3 - Hávamál - Il Discorso Di Hár
3 - Hávamál - Il Discorso Di Hár
3 - Hávamál - Il Discorso Di Hár
HÁVAMÁL
IL DISCORSO DI HÁR
Il poema
Il contenuto
Le redazioni
Genere e metrica
Suddivisione critica
Edizioni italiane
Il poema
L'Hávamál, o «Discorso di Hár», è la seconda composizione della Ljóða Edda. Come la Vǫluspá, anche
questo è un lungo monologo, e a parlare è lo stesso Óðinn, qui chiamato con l'epiteto di Hár, «alto» o
«eccelso», da cui anche gli altri titoli con i quali il poema è conosciuto in traduzione italiana: Discorso
dell'Alto o Discorso dell'Eccelso. Evidenze storiche e linguistiche mostrano che le sue parti più antiche
risalgono con ogni probabilità all'inizio del X secolo.
Il contenuto
Mentre la Vǫluspá è l'opera unitaria di un poeta, l'Hávamál è una compilazione di pezzi di diversa origine e
provenienza, «cuciti» insieme a formare un lungo monologo che tratta della vita quotidiana, dei rapporti
umani, delle relazioni tra i sessi, delle rune e dei canti magici, con alcuni episodi mitologici inseriti nel
discorso in qualità di esempio. Né le varie parti sono omogenee in sé stesse: un certo numero di strofe sono
state ricollocate all'interno del poema nel chiaro tentativo – non sempre ben riuscito – di seguire una
sequenza argomentativa. Tutto questo si nota per le brusche variazioni nel metro e per un discorso privo di
un ordine chiaro, irto di tortuosità e di salti logici. La critica moderna ha ravvisato nel poema un certo
numero di fonti distinte: le varie suddivisioni effettuate dagli studiosi non sono però sempre coincidenti.
Ragion per cui, ne proponiamo una nostra.
Ma esaminiamo il contenuto del poema:
[1-79]. La prima parte viene generalmente intitolata Gestaþáttr, «capitolo dell'ospite». In una lunga serie di
massime, vi si tratta dei doveri dell'ospitalità, si invita alla prudenza e alla circospezione, si consiglia la
moderazione nel mangiare, nel bere, nel dormire, nel parlare. Si discute dell'amicizia, che va accuratamente
coltivata, mentre dai falsi amici e dai nemici bisogna ben guardarsi. Si tratta della giocondità, della cortesia,
dei rapporti tra uomo e uomo. È bello accettare l'ospitalità, ma preferibile avere una dimora propria per
quanto piccola e mal messa; splendidi sono i doni della vita, ma il bene supremo è una fama che sopravviva
alla morte; non bisogna vivere nascondendosi o rifuggendo i pericoli, ma combattere, affermarsi,
conquistare la gloria.
[81-95]. Segue una sezione un po' meno omogenea, a cui si fa riferimento come Mansǫngr, «canzone degli
uomini». Vi si tratta di diversi argomenti, che vertono per lo più sui rapporti tra uomini e donne, tracciati
con una buona dose di cinismo. La morale è che non è prudente fidarsi delle donne, le quali sono volubili di
natura e false nel cuore, e se si vuole sedurre una ragazza è lecito adularla e farle doni perché lei si conceda.
[111-137]. Segue una parte abbastanza compatta a cui viene dato il titolo di Loddfáfnismál, «discorso di
Loddfáfnir», che si ha ragione di credere sia stato il nucleo originale dell'Hávamál. Si tratta qui di una nuova
serie di massime, che Hár (Óðinn) elargisce al giovane Loddfáfnir. Questa volta a parlare non è Óðinn, ma
qualcuno (forse lo stesso Loddfáfnir) che afferma di aver udito l'intero discorso nelle «sale di Hár».
Le massime, questa volta introdotte da una lunga formula di apertura («Ti consiglio, Loddfáfnir | e tu accetta
il consiglio»), non sono molto diverse nel contenuto da quelle che comparivano nel Gestaþáttr.
[146-163]. Segue il Ljóðatal, «dissertazione sui canti magici». Óðinn elenca diciotto tra i più potenti canti
magici che conosce, dei quali spiega le proprietà, pur senza enunciarli. Anche qui sono confluite alcune
strofe di diversa provenienza, come la [162] che fa di nuovo riferimento a Loddfáfnir.
[164]. L'ultima strofa sembra provenire dal Loddfáfnismál, di cui era evidentemente la conclusiva, ma è stata
spostata in fondo il poema a mo' di chiusa generale.
Le redazioni
L'Hávamál ci è pervenuto nel solo Codex Regius ed è assente in ogni altro manoscritto. Snorri, nella
sua Prose Edda, ne cita soltanto una strofa, la prima, che in tre dei quattro manoscritti snorriani è mancante
di un verso (soltanto nel Codex trajectinus [T] la citazione è completa). Tre semiversi della strofa [84] sono
citati nella Fóstbrǿðra saga; tre semiversi della strofa [138] si trovano anche nello Svipdagsmál [30].
Al contrario, la strofa Vafþrúðnismál [10] ricorda il genere di sentenze che compongono l'Hávamál: si
ritiene provenga da qualche raccolta di tal genere.
