questa sezione
tratta della storia della cosiddetta terza
rivoluzione industriale, l’epoca in cui il
capitalismo si fa informatico e cibernetico.
In questo momento storico, che è quello
che stiamo vivendo, la forza lavoro umana
perde il suo ruolo centrale diventando di
fatto comprimaria di una svolta epocale in
cui il capitale raggiunge i suoi limiti e pone
il mondo e tutti noi di fronte ad una decisione molto difficile ma non rimandabile:
prendere sul serio la possibilità (forse dovremmo dire la necessità) del suo superamento.
L’alternativa è che ad essere superati si sia noi come esseri umani, e con noi il mondo.
Partiamo con il primo capitolo, “Visioni dell’automazione”. A breve seguiranno gli altri
otto. Tutto questo dovrebbe preludere alla pubblicazione cartacea dell’intero libro, che
auspichiamo avvenga nel minor tempo possibile [redazione].
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Ormai giunto all’ultimo terzo del XX secolo il capitalismo aveva già dimostrato a
sufficienza di quale maestria fosse in grado nell’arte di addestrare gli uomini, fino a che
punto esso fosse riuscito nell’impresa di trasformare la maschera delle sue forme
feticistiche nel volto del mondo materiale e persino di gran parte del mondo naturale,
nonché a spingere verso la negazione di sé grandi masse umane. Ma neppure questa
straordinaria prestazione poté mai ammutolire del tutto il disagio elementare, che è
fondamentalmente insito nell’autocontraddizione logica di questo modo di produzione e
di vita. La fede nel progresso si era già esaurita nel XIX secolo (anche se da allora il suo
fantasma viene regolarmente invocato dagli ottimisti di professione e dagli imbonitori del
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capitalismo per sdrammatizzare la crisi) e il soggetto borghese-illuministico aveva tolto il
disturbo, al più tardi con la Prima guerra mondiale, per lasciare il posto ai rituali sado-
masochistici del sacrificio di sé in un processo sociale considerato impossibile da
governare e tuttavia gli uomini del dopoguerra fordista, degradati a mera materia prima,
potevano ancora anestetizzarsi mediante la scialba ebbrezza del consumo.
Ma quando giunsero – e più rapidamente del previsto – i limiti del miracolo economico, la
coscienza sociale, in virtù del grandioso ottenebramento che aveva colpito
trasversalmente tutti i settori teorici e politici, poté reagire solo mediante la rimozione e
la dissimulazione.
A partire dai tardi anni Sessanta il disagio della cultura fordista di massa fu certamente il
segnale, già in una fase precoce, che la ricreazione era finita, anche nei centri occidentali;
esso però non ebbe alcun seguito, non seppe consolidarsi in una nuova critica radicale.
Sulle teste gravava il peso mostruoso di quasi tre secoli di modernizzazione e i nuovi
movimenti sociali dal 1968, cui mai riuscì di penetrare il nucleo del feticismo moderno, si
rivelarono compatibili con il capitalismo perlomeno quanto il vecchio movimento
operaio. Non c’è da meravigliarsi che la società globale delle democrazie totalitarie del
mercato globale, formatasi nella seconda metà del secolo, iniziasse a correre in modo
cieco e afasico verso la propria fine.
«Senza sicurezza economica – scrisse da buon liberale Aldous Huxley, nella prefazione
alla nuova edizione del suo Mondo nuovo – è impossibile che sorga l’amore per la
schiavitù; per ragioni di concisione ritengo che gli onnipotenti esecutivi e i loro manager
riusciranno a risolvere il problema di una sicurezza economica duratura». Ma proprio
perciò questo genere di immagini distopiche non risultò ancora abbastanza cupo: tutte
quante prendevano le mosse dal lavaggio del cervello da parte dello Stato e dalla
manipolazione quasi fisiologica attuata dai suoi apparati totalitari, senza riconoscere la
vera essenza e i limiti interni della macchina-mondo. Né tantomeno seppero individuare
il nucleo della soggettività competitiva negli individui, che, nella crisi, sarebbe stato in
grado di scatenare vere e proprie orge di esclusione sociale e di violenza endemica,
invece di favorire il funzionamento mansueto, silenzioso e senza attriti di un’omogenea
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massa unitaria. Questa omogeneità caratterizza precisamente la concorrenza totale tra
gli individui astratti, che include l’odio degli schiavi dei mercati anonimi nei confronti di se
stessi, inevitabilmente proiettato, durante la crisi, verso l’esterno, contro gli «altri».
