Avete Perseverato Con Me Nelle Mie Prove
Avete Perseverato Con Me Nelle Mie Prove
Avete Perseverato Con Me Nelle Mie Prove
C.M. Martini *
PREMESSA
«Avete perseverato con me nelle mie prove» è il titolo di un corso di Esercizi che il
Cardinale Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano, ha tenuto a un gruppo di sacerdoti,
in prevalenza della diocesi ambrosiana.
La consolante parola di Gesù ai suoi discepoli, pronunciata prima della passione
ricorda come la vita del cristiano, ma in genere dell’uomo, è attraversata dalla tribolazione.
Per questo è stato scelto, come testo su cui riflettere, soprattutto il Libro di Giobbe, anche se
la meditazione si allarga ad altri brani dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Il racconto di quest’uomo misterioso, non appartenente al popolo eletto, che abitava in
una terra lontana, circolava forse oralmente tra i saggi dell’Oriente già verso la fine del 2000
a.C. e fu redatto in ebraico assai più tardi. Giobbe, che era e si riteneva giusto, viene provato
e privato di tutto. Anche gli ebrei esiliati in Babilonia avevano perduto tutto e ciò metteva in
causa la loro fede nella giustizia di Dio presso cui pensavano di poter vantare dei diritti.
Cercando di comprendere il senso nascosto della sofferenza che si abbatte su coloro che
agiscono rettamente davanti a Dio, probabilmente leggevano e cantavano i lamenti di
Giobbe. Può l’uomo chieder conto a Dio del suo agire? Il poeta oppone la propria voce: non
bisogna domandare a Dio le sue ragioni bensì credere nella sua giustizia, nella sua sapienza
incomprensibile.
Con profondità spirituale e pastorale, il Cardinale si sofferma su alcuni passi di Giobbe
aiutando a chiarire il senso del mistero dell’uomo e del mistero di Dio. Nel dialogo dei primi
due capitoli tra satana e Dio «la posta in gioco si configura come una scommessa fatta
sull’uomo: esiste o non esiste la gratuità nell’azione umana?». Il problema di Giobbe è
anzitutto un problema di fede; il mercanteggiare non ha posto nella vita di fede perché alla
sublimità della grazia deve corrispondere la gratuità della devozione. Certo, Giobbe non ha
commesso nessuno dei crimini di cui gli amici lo accusano ma ha commesso il delitto per
eccellenza dell’uomo religioso: è diventato giudice di Dio. Le riflessioni dell’Arcivescovo ci
interpellano sulla qualità della nostra fede, della nostra preghiera come sottomissione di tutto
l’essere al mistero ineffabile di Dio, sull’obbedienza della mente. Infine, come risulta dal
singolare parallelo del Libro con il Cantico dei Cantici, la ricerca di Giobbe appare come un
problema di amore.
Per una lettura pienamente feconda del presente volume è necessario un impegno
spirituale che rifugga dalla mediocrità e renda l’anima assetata di Dio. Interessante lo scopo
che l’Arcivescovo propone a questo corso di Esercizi: la riconversione allo spirito di
preghiera. Nel clima della preghiera queste pagine diventano luce, nutrimento, forza,
stimolo, consolazione.
Tra l’altro, ci avvertono che qualunque uomo di buona volontà è già alla ricerca di Dio,
viene messo di fronte al modo con cui l’Onnipotente guida il suo universo e sente in se
stesso la critica della coscienza delle sue azioni.
Ci insegnano a liberare la realtà di Dio dalle nostre ristrettezze e dalla nostra moralità
concepita come sorgente di autogiustificazione. Perché la fede si indirizza primariamente
alla incomprensibilità dell’amore divino che ci previene e ci supera. Da tale amore, in cui il
cristiano crede quando ha contemplato il segno del Crocifisso, possiamo ricevere la capacità
di amare gratuitamente, di amare anche nella prova e nella tribolazione. Ci esortano dunque
a crescere nella fede che ama e che spera, a desiderare un rapporto con il Signore nel quale si
giochi davvero tutta la nostra libertà.
Il Dio che si dona a noi nell’alleanza non chiede altro che amore e devozione
appassionata.
***
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INTRODUZIONE
“Ti ringraziamo, Padre, perché ci hai convocato da tante parti della diocesi e anche
da altre parti d’Italia per ascoltare la tua Parola, per ricevere la grazia d’amore e di
misericordia del tuo Figlio, per essere confortati e consolati inferiormente dallo Spirito
santo che è amore e pace.
Ti chiediamo di infondere abbondantemente su ciascuno di noi in questi giorni il tuo
Spirito di amore e di pace. Io ti ringrazio, in particolare, per le esperienze vissute a
Santiago di Compostella con il Papa e con centinaia di migliaio di giovani; per la fede e la
speranza che ci siamo comunicati, per i doni che ci sono stati dati nella contemplazione di
questo futuro della Chiesa, così ricco di energie, di spirito di sacrificio, di coraggio, di
gioia.
Fa’ che noi possiamo servire questa gioventù che chiede e attende molto.
Noi siamo di fronte a te, Padre, consapevoli della nostra povertà, del nostro non
sapere che cosa dire o che cosa pensare, con la fiducia che ogni nostra sufficienza, ogni
nostra capacità viene da te, nella grazia dello Spirito santo, nella grazia del ministero della
Nuova Alleanza. Vergine Maria, madre di Gesù e madre nostra, guidaci nel cammino di
questi Esercizi. Tu che sei passata attraverso molte prove, tu la cui anima è stata trafitta da
una spada, concedici di percepire il senso delle prove che noi, l’umanità e la Chiesa stiamo
vivendo”.
2. Gesù, riferendosi a questa prova, dice: «Voi siete coloro che avete perseverato». In
greco, più semplicemente, «siete rimasti», cioè siete coloro che non se ne sono andati. È una
parola di lode: Avete sofferto così tanto che avreste potuto andarvene, e non l’avete fatto.
Viene alla mente l’episodio di Gv 6,67-68: «Volete andarvene anche voi?», e Pietro
che risponde: «Signore, da chi andremo?». Gesù verifica che fino all’ultimo istante gli
apostoli sono rimasti, hanno perseverato, non l’hanno abbandonato.
Il concetto di perseveranza lo si trova spesso nella Scrittura, con espressioni diverse.
Ad esempio, «custodire la parola» indica la pazienza perdurante e resistente: «Il seme caduto
sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore buono e perfetto,
la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza» (Lc 8,15). L’uomo fa fronte
alla situazione di prova con la perseveranza, la perduranza, la resistenza, la custodia della
Parola. Mentre la prova tende a far tornare indietro, induce a perdersi d’animo,
l’atteggiamento direttamente contrastante non è necessariamente quello della vittoria
immediata ma del resistere, del rimanere fermo, saldo. L’evangelista Giovanni usa un verbo
molto semplice: ménein, che indica qualcosa di simile. «Se rimanete in me — dice Gesù — e
le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato» (Gv 15,7). Il
“rimanere in Gesù” è il modo per op-porsi alla prova.
3. «Voi avete perseverato nelle mie prove», non genericamente «nelle prove».
Questa specificazione dà una colorazione del tutto diversa all’esistenza umana.
Noi ci domandiamo: Quali sono le prove di Gesù?
— In verità i vangeli ci danno poche indicazioni in proposito e però sono sufficienti
per comprendere che anche Gesù è stato tentato e provato.
«Subito dopo lo Spirito lo sospinse nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da
Satana»; così Marco inizia il racconto della vita pubblica del Signore (Mc 1,12-13). Il
mettere al principio la prova indica che non è stato tentato una sola volta ma che la sua
esistenza è stata tutta sotto il segno della prova.
La Lettera agli Ebrei ci apre un ulteriore spiraglio: «Infatti non abbiamo un sommo
sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in
ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). “In ogni cosa”, quindi in tanti
aspetti concreti della vita, difficili, pesanti, faticosi, ripugnanti, per i quali Gesù è passato e
che ha condiviso con i Dodici.
— Ma l’espressione “mie prove” non si può limitare alle circostanze storiche di Gesù
di Nazaret; egli parla di sé come Messia, come colui che riassume l’esistenza di tutto il
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popolo di Dio, il cammino di questo popolo verso il Padre. Dobbiamo quindi riferirla alle
prove messianiche, del Regno. Gli apostoli sono stati coinvolti in tali prove, sono stati setac-
ciati, vagliati, triturati. Molte delle prove di noi credenti vengono dalle situazioni concrete
della realtà storica e sociale nella quale ci riconosciamo, ossia la Chiesa cattolica con i suoi
problemi, le sue fatiche, le sue pene e difficoltà. Queste sono le prove di Gesù capo del
popolo messianico.
— Possiamo dire di più. Dal momento che Gesù è Figlio dell’uomo, egli fa sua e vive
in sé la prova di ogni uomo e di ogni donna della terra; è il capo dell’umanità e le sue prove
si allargano a questa moltitudine immensa di persone che hanno popolato, popolano e
popoleranno la terra.
Crescendo nell’esperienza della vita, cresciamo nella partecipazione a queste prove
perché conosciamo di più la Chiesa, la gente, estendiamo la nostra amicizia a un gran
numero di persone e soffriamo con esse.
Oggi noi assumiamo, come nostre, le prove del Libano, perché le sente il Papa,
leggiamo i giornali, guardiamo la televisione, conosciamo persone di quel paese.
E sono nostre pure le prove della Cina; le prove della poverissima India; le prove della
miseria terribile, della fame dei popoli dell’America Latina, dell’Africa; sono nostre le prove
d’Israele, del popolo ebraico, del popolo eletto, con tutte le sue difficoltà e con i suoi
problemi di dialogo.
Tutto questo ci pesa, talora ci irrita, ci inquieta perché vaglia la nostra fede, la nostra
speranza, la nostra carità, la nostra pazienza, la nostra sopportazione, il nostro senso del
limite. Ma sono proprio queste le prove di cui Gesù dice «mie».
Poi, naturalmente, ciascuno vive quelle delle persone che gli sono affidate: la gente
della parrocchia, i giovani, coloro verso i quali abbiamo doveri pastorali specifici. Ciascuno
è in qualche modo sommerso dalle sofferenze della propria gente, dei propri confratelli, di
quanti amiamo.
Sono tutte le prove di Gesù Messia, Figlio dell’uomo, capo del popolo messianico,
dell’umanità e ad esse partecipiamo di fatto, non soltanto con la fantasia, e vi partecipiamo
intimamente.