Genere e metrica
L'Hávamál è un essenzialmente un poema sentenziale che, al contrario degli altri presenti nella raccolta
della Ljóða Edda, svolge essenzialmente un'operazione di ammaestramento morale sotto forma di massime e
consigli; in secondo luogo tratta di rune e di canti magici; le vicende mitologiche rivestono una minore
importanza e sono perlopiù ricordate a scopo di esempio.
Essendo un'opera composita, l'Hávamál non segue un unico metro. Nel corso del componimento, le varie
strofe si svolgono in molti metri diversi, spesso alternandosi disordinatamente. Il più frequente è il «metro
strofico» [ljóðaháttr], che, come abbiamo detto, è legato alla poesia sentenziosa, ai testi dai contenuti
magico-formulari o proverbiali. Nella sua forma canonica il «metro strofico» è formato da quattro versi, in
cui due «lunghi», costituiti da due semiversi, si alternano a due «pieni», formati di un solo semiverso.
Tuttavia, l'Hávamál presenta, oltre a strofe dal metro regolare, delle varianti delle stesse, spesso formate da
un numero di versi superiore a quattro e con versi «lunghi» seguiti da sequenze di due o più versi «pieni».
Tutta la sezione del Gestaþáttr [1-79] segue con buona regolarità il «metro strofico». Segue una strofa a
parte, di argomento runico [80], che presenta una variante dello stesso metro (un unico verso «lungo»
seguito da quattro versi «pieni»).
All'inizio della sezione successiva, il Mansǫngr [81-90], vi è un improvviso mutamento del metro, che passa
al «metro delle canzoni» [málaháttr]. Ogni strofa è formata da un certo numero di versi «lunghi» (in genere
quattro o sei) ciascuno costituito a sua volta di due semiversi. All'interno di detta sezione si presenta però
ulteriori variazioni metriche. Ad esempio, la strofa [84] ritorna al «metro strofico», le strofe [85-87] sono in
«metro epico» [fornyrðislag] (una variante del «metro delle canzoni» con versi di quattro sillabe anziché
sei), la strofa [88] ritorna ancora una volta al «metro strofico», le strofe [89-90] sono di nuovo nel «metro
delle canzoni». Tali caotici mutamenti del metro indicano senza dubbio la presenza di strofe e componimenti
in origine indipendenti, interpolati nel nostro poema.
A partire dalla strofa [91], l'Hávamál ritorna nel regolare «metro strofico». Il Loddfáfnismál [111-
137] prosegue nello stesso metro, ma le strofe si fanno irregolari nel numero dei versi e nella sequenza di
«lunghi» e «pieni». Il Rúnatal, la sezione relativa all'acquisizione delle rune da parte di Óðinn, prosegue
nello stesso metro fino al verso [141]. Seguono due strofe [142-143] sulla scienza runica che presentano la
stessa struttura della strofa [80], il che fa pensare che queste tre strofe provenissero da uno stesso poema. La
strofa [144] torna al «metro delle canzoni». Dopodiché il poema ritorna al «metro strofico» fino alla
fine [145-164].
In questa pagina, per ragioni grafiche, i due semiversi che compongono i «versi lunghi» sono stati spezzati e
disposti su due righe. Così le strofe, originariamente costituite da quattro o più versi, sono ora organizzate su
sei o più righe. Ecco, per confronto, la versificazione corretta della strofa [1], in «metro strofico»
[ljóðaháttr]:
Gáttir allir áðr gangi fram
um skoðaz skyli
um skygnaz skyli;
Þvi at óvist er at vita hvar
ovinir
sitja á fleti fyrir.
È evidente che la nostra organizzazione del testo non permette di distinguere, strofa per strofa, il metro
originale. A questo viene in aiuto l'apparato di note. Si tenga ben presente che, nella versificazione, i numeri
arabi indicano le strofe e le lettere, per comodità, i singoli semiversi, che nella nostra organizzazione del
testo corrispondono alle righe.
Suddivisione critica
Se classifichiamo le strofe, potremmo azzardarci a ipotizzare da quante fonti siano esse derivate. La nostra
conclusione è che il materiale possa essere fatto risalire, secondo il metro e l'argomento, a un numero
massimo di nove fonti. È possibile che alcune di tali fonti possano venire identificate: quanto qui risulta è
una semplice applicazione del metodo proposto.
Edizioni italiane
Escludendo le strofe scorporate presenti nelle antologie, la prima traduzione dell'Hávamál, sebbene non
integrale, è quella presente nel libro I canti dell'Edda, a cura di Olga Gogala di Leesthal, pubblicato nella
collana «I grandi scrittori stranieri» dalla UTET (Torino 1939). Suddiviso in canti separati, dal titolo
di Havamal (nel quale si distinguono a sua volta un «Primo esempio di Odino» e un «Secondo esempio di
Odino»), Loddfafnesmal [111-137] e Canto runico di Odino [138-145], è una traduzione metrica in quartine
di endecasillabi alternati a settenari. Sebbene non possa essere considerata una traduzione letterale, è sorretta
da un buon corredo di note.
Segue la traduzione di Alberto Mastrelli, nel libro L'Edda. Carmi norreni, nella collana «Classici della
religione», edita da Sansoni (Firenze 1951, 1982). Intitolata, sciogliendo l'epiteto, Havamal. Il carme di
Odino, è in versi liberi, con le coppie di semiversi «cucite» in versi interi. Abbastanza libera, ma rigorosa,
fittamente annotata.