Esiste una ragione semplice per la miopia storica delle distopie fordiste e di quelle che le
precedettero: hanno tutte come presupposto cieco il sistema del «lavoro astratto»,
concepito come un meccanismo funzionale e riproduttivo quasi «naturale». Il comando
degli apparati di manipolazione fa sempre riferimento alla forma di attività della
macchina-mondo produttrice di merce, in cui esiste perlomeno una cosa che sembra
essere eterna: la necessità sociale del dispendio massiccio di forza lavoro. È da questo
presupposto che si originano tutte le descrizioni orrorifiche di una vita mutilata in
maniera meccanica: l’uomo come aggregato del «lavoro» degradato a robot. Anche
nell’opera di Huxley, che pure sottolinea il rovescio consumistico a base di panem et
circenses, esistono pur sempre «lavoratori» modellati su criteri funzionali,
funzionalmente conformati allo stadio embrionale e, infine, «travasati»:
Questa cieca proiezione futuristica del sistema del «lavoro» astratto venne condotta fino
alle sue più estreme conseguenze in un altro celebre romanzo distopico, pubblicato già
nel 1895 da H. G. Wells, l’autore della «guerra dei mondi». Ne La macchina del tempo,
un’opera che ebbe un successo pari a quello della vicenda dell’attacco marziano, egli
sfrutta l’idea del viaggio nel tempo (in quegli anni concepito naturalmente come orientato
in maniera univoca al futuro) per prolungare il capitalismo vittoriano a fini di critica
sociale fino al suo stadio terminale, quello della degenerazione totale. Nel lontanissimo
futuro dell’anno 802.701 il suo viaggiatore temporale si imbatte in una società suddivisa
come mai in passato tra fannulloni «inoperosi» e «lavoratori». Sulla superficie del pianeta
vivono gli «Eloi», giovani di bell’aspetto e spensierati ma sciocchi e «inutili», discendenti
dei capitalisti di un tempo. Nelle città-industrie sotterranee dimorano invece i
«Morlocchi», i discendenti degli operai del passato, in quanto già alla fine del XIX secolo
era invalsa la «tendenza a utilizzare lo spazio sotterraneo per gli scopi meno ornamentali
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della civilizzazione» (Wells 1895). Ma dopo un periodo di tempo così lungo entrambe le
classi erano ormai entrate nella fase della loro decadenza e si era consumata una
singolare inversione del loro rapporto:
I miei ospiti del mondo superiore dovevano avere rappresentato, un tempo, l’aristocrazia
della razza umana, e i Morlocchi i loro servitori meccanici; ma ormai tutto ciò
apparteneva al passato. Le due specie derivate dall’evoluzione dell’uomo stavano
scivolando verso nuovi reciproci rapporti, e forse inconsciamente questi rapporti si
erano già stabiliti. Gli Eloi, come i re Carolingi erano ormai ridotti a una semplice
espressione di vana bellezza; erano ancora padroni della superficie terrestre unicamente
perché i Morlocchi, esseri sotterranei da innumerevoli generazioni, non sopportavano la
luce del giorno; costoro, concludevo, preparavano gli abiti degli Eloi e provvedevano ai
loro quotidiani bisogni, per la vecchia, innata abitudine di servire gli altri, forse. Anche i
cavalli continuano, ai nostri giorni, a raspare il terreno con gli zoccoli […] Ma senza
dubbio il remoto ordine di cose era già, almeno in parte, invertito; la Nemesi stava
rapidamente insinuandosi nel destino della razza più delicata: in epoche trascorse,
migliaia di generazioni prima, l’uomo aveva privato il suo fratello degli agi e della vista del
sole; adesso questo fratello compiva la strada inversa, e come mutato! Gli Eloi avevano
già cominciato di nuovo a imparare una vecchia lezione, facevano di nuovo conoscenza
della paura. Proprio in quel momento mi ricordai del pezzo di carne che avevo visto sul
tavolo nel mondo inferiore […] Questi Eloi non erano che bestiame ingrassato che i
Morlocchi formiche custodivano per poi impadronirsene, e di cui probabilmente
sorvegliavano anche la riproduzione.