4. «Avete perseverato nelle mie prove con me». Le prove non sono semplicemente
oggettive, quasi fossero macigni o onde che si riversano su di noi. Dicendo «con me», Gesù
le carica di un sapore diverso, sottolinea un aspetto affettivo, personale, molto profondo. Le
soffriamo con lui, amando lui, in intimità con lui. Egli ci domanda di entrare in questa via
per identificarle e comprenderle meglio; è infatti importante riuscire a guardare in faccia le
prove.
Spesso ci sentiamo oppressi, affaticati, frustrati da qualche cosa di indistinto. Il
Signore ci invita a dare un nome alle nostre difficoltà, a enumerarle e poi a capire come
affrontarle insieme con lui. Perché è saggezza fondamentale dell’uomo e del cristiano
cogliere l’utilità delle prove per la vita e viverle con fedeltà.
E quanto più uno ama, quanto più uno serve e si rende disponibile, tanto maggiori esse
sono.
Se, invece, ci chiudiamo nel nostro ambiente, se siamo dei misantropi, se non usciamo
dall’egoismo, sperimenteremo soltanto la prova della frustrazione personale.
L’apostolo san Giacomo incomincia la sua Lettera con questa esortazione:
«Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la
prova della vostra fede produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché
siate perfetti e integri, senza mancare di nulla» (Gc 1,2). E più avanti aggiunge: «Beato
l’uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova, riceverà la corona
della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano» (1,12). Questa è la sintesi della
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vita umana, che ci offre san Giacomo esprimendo nelle sue parole la grande sapienza di tutto
il Nuovo Testamento.
In proposito si pronuncia anche l’Apocalisse, che è per eccellenza il testo dei cristiani
nella prova: «Poiché hai osservato con costanza la mia parola» — quindi l’hai conservata
resistendo — «anch’io ti preserverò nell’ora della tentazione che sta per venire nel mondo
intero, per mettere alla prova gli abitanti della terra» (Ap 3,10). È il concetto di prova
cosmica, universale, che ritorna sovente nel nostro tempo, soprattutto in certe predizioni di
carattere apocalittico. Ad essa allude forse la preghiera che recitiamo quotidianamente: «Non
ci indurre in tentazione», non permettere che cadiamo nella grande prova.
Tuttavia dobbiamo sapere qual è questa prova globale, cosmica, nella quale siamo di
fatto immersi e di cui spesso non ci accorgiamo, mentre costituisce la nostra vita reale, nella
sua totalità.
Il libro di Giobbe
Il tema degli Esercizi tocca dunque un aspetto che caratterizza costantemente la vita
ma che non deve renderla triste. Dirò di più: affrontare la prova in un certo modo è l’unica
garanzia di serenità nell’esistenza. Non è il rimuoverla, bensì il viverla che rende singolare la
gioia del cristiano.
Noi vogliamo riflettere in questi giorni mettendoci davanti a Gesù che dice: Tu sei
colui che desideri perseverare con me nelle mie prove; io voglio aiutarti, voglio darti una
mano, voglio invitarti a pregare, a meditare, a guardare bene in faccia le tue prove, a dare
loro un nome preciso togliendole dalla nebulosità; e poi voglio aiutarti ad accoglierle con
amore, ad abbracciarle come io ho abbracciato la croce.
“Donaci, Signore, di partecipare al tuo atteggiamento coraggioso, di entrare nella tua
verità, per poter sperimentare la gioia di chi affronta con entusiasmo la vita come prova”.
Cercando le pagine della Scrittura, che si riferiscono al tema della lotta, della prova,
della tentazione, ci fermeremo in particolare su Giobbe, il libro della prova dell’uomo. Vi
suggerisco perciò di leggerlo, dal momento che non potremo farne l’esegesi passo per passo.
Vi chiedo inoltre una rilettura almeno di alcuni capitoli della Imitazione di Cristo, un
testo un po’ dimenticato e che però ha un senso molto grande della vita dell’uomo come
lotta. È ricco di saggezza, di equilibrio, di serenità, proprio perché chi l’ha scritto ha
fortemente avvertito il carattere di tentazione e di esperimento dell’esistenza umana. Così
come l’hanno avvertito i Padri che hanno commentato il Libro di Giobbe, per esempio san
Gregorio Magno; questo grande Papa, avendo vissuto tutta la vita come una prova, trovava
infatti molto conforto meditandolo e spiegandolo.
Lasciamoci guidare da questi maestri nella fede e contemplando la parola di Gesù nel
vangelo di Luca, chiediamo:
“Signore, fa’ che io possa guardare in faccia le mie prove, rendermi conto di come le
affronto, pormi in maniera giusta per superare quelle della mia gente, nella consapevolezza
di partecipare alle prove di tutta la Chiesa, della nostra Diocesi, dell’umanità in questo
momento cruciale della storia del mondo”.
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INTRODUZIONE
AL MISTERO DELLA PROVA
“Donaci, o Signore, di lasciarci introdurre a questa realtà della prova, che non è
semplicemente un fatto; è un mistero, perché mediante essa noi cogliamo un aspetto della
contingenza storica sofferta che siamo noi e insieme qualcosa di te. Noi, d’altra parte,
desideriamo conoscerti e penetrare col cuore e con la mente nel tuo mistero indicibile.
Infondi dunque in noi, Padre, qualche briciola della contemplazione del tuo mistero anche
attraverso l’esperienza della prova”.
Come tema di questa prima meditazione propongo i primi due capitoli del Libro di
Giobbe, che costituiscono l’introduzione in prosa al poema propriamente detto.
Facciamo anzitutto una lettura riassuntiva e poi ci porremo delle domande.
Da tempo avevo desiderato riflettere su Giobbe in un corso di Esercizi.
Tuttavia nutrivo delle incertezze perché questo Libro così affascinante è anche molto
difficile; san Girolamo lo paragona a un’anguilla che quanto più si tenta di afferrare tanto più
sfugge.
Finalmente mi sono deciso a richiamare, in questi giorni, almeno alcune pagine che ci
aiutino a socchiudere la porta di questo testo misterioso e pieno di enigmi: enigmi filologici,
storici, letterari, interpretativi.
— Allora Satana chiede una seconda possibilità di provare Giobbe e lo colpisce con
una piaga maligna «dalla pianta dei piedi alla cima del capo» (2,7). Privato della sua
integrità fisica, oltre che di tutti gli averi, Giobbe è considerato come maledetto da Dio;
allontanato da casa sta seduto in mezzo alla cenere, ad indicare simbolicamente che non è
altro che miseria. «Allora sua moglie disse: “Rimani ancora fermo nella tua integrità?
Benedici Dio e muori!”». In realtà, la moglie lo invita non a benedire bensì a maledire Dio;
la Scrittura conia la frase in maniera da non offendere. «Ma egli rispose: “Come parlerebbe
una stolta tu hai parlato. Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il
male?”. In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra» (2,9-10).
La storia si conclude con la notizia dei tre amici che vanno per condolersi con Giobbe
e consolarlo. Alzano gli occhi da lontano, non lo riconoscono e poi, dando in alte grida, si
mettono a piangere. Si siedono accanto a lui per sette giorni e sette notti in silenzio. Questo il
prologo.
Le domande
1. Che cosa significano i personaggi?
— Giobbe è certamente una figura non reale, una specie di modello di laboratorio. Egli
è simbolo dell’uomo giusto, e quindi benedetto da Dio, che non ha alcun motivo per attirare
su di sé il male: né per causa sua e nemmeno per causa dei figli dal momento che suole
addirittura sacrificare ogni volta che essi hanno banchettato, onde cancellare le eventuali
colpe commesse.
Non è personaggio reale perché ciascuno di noi ha delle colpe di cui dolersi se deve
sopportarne le cattive conseguenze. Viene dunque creata appositamente una figura astratta
nella quale si possa cogliere un modo di conoscenza di Dio.
È pure interessante che Giobbe sia presentato con delle caratteristiche che non lo
legano a una particolare tradizione religiosa, confessionale. In tutto il Libro, infatti, non
occorrono i vocaboli tipici della tradizione ebraica — alleanza, legge, tempio, Gerusalemme,
sacerdozio —. In lui può rispecchiarsi qualunque uomo di buona volontà, onesto, che abbia
il senso di Dio e del suo mistero.
— Satana significa ciò che in qualsiasi modo tenta e prova l’uomo attraverso momenti
difficili.
2. Se queste sono le due realtà che si muovono nella scena introduttiva, ci chiediamo
che cosa sta al centro di questa azione tanto singolare.
— Potremmo rileggere la domanda del Satana che è colui che muove l’azione. Il
Signore gli dice: «“Hai posto l’attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla
terra, uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male”. Satana rispose al Signore e disse:
“Forse che Giobbe teme Dio per nulla? non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua
casa e a tutto quanto è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame
abbonda sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà
in faccia”» (1,8-11).
La posta in gioco si configura come una domanda irriverente o una scommessa fatta
sull’uomo: esiste o non esiste la gratuità nell’azione umana? Esiste o non esiste la libertà
che si giochi per se stessa e non per un calcolo sottile? non è forse vero che tutto ciò che
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avviene nell’uomo, anche nei suoi sentimenti più profondi, è frutto di un calcolo, di un
tornaconto, di una speranza di ricevere, di un “do ut des”?
Questa è l’accusa che ciascuno di noi sente in fondo dentro di sé e che l’analisi del
profondo mette continuamente in luce: l’uomo non sa amare gratuitamente e ogni sua azione
è motivata da un interesse o addirittura da un risentimento, da una vendetta.
Azioni veramente limpide, pulite, non esistono e la stessa religiosità — l’azione più
alta dell’uomo — nasce dalla speranza di ricevere un premio o si appoggia a un premio già
ricevuto.
È il dramma che avvolge la nostra realtà, perché ogni situazione umana libera vuole
sapere se si fonda nella verità, nell’autenticità, nella gratuità oppure sul tornaconto. Quante
volte noi ci poniamo domande anche sulla scelta della vocazione, sulla perseveranza, sul
nostro servizio: sono frutto di amore di Dio oppure di comodità, calcolo, inclinazione,
predisposizione? E alla fine restiamo desolati perché ci accorgiamo che le reali motivazioni
delle azioni sono spesso meschine.
Il Satana, l’Accusatore, afferma dunque che non esiste religiosità vera, che l’uomo è
incapace di amore gratuito, di vivere l’alleanza con Dio. Dio gli offre un’alleanza alla pari e
con amore autentico e sincero attende una risposta di amore autentico e sincero; ma questa
non è possibile, è falsità, illusione. La religione perciò è oppio del popolo, copertura di
motivazioni economiche, sociali, politiche, psicologiche, culturali; non esiste il vero amore
di Dio, la divinità stessa è inventata dall’uomo per coprire e sublimare le proprie
motivazioni. In realtà l’uomo gioca con se stesso.