Un'altra traduzione, con il titolo tradotto direttamente in Canzone dell'Eccelso, è quella fornita da
Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli, nell'antologia Il canzoniere eddico, edito da Garzanti (Milano
1982). Di nuovo versi liberi, sebbene i semiversi siano evidenziati, presenta un corredo di note ridotto al
minimo e non giustifica molte scelte, non sempre felici, nella traduzione.
LJÓÐA EDDA
HÁVAMÁL
IL DISCORSO DI HÁR
IL DISCORSO DI HÁR
NOTE
1 ― Questa prima strofa è citata da Snorri (Gylfaginning [2]). Tre dei quattro manoscritti snorriani omettono
il terzo semiverso (1c); il Codex Trajectinus [T] è l'unico a riportare integralmente la citazione.
12 ― (a) Si segue qui il piccolo emendamento dell'edizione di Jónsson dall'originale er «è» a era «non è»,
che ha più senso nel contesto della strofa (Jónnson 1926).
13 ― (f) Gigantessa, figlia di Suttungr. Óðinn la sedusse per rubarle l'idromele della saggezza, v. infra [104-
110].
14 ― (c) Fjalarr e Galarr furono i due nani che uccisero Kvasir e dal suo sangue distillarono l'idromele della
saggezza, che poi venne rubato da Óðinn, v. infra [104-110].
22 ― (f) Anche qui, come in 12a, si segue l'emendamento dell'edizione di Jónsson dall'originale er «è»
a era «non è», che ha più senso nel contesto della strofa (Jónnson 1926).
25 ― (a-c) Questi primi tre semiversi sono abbreviati nel manoscritto.
27 ― (f) L'idea ricorda irresistibilmente il detto latino præstat tacere et stultus haberi quam edicere et omne
dubium removere «è meglio stare zitti e sembrare stupidi che parlare e togliere ogni dubbio».
37 ― (a-c) Questi primi tre semiversi sono abbreviati nel manoscritto.
39 ― (e) Il manoscritto riporta semplicemente svági | at leið se laun ef þegi «non così | da sprezzare una
ricompensa se ne riceva». Jónsson emenda in svági gløggvan «non così avaro...» (Jónsson 1926), ma questo
non sembra accettabile dal contesto. Altri ritengono che la parola soppressa sia, al
contrario, gjǫflan «liberale, munifico, generoso» (Evans 1986). Su questa linea alcuni pensano che la
parola svági «non così» vada appunto scissa in svá «così» più un gi che verrebbe in questo caso interpretato
come un'abbreviazione o un errore dello scriba per gjǫflan. Comunque sia, il senso della frase è sicuramente
che non esiste uomo così elargitore di doni che si offenda se ne riceva uno.
51 ― (c) L'antica «settimana» norvegese era di cinque giorni; solo col Cristianesimo sarebbe stata adottata
quella di sette (Leesthal 1939).
52-52 ― (d-e) «Mezzo pane» era espressione proverbiale per indicare piccola quantità (Leesthal 1939).
«Coppa inclinata» è una coppa che, semivuota, va inclinata per potervi bere.
54 ― (f) L'originale ha er vel mart vito «coloro che molto sanno». Ma poiché la strofa non avrebbe molto
senso (all'esortazione di essere moderati in saggezza è arduo far seguire un'affermazione per cui proprio i
sapienti sarebbero gli uomini che vivono meglio), è stato proposto di emendare mart vito nel suo
negativo mart vitut (Evans 1986). La frase verrebbe così ad avere un significato perfettamente contrario,
anche se coerente con il contesto: «coloro che non molto sanno».
55 ― (a-c) Questi primi tre semiversi sono abbreviati nel manoscritto.
56 ― (a-c) Questi primi tre semiversi sono abbreviati nel manoscritto.
61 ― (e-f) Secondo Henry Adams Bellows, gli ultimi due semiversi sono stati interpolati successivamente
nella strofa (Bellows 1923).
65 — Questa strofa è probabilmente mutila della prima metà. Alcuni curatori vi premettono tre semiversi
tratti da manoscritti pià recenti, anche se la loro autenticità è dubbia. Essi suonano: «Un uomo deve essere
guardingo | e prudente molto, | e con giudizio fidarsi dell'amico» (Bellows 1923).
70 ― (b) Il manoscritto ha ok sæl lifðom, privo di senso. Fu lo stesso Rasmus Rask, agli esordi degli studi
germanistici, a suggerire di emendarlo in en sé ólifðum, poi adottato in tutte le traduzioni (Rask 1818). ―
(d-f) Olga Gogala di Leesthal traduce: «divampar vidi il fuoco presso il ricco | mentre la Morte stava alla sua
porta» (Leesthal 1939). Ha indubbiamente più senso ma non sembra questo essere il significato della
frase.
71 ― (e) È interessante notare che all' autore del componimento era ancora familiare l'uso di bruciare i
cadaveri. Questo può aiutarci a collocare la composizione di questa parte dell'Hávamál: l'uso della
cremazione fu infatti abbandonato con l'introduzione del Cristianesimo, quindi verso la fine del IX
secolo. (Leesthal 1939)
73 ― Alcuni studiosi ritengono che questa strofa, che poca attinenza ha con le precedenti o le successive, sia
il risultato di un'interpolazione posteriore (Bellows 1923).