Visioni dell’automazione
Ovviamente i creatori delle distopie negative, così come i «pratici» del management,
conoscevano perfettamente la tendenza strisciante verso la sostituzione tecnologica
della forza-lavoro. Perfino il sogno dell’automazione totale era già stata preconizzata da
tempo. Quest’ultima idea, tuttavia, non venne percepita come un fatto assolutamente
negativo, per quanto la sua realizzazione sembrasse collocarsi in un lontano futuro. Nel
1908 Walther Rathenau fece questa osservazione estemporanea:
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Una fabbrica ideale dovrebbe funzionare in maniera automatica come un gigantesco
meccanismo, con un unico operaio come sorvegliante. L’industria pesante e la chimica
industriale sono prossime a questo stadio. Questo operaio-sorvegliante svolgerà
esclusivamente un lavoro intellettuale, assumendosi una responsabilità assai gravosa […]
l’imprenditore […] ha tutto l’interesse a provvedere che quest’uomo sia ben nutrito, abbia
tempo libero per riflettere, sia soddisfatto e di buon umore.
Ma l’idillio armonicistico che Rathenau coltiva qui si riferisce solo agli «imprenditori» e ai
loro unici lavoratori residui; stranamente non affiora la questione circa l’esito di questa
situazione se essa si generalizzasse e se i «lavoratori soddisfatti» assieme con il loro
«buon umore» si fossero ridotti ad una sparuta pattuglia mentre il grosso dei lavoratori
venisse espulso dalla riproduzione sociale come una scoria residua di «superflui» del
capitalismo.
Anche in seguito, mentre Henry Ford furoreggiava con la seconda rivoluzione industriale,
aleggiò pur sempre la certezza implicita che, nonostante la razionalizzazione operata
dalla catena di montaggio e dalla «scienza del lavoro» taylorista, la forza-lavoro umana
non sarebbe mai davvero scomparsa su larga scala. Non c’è dubbio: durante la crisi
economica mondiale la disoccupazione di massa venne messa in relazione (spesso in
tono accusatorio per scopi di agitazione) con i nuovi processi tecnici. Ma l’idea che la crisi
del capitalismo potesse assumere le sembianze di una crisi fondamentale della «società
del lavoro» e quindi del «lavoro astratto» superava di gran lunga l’immaginazione dei
contemporanei.
Ma sul piano logico si trattava di un’idea del tutto verosimile: una volta che l’uomo delle
industrie fordiste era stato trasformato in un automa, sarebbe bastato solo qualche
passo in avanti nello sviluppo per sostituirlo con un vero automa. Per quanto possa
sembrare strano i creatori delle utopie negative non avevano previsto questa possibilità
oppure, in ogni caso, non seppero intuire il suo dirompente effetto sociale, preferendo
associare il loro pessimismo storico ad altri problemi. Ma ancora più sorprendente è
l’ottimismo dimostrato da quei pochi teorici che, volgendo lo sguardo al futuro,
compresero che il fordismo era indubbiamente solo lo stadio preliminare di un processo
di automazione fino a quel momento ritenuto impossibile.
Anche Keynes apparteneva al numero di questi ottimisti storici della terza rivoluzione
industriale, ancora nascosta nel grembo del futuro ma destinata presto o tardi a
cancellare il fordismo. Nel 1930 Keynes, ancora nel bel mezzo della seconda rivoluzione
industriale, si dilungò in maniera frivola circa le «possibilità economiche dei nostri
nipoti», nonostante il tenore critico con cui attacca la sua argomentazione:
Noi abbiamo invece contratto un morbo di cui forse il lettore non conosce ancora il
nome, ma del quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la disoccupazione
tecnologica. Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare forza lavoro, e lo
scopriamo troppo in fretta per riuscire a ricollocare quella forza lavoro altrove. Ma si
tratta di uno scompenso temporaneo. Nel lungo periodo, l’umanità è destinata a risolvere
tutti i problemi di carattere economico. Mi spingo a prevedere che di qui a cento anni il
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tenore di vita nei paesi avanzati sarà fra le quattro e le otto volte superiore a quello
attuale. Alla luce delle nostre conoscenze attuali, è il meno che si possa dire. E
immaginare una crescita anche più significativa non sarebbe un azzardo […] La
conclusione è che, in assenza di conflitti drammatici, o di drammatici incrementi della
popolazione, fra cento anni, il problema economico sarà risolto, o almeno sarà prossimo
a una soluzione. In altre parole, se guardiamo al futuro l’economia non si presenta come
un problema permanente della nostra specie. Ma perché addirittura sbalordirsi, vi