— Al centro del dramma narrato nel Prologo c’è però non soltanto la scommessa del
Satana sull’uomo ma anche la scommessa di Dio che crede alla verità dell’uomo e ha fiducia
in lui.
Per questo è un dramma universale; esso copre tutta la gamma delle situazioni umane
libere, soprattutto di quelle nelle quali una sofferenza innocente mette alla prova portando
l’uomo all’espressione più vera di sé.
Il lettore si sente coinvolto nella lotta perché avverte subito che è in gioco anche la sua
capacità o incapacità di essere autentico. Come dice un commentatore contemporaneo del
Libro di Giobbe: «La sacra rappresentazione di Giobbe è troppo poderosa per ammettere
lettori indifferenti. Chi non entra nell’azione con sue domande e risposte inferiori, chi non
prende posizione con passione, non comprenderà un dramma che per sua colpa rimarrà
incompleto. Ma se entra e prende posizione si scoprirà sotto lo sguardo di Dio, messo alla
prova dalla rappresentazione del dramma eterno e universale dell’uomo Giobbe» (cfr.
Alonso Schökel, Giobbe, Borla 1985, p. 108).
È ciò che noi chiediamo al Signore di poter fare attraverso la rilettura del Prologo del
Libro, che vi invito a meditare personalmente interrogandovi.
Gli insegnamenti
Per aiutarvi propongo alcune riflessioni conclusive sul tema della prova.
1. La prova c’è e c’è per tutti, anche per i migliori. Giobbe non offriva nessun motivo
per essere tentato, perché era perfetto in tutto. È dunque necessario prendere coscienza che la
prova o tentazione è un fatto fondamentale nella vita.
per cui, pur conoscendo il Figlio, lo mette alla prova nell’Incarnazione. Perché anche
l’Incarnazione e la vita di Gesù sono una prova.
4. Nella prova corriamo anche il rischio della riflessione. L’uomo, per grazia di Dio,
può rapidamente assumere l’atteggiamento della sottomissione, ma subito dopo sopravviene
il momento della riflessione che è la prova più terribile. Il Libro di Giobbe si sarebbe potuto
concludere alla fine del secondo capitolo, dimostrando che Giobbe aveva resistito perché il
suo amore per Dio era vero, autentico. In realtà, bisogna attendere e la situazione concreta di
Giobbe non è quella di chi se la cava con un sospiro, con una accettazione data una volta per
tutte; piuttosto è la situazione concreta di un uomo che, avendo espresso l’accettazione, deve
incarnarla nel quotidiano. Tutto questo dà adito allo sviluppo drammatico del Libro.
Talora noi sperimentiamo qualcosa di simile: di fronte a una decisione difficile, a un
evento grave, li accogliamo presi dall’entusiasmo e dal coraggio che ci viene dato nei
momenti duri della vita. Dopo un poco di riflessione, però, si fa strada un tumulto di pensieri
e sperimentiamo la difficoltà di accettare ciò a cui abbiamo detto di sì. Questa è la prova vera
e propria.
Il primo “sì” detto da Giobbe è proprio di chi istintivamente reagisce al meglio; la
fatica è di perdurare per una vita in questo “sì” sotto l’incalzare dei sentimenti e della
battaglia mentale.
La prima accettazione, dunque, che spesso è una grande grazia di Dio, non è ancora
rivelativa completamente della gratuità della persona. Occorre sia passata per il vaglio lungo
della quotidianità.
La prova di Giobbe non è tanto l’essere privato di ogni bene e l’essere piagato, ma il
dover resistere per giorni e giorni alle parole degli amici, alla cascata di ragionamenti che
cercano di fargli perdere il senso di ciò che egli è veramente. Da questo punto la prova
comincia a snodarsi dentro l’intelletto dell’uomo e la vera e diuturna tentazione nella quale
anche noi entriamo e rischiamo di soccombere è quella di perderci nel terribile travaglio
della mente, del cuore, della fantasia.
“O Maria, madre nostra, noi ti offriamo questi nostri giorni, la nostra vita, tutto ciò
che noi ci sforzeremo di compiere per entrare più intimamente nel mistero di Gesù,
nell’intimità con le sue prove e con il suo cammino”.
C’è una provvidenza divina misteriosa nel fatto che il popolo non può godere
pacificamente fin dall’inizio del possesso della terra; c’è un cammino misterioso di
raffinamento della persona singola e del gruppo, attraverso difficoltà e dolori.
Anche se non comprendiamo bene il perché di questa economia divina, siamo chiamati
a contemplarla nel cammino del popolo di Dio, per poterla accettare almeno un poco nella
nostra esistenza personale.
— Nel brano evangelico (Mt 19,16-22) Gesù mette alla prova un giovane che credeva
di essere molto bravo, di avere raggiunto il pieno possesso della propria terra, delle proprie
facoltà, di averle disciplinate sotto la legge della ragionevolezza, sotto la legge di Dio.
Riteneva di essere a posto, e chiedeva: Che cosa mi manca, che già non ho? Eccomi, sono
pronto.
Gesù pronuncia una parola semplice: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che
possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (v. 21). E il giovane
comprende di essere ancora molto lontano dalla mèta: «Udito questo, se ne andò triste;
poiché aveva molte ricchezze» (v. 22). Questo è il mistero della prova, che si verifica quando
una persona si ritiene sicura, quasi all’apice di un cammino spirituale. Con una richiesta
nuova, il Signore fa capire che c’è ancora tanto da fare, e beata quella persona se non se ne
scandalizza.
Il dramma del giovane è di non aver capito che si trattava di una prova, di avere preso
l’invito di Gesù troppo sul serio, per così dire. Se avesse risposto: Tu mi chiedi, Signore, una
cosa difficile e soltanto adesso apro veramente gli occhi. Non so come fare a seguire la tua
proposta ma aiutami, dammi grazia. Se avesse avuto questo guizzo di intelligenza, la sua
storia sarebbe stata diversa.
Egli non ha colto che la prova mostrava una fragilità di cui non doveva stupirsi perché
era un gradino per camminare più speditamente verso Gesù. Così, si è rattristato, se ne è
andato.
La sua è una delle tante situazioni in cui la prova, non recepita, genera chiusura e
morte.
“Signore, noi siamo qui di fronte a te, per dirti che siamo fragili; pur non
immaginando quale sarebbe la richiesta capace di metterci in crisi, sappiamo che esiste.
Noi però non ci stupiremo se faremo fatica ad accoglierla, se proveremo ripugnanza.
Piuttosto ti chiederemo: Abbi pietà di noi! Usaci misericordia!
O Maria, madre di Gesù crocifisso, sciogli il nostro cuore con quell’amore e
quell’umiltà che il Signore avrebbe voluto dal giovane ricco. Fa’ che là dove constatiamo
incapacità o rifiuto, possiamo servircene come gradino per crescere nella conoscenza di noi
stessi, nell’amore del tuo Figlio. E attraverso il dono della morte e della risurrezione di
Gesù, medica il nostro cuore da tutte le sue povertà, angosce, paure, perché possa essere
illuminato dalla gioia della divina presenza”.
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Premessa
Vorrei, a modo di premessa, indicare una difficoltà che potrebbe impedirci di trarre il
maggior frutto possibile dagli Esercizi, ed è la materia del Libro di Giobbe. Per questo sono
stato a lungo incerto se sceglierlo come testo di riferimento per le riflessioni.
Richiede infatti anche a me una lunga lotta per riuscire a comprenderne il messaggio;
non soltanto è un libro che parla della prova dell’uomo, ma è una prova in se stesso, per le
affermazioni sconcertanti che contiene e che non troviamo in altre parti della Scrittura.
Quali dunque i rimedi a questa difficoltà?
a) Il primo è di lottare con Dio come Giacobbe, senza lasciarci spaventare ma
affrontando la lettura del testo anche nella sua struttura che, tra l’altro, è abbastanza
semplice. Il problema è di capire che cosa voglia dire, con quale ordine, con quale cammino:
è solo poesia confusa oppure è una tesi?
Il fatto che a questa domanda non sia stata data ancora una risposta risolutiva, ci
sollecita a cogliere il messaggio di ogni pagina: Signore, che cosa stai dicendo a me? in che
maniera ciò che leggiamo è suggerimento per parlare o per tacere di Dio nel nostro mondo e
nei suoi drammi? questo Libro ha a che fare con il mistero tuo e mio, Signore, con il mistero
della Chiesa, del dolore umano, dei poveri?
Viene ripetuto spesso, ultimamente, a proposito delle polemiche con il mondo ebraico
per il Carmelo di Auschwitz che, dopo l’olocausto, non è più possibile parlare di Dio, che
c’è soltanto il silenzio. La frase è penetrata nella carne di parecchi teologi, specialmente
tedeschi, o comunque sensibili alla storia europea del nostro secolo. Quindi ci si interroga:
Siamo davvero ridotti al silenzio dopo certe tragedie? Possiamo ancora parlare mentre
perdurano le tragedie del Libano o della fame nei paesi poveri?
Il Libro di Giobbe entra nelle piaghe dell’umano e forse per questo lo rifuggiamo,
facendo fatica a parlare di Dio e non accettando un parlare di Dio che sconvolge le nostre
categorie comuni del divino.
È dunque un Libro che richiede lotta nella preghiera, adorazione, domanda, supplica; è
il primo modo col quale aiutarci.
1. vv. 1-10: il tema è la maledizione del giorno della nascita, qualunque sia stata l’ora.
«Se è giorno sia tenebra, se notte sia talmente lugubre che non entri giubilo in essa». Giobbe
tenta di cancellare quel giorno e quella notte dal tempo, di riportarli nel buio primitivo nel-
l’inesistenza.
Il tema non è frequente nella Scrittura che, in generale, è un inno alla vita. Ci sono
tuttavia pagine illustri che fanno da parallelo al disgusto di Giobbe. Ad esempio, il Libro di
Geremia là dove il profeta esclama:
2. vv. 10-19: il tema non è più soltanto quello della nascita aborrita, ma della morte
bramata.
«Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grem-
bo?» (v. 11).
Possiamo pensare all’episodio di Giona. Deluso per l’agire di Dio, cade nella
depressione e chiede al Signore di togliergli la vita.
«Provò grande dispiacere — perché Dio aveva rinunciato a fare del male alla città di
Ninive — e ne fu indispettito. Pregò il Signore:
“Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Perciò mi affrettai
a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di
grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore,
toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!”» (Gn 4,1-3). Nel momento in cui
la misericordia di Dio si sta rivelando, il profeta si sente scavalcato, quasi sconfessato nella
sua profezia e il dispetto, la stizza, la rabbia sono così forti che desidera la morte.