74 ― (c) «Corti sono i pennoni delle navi». Non è ben chiaro il senso di questo semiverso nell'ambito della
strofa. Molti studiosi ritengono che qui, come in altre luoghi dell'Hávamál, il compilatore o il copista abbia
inserito dei versi isolati per cui non si trovava una collocazione migliore (Bellows 1923). A nostro avviso,
tuttavia, il non comprendere il senso di certi passaggi non giustifica necessariamente lo smembramento delle
strofe: certune associazioni di idee, o particolari della vita pratica, che sembrano non avere senso per noi,
non significa che non ne avessero per coloro a cui il poema fosse destinato.
78 ― (b) Fitjungr, che qui è fornito come nome proprio, vuol dire in realtà «grassone, pancione, ciccione»
(da fita «grasso»). Si tratta del crapulone per antonomasia, a cui non fanno difetto le ricchezze e
l'appetito.
80 ― Bellows non ha dubbi sul fatto che questa strofa sia fuori posto; in particolare, il riferimento alla
magia runica suggerirebbe che originariamente la strofa dovesse essere posta in qualche lista di canti magici
come ad esempio il Ljóðatal [147-165]. Inoltre la struttura metrica di questa strofa presenterebbe tali
irregolarità da far pensare che siano andati perduti dei versi o che dei versi siano stati interpolati (Bellows
1923). Il manoscritto non presenta tuttavia alcuna lacuna. A nostro parere, il particolare metro della strofa
(una variante del «metro strofico» [ljóðaháttr] costituita da un verso «lungo» seguito da una lunga serie di
versi «pieni») permette di confrontarla con le strofe [142-143], costruite allo stesso modo. Poiché tutt'e tre le
strofe trattano di sapienza runica, ci sembra logico asserire che possano provenire da una medesima
composizione, oggi perduta.
81-90 ― Questa serie di strofe non segue più il «metro strofico» [ljóðaháttr] caratteristico dell'Hávamál. Più
esattamente, nelle strofe [81-83] abbiamo il raro «metro delle canzoni» [málaháttr] (una variante del «metro
epico» [fornyrðislag]), la strofa [84] ritorna al «metro strofico», le strofe [85-87] – che si configurano come
una sorta di elenco di cose da cui è necessario diffidare – sono in «metro epico» [fornyrðislag], la
strofa [88] ritorna ancora una volta al «metro strofico», le strofe [89-90] sono di nuovo nel «metro delle
canzoni». Dopodiché il poema ritorna al «metro strofico». Tali caotici mutamenti del metro indicano senza
dubbio la presenza di strofe e componimenti in origine indipendenti, interpolati nel nostro poema. Poiché
alcune di queste strofe consigliano perlopiù a diffidare delle donne, è presumibile che siano state inserite in
questo punto dell'Hávamál come introduzione alla susseguente vicenda della mancata seduzione della figlia
di Billingr da parte di Óðinn [96-102].
83 ― (d) In norreno en mæki saurgan è letteralmente «una spada sporca». S'intende naturalmente una spada
a lungo provata in battaglia e che è stata ripetutamente insozzata di sangue (da cui la nostra traduzione). Si
tratta dunque di una buona spada, ragione per cui nel testo se ne consiglia l'acquisto.
84 ― (d-f) Questi tre semiversi sono citati nella Fóstbrǿðra saga, la «Saga dei fratelli adottivi».
87 ― Questa strofa è probabilmente incompleta. Alcuni editori aggiungono questi quattro semiversi tratti da
tarde redazioni dell'Hávamál: «del cielo chiaro | di una folla che ride | della ciotola di un cane | del dolore di
una sgualdrina».
96-102 ― Dopo aver trattato della falsità delle donne, in queste strofe la si illustra con un esempio pratico,
attraverso il racconto della mancata seduzione della figlia di Billingr da parte di Óðinn.
100 ― (e) I «bastoni impugnati» [bornum viði] sono probabilmente quelli delle torce, da cui si evince il
senso dei «fuochi di luce» [brennandum ljósum] del verso precedente, da noi tradotto – un po' liberamente –
con «torce avvampanti». ― (f) Vílstingr, letteralmente «via della miseria, della malora, dello scorno».
102 ― Rasmus Rask aggiunge all'inizio di questa strofa tre semiversi tratti da un tardo manoscritto, che
suonano: «poche sono così buone | da non essere mai false | sì da ingannare la mente dell'uomo». Questi tre
semiversi e la prima parte della strofa (semiversi [102a-102c] formano, nell'edizione di Rask, un'intera
strofa; la seconda parte della strofa (semiversi [102d-102i] formano una strofa a parte. (Rask 1818)
103 ― Questa strofa, che nulla ha a che fare con la vicenda della figlia di Billingr e quella di Gunnlǫð, è
interposta tra le due apparentemente senza alcuna ragione logica.
104-110 ― In queste strofe si allude alla storia della seduzione (questa volta condotta a buon fine)
di Gunnlǫð da parte di Óðinn e del furto dell'idromele della poesia. La vicenda, narrata da Snorri
in Skáldskaparmál [2], è la seguente: dopo aver ucciso il sapiente Kvasir, i nani Fjalarr e Galarr, scolarono il
suo sangue in un vaso chiamato Óðrørir e in due coppe, che poi dovettero consegnare al
gigante Suttungr come guidrigildo per l'uccisione del padre di questi. Suttungr portò il vaso e le coppe nella
sua caverna e vi mise a guardia la figlia Gunnlǫð. Óðinn, che intendeva impadronirsi del magico idromele,
giunse nei pressi della casa di Suttungr, sotto il falso nome di Bǫlverkr «colui che opera il male». Dopo aver
forato la roccia con un trapano chiamato Rati, trasformatosi in serpente, Óðinn passò attraverso il buco e
giunse presso Gunnlǫð. Dopo essere giaciuto con lei per tre giorni e tre notti, Óðinn ricevette da lei il
permesso di bere tre sorsi del magico idromele ma, presi la coppa e i due vasi, in tre sorsi li vuotò.