chiederete. Bè, perché se per un attimo ci rivolgiamo al passato, anziché al futuro, il
problema dell’economia, della lotta per la sopravvivenza, è sempre stato il problema
fondamentale, e il più pressante che la nostra specie – e non solo la nostra, ma tutte le
specie viventi, fin dall’alba della storia – si sia trovata a dover affrontare. In un certo
senso, ci siamo evoluti – e con noi le nostre pulsioni, e i nostri istinti più profondi – per
risolvere il problema economico, e una volta che questo fosse risolto, l’umanità si
ritroverebbe priva del suo obiettivo più tradizionale. Sarebbe un bene? Per chi crede ai
veri valori della vita, forse sì. Anche se, personalmente, l’idea che l’uomo medio debba
cambiare abitudini e istinti in pochi decenni, abbandonando quelli accumulati da
generazioni, un po’ mi inquieta. Per usare il linguaggio dei giorni nostri, non rischiamo un
«esaurimento nervoso»? […] Insomma per la prima volta dalla creazione l’uomo si troverà
ad affrontare il problema più serio, e meno transitorio – come sfruttare la libertà dalle
pressioni economiche, come occupare il tempo che la tecnica e gli interessi composti gli
avranno regalato, come vivere in modo saggio, piacevole, salutare […] Eppure nessun
paese, e nessun popolo, può guardare alla prospettiva di questa età dell’oro senza un filo
di apprensione. Da troppo tempo ci alleniamo a combattere, non a divertirci. Per l’uomo
medio, che non ha particolari talenti e nemmeno radici nella terra, o nelle venerate
convenzioni di una società tradizionale, tenersi occupato rappresenta un problema
tremendo […] Turni di tre ore, o settimane di quindici, potranno procrastinare per un po’
il problema. Tre ore al giorno dovrebbero senz’altro bastare per placare l’Adamo […]
Saremo finalmente in grado di buttare alle ortiche molti pseudo-principi che ci affliggono
da duecento anni, e che ci hanno spinto a far passare alcune fra le più ripugnanti virtù
umane per virtù eccelse […].
[…] forse altrettanto decisivo, è un altro evento non meno temibile, l’avvento
dell’automazione, che in pochi decenni vuoterà probabilmente le fabbriche e libererà il
genere umano dal suo più antico e più naturale fardello, il giogo del lavoro e la schiavitù
della necessità. Anche qui, è in gioco un aspetto fondamentale della condizione umana,
ma la ribellione contro di esso e il desiderio di essere liberati dalla «fatica e dell’affanno»
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del lavoro non sono moderni ma vecchi come una storia che ci è stata tramandata […]
Può sembrare che il progresso scientifico e l’evoluzione della tecnica siano stati impiegati
solo per conseguire ciò che tutte le generazioni passate avevano sognato senza poterlo
realizzare. Tuttavia è così solo in apparenza. L’età moderna ha comportato anche una
glorificazione teoretica del lavoro, e di fatto è sfociata in una trasformazione dell’intera
società in una società di lavoro. La realizzazione del desiderio, però, come avviene nella
fiabe, giunge al momento in cui può essere solo una delusione. È una società di
lavoratori quella che sta per essere liberata dalle pastoie del lavoro, ed è una società che
non conosce più quelle attività superiori e più significative in nome delle quali tale libertà
meriterebbe di essere conquistata […] Ci troviamo di fronte alla prospettiva di una
società di lavoratori senza lavoro, privati cioè della sola attività rimasta loro. Certamente
non potrebbe esserci niente di peggio.
Evidentemente gli ideologi del capitalismo conoscono molto male il loro stesso sistema.
Soprattutto perché lo presuppongono alla stregua di un assioma e lo destoricizzano,
servendosi delle categorie sovrastoriche e ontologiche dell’economia; fu per questa
ragione Keynes che non fu in grado di giudicare i problemi da lui analizzati come il
risultato di un processo di sviluppo irreversibile invece che come «casi possibili» di una
forma sociale atemporale. Tuttavia Hannah Arendt si rende perlomeno conto del fatto
che la glorificazione del lavoro ebbe inizio solo nel XVII secolo mentre Keynes identifica
invece, ancora una volta, il famigerato «problema economico», ossia il sistema delle
vessazioni capitalistiche, con una «condizione di natura» generale che costringerebbe
tutte le specie viventi, fin dall’alba della storia», ad affannarsi in ossequio ai criteri
capitalistici dell’autoconservazione (ma è la pigrizia a caratterizzare di fatto le specie
animali visto che la loro «autoconservazione», in realtà, non si fonda affatto su di
un’attività incessante e fine a se stessa).