Viene alla mente un’altra figura straordinaria, Elia. Per la sua incapacità a vincere i
falsi profeti nel nome di Jahvè, fugge; impaurito per le minacce della regina Gezabele, «si
alzò e se ne andò per salvarsi. Giunse a Bersabea di Giuda. Là fece sostare il suo ragazzo.
Egli si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro.
Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono
migliore dei miei padri”» (1 Re 19,3-4).
Elia, che pure viveva in intimità col mistero di Dio, giunge all’esasperazione perché
non è riuscito a fare quanto avrebbe dovuto.
3. vv. 20-23: l’invocazione della maledizione del giorno della nascita con la bramosia
della morte viene generalizzata dando voce al non senso generale della vita:
«Perché dare la luce a un infelice
e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore,
a quelli che aspettano la morte e non viene?».
È così espresso efficacemente il grido che nasce dai sette giorni di silenzio di Giobbe:
aborrisce la nascita, desidera la morte, dichiara senza senso la vita di tutti coloro che
soffrono e alla fine ritorna su di sé per concludere: eccomi qua, inquieto e tormentato.
l’iperbole? Come mai, allora, sono contenute in una Scrittura che ha valore perenne? C’è
qualcosa di simile nella nostra esperienza?
Penso che quando ad esempio una persona viene messa in maniera lucida di fronte a
una prospettiva di malattia inguaribile, non di rado scoppia nel grido e nel lamento. Se da
parte dei medici si ritiene opportuno usare il metodo della verità diretta al malato, la prima
reazione è sempre di drammatica ribellione: Che senso ha, perché proprio a me?
Ciascuno di noi può trovarsi, da un momento all’altro, in queste condizioni di un male
gravissimo, inguaribile, e il grido di Giobbe può ben diventare il nostro.
Oppure pensiamo alla gente che vive, in certi periodi dell’esistenza, una serie di disagi
e di disgrazie di ogni genere che si accumulano una sull’altra portando all’esasperazione. È
mirabile che la Bibbia non abbia condannato questo sentimento, non l’abbia esorcizzato
bensì l’abbia ritenuto come parte del Testo Sacro ispirato.
Allargando il discorso, è legittima la domanda: Quale senso ha la vita miserabile di
tanti uomini e donne? una vita di estrema indigenza, priva di qualunque prospettiva umana?
Che senso hanno le folle di diseredati, di poveri, di persone che sono al limite della vivibilità
e per le quali non esiste un rimedio immediato? Quando ci accorgiamo della immensità di
questa miseria, dei tempi lunghissimi che saranno necessari per dare a tanta gente condizioni
di vita migliore, e insieme ci scontriamo con la corruzione politica nazionale e internazionale
che si oppone allo sviluppo dei popoli, non possiamo non chiederci il senso di tutto questo e
se non era meglio che quella gente non fosse mai nata. E che dire dei bambini che nascono,
in paesi sottosviluppati e ad alta prolificità, già malati, handicappati, impediti fin dall’inizio
di crescere per mancanza delle necessarie cure?
Quello di Giobbe è dunque un grido che attraversa anche il mondo d’oggi e la
tentazione radicale di bramare la morte minaccia tutti, nessuno escluso, minaccia anche
coloro che si rallegrano perché non vengono toccati da miserie terribili ma non possono
sottrarsi alla realtà di degrado che incombe su tanti popoli.
Il giudizio che noi diamo della pagina biblica si fa allora più moderato, più
comprensivo della verità del grido che corrisponde al modo di esprimersi dei derelitti di tutti
i tempi.
Non a caso è stato assunto dalla Scrittura come preghiera di lamentazione. È la
riflessione che fa Gustavo Gutiérrez, nel suo commento al Libro di Giobbe, mutuando
l’opinione di C. Westermann secondo il quale il genere letterario del testo biblico è la
lamentazione, la denuncia della propria miseria davanti a Dio. «Solo questa prospettiva
permette di comprendere correttamente la struttura dell’opera. L’autore scrive: “Nella mia
ricerca parto dal semplice riconoscimento del fatto che nell’Antico Testamento la sofferenza
umana possiede il suo linguaggio proprio. Non si può comprendere la struttura del Libro di
Giobbe se non si è compreso anzitutto questo linguaggio, cioè il linguaggio della
lamentazione”» (G. Gutiérrez, op. cit., p. 37 nota 14). Spiega poi che contrariamente
all’accezione negativa che la lamentazione assume nella mentalità occidentale —
rassegnazione, ripiegamento su di sé, incapacità ad aiutarsi —, nella prospettiva biblica essa
è profondamente legata alla preghiera, è un elemento di supplica, di appello a Dio. Egli nota
che nelle giovani Chiese cristiane questa forma di preghiera riprende sovente il suo posto:
basta pensare alle grandi devozioni popolari dell’America Latina, del Cristo morto, dove il
pianto esprime anche la sofferenza del povero (cfr. op. cit., p. 43 nota 7). Verso la fine del
suo commento, Gutiérrez cita un altro autore contemporaneo le cui parole ci permettono di
capire ulteriormente il mistero della preghiera di lamentazione che può sembrare talora
bestemmia: «Il miracolo del libro è precisamente nel fatto che Giobbe non fa un passo per
fuggire verso un qualche Dio migliore, ma rimane nel pieno campo di tiro, sotto il tiro della
collera divina, ed è là che, senza muoversi, nel cuore della notte, dal profondo dell’abisso,
Giobbe, che Dio tratta come nemico, fa appello non a qualche superiore istanza, non al Dio
dei suoi amici ma a questo stesso Dio che lo opprime. Giobbe si rifugia presso Colui che egli
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accusa; si affida al Dio che l’ha deluso e reso disperato. Giobbe confessa la sua speranza e
prende per difensore il Dio che lo mette in giudizio, per liberatore Colui che lo imprigiona,
per amico il suo nemico mortale» (R. De Pury citato da Gutiérrez, op. cit., pp. 155-156 nota
1).
La lamentazione è preghiera che scuote l’anima, facendo uscire il pus dalle piaghe più
profonde della nostra esistenza ed è quindi capace anche di liberarci interiormente. Perché il
cammino di Giobbe è di liberazione e di purificazione, per poter rivedere il volto di Dio e
riprendere il senso della propria dignità e verità.
Suggerimenti
Per la meditazione personale e concreta del capitolo 3 di Giobbe, vi suggerisco quattro
riflessioni.
2. Una seconda riflessione. Giobbe vive un’esperienza di cui non vede il senso e non si
accetta:
«Al posto del cibo entra il mio gemito
e i miei ruggiti sgorgano come acqua,
perché ciò che temo mi accade
e quel che mi spaventa mi raggiunge.
Non ho tranquillità, non ho requie,
non ho riposo e viene il tormento» (3,24-26).
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La sua condizione, per usare un’espressione corrente ai nostri giorni, è propria di chi è
demotivato, di chi non trova più le ragioni per resistere nella lotta.
Tale condizione suona per noi come un campanello di allarme. Quando infatti,
esaminandoci in qualche momento di incertezza e di fatica, ci sembra di essere demotivati, ci
spaventiamo. E quando viene da noi una persona, magari un giovane ai primi anni del
matrimonio, per confidarci di sentirsi demotivato, siamo presi dalla paura. I motivi sono due:
anzitutto perché avvertiamo che la situazione di quella persona potrebbe diventare nostra. In
secondo luogo perché la parola “demotivazione” sembra non ammettere appello, sembra
giustificare le fughe: Non sento più niente, non ho più voglia, e che colpa ne ho?
Giobbe ci suggerisce, invece, di guardarla in faccia in modo da farle perdere un poco
della sua sinistra potenza. Ci invita a esaminarla con coraggio, a non considerarla così
terribile, quasi non ci fosse più niente da fare. Ci stimola a chiederci che cosa in realtà
significa, tanto più che chi si trova demotivato non è oggettivamente molto cambiato, se non
per il fatto che non riesce più a capire la gratuità.
Nel Prologo di Giobbe, abbiamo contemplato la scommessa di Dio: egli ritiene che
l’uomo è capace di agire per gratuità d’amore anche là dove le gratificazioni ordinarie
vengono meno. La persona demotivata dovrebbe, in verità, dire: Sono giunto al punto in cui
posso, per la prima volta nella mia vita, cominciare a essere uomo perché non ho più quella
serie di gratificazioni che avevo prima.
Il 98% delle nostre azioni sono frutto di un flusso e riflusso di gratificazioni reciproche
che ci sostengono; ed è giusto che sia così. Ma la prova che esiste un amore disinteressato e
gratuito scatta quando siamo totalmente nudi di fronte a Dio e al suo amore crocifisso.
Questa è la scommessa proposta dal Libro di Giobbe che grida e può gridare di essere
demotivato, di desiderare la morte, che la vita non ha senso e però grida davanti al suo Dio e
ai suoi amici; continua a muoversi, a operare, continua a cercare.
Nella demotivazione, la sua libertà si purifica, quella libertà di cui si poteva dubitare,
prima della scommessa, se fosse veramente capace di gratuità. Gradualmente l’uomo Giobbe
arriva al vero se stesso.
Quando dunque pensiamo di essere a un limite da cui non possiamo più muoverci,
siamo semplicemente giunti al punto in cui la nostra libertà è nel suo momento espressivo
più autentico. Gesù ci ha mostrato la gratuità del suo amore, non solo nel fare miracoli ma
sulla croce, perché ci fosse corrispondenza tra due gratuità messe a confronto liberamente.
Da Giobbe impariamo che la nostra dignità di uomini si rivela nell’amare Dio anche se
la demotivazione ha raggiunto la violenza espressa dalle parole su cui abbiamo riflettuto.
Se scopriamo in noi qualche radice di frustrazione, se abbiamo il timore che le nostre
azioni siano prive di senso, e magari abbiamo persino paura a riconoscerlo, dobbiamo
cercare di dirlo a Dio attraverso la forma della lamentazione.
3. Dobbiamo accettare di essere ciò che siamo. Parlando dei poveri, ad esempio,
avvertiamo sempre il tormento di non poter condividere davvero la loro situazione. Avendo
infatti avuto, nella nostra esistenza, una formazione, una cultura, non saremo mai come la
gente povera, qualunque cosa ci possa accadere.
Come comportarci? Forse come coloro che nel ‘68 si sforzavano di portare la barba
incolta, di essere sporchi per assomigliare in qualche modo a chi è privo di tutto?