Trasformatosi in aquila, Óðinn fuggì poi verso l'Ásgarðr ma, lungo il viaggio, scontrandosi con Suttungr,
non poté fare a meno di versare sulla terra un po' di idromele. Ed è così che l'arte poetica fu donata agli
uomini.
106 ― (e) «Vie degli jǫtnar» [jǫtna vegir] è una kenning per indicare le rocce. Ricordiamo che Óðinn,
trasformato in serpente, si era infilato nel foro lasciato dal trapano nella parete della roccia: mentre scivolava
nel pertugio, egli aveva roccia sopra e sotto di sé.
107 ― (a) Vel keypts litar. Nel suo importante studio sull'Hávamál, David Evans ritiene che il manoscritto
qui sia corrotto e traduce litar (litr è letteralmente «colore» ma, per estensione, «aspetto, sembiante») come
qualcosa che abbia a che fare con l'idromele della poesia. Secondo l'autore, il resto del verso si riferirebbe
appunto ai benefici del possesso di questo vélkeypts mjǫðr «idromele preso con l'inganno» (Evans 1986). A
nostro parere, non c'era tuttavia bisogno di sviare così tanto il senso della strofa, che così com'è si riferisce
con sufficiente chiarezza alla seduzione di Gunnlǫð da parte di Óðinn, che gli permise di rubare il magico
idromele custodito nel vaso Óðrørir. ― (f) Il senso letterale del verso á alda vés jarðar è «al santuario delle
stirpi della terra», intendendo con ogni probabilità che il magico idromele, rubato da Óðinn a Suttungr,
cadde poi sulla terra di modo che anche presso gli uomini è oggi diffusa l'arte poetica. Questo è il mito
narrato da Snorri in Skáldskaparmál [2]. Essendo il verso un po' lambiccato, gli studiosi hanno creduto di
individuarvi delle corruttele. Jónnson ha proposto di emendare in á vé alda jaðars «al santuario del signore
delle stirpi», intendendo con questo che il magico idromele sarebbe stato poi trasportato
nell'Ásgarðr (Jónsson 1926). Questo «santuario del signore delle stirpi» sarebbe, nell'interpretazione di
Jónnson , una doppia kenning dove il «signore delle stirpi» è appunto Óðinn e il suo santuario l'Ásgarðr. A
parte il fatto che è sempre preferibile riferirsi al testo non emendato piuttosto che modificarlo per adattarlo
alle nostre interpretazioni, ma il mito del furto dell'idromele da parte di Óðinn è appunto la rivelazione delle
origini della poesia, dono degli dèi e strumento di sapienza soprannaturale.
111-137 ― Questo gruppo di strofe comprende una composizione unitaria, a cui si dà generalmente il titolo
di Loddfáfnismál, «Discorso di Loddfáfnir», poi confluito nell'Hávamál. Si configura come una serie di
consigli che Hár («alto, eccelso», epiteto di Óðinn) rivolge a un certo Loddfáfnir, riferiti da qualcuno che
afferma di averli uditi nelle «sale di Hár». Il nome Loddfáfnir non compare altrove, non sappiamo quindi
dire chi fosse o di quali vicende fosse stato il protagonista. Alcuni interpreti ritengono che Loddfáfnir sia
stato uno scaldo itinerante, l'effettivo autore della composizione, nella quale riferisce delle massime
sapienziali che afferma di avere udito dallo stesso Hár (ipse dixit). Secondo Karl Müllenhoff, infatti, il
titolo Hávamál in origine era dato al solo Loddfáfnismál (Müllenhoff 1908). Il contenuto delle strofe
del Loddfáfnismál è in effetti assai assai vicino a quello delle prime strofe dell'Hávamál. La strofa [111] è
probabilmente corrotta ma, nonostante gli sforzi fatti al riguardo, è arduo individuare ed emendare le
corruttele.
112 ― La lunga formula che introduce la maggior parte dei versi del Loddfáfnismál nei manoscritti viene in
seguito riferita in modo abbreviato.
114 ― (f) Si confronti con la scena, presente nel poema anglosassone Deor, dove è detto di Mæðhild «un
doloroso amore la privava di tutto il sonno» [þæt him seo sorglufu slæp ealle binom].
119 ― (g) A quanto pare, nel manoscritto originale, i versi [119h-119j] si trovavano, ripetuti, in fondo alla
strofa [44]. Da qui, Barend Sijmons deduceva che l'autore del Loddfáfnismál era anche quello
del Gestaþáttr (Sijmons 1906). L'ipotesi è forse un po' eccessiva: nulla impedisce che, nella rielaborazione
del materiale del Hávamál, gli stessi versi siano stati erroneamente ripetuti in due punti diversi. Nelle
edizioni critiche, questi versi sono espuntati dalla strofa [44] (rimane il semiverso [44f] simile, ma non
identico, al [119g]).