Per giunta Keynes non fa che ripetere in maniera insulsa la vecchia bugia liberale
secondo cui l’economia di mercato avrebbe originato un incremento permanente del
benessere, di cui però la maggior parte dell’umanità non ha mai goduto in prima
persona. Di conseguenza la superfluità del lavoro degli anni a venire gli appare solo come
un ulteriore miglioramento del tenore di vita, obiettivo verso cui sembrano tendere da
sempre la «tecnica» e gli «interessi composti». Sembra proprio convinto che l’imminente
obsolescenza del «lavoro», sul piano economico, rappresenti solo un piccolo problema di
adattamento in seno all’ordine sociale esistente quando invece la fine del «problema
economico» in realtà coincide proprio con la fine del capitalismo. Credeva seriamente
Keynes che il sistema si sarebbe limitato a congedare il proprio materiale umano,
lasciandolo dormire sonni tranquilli?
Va detto però che non è il caso di sottovalutare l’interiorizzazione della disciplina del
lavoro in quanto problema psicologico e culturale alla luce del fatto che il sistema del
«lavoro astratto» si sta convertendo in un’assurdità pura e semplice. D’altro canto il
problema dell’«occupazione» non sarebbe poi così tremendo se sotto questa etichetta
non si indicasse più l’attività alienata al servizio del fine-in-sé della «bella macchina». La
sorte dell’uomo «disoccupato» in senso capitalistico, che se ne sta alla finestra con
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un’aria inebetita fino a quando la morte non lo redime dalle sue tribolazioni, è piuttosto
frequente per le carcasse spossate di coloro che, dopo una macinazione aziendale
durata tutta una vita, raggiungono finalmente i limiti di età; tuttavia, ad onta di tutti i
condizionamenti sono davvero pochi quelli che si dimostrano così congenitamente e
inossidabilmente ottusi da precipitarsi a «lavorare» perché altrimenti non saprebbero
che fare di se stessi. La schiavitù volontaria sotto il giogo dei mercati anonimi ha sempre
la sua motivazione fondamentale nella «costrizione muta dei rapporti» (Marx), che
deruba gli uomini di tutte le risorse di cui potrebbero disporre e di tutte le relazioni
sociali, costringendoli ad assoggettarsi ad una forma di attività disprezzata, pena
l’esclusione dai fondamenti della propria esistenza.
Inoltre ciò che viene interiorizzato non è il «lavoro astratto» come tale ma la forma
generale di relazione basata sul «guadagno di denaro» e sulla concorrenza, che ne è un
derivato. Pertanto il disorientamento culturale dell’uomo nell’obsolescenza del «lavoro
astratto» costituisce solo un problema collaterale perché il problema vero consiste
nell’espulsione degli individui durevolmente e strutturalmente «superflui» dal sistema del
«guadagno monetario» e della concorrenza, che però rimane pur sempre la condizione
della loro esistenza. Keynes e Arendt disconoscono completamente la circostanza per cui
la razionalità aziendale è fondamentalmente incapace di tradurre l’automazione in una
diminuzione corrispondente del «lavoro astratto» (per Keynes fino a quindici ore
settimanali – e anche qui solo per ragioni terapeutiche!). Questo abbaglio colossale
dipende dal fatto che la cecità ideologica liberale fa derivare la moderna costrizione al
lavoro dalla necessità «naturale» dell’accrescimento del benessere materiale concreto
invece che dall’astratto fine-in-sé della macchina-mondo; se le cose stessero
effettivamente così il flusso automatico della ricchezza materiale ridurrebbe
necessariamente in maniera altrettanto «naturale» e progressiva il tempo di lavoro fino
alla sua totale sparizione.