Sarebbe assurdo; dobbiamo ringraziare il Signore di essere quello che siamo e
chiederci che cosa possiamo fare, qui e adesso, per il fratello che è diverso da noi. Chiederci
che cosa possiamo ricevere da lui che, a sua volta, si porrà le stesse domande. L’importante è
che io risponda a Dio di me e che ami gli altri quanto posso. Il voler andare al di fuori di sé è
pretesa mefistofelica.
Giobbe ci aiuta a smontare questi castelli in aria, ad essere umilmente capaci di
accettarci e di accettare i fratelli perché la verità è che siamo al mondo per donarci
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4. Infine, vorrei ricordare il titolo dei nostri Esercizi: Voi avete perseverato con me
nelle mie prove. Chiediamo a Gesù nell’orto del Getsemani:
“Signore, hai mai vissuto momenti in cui tutto ti sembrava strano, insulso, senza
senso, in cui non avevi più voglia di niente e non provavi più alcuno stimolo? E come li hai
vissuti?’’.
Il rischio teologico della lettura del Libro di Giobbe mi pare bene espresso da una
citazione che ho trovato in un articolo del filosofo Emanuele Severino, dal titolo: Il rischio
della fede nell’“ironico” Sacrate.
Egli scrive:
«Al re Mida, che vuole sapere da lui quale sia la cosa migliore e più desiderabile per
l’uomo, il Sileno» — che rappresenta la tradizione della saggezza dionisiaca — «dopo aver a
lungo taciuto, risponde infine ridendo: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della
pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è
per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in
secondo luogo migliore, per te, è morire presto” (cioè ritornare al più presto nel niente)» (cfr.
«Corriere della Sera», 21.8.1989).
Quindi riprende il monologo, l’ultima parola prima del dialogo con Dio.
Per il valore riassuntivo, sintetico, conclusivo di questi tre capitoli mi pare utile
proporre una lettura secondo i due tempi della lectio e della meditatio.
L’esame di coscienza di Giobbe ci aiuterà a prepararci al nostro esame di coscienza per
la giornata penitenziale di domani.
Mi servo soprattutto della spiegazione che don Gianfranco Ravasi dà di questi tre
capitoli nel suo commento a Giobbe (cfr. Ravasi, Giobbe, Borla, 1979), valendomi, per
comodità, della traduzione dello stesso autore. È infatti una spiegazione che seziona
accuratamente il testo secondo le sue divisioni interne offrendo così una prima chiave di
lettura.
Il cap. 29 è intitolato: Il canto del passato e della nostalgia; in esso tutti i verbi sono al
passato, Giobbe richiama le situazioni e gli ambienti vissuti.
Il cap. 30 è intitolato: Il canto del presente e dell’orrore, e comincia con la parola «ora,
adesso».
Il cap. 31 è intitolato: Il canto del futuro e dell’innocenza. Riguardando la sua vita
passata, Giobbe fa una confessione di innocenza, molto dettagliata, a partire da una serie di
criteri morali etici che esamina uno per uno; conclude sfidando Dio a portare le sue ragioni
contro di lui.
In questa prima strofa Giobbe si descrive come colui che viveva la gioia di un amico
di Dio. Lo sentiva presente nella preghiera, nella vita quotidiana con i suoi momenti difficili,
ne gustava la vicinanza continua.
È un secondo quadretto nel quale Giobbe non si definisce soltanto nel suo rapporto
intimo col mistero di Dio ma anche in relazione alla gente del villaggio.
Giobbe era uomo giusto, che si occupava attivamente dei poveri e per questo chi lo
vedeva rendeva testimonianza. Dall’apologia di sé, centrata unicamente sulla sua persona,
passa gradualmente a considerare l’aspetto sociale; la sofferenza gli ha aperto gli occhi per
capire la necessità di un rapporto con i più abbandonati, i diseredati.
«Pensavo:
“Quando spirerò nel mio nido,
moltiplicherò di nuovo i miei giorni come la fenice.
Le mie radici si dirameranno fino all’acqua
e la rugiada notturna si deporrà sui miei rami,
la mia gloria ritroverà sempre freschezza,
e il mio arco avrà sempre forza nella mia mano”» (vv. 18-20).
Ecco il sogno della sua vecchiaia: Giobbe era certo che avrebbe dato frutti come una
giovinezza perenne.
«Attenti mi ascoltavano
in silenzio attendevano i miei consigli.
Dopo il mio intervento nessuno replicava,
le mie parole stillavano come gocce su di loro,
le sospiravano come pioggia
e le sorbivano a bocca aperta come l’acqua primaverile.
Il mio sorriso li colmava di stupore,
non si lasciavano sfuggire alcun segno di favore
del mio volto.
Assiso come un principe,
indicavo loro la strada da seguire,
come un re intronizzato tra la sua guardia del corpo,
come un consolatore di afflitti» (vv. 21-25).
In questo ultimo quadretto, quasi facendo un salto indietro, Giobbe ricorda il suo
impegno più specificamente politico, la forza della sua presenza nella società.
2. Capitolo 30. Questo canto del presente e dell’orrore, Ravasi lo divide in sette brevi
sezioni, che descrivono l’una dopo l’altra atteggiamenti di un uomo che scende sempre più
in basso: umiliato, disprezzato, attaccato, atterrito, osteggiato da Dio, piangente, sofferente.
Giobbe umilato:
«Ora, invece, si burlano di me
individui più giovani di me
i cui padri io mi sarei rifiutato
di mettere persino tra i cani del mio gregge,
le cui braccia non mi sarebbero servite
perché ogni loro forza sarebbe venuta meno.
Consumati dalla fame e dalla indigenza,
brucano nella steppa,
lugubre e desolata solitudine,
strappano erbe amare dai roveti,
si nutrono di radici di ginepro.
Banditi dalla società civile,
si grida dietro loro come ai ladri.
Abitano perciò in burroni spaventosi,
in antri del terreno e in caverne,
lanciano ululati in mezzo alla macchia,
bivaccando sotto i rovi.
Canaglia ignobile, razza infame,
strappata via dalla terra» (vv. 1-8).
Giobbe disprezzato:
«Ora, invece, io sono divenuto la loro canzone,
sono divenuto la loro favola!
Mi aborriscono e mi schivano
né si trattengono dallo sputarmi in faccia» (vv. 9-10).
Giobbe attaccato:
«Lui, infatti, ha allentato il mio arco
e mi ha abbattuto;
hanno infranto ogni freno nei miei confronti.
A destra insorge la feccia
per far inciampare i miei piedi
e per preparare la strada del mio sterminio.
Hanno sconvolto il sentiero da me battuto,
cospirano per la mia rovina
e nessuno li trattiene.
Irrompono su di me come da una breccia aperta,
emergono da sotto le macerie» (vv. 11-14).
Dio è pertanto il soggetto reale, benché anonimo — «lui» —, della battaglia aperta
contro un uomo umiliato e disprezzato.
Giobbe atterrito:
«Quanti terrori ho puntati contro di me!
La mia dignità si è dispersa come vento,
la mia felicità si è dissolta come nube.
Ora la mia anima svanisce a goccia a goccia,
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3. Dopo aver descritto la propria terribile situazione presente, quest’uomo si erge, d’un
balzo, in un canto di fierezza, il canto del futuro e dell’innocenza.
Capitolo 31:
«Avevo concluso coi miei occhi il patto
di non fissare mai lo sguardo su una vergine.
Ed invece quale sorte mi riserva Dio dall’alto,
quale eredità mi destina Shaddaj dai cieli?
Non dovrebbe toccare al criminale la disgrazia
e la rovina al malfattore?
Ma non vede Egli la mia condotta?
Non conta i miei passi?
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Queste invocazioni rituali il morto le gridava seduto sulla barca che lo portava al di là
del fiume: se erano vere non veniva bruciato ma se non lo erano veniva divorato dal fuoco.
Le parole di Giobbe tuttavia hanno un aspetto non propriamente rituale e giudiziario
ma, come abbiamo detto, morale.
Passa quindi alla dichiarazione di innocenza verso lo schiavo che ha trattato sempre
con giustizia:
«Se ho calpestato i diritti del mio schiavo
e della mia schiava
quando erano in causa contro di me,
che farei quando Dio si leverà,
che risponderei quando aprirà l’istruttoria?
Chi mi plasmò nel ventre materno
non plasmò anche loro?
È lo stesso Dio che ci formò nel grembo» (vv. 13-15).
Quanto all’accusa di aver abusato delle ricchezze e di essere stato idolatra dichiara:
«Se ho riposto la mia fiducia nell’oro
ed ho chiamato il metallo prezioso mia sicurezza,
se ho tratto la mia gioia
dall’abbondanza delle mie ricchezze
e dalla fortuna ammassata dalle mie mani,
se, vedendo il sole risplendere e la candida luna errare,
il mio cuore si fosse lasciato segretamente sedurre
ed avessi lanciato ad essi un bacio con la mano,
anche questo sarebbe stato un delitto in tribunale
perché avrei rinnegato il Dio del cielo» (vv. 24-28).
Un lungo esame di coscienza sociale, che Giobbe fa ritrovandosi giusto in tutti i diversi
momenti dell’esistenza umana.
I versetti 35-37 costituiscono come la sfida finale per Dio. Infatti, se Dio è giusto non
può tacere ma deve avallare la confessione:
30
— Tuttavia colui che può affermare: Chi di voi mi convincerà di peccato? è esistito, ed
è Gesù. Egli non è stato sottratto alla prova dell’amore gratuito verso di noi e ciò significa
che il tema della prova non è semplicemente legato alla colpa, alla purificazione, all’uscita
dalla situazione inautentica. Piuttosto, è legato alla verità delle relazioni libere tra l’uomo e
Dio, alla gratuità assoluta di queste relazioni, che viene messa in luce nel momento in cui le
gratificazioni cessano.
L’autore del Libro di Giobbe è alla ricerca di un aspetto del mistero di Dio che dia alla
prova un senso che non sia semplicemente quello di una purificazione dal peccato.
Questo aspetto noi lo contempliamo nel Crocefisso.
— La nostra condizione è comunque ben diversa dalla condizione del giusto Giobbe, e
possiamo ripercorrere i cammini del capitolo 29 e poi del 31 esaminandoci: come ci
troviamo rispetto agli ambienti e alle relazioni della nostra esistenza, ai doveri etici? quali i
peccati che abbiamo commesso, quali i peccati di omissione?