120 ― (g) Nem liknargaldr «impara incantesimi benefici» è la traduzione letterale (galdr è infatti il canto
magico). Poiché questa chiusa non è molto coerente col resto della strofa, Sijmons gioca sull'analogia tra
magia e fascino e intende: «impara a renderti amabile» (Sijmons 1906). L'interpretazione ha il pregio di
accordarsi al significato della strofa, ma il difetto di essere eccessivamente libera.
122 ― (g) Ósvinna apa, letteralmente «insavie scimmie» ma, in senso traslato, «idioti, folli». Il
norreno api (cfr.anglosassone apa, inglese ape «scimmia») ha entrambi i significati; questo vocabolo non si
trova nella poesia scaldica, né nella prosa popolare, ma si riscontra unicamente nella letteratura religiosa e
sapienziale.
124 ― (a) Sifjum er þá blandat. Sif significa «relazione, parentela», in questo caso sta per
«amicizia»; blanda è «mescolare, scambiare». Si intende qui una relazione di amicizia che è quasi un
vincolo di parentela. Si potrebbe forse riferire alla «fratellanza di sangue», con la quale si mescolava il
sangue in una solenne cerimonia (Leesthal 1939).
127 ― (f) Nel testo kveðu þ' bǫlvi at. Nella sua edizione dell'Hávamál, Bugge espande la
contrazione «þ'» in þér «a te» nel testo («afferma sia un'offesa a te»), ma in appendice propone una lettura
alternativa þat «questo» («afferma sia questo un'offesa») (Bugge 1867). Qualunque sia la soluzione corretta,
non inficia il senso della traduzione: «protesta ad alta voce per l'offesa che ricevi e non lasciar correre per
viltà o debolezza».
129 ― (g) Gjalti glíkir è letteralmente «somiglianti a cinghiali». In genere viene inteso come «pazzi di
terrore», nel senso dell'espressione norrena svín galinn «pazzo come un porco». Si è anche pensato, con
scarsa verosimiglianza, a una possibile influenza dell'episodio evangelico dei dèmoni che entrano in un
branco di porci (Euaŋgélion katà Matthaîon [8]). È anche possibile che questo semiverso e il successivo
siano stati interpolati da un differente poema (Bellows 1923). ― (i) Síðr þitt of heilli halir. Jónsson
suggerisce che þitt qui possa avere più senso come pronome accusativo þik «te» (Jónsson 1926). Evans
emenda in þik (Evans 1986). Anche se abbiamo lasciato il testo norreno originale, in traduzione abbiamo
tenuto conto dei suggerimenti.
131 ― (f) Ok eigi ofváran. I due semiversi suonano letteralmente «prudente io ti consiglio di essere | e non
troppo prudente», ma il passo suona meglio leggendo come fosse en «ma» invece di ok «e». Nonostante le
argomentazioni di molti studiosi, non c'è tuttavia necessariamente da pensare che il testo sia corrotto (cfr.
nota 70b). ― (f-j) È probabile che questi quattro semiversi siano stati interpolati da un differente
poema (Bellows 1923).
133 ― Molti editori eliminano gli ultimi tre semiversi [133d-133f] di questa strofa come spuri, ponendo i
primi tre semiversi [133a-133c] alla fine della strofa [132]. Altri, dopo aver spostato i semiversi [133d-
133f] in coda alla strofa [132], li sostituiscono inserendo tre semiversi tratti da un tardo manoscritto e che
suonano: «male e bene | i figli degli uomini | portano sempre mescolati in petto». (Bellows 1923).
134-134 ― (h-l) È possibile che gli ultimi cinque semiversi della strofa siano stati interpolati da un
differente poema (il parallelismo tra gli ultimi tre indica la comune origine). Secondo Bellows, la loro
interpolazione in questa strofa dipende dall'associazione tra la pelle grinzosa delle persone anziane e gli otri
di cuoio appesi nelle antiche case di campagna vichinghe (Bellows 1923). ― (l) Il fermento che si formava
nello stomaco dei vitelli veniva adoperato per la preparazione del latte rappreso e del formaggio, dopo essere
stato lavato e appeso ad asciugare e affumicare. Vílmǫgr è lo stomaco che contiene appunto il vil, termine
usato ancora oggi in Islanda per designare questo speciale fermento del latte (Sijmons 1906 | Leesthal
1939).
137 ― Questa strofa, lista di strani rimedi magici, è una delle più ardue e di difficile interpretazione.