Si dà il caso però che, malauguratamente, sia vero proprio l’esatto contrario; infatti
l’automa del calcolo aziendale preferirebbe di gran lunga mettere alla frusta,
ventiquattr’ore su ventiquattro, l’ultimo operaio sopravvissuto (quello di Rathenau) ed
espellere nel contempo i «superflui», senza concedere loro, in linea di principio, neppure
un tozzo di pane. Ed è questa l’unica evoluzione logicamente possibile dell’automazione
nel capitalismo: per esso la disoccupazione di massa non implica affatto una condizione
gratificante di ozio per le masse, bensì la povertà di massa o, in casi estremi, la morte di
massa. Questa logica connaturata alla razionalità economica deve imporsi
necessariamente con il progresso dell’automazione, vanificando inesorabilmente i
tradizionali meccanismi compensativi della crescita industriale. Ha perfettamente
ragione Hannah Arendt quando giudica in modo profondamente negativo il fatto che alla
moderna società del lavoro venga a mancare il «lavoro» – tuttavia tale giudizio risulta
valido solo se inteso come pronostico di una grande crisi, non solo culturale, ma
soprattutto sociale ed economica; inoltre non si tratterrà di una crisi passeggera, ma di
un vero e proprio collasso storico del sistema, poiché questo «lavoro» in via di estinzione
non è altro che la sostanza feticistica del capitale stesso.
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Ma l’ufficialità e le istituzioni borghesi, caparbiamente aggiogate alla macchina sociale
capitalistica, che allo stesso tempo garantisce la loro legittimazione esistenziale, furono
costrette a respingere tale pensiero (proprio come ai giorni nostri) proprio come le
masse lavoratrici, modellate sulla forma-soggetto e sulla forma-relazione del sistema
della merce. Nonostante tutto però si levarono comunque voci isolate che misero in
guardia circa la possibilità di una nuova ed inaudita catastrofe economica del
capitalismo, causata dall’automazione, pur senza comprendere il nesso interno (e
l’identità fondamentale) tra «lavoro», denaro e capitale e avanzando preferibilmente
argomenti di natura morale. Tra di esse va citato anzitutto Norbert Wiener (1894-1964), il
più importante tra i fondatori della cibernetica. In un celebre libro su questo tema,
pubblicato poco dopo la Seconda guerra mondiale, Wiener formulò previsioni radicali,
manifestando il suo profondo pessimismo in quanto egli, diversamente da Keynes o
Arendt, era perfettamente conscio della situazione:
Wiener mescola qui la seconda rivoluzione industriale, già visibile, con la terza
rivoluzione industriale, ancora invisibile, che per l’autore appare solo come un
prolungamento della precedente. Certo, ogni rivoluzione industriale costituisce il
fondamento della successiva, si possono osservare stadi intermedi e transizioni, in
quanto la concorrenza spinge permanentemente verso l’innovazione tecnologica. Ma
considerando questo sviluppo sul lungo periodo e su scala più vasta è possibile
individuare modelli coerenti che costituiscono su una base tecnologica assolutamente
specifica un’epoca socio-economica corrispondentemente specifica.
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Mentre la prima rivoluzione industriale fu caratterizzata dall’impiego del carbone e del
vapore, che causò la rovina dei tradizionali produttori artigianali, la seconda rivoluzione
si fondò invece sul motore a combustione interna, sulla catena di montaggio e sulla
«scienza del lavoro» aziendale, in associazione con una scissione socio-economica
epocale tra il periodo delle guerre mondiali industrializzate e quello della prosperità
fordista del dopoguerra. La terza rivoluzione industriale avrebbe trovato la sua base
tecnologica nell’elettronica e nelle «scienze dell’informazione» e ne sarebbe seguito un
nuovo stadio qualitativo della disoccupazione di massa e quindi della crisi del sistema. Il
pessimismo precoce di Wiener circa la possibile inconciliabilità tra l’ulteriore progresso
produttivo e il modo di produzione dominante sulla base dei «mercati del lavoro» –
emersa dalle sue ricerche sul piano tecnologico – era fin troppo giustificato; ma le sue
indicazioni, in cui la seconda rivoluzione industriale non si distingueva nettamente dalla
terza, risultarono prive di effetto e non c’è da stupirsene visto che nel 1947 la piena
affermazione del fordismo era ancora a venire.