Di questi peccati vogliamo accusarci non semplicemente per sfuggire alla pena, per
instaurare con Dio un rapporto basato sulla giustizia, ma nella ricerca di quel dolore perfetto
che nasce dall’amore, seguendo quanto ci indica, almeno come tentativo misterioso, il
cammino di Giobbe. Accusare le nostre colpe per amore puro, perché Dio sia benedetto,
lodato, santificato, per entrare con lui in un rapporto di alleanza.
Noi siamo chiamati alla verità e libertà del nostro rapporto con Dio, a vivere sta-
bilmente l’amicizia con lui: Vi ho chiamati amici, non servi... Voi siete coloro che avete
perseverato con me nelle mie prove, per amore e non solo per essere fedeli a voi stessi e ai
vostri propositi.
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“Donaci, Signore, di comprendere nelle pieghe difficili dì questo libro biblico la tua
ansia di farci come te, l’ansia di renderci simili al Figlio, di introdurci in una relazione di
tipo trinitario, in quel mistero di amore e di dono che costituisce l’intima tua essenza.
Maria, madre di Gesù e madre nostra, fa’ che possiamo anche noi gustare una scintilla del
profondissimo mistero di Dio”.
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noi tutti siamo benedetti in Gesù, e come la gioia che ha inondato il cuore di Maria e di
Elisabetta è gioia anche per noi, quando abbiamo il presentimento, sia pur lontano, della
ricchezza misteriosa contenuta nelle parole del Signore.
“Donaci, Maria, di entrare talmente nel mistero della tua prova da potere fin da ora
ripetere: ‘L’anima mia magnifica il Signore’.
Fa’ che anche dalla valle della nostra oscurità sappiamo gridare: ‘II mio spirito
esulta in Dio mio salvatore’.
Fa’ che ci interroghiamo se questo è il nostro atteggiamento quotidiano, se siamo
capaci di elevarci dalla lamentazione verso la glorificazione del mistero di Dio, di
abbandonarci al mistero che, nell’oscurità o nella luce, sempre ci tiene tra le braccia
irrevocabilmente.
Donaci di comprendere e di affidarci come te al mistero dell’alleanza”.
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MODERAZIONE E CONOSCENZA
“Signore Dio nostro tu sei mistero inaccessibile, tu abiti una luce eterna che nessuno
poté contemplare se non il tuo Figlio che ce l’ha rivelata dall’alto della croce. Donaci di
penetrare nel mistero di Gesù così da poter conoscere qualcosa di te, nella grazia dello
Spirito santo. Donaci di penetrare in questo mistero con pazienza, con umiltà, convinti della
nostra ignoranza, del molto che ancora non conosciamo della tua Trinità d’amore, del tuo
progetto salvifico. Fa’ che ci umiliamo nella nostra ignoranza, per poter meritare almeno
una briciola della conoscenza di quel mistero che ci sazierà in eterno. Te lo chiediamo per
intercessione di Maria che ha creduto profondamente pur senza conoscere direttamente ed è
pervenuta prima di noi, e già anche a nome nostro, alla conoscenza immediata della tua
gloria”.
Dopo aver ascoltato Giobbe, vogliamo ora ascoltare il suo partner, cioè Dio. Sarà un
modo per camminare verso la vera conoscenza del suo mistero. E, per graduare il cammino,
ho pensato di riflettere su tre diversi capitoli del Libro biblico.
Anzitutto sul capitolo 9, in cui Giobbe parla di Dio; poi il capitolo 28 dove qualcuno,
ignoto, parla di Dio; infine, i capitoli 38 e 39 dove Dio stesso comincia a parlare.
Nei versetti seguenti esprime in maniera un poco ironica questa assoluta certezza:
nessuno può resistere davanti a Dio che ha ragione su tutto, sempre, in ogni caso. Poi
aggiunge:
«Tanto meno io potrei rispondergli,
trovare parole da dirgli!» (v. 14).
Qui la sua certezza si muta in dubbio sofferto: Dio ha talmente ragione che, se anche
l’avessi pure io, non l’otterrei. A partire da questo versetto Giobbe comincia quindi a
dubitare di se stesso: Ma io chi sono? ho ragione o no?
Le sue parole sono caratteristiche dell’atteggiamento di un uomo nell’acme della
sofferenza, che si potrebbe esprimere così: Giobbe non accetta di non conoscersi, è
tormentato dall’assillo di non riuscire a sapere con sicurezza se è giusto o meno; è convinto
di esserlo, tuttavia vorrebbe che gli fosse dichiarato; l’incertezza lo rode.
Giobbe è giunto al colmo del dolore: non capisce più niente, non sa più chi è; si sente
giusto ma non sa quale sia la differenza tra giusto e ingiusto e non riesce più a darsi ragione
di sé. In altre parole, sta perdendo il senso della sua identità: Se almeno sapessi perché sono
così!
Mi sono soffermato su questo tema perché, anche se viene espresso come caso limite,
paradossale, esprime una situazione abbastanza comune: il tormento dell’identità fa soffrire
molte persone, pur se a livelli non sempre drammatici. In particolare, fa soffrire tutti coloro
che hanno compiti non rigorosamente programmati; perché se uno è impiegato di banca
magari il lavoro gli pesa ma sa che il suo dovere è quello, e che farà carriera in rapporto a
come lo svolge. Invece i genitori, ad esempio, non avendo compiti geometricamente definiti,
si tormentano nella domanda: Che cosa vuol dire oggi essere genitore? fino a che punto mi
impegna, mi obbliga, mi coinvolge? E così pure gli educatori e i pastori, soprattutto quando
le cose non vanno del tutto bene, quando non ricevono le approvazioni che si attenderebbero,
dicono a se stessi: Se almeno sapessi se vado bene o meno, se almeno sapessi ciò che devo
fare, se almeno sapessi che io sto facendo tutto quello che devo fare... L’incertezza sul ruolo
tormenta: Quali sono le mie responsabilità precise? che cosa si aspettano da me e che cosa
posso fare per essere lodato?
Giobbe rappresenta dunque anche questa dolorosa incertezza di sé e la voglia di
saperci giudicati a fondo, di essere giustificati in pieno e chiaramente su ciò che facciamo e
che ci tocca.
Inizia così:
«Certo, per l’argento vi sono miniere
e per l’oro luoghi dove esso si raffina.
Il ferro si cava dal suolo
e la pietra fusa libera il rame.
L’uomo pone un termine alle tenebre
e fruga fino all’estremo limite
le rocce nel buio più fondo... Una terra da cui si trae pane
di sotto è sconvolta come dal fuoco.
Le sue pietre contengono zaffiri
e oro la sua polvere.
L’uccello rapace ne ignora il sentiero
non lo scorge neppure l’occhio dell’aquila,
non battuto da bestie feroci,
né mai attraversato dal leopardo...» (28,1 ss.).
Il testo continua con immagini poetiche molto belle per affermare che a tutto si può
giungere tranne che alla sapienza:
«Ma la sapienza da dove si trae?
E il luogo dell’intelligenza dov’è?» (v. 12).
Interessante la forza con cui viene detto che la sapienza non la si trova, non la si
compra, non la si vende. Quindi si riprende la domanda: «Ma da dove viene la sapienza? / E
il luogo dell’intelligenza dov’è?» (v. 20).
Mi sembra molto bello l’avverbio ripetuto a riguardo di Dio, perché questa parola —
solo, soltanto, solamente — rappresenta uno dei momenti decisivi nei quali l’uomo biblico
coglie il Dio vivo. Noi troviamo questo avverbio, talora, nei Salmi, quando si vuol
proclamare la trascendenza e insieme la sua comunicazione: «Egli solo ha compiuto
meraviglie», egli solo ha creato i cieli; «In pace mi corico e subito mi addormento;/ tu solo,
Signore, al sicuro mi fai riposare» (Sal 135,4; 4,9).
Nella Bibbia alla profonda intuizione dell’unicità di Dio si accompagna sempre
l’affermazione che in lui solo è il nostro riposo, la nostra salvezza, la nostra pace.
Intravediamo allora, nel capitolo 28, un importante passo avanti: l’uomo non si
conosce, non deve pretendere di conoscersi, ma a Dio, e a lui solo, affida la sua giustizia, la
conoscenza di sé, la certezza della sua verità, del suo essere.
In maniera discreta, si risponde all’ansietà di Giobbe che vuole possedersi, vuole
conoscersi, vuole la sicurezza, in cielo e in terra, di essere giusto, di essere un uomo a posto.
La risposta di Dio
Ora possiamo passare ai discorsi di Dio che, dopo essere stato invocato all’inizio del
Libro, chiamato in giudizio, trattato male e insultato, ha sempre ascoltato tranquillamente,
senza scomporsi; si può pensare anzi che abbia ascoltato con amore, con benevolenza, con
bontà, le farneticazioni di Giobbe e degli amici.
Considereremo brevemente i capitoli 38 e 39, restando a voi la cura di leggerli e
meditarli per intero.
«Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine» (38,1). La teofania ricorda l’episodio
di Elia quando il profeta riuscì a cogliere qualcosa di un mistero inaccessibile.
E rispose facendo piovere su Giobbe una pioggia torrenziale di interrogazioni. Giobbe
ha continuato a far domande a Dio e Dio replica interrogando lui.
«Chi è costui che oscura il consiglio
con parole insipienti?
Cingiti i fianchi come un prode,
io ti interrogherò e tu mi istruirai» — notate il tono ironico: ecco, mi metto alla tua
scuola! —. «Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?
Dillo, se hai tanta intelligenza!
Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai,
o chi ha teso su di essa la misura?
Dove sono fissate le sue basi
o chi ha posto la sua pietra angolare,
mentre gioivano in coro le stelle del mattino
e plaudivano tutti i figli di Dio?» (vv. 4-7).
La serie di interrogazioni continua per tutto il capitolo e nei primi due versetti del
capitolo 39. Quindi Dio passa a descrivere la realtà che l’uomo vede attorno a sé nel mondo
animale ma di cui non sa rendersi ragione fino in fondo.
1. Prima riflessione: devo accettare di non saper fare il giro dell’universo, di non saper
fare il giro dei piani di Dio e della Chiesa, anzi neppure il giro completo delle mie
responsabilità.
Può essere duro, perché la nostra epoca è giustamente fiera dei suoi progressi
scientifici e anche le scienze umane aspirano, almeno inconsciamente, a possedere la totalità
del mistero.
Mi sembra però saggezza autentica, il riconoscere che non sappiamo e non possiamo
sapere tutto, che ogni scienza, di natura sua, è settoriale e conosce un solo aspetto della
realtà.
Questo limite della nostra conoscenza ci brucia e ci umilia dal momento che siamo
continuamente tentati di possedere l’insieme della realtà per poter prevedere anche il futuro.