Secondo alcuni studiosi sarebbe stata probabilmente interpolata, ma – vista le oggettive difficoltà a penetrare
le antiche pratiche magiche di uso quotidiano – è assai più probabile che siano gli studiosi stessi a non
riuscire a capirci molto! Diamo nelle note seguenti qualche spiegazione riguardo ai versi più ardui. ― (f-g)
«Invoca per te la forza della terra! | perché la terra serve contro la birra». Secondo la spiegazione di Olga
Gogala di Leesthal, questa coppia di semiversi farebbe riferimento al fatto che la birra che veniva distillata
in casa conteneva spesso dei tossici, in quanto non si sapeva ben ripulire il grano dalle erbacce; si
provvedeva dunque a mescolare la terra alla birra per neutralizzarne le eventuali qualità nocive (Leesthal
1939). È forse una spiegazione troppo pratica per un poema di argomento magico. È invece possibile, a
nostro parere, che si faccia riferimento all'uso vichingo di versare in terra il primo sorso di birra in modo da
nutrire gli spiriti del luogo [landvættir] affinché potesse esserci armonia tra le forze soprannaturali che
vigilavano sul territorio e gli uomini che vi dimoravano. ― (i) Tra i rimedi rimedi erboristici, la quercia [fik]
e i suoi prodotti erano consigliati per le irregolarità intestinali (abbinde è la dissenteria); fino a tempi molto
recenti si dava da bere ai bambini caffè di ghianda come astringente (Leesthal 1939). ― (j) Reichborn-
Kjennerud ricorda al riguardo che in Norvegia e in Svezia la spiga di grano veniva utilizzata contro il mal di
denti e altre malattie (Reichborn-Kjennerud 1923 | Leesthal 1939). ― (k) Hǫll við hýrógi. Il significato
letterale è «la sala [agisce] contro le liti in famiglia». Anche se è vero che i litigi familiari si svolgono nel
chiuso delle sale, rimane difficile cogliere il senso della frase. Molti autori hanno proposte varie
interpretazioni. Secondo Sijmons la parola hǫll «sala» andrebbe emendata in havll, nome nordico del
sambuco [Sambucus nigra] (Sijmons 1906). Questa è la soluzione comunemente accettata dai traduttori. Si
veda ad esempio la traduzione inglese di Henry Adams Bellows «la segale cura i dissidi» [rye cures
rupture] (Bellows 1923). In Italia, Olga Gogala di Leesthal traduce «il sambuco [sana] i dissidi familiari» e
sana anche, aggiunge in nota, tutti i malanni che ne possono derivare, come l'itterizia, malattia associata alla
collera e all'inquietudine (Leesthal 1939). Anche Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli traducono «il
sambuco [si porta via] le liti familiari» (Scardigli 1982). ― (m) Beiti við bitsóttum. Altra frase di ardua
interpretazione. La parola bíta in norreno vuol dire «mordere» (bit è «morso»). Bitsótt è la «malattia del
morso», probabilmente una malattia contagiosa trasmessa attraverso il morso di un animale. Traduciamo per
brevità «rabbia», ma si tratta di una licenza. Quello che sfugge è il significato della prima parola, beiti,
anch'essa legata all'area semantica del mordere. Rask. Sijmons la riferisce al lombrico [Lumbricus
terrestris], in quanto in norreno beit-fiskr indicava l'esca utilizzata nella pesca, tanto che – sempre secondo
Sijmons – ancora ai primi del Novecento in alcuni dialetti norvegesi il lombrico sarebbe stato
chiamato beite o bietel (Sijmons 1906). Da qui la traduzione di Olga Gogala di Leesthal che rende questo
semiverso con «serve il lombrico per ferite e morsi», ricordando in nota come il lombrico venisse adoperato
in medicina fin dai tempi remoti (Leesthal 1939). Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli traducono
«l'allume [porta via] le malattie da morsi» (Scardigli 1982). Ci sembra che tali traduzioni siano
eccessivamente cervellotiche, tanto più che il significato principale di beiti è «pascolo».Già ai primi
dell'Ottocento, la traduzione svedese di Rasmus Rask riportava «il pascolo cura le malattie dei morsi» [bete
mot bitsjuka] (pur conservando l'ambiguità, perché in svedese bete vuol dire anche «esca») (Rask 1818). Su
questa linea la traduzione di Henry Bellows «l'erba cura la scabbia» [grass cures the scab] (ma la scabbia si
trasmette per contatto, non con i morsi) (Bellows 1923). Secondo il monumentale dizionario antico islandese
di Richard Cleasby e Gudbrand Vigfússon, la parola beiti, oltre ad avere il significato generale di «pascolo»,
indica pure l'erica [Erica vulgaris] (Cleasby ~ Vigfússon 1874). Ci sembra che sia questa la soluzione più
semplice ed elegante. ― (o) Flóð in norreno significa «inondazione, diluvio, alluvione»; in poesia la parola
può anche indicare un fiume o un mare. Di qui le traduzioni letterali, come quella inglese di Bellows «il
campo assorbe gli allagamenti» [the field absorbs the flood] (Bellows 1923). Più sottile quella italiana di
Olga Gogala di Leesthal «il terreno gli umori assorbe» (Leesthal 1939). Interessante la traduzione di
Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli che insinua la presenza dell'elemento magico: «la terra porta via il
flusso maligno» (Scardigli 1982).
140 ― Questa strofa, come detto, sembra provenga dalla sezione relativa alla seduzione di Gunnlǫð [104-
110], come si evince dal riferimento all'idromele della poesia contenuto nel vaso Óðrørir. Come sappiamo
da Snorri (Gylfaginning [6]), Bestla fu la madre di Óðinn, Bǫlþorn ne fu il nonno. Nulla tuttavia sappiamo di
questo altro figlio di Bǫlþorn che, stando a quanto qui è detto, avrebbe insegnato a Óðinn nove «terribili
canti magici» [fimbulljóð]. Alcuni interpreti ritengono si tratti di Mímir che, in tal caso, diverrebbe zio
di Óðinn. È un'ipotesi elegante ma, ahimé, rimane soltanto un'ipotesi.