Nel 1965, quando il boom era ancora al suo apice, il sindacato tedesco IGM
(Industriegewerkschaft Metall), uno dei più importanti del mondo, organizzò un
congresso dal titolo «Automazione: rischi e opportunità», che venne documentato da
due ponderosi volumi. Nonostante si discutesse già di calcolatori elettronici e di nuove
potenzialità di razionalizzazione, il futuro della terza rivoluzione industriale venne
esaminato attraverso le lenti fordiste della «piena» occupazione di massa. A prevalere
era l’ottimismo, come testimonia del resto l’adozione del sempiterno ragionamento
capitalistico circa «rischi e opportunità», laddove i «rischi» sono funzionali solo allo
sfruttamento di formidabili «opportunità», così da giustificare preventivamente il corso
capitalistico delle cose. L’allora presidente di IGM, Otto Brenner (1907-1972) rifletteva
così in tutta serenità:
Indubbiamente lo sguardo sul futuro dei sindacati, come già nel dibattito sulla
razionalizzazione fordista degli anni Venti, confidava in maniera tenace ed esclusiva su
un’imprecisata rivoluzione tecnologica del capitalismo, sulla possibilità di ridefinirla in
termini cosmetici e sulla speranza di sopravvivere anche ad una nuova epoca di
razionalizzazione e di automazione mediante una collaborazione positiva. In questo
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dibattito i rappresentanti delle istituzioni internazionali si espressero in maniera ancora
più ottimistica, addirittura euforica, come dimostra ad esempio Jef Rens, dirigente
dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL) di Ginevra:
Mediante gli immani progressi tecnici del più recente passato diviene possibile produrre
un profluvio costantemente crescente di beni, per soddisfare i desideri e i bisogni degli
uomini. Possiamo riflettere come mai prima d’ora sul modo in cui vogliamo utilizzare
questa produttività crescente […] L’ampliamento prevedibile del tempo libero offrirà
anche possibilità estese per un suo impiego costruttivo. In questo sviluppo un ruolo
considerevole potrebbero giocarlo proprio i sindacati. Essi sono stati creati e diretti dai
lavoratori stessi e hanno quindi i presupposti ideali per la stesura e la realizzazione di
programmi che possano dischiudere ai lavoratori una vita più ricca e più soddisfacente. Il
movimento sindacale può stabilire nel migliore dei modi quali occupazioni siano di
interesse per i suoi membri nel tempo libero e dare una forma corrispondente ai propri
programmi. Al movimento sindacale odierno compete sicuramente ancora un grosso
compito.
Forse si è prestata meno attenzione alle opportunità della tecnica moderna che ai suoi
pericoli. Finora però l’incremento della produttività ha condotto ad un miglioramento
costante del tenore di vita in tutti i paesi che hanno adottato le nuove tecniche. Nulla
giustifica l’assunto secondo cui l’automazione dovrebbe cambiare lo stato delle cose.
Nella più completa ignoranza di ogni vincolo economico strutturale a pronunciarsi qui
con forza è unicamente la volontà di chi vorrebbe giudicare la terza rivoluzione
industriale ai suoi albori solo dal punto di vista del boom fordista, già in fase declinante,
e dunque come se si trattasse di un suo prolungamento. Aspettative che vennero
alimentate anche da molti scienziati sociali. Sotto questo riguardo, nel novero dei più
rinomati ottimisti di professione troviamo anche il sociologo francese Jean Fourastié
(1907-1990), che volle calcolare anticipatamente la diminuzione del tempo di lavoro,
rigidamente limitata ai centri della prosperità fordista, per il secolo successivo:
Ai giorni nostri è ampiamente condivisa l’idea che già in un prossimo futuro, nei paesi
economicamente più sviluppati, l’uomo medio potrà soddisfare le sue necessità con
un’attività lavorativa di trenta ore settimanali […]; in ogni caso i progressi della scienza e
della tecnica, messi a punto nei paesi occidentali, fanno apparire queste prospettive
come assolutamente giustificate […]; senza voler fissare un punto ben preciso nel tempo,
possiamo ipotizzare che ben si accordino 30 ore di lavoro a settimana per 40 settimane
di lavoro all’anno. Ne risultano 30 per 40 uguale 1200 ore all’anno […] Poiché la durata
media della vita di un uomo è di circa ottant’anni […] i nostri discendenti dedicheranno
solo sei ore su cento al lavoro nella produzione, che per millenni ha divorato quasi per
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intero la forza fisica e l’attività mentale di milioni dei nostri antenati. In altre parole
stiamo sperimentando attualmente il passaggio dell’uomo da una fase di dipendenza dal
tempo a una fase di abbondanza temporale.