In fondo, tale tentazione si collega all’originaria: Voglio mangiare l’albero della scienza del
bene e del male, voglio avere la chiave della totalità dell’essere, della totalità del misterioso
piano di Dio, del mistero della Chiesa, del futuro della nostra società. Invece, la sapienza
autentica nasce dall’accettazione di questo limite umano.
3. Terza riflessione: devo affidarmi a Dio per quanto riguarda la conoscenza globale di
me, dell’essere, dell’orizzonte trascendente del tutto. A partire da questo affidamento saprò
trarre segmenti utili di conoscenza, investigativa e deduttiva, su di me e sugli altri.
Sempre però con la riserva che la conoscenza della totalità del mistero non ci è data.
Applicazioni pratiche
Ancora nell’ambito della meditatio, suggerisco tre applicazioni pratiche per la nostra
vita.
1. Il futuro della Chiesa è nelle mani di Dio, come pure i piani pastorali dipendono, nei
loro risultati, da mille imprevisti che ci sfuggono e la cui totalità è conosciuta solo dal
Signore.
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A noi è chiesto di applicarci con umiltà a questi segmenti di conoscenza che ci sono
possibili, di esprimere i corsi di azione e di esecuzione che ci sembrano ragionevoli,
accettando anche che gli eventi ci superino, ci smentiscano, ci obblighino a rivedere tutto.
Il tentativo più grande di forzare la conoscenza della totalità dei fatti e di prevederne il
corso storico è quello delle ideologie totalitarie che stanno crollando perché
drammaticamente smentite dalle circostanze. Nel nostro cammino di Chiesa, pur lasciandosi
giustamente influenzare dalle richieste di maggiore razionalità, è necessario renderci conto
che tale razionalità è sempre relativa e parziale, che richiede da noi onestà, lealtà, capacità di
rispondere alle situazioni così come le conosciamo, sempre ricordando la riserva del Salmo:
«Tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare» (Sal 4,9).
2. Molte volte invochiamo nella pastorale l’ausilio delle scienze sociali e in genere
della rilevazione scientifica del tempo, dell’ambiente, della situazione, dei modi secondo i
quali si muove l’umanità. Un filosofo contemporaneo ha recentemente scritto che le scienze
sociali sono la riflessione «sulle conseguenze inintenzionali dei progetti intenzionali».
Perché il gioco delle realtà non intenzionali, delle conseguenze non previste razionalmente è
vastissimo. E quel filosofo opponeva una mentalità progettuale — che può diventare pretesa
di programmare la totalità — a una mentalità pellegrinante, più aperta, che cerca di
accogliere le cose che ci sono, di valutare ciò che si deve fare e poi di vivere con quella
fiducia che non presume di poter conoscere tutto, neppure di noi, della nostra giustizia, del
nostro fare davvero bene.
Quanto più il nostro compito è di responsabilità, tanto meno dobbiamo sperare di
trovare attorno a noi dei parametri geometrici che ci assicurino la bontà delle nostre azioni.
Solo Dio nell’eternità ce lo potrà dire. L’importante è di andare avanti con la libertà di
colui che si sa giudicato solo da Dio e che si sforza di correggere gli sbagli che conosce pur
non riuscendo del tutto a rendersi conto in che misura sono davvero sbagli.
Questa è la mentalità che Giobbe fatica ad assumere. Egli vuole arrivare alla chiarezza
su di sé, sugli altri, su Dio, una chiarezza che non lasci adito ad ombre. E Dio lo redarguisce:
«Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra?», cosa ne sai tu di questo e di
quello?
Nella sua personale giustizia, nella sua rettitudine, Giobbe — l’insegnamento è per noi
— è ricondotto alla giusta misura, che poi emergerà nelle dichiarazioni finali.
Vi leggo, a questo punto, un pensiero di Giovanni XXIII, tratto dal Giornale dell’a-
nima, che va nella linea delle nostre riflessioni: «Più mi faccio maturo d’anni e di esperienze
e più riconosco che la via più sicura per la mia santificazione personale e per il miglior
successo del mio servizio della santa Sede resta lo sforzo vigilante di ridurre tutto —
principi, indirizzi, posizioni, affari — al massimo di semplicità e di calma, con attenzione a
potare sempre la mia vigna di ciò che è solo fogliame inutile e sviluppo di viticci e ad andare
diritto a ciò che è verità, giustizia, carità, soprattutto carità. Ogni altro sistema di fare non è
che posa e ricerca di affermazione personale, che presto si tradisce e diventa ingombrante e
ridicolo. Oh la semplicità del Vangelo, del libro della Imitazione di Cristo, dei Fioretti di san
Francesco, delle pagine più squisite di san Gregorio nei Morali» — che è poi un commento
al Libro di Giobbe —. «Tutti i sapienti del secolo, tutti i furbi della terra, anche quelli della
diplomazia vaticana, che meschina figura fanno, posti nella luce di semplicità e di grazia che
emana da questo grande e fondamentale insegnamento di Gesù e dei santi? Questo è l’accor-
gimento più sicuro, che confonde la sapienza del mondo e si accorda egualmente bene, anzi
meglio, con garbo e con autentica signorilità» (Giornale dell’anima, 1948, pp. 275-276).
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Chiediamo umilmente nella preghiera che venga donato anche a noi questo
atteggiamento, non remissivo ma che permette di passare in mezzo alle vicende della vita,
alle situazioni e alle cose con signorilità e con gioia.
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LA LOTTA
PER L’OBBEDIENZA DELLA MENTE
Propongo una istruzione — non quindi una meditazione su un brano biblico — che
vorrebbe riferirsi all’insieme del Libro di Giobbe e al significato che può avere per la nostra
vita quotidiana.
Quando ho scelto, come tema centrale degli Esercizi, la parola di Gesù: «Avete
perseverato con me nelle mie prove», c’era in me il desiderio di mettere in luce un aspetto
particolare, talora un poco trascurato, dell’esistenza cristiana: l’aspetto conflittuale, e
specificamente di lotta per il controllo e l’obbedienza della mente.
Questo aspetto viene splendidamente esemplificato in Giobbe; tutto il Libro, infatti, è
una grande lotta intrapresa dall’uomo per l’obbedienza della mente a Dio.
Cercheremo quindi di capire anzitutto l’espressione biblica: obbedienza della fede. Poi
rifletteremo sul disordine della mente; sui diversi modi di disobbedienza della mente; sulla
purificazione della mente secondo la dottrina dei Padri greci. Da ultimo trarremo alcune
conseguenze per noi.
“O Maria, tu che hai avuto una mente, un intelletto purificati e obbedienti fin
dall’inizio; tu che dopo una semplice domanda: Come avverrà questo?, ti sei acquietata e
non hai più dato adito ad ansietà, a ripensamenti, a timori, donaci di seguire la tua via in
una pacificazione della mente e del cuore, che ci permetta di attendere con tutta l’anima e
con tutto lo spirito al servizio e all’amore del prossimo, secondo la nostra vocazione”.
interrogativi di questo genere: Chi me lo fa fare? è giusto davvero? perché non sono rimasto
dov’ero?
L’obbedienza alla fede non si esaurisce in un atto unico, indivisibile; piuttosto, è
l’inizio di una lotta contro tutte le tentazioni mondane di disobbedienza, di autosufficienza,
di presunzione, pensieri proprii dell’uomo carnale, psichico che, secondo le parole di Paolo,
ha sempre mille ragioni da opporre alla fede.
nostra mente una lunga teoria di autogiustificazioni e ci rivediamo mille volte nella
situazione per dire a noi stessi che gli altri non ci hanno capito e che noi abbiamo ragione.
Giobbe ci ha insegnato anche il pericolo della non accettazione di non sapere chi siamo
e se siamo giusti o meno, il pericolo del bisogno assoluto di definirci, di capirci nelle nostre
radici. E c’è un modo di fare su di sé l’indagine psicologica o la psicanalisi, che sottende
proprio questa bramosia: voglio possedermi fino in fondo e perciò perseguo una ricerca
infinita di sogni, di fantasie, di tic nervosi, di gesti inconsci, per riuscire a scoprire quel
segreto di me così difficile da possedere.
Da questi pensieri si passa certamente a quelli di più diretta disobbedienza: la non
accettazione di Dio. È, in fondo, la grande tentazione che pervade tutto il Libro di Giobbe.
Egli lo accetta, ed è il suo grande atto di fede, tuttavia la sua mente è sempre tentata di
rifiutarlo, fino alla tentazione di disperazione e anche, nel senso negativo, di rassegnazione:
Non credo più in niente, non accetto più niente, non ho più voglia di niente.
Ecco il giro dei pensieri: si presentano in genere come innocui, occupano le prime ore
del mattino, allo svegliarsi, ci assalgono nei tempi in cui non siamo molto impegnati e a un
tratto invadono la nostra mente in modo che, riprendendo gli impegni, ci sentiamo tristi,
fiacchi, deboli senza sapere il motivo. In realtà, non li abbiamo disciplinati attentamente, non
li abbiamo fermati; così forme di esaltazione o di risentimento, di infatuazione o di
depressione o di stizza contro noi stessi o contro altri sono entrate inconsciamente in noi che
poi le abbiamo coltivate.
Potrei menzionare anche le fantasie di sensualità, i desideri, tutte quelle fantasticherie
che magari surrettiziamente si insinuano in noi lasciandoci a un certo punto vuoti, poco
invogliati a pregare, poco impegnati nella Messa, nella recita del breviario: non
comprendiamo il motivo, ma è semplicemente che ci siamo lasciati un po’ trastullare, senza
accorgerci, da una serie di pensieri indisciplinati che hanno finito con lo svigorirci.
La scoperta di questo mondo interiore difficile è parte del cammino spirituale e ci
conduce a ingaggiare una lotta continua e faticosissima.
conoscenza di Dio, della virtù e della professione fatta. Bisogna dunque che il solitario
osservi da dove venga questo demone e dove voglia andare a finire. Perché non è per niente
né a caso che fa tutto quel giro. Fa questo per corrompere lo stato interiore del solitario: in
modo che l’intelletto, infiammato da queste cose, ebbro per molti incontri, subito incappi nel
demone della fornicazione o dell’ira o della tristezza, tutte cose che massimamente
distruggono lo splendore del suo stato interiore» (cfr. La Filocalia, vol. 1, Gribaudi, pp. 112-
113).
Mi sembra che sia chiaramente indicato il processo di corruzione della mente.
Suggerimenti
Esprimo infine qualche osservazione conclusiva.