142-143 ― Queste due strofe vengono probabilmente da un medesimo poema di argomento magico-runico,
tanto che in alcune edizioni sono accorpate insieme in una strofa unica. Alcuni traduttori, seguendo il
consiglio di Bugge, traspongono i semiversi della strofa [142] in quest'ordine: a, e, f, b, c, d, g (Bugge
1867): ne risulta un periodare più scorrevole, ma è dubbio che sia stata questa l'intenzione del poeta (è noto
quanto la poesia scaldica fosse involuta e complessa). Come già detto, il «metro strofico» qui utilizzato,
presenta le medesimi varianti della strofa [80], anch'essa di argomento runico, così che è possibile che le tre
strofe provengano da uno stesso poema.
142 ― (e) Il «terribile vate» [fimbulþulr] di cui qui si parla è evidentemente lo stesso Óðinn. Si noti che le
rune, una volta incise nel legno, venivano dipinte di rosso.
144 ― Questa strofa, che utilizza il «metro delle canzoni» [málaháttr], è un'interpolazione da una fonte
ancora diversa. Nel manoscritto la frase «sai tu come» [veistu hvé] è abbreviata.
147 ― (c) Nell'edizione tradotta da Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli si legge «di che cosa i figli degli
uomini abbiano bisogno | se vogliono vivere da mendici» (Scardigli 1982). È sicuramente una svista: la
parola corretta non è «mendici» ma «medici». È infatti quest'ultimo il significato del norreno læknar. Anche
se val forse la pena di sottolineare che dall'anglosassone læce «guaritore» è derivata, in inglese moderno, la
parola leech «sanguisuga» (anche in senso figurato), proprio grazie al largo impiego che la medicina antica
faceva di questo animaletto per praticare salassi e simili.
149 ― Questa strofa riguardante la magica liberazione di un prigioniero da ceppi e catene, ricorda una scena
narrata dal Venerabile Beda e riguardante il nortumbriano Imma il quale, catturato dopo la battaglia di Trent
(679), non poté essere legato in alcun modo in quanto corde e catene si scioglievano magicamente e
cadevano a terra. La ragione di questo fatto era che suo fratello Tunna, avendo creduto che Imma fosse
morto in battaglia, aveva fatto dire molte messe per liberare la sua anima: poiché Imma era vivo, quelle
messe avevano invece l'effetto di liberarlo fisicamente dai ceppi. (Historia ecclesiastica Anglorum [IV:
22])
151 ― (c) Á rotom rás viðar «con radici di un albero verdeggiante». Semiverso di difficile interpretazione:
difficile dire quale sia il senso di ferire un uomo con la radice di un albero verde (si potrebbe ad esempio
pensare a quanto narrato nella Grettis saga, in cui si causa la morte del protagonista incidendo rune su una
radice che gli era stata mandata). Effettivamente è all'opera qualche tipo di arte magica, visto che Óðinn si
dice in grado di ritorcere la fattura al nemico. Alcuni traduttori hanno proposto di emendare la problematica
parola rás (qui interpretata «verdeggiante») con rams «forte», ma questo non riduce le perplessità.
160 ― Secondo l'opinione di Müllenhoff, questa strofa sarebbe stata la conclusione originale
dell'Hávamál e la frase «un quindicesimo» sarebbe stata aggiunta soltanto quando la strofa finì per essere
inserita nella sezione dei canti magici (Müllenhoff 1908). Non è molto chiaro, tuttavia, su quali basi si possa
sostenere tale ipotesi: non ci sembra che questa strofa abbia qualcosa di particolarmente significativo da
giustificare tale asserzione. ― (b) Þjóðrǫrir non è menzionato altrove: non sappiamo chi fosse. ―
(f) Hroptatýr è epiteto di Óðinn.
162 ― Questa strofa è il risultato della giustapposizione di due strofe differenti. I primi tre semiversi di
questa strofa (a-c) sono infatti quanto resta di una strofa originariamente indipendente, che è stata poi
giustapposta alla strofa successiva (qui formata dai semiversi d-i). Molte edizioni le registrano infatti come
due strofe differenti, la prima delle quali lacunosa. I tentativi di completare i versi mancanti non hanno dato
risultati convincenti. Il richiamo a Loddfáfnir nella seconda parte della strofa fa capire che questa
apparteneva in origine alla sezione del Loddfáfnismál.
163 ― (g-i) Cioè «se non, unica, a colei | che col braccio mi cinge | oppure è a me sorella». Chi è questa
donna che viene detta essere l'«unica» [einni] confidente di Óðinn per quanto riguarda le segrete arti
magiche del dio? Alcuni interpreti intendono questo passo nel senso che, in qualche antica versione del mito
nordico, la sposa di Óðinn fosse anche sua sorella (a volte con l'esplicito intento di «nobilitare» il mito
nordico tracciando un parallelo classico con Iuppiter, la cui sposa Iuno era detta et soror et
coniunx (Æneis [I: 47])). Al contrario, nell'Hávamál i due attributi sono posti tra loro in una sorta di
opposizione, in cui il secondo è introdotto dalla congiunzione eða «o». Il tono della strofa sembra essere
generale: non pare che Óðinn si riferisca a qualcuno in particolare. Il senso è probabilmente: «non
racconterei queste cose a nessun altro, tranne forse, unica persona, a mia moglie od a mia sorella».
164 ― La chiusa dell'Hávamál viene di nuovo dal Loddfáfnismál. È evidente che è slittata alla fine del
poema a causa dell'inserzione del Rúnatal e del Ljóðatal. Vari traduttori tendono a rimetterla «a posto»,
dopo la strofa [137], così da concludere la sezione iniziata con la strofa [111] (Müllenhoff 1908 | Bellows
1923).
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