Proprio come i suoi colleghi della gilda economica e filosofica Fourastiè – la cui ottimistica
visione dell’avvenire ha per titolo Le 40.000 ore (di più l’uomo non dovrebbe lavorare in
futuro per l’intera durata della sua vita) – ignora completamente la logica capitalistica,
istituisce una relazione immediata tra «progresso tecnologico» e «tempo di lavoro» e, per
inciso, distorce ancora una volta la storia sociale dell’umanità quando afferma che gli
uomini premoderni «per millenni» dovevano consumare tutto il loro tempo vitale per il
«lavoro», il che non risponde minimamente al vero; infatti l’assurda tendenza ad
incrementare la forza produttiva al solo scopo di convertire, se possibile, l’intero spazio
della vita in «lavoro» è un fenomeno esclusivo del capitalismo. E se Keynes e Arendt si
erano perlomeno posti il problema culturale e psicologico del superamento della «società
del lavoro» ad opera dello sviluppo delle forze produttive, Fourastiè manifesta solo
un’ingenua, sfrenata fede miracolistica nella tecnologia che, alla luce delle condizioni
odierne, appare addirittura strampalata.
Adesso anche l’uomo normale potrà «perfezionarsi», ampliare le sue capacità, ridurre la
sua fatica o perfino abolirla (!) e influenzare il suo patrimonio ereditario […] Nella biologia
degli animali e delle piante esiste già un bestiame da macello che i nostri antenati
avrebbero ritenuto fiabesco, pesche dal peso di mezzo chilo, mele dal peso di un chilo
[…]; nel 1965 è entrata in funzione la centrale atomica di Hanford ed è in essa che si può
riconoscere l’aspetto che assumeranno le gigantesche centrali del prossimo futuro […].
Una tale euforia ha in sé qualcosa di spettrale se si pensa che la fede ottocentesca nel
progresso, sia liberale che socialista, ridimensionata in forme tecnologiche o
tecnocratiche, si era già catastroficamente spenta nell’epoca delle guerre mondiali
industrializzate e della crisi economica mondiale. Sarebbe tuttavia corretto dire che la
breve fase della prosperità fordista dopo il 1950 introdusse nella coscienza sociale una
parodia di questa speranza tecnocratica. Il pallido ottimismo di Fourastiè si colloca
indubbiamente nel contesto delle utopie tecnologiche fordiste che vennero divulgate
dappertutto su di un livello intellettuale estremamente basso. L’«abolizione della fatica»,
che la tecnologia sembrava rendere possibile, va di pari passo con le fantasie
contemporanee, diffuse dalle riviste tecniche per dilettanti o dai romanzi fantascientifici,
a base di alimenti in pillole, autostrade lanciate sul lago di Costanza o rasoi meccanici
alimentati da reattori atomici in miniatura.
Note
A. Huxley, Foreword to second edition of Brave New World, 1947.
A. Huxley, Brave New World, New York, 1932; Il mondo nuovo, Bompiani, Milano,
1991, pp.9, 17-18. Trad. di Lorenzo Gigli.
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H. G. Wells, The Time Machine, Londra, 1895; La macchina del tempo, Rizzoli, Milano,
1959, p.70. Trad. di Rossana De Michele.
Ibidem, pp.83, 88.
W. Rathenau, Anmerkung vom Konsumanteil in Schriften. Band IV, Berlino, 1908,
p.304.
J. M. Keynes, Economic Possibilities for Our Grandchildren, Londra, 1931; Possibilità
economiche per i nostri nipoti, Adelphi, Milano, 2009, pp.19 e ss. Trad. di M. Parodi.
H. Arendt, The Human Condition, New York, 1958; Vita activa, Bompiani, Milano,
1994, pp.4-5, trad. di S. Finzi.
N. Wiener, Kybernetik. Regelung und Nachrichtenübermittlung im Lebewesen und in der
Maschine, 1948; La cibernetica, Bompiani, Milano, 1953, pp.43 e ss. Trad. di O.
Beghelli.
Otto Brenner, Automation und technicher Fortschritt in der Bundesrepublik in
Automation. Risiko und Chance, Bd I, Beiträge zur zweiten internationalen Arbeitstagung
der Industriegewerkschaft Metall für die Bundesrepublik Deutschland über
Rationalisierung, Automatisierung und technischen Fortschritt, Francoforte sul Meno,
1965.
Jef Rens, Technischer Fortschritt und die Tätigkeit der internationalen
Arbeitsorganisation (IAO), in Automation. Risiko und Chance, Bd I.
Michael Harris, Technischer Fortschritt und die Tätigkeit der Organisation für
wirtschaftliche Zusammenarbeit und Entwicklung (OECD), in Automation. Risiko und
Chance, Bd I.
J. Fourastié, Les 40.000 heures, 1965.
Ibidem.
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