1. È giusto, fino a un certo punto, volere uscire razionalmente dal turbinio dei pensieri
che ci assalgono. Istintivamente siamo portati a dare a ciascuno di essi una risposta logica
perché si presentano spesso come interrogazioni.
2. C’è però un limite. Ci accorgiamo infatti, a mano a mano che cresce la nostra
sensibilità, che le domande non si accontentano in realtà di una risposta ma continuano a
deprimere lo spirito. Allora deve scattare l’avvertenza della lotta, deve emergere
l’atteggiamento disciplinato di colui che tende alla esichia, al controllo ordinato della propria
mente, attraverso tre modi concreti:
a) troncare coraggiosamente il turbinio di pensieri ripetendo la decisione anche mille
volte. Non appena comprendiamo che non sono costruttivi, pur se sembrano razionali, che
debilitano la mente, occorre immediatamente stroncarli. Se tante persone l’avessero fatto per
tempo, si sarebbero risparmiate molti esaurimenti nervosi, molte amarezze, molti
risentimenti ormai troppo coltivati, molte fatiche.
È dunque estremamente importante la decisione interiore.
b) II secondo modo, suggerito pure dalla Imitazione di Cristo, è semplice e spesso lo
dimentichiamo mentre invece è davvero vittorioso: age quod agis, mettiti tutto in ciò che fai
facendoti aiutare anche dalla sensibilità. Se stai leggendo un libro, sentilo nella mano,
sentine il peso, rivolgi gli occhi alle parole una dopo l’altra, cerca di evidenziarle attraverso
gli stessi caratteri. Così, se canti canta con tutto il cuore, se scrivi scrivi con tutte le tue forze,
se cammini cammina con tutta la tua energia. Non lasciarti prendere da pensieri parassiti che
vorrebbero, con risentimenti, animosità, paure, angosce, dominare il tuo agire. Sembra un
mezzo persino troppo semplice eppure è utilissimo, e ci sono addirittura scuole di psicologia
fondate su di esso: un’autocoscienza ordinata parte dalla percezione sensibile di alcune realtà
immediate, per poi ordinare il filo della mente secondo una linea diritta che non devii
continuamente a destra e a sinistra.
c) Il terzo suggerimento, dato spesso dai Padri greci soprattutto nel procedere della
tradizione monastica, è la preghiera di Gesù. Questa preghiera consiste nel trasferire la
mente nel cuore, quindi nel non lasciare che la mente dilaghi nella selva dei pensieri,
dedicandola totalmente e affettivamente alla persona di Gesù. La preghiera del cuore ha una
sua tecnica, forse non molto adatta per noi occidentali ma che nella Chiesa greca e nella
Chiesa russa è assurta a elevazioni mistiche davvero grandi.
Comunque anche noi abbiamo delle forme di preghiera del cuore: il Rosario, ad
esempio, quando è ben recitato, tende a pacificare la mente portandola su alcune parole e
immagini fondamentali; la via Crucis suscita sentimenti e affetti verso Gesù; le giaculatorie e
le parole dei salmi, ripetute molte volte, possono diventare così preghiera del cuore. A poco
a poco la molteplicità dei pensieri si semplifica e si riduce a unità. Sono tutte forme che ci
aiutano anche a ritrovare quella unità interiore, nella distrazione e nella rottura spesso create
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dalla molteplicità delle attività, che trova nella preghiera di Gesù un suo punto di riferimento
privilegiato.
Durante l’esperienza che ho vissuto in India, dove ho conosciuto da vicino l’ascesi
indù e i cammini compiuti da molti giovani alla ricerca di guru, di maestri spirituali, ho
compreso che anche là l’ideale è di giungere al possesso di sé, all’unità, non in modo logico,
razionale, possessivo, ma attraverso un dono; in India si parla di svuotamento di sé, di
abbandono al nulla. Per noi significa abbandono al mistero ineffabile nel quale siamo
immersi e che, essendo più intimo del mio intimo, è nel fondo del cuore, per cui posso
ritrovarlo in ogni momento — di giorno o di notte, nella malattia o nella buona salute, nella
tristezza o nella gioia — facendo unità profonda in me stesso.
La preghiera di Gesù è alla portata di tutti e tuttavia introduce nei misteri più profondi;
è compatibile e si adatta a tutte le situazioni, e può essere praticata pure da chi ha molti
impegni e talora ha poco tempo per una preghiera prolungata e intensa. Anche se dobbiamo
riconoscere per esperienza che non è possibile vivere la preghiera di Gesù o comunque una
preghiera affettiva, del cuore, durante le occupazioni della giornata se non si pongono
insieme momenti forti e seri di preghiera e di silenzio.
“Donaci, Signore, di vivere con intensità la comunione eucaristica che non ha confini,
che si allarga a tutti coloro che conosciamo e amiamo, che sono affidati alla nostra
responsabilità; ai malati e ai sofferenti; a tutte le Chiese, al Papa, a tutte le Diocesi, a tutti i
Vescovi, a tutte le missioni, a tutte le situazioni più dolorose dell’umanità. Donaci, o Padre,
di vivere davanti a te in rappresentanza di questa umanità compiendo così il nostro servizio
sacerdotale con tale ampiezza di orizzonti”.
— La prima lettura, dal Libro dei Giudici (9,6-15) ci offre il primo esempio nella
Bibbia di una parabola, quasi un racconto immaginario; nel nostro caso vi è contenuto un
insegnamento molto perspicuo, antimonarchico, antiautoritario.
È il primo esempio di quella diffidenza verso la monarchia che apparirà chiaramente
nel primo Libro di Samuele, quando si tratterà di dare a Israele un re. È l’espressione della
diffidenza rispetto all’affidamento di tutti i destini umani a una persona.
La parabola mette in scena diversi alberi utili all’uomo, dotati di vera capacità, di
ragionevolezza, di serietà, alberi che sono davvero benefattori dell’umanità; come l’ulivo e
la vite che non vogliono saperne di assumere responsabilità, affermando di avere un compito
più importante e ad essi proprio.
Chi accetta, invece, di assumere responsabilità è un albero privo di frutti, inutile: il
rovo.
Traducendo, gli uomini veramente intelligenti fanno il loro mestiere, agiscono nel loro
campo; ma chi non ha vera intelligenza accetta di avere responsabilità di altri e, accettandole,
diventa pretenzioso, vano, superbo, crudele, come questo rovo.
Siamo di fronte a una descrizione molto negativa del potere nella storia. Tuttavia è in
parte realistica; quante volte accade, nella politica ad esempio, che uomini veramente probi,
competenti, capaci, si rifiutano di occuparsene. Mentre accettano di fare politica persone che
farebbero meglio a rifiutare.
Ma al di là della saggezza umana contenuta nel racconto, noi cogliamo l’insegnamento
più profondo, biblico: il destino dell’uomo è nelle mani di Dio e non è bene affidarlo a una
persona. “Tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare”; il mio destino appartiene a te.
Diffidenza, dunque, che teme si giunga, attraverso la consegna del destino di alcuni
uomini nelle mani di altri, ad abusi di potere, a forme di sopraffazione indegne del popolo di
Dio. Tutta la storia dei Libri dei Re mostra la giustezza di tale timore. Timore che resta
incombente nella storia di salvezza, dove ci si affretta ad affermare che, anche quando alcuni
uomini hanno cura di altri, sono pastori del gregge, c’è però un solo pastore supremo, Gesù.
È lui ad avere la piena, totale responsabilità dei credenti; tutti gli altri sono secondari,
mandatari, sorveglianti, relativi a Cristo. Devono preoccuparsi del buon andamento delle
cose, sapendo che le speranze e la fiducia del popolo di Dio sono sempre poste nel Signore.
È molto importante imparare a leggere tutte le autorità umane, comprese le
ecclesiastiche, sapendo che l’onore a loro tributato è sempre in riferimento all’unico, vero
responsabile delle nostre anime, all’unico capo della Chiesa, il Signore Gesù da cui ogni
autorità dipende. Lui solo è degno di aprire il libro sigillato con sette sigilli, che contiene i
segreti del Regno di Dio. Perché è lui l’agnello immolato, che ha dato se stesso per noi fino
alla morte.
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Tutto ciò che facciamo ha riferimento a Cristo Signore, alla sua potenza unica,
legittima; gli altri poteri non sono che partecipazioni limitate a questo servizio che è la vita
stessa di Gesù.
Anche noi, in questi giorni di Esercizi, siamo invitati a convertirci; ossia a conoscere il
Dio dell’alleanza non attraverso nozioni che noi sovrapponiamo e mediante le quali lo
giudichiamo, fossero pure altissime come la giustizia e la carità. A conoscere il Dio
dell’alleanza come egli è, nella sua vita debordante, traboccante di amore e di misericordia,
che prepara disegni di luce nelle più profonde oscurità.
L’affidamento al mistero di Dio viene chiesto ai lavoratori della vigna, a Giobbe, a
ciascuno di noi.
E noi preghiamo di camminare per questa strada mediante l’adorazione del mistero
eucaristico davanti al quale ci sentiamo smarriti ogni volta che lo celebriamo, che lo
rinnoviamo, che teniamo tra le mani il corpo e il sangue di Cristo, perché non è contenibile
nella misura dei nostri concetti ma supera nell’amore ogni nostra preveggenza, ogni calcolo,
ogni pur alta nozione del mistero di un Dio infinito che si china sulla sua creatura povera e
limitata.
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— vv. 1-2, l’apertura dell’arringa. «Stanco io sono della mia vita! Darò libero sfogo al
mio lamento, parlerò nell’amarezza del mio cuore. Dirò a Dio: Non condannarmi! Fammi
sapere perché mi sei avversario».
Sono parole introduttive al momento della lotta serrata.
Anche se non c’è un riferimento verbale specifico, possiamo leggere nelle parole di
Giobbe il mistero dell’alleanza: tu mi hai creato, mi hai fatto tuo, sono tuo, non dimenticare
la tua creatura, siimi vicino, non abbandonarmi.
— vv. 13-17: dopo la perorazione, le accuse contro Colui che agisce da nemico.
«Eppure, questo nascondevi nel cuore,
so che questo avevi nel pensiero!» (v. 13).
Dio è dunque visto come una belva feroce che non lascia in pace questo povero uomo.
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— vv. 18-22: di nuovo si ritorna dall’aggressività alla supplica che fa leva sull’af-
fettività del mistero di Dio.
«Perché tu mi hai tratto dal seno materno?
Fossi morto e nessun occhio m’avesse mai visto!
Sarei come se non fossi mai esistito;
dal ventre sarei stato portato alla tomba!
E non son poca cosa i giorni della mia vita?
Lasciami, sì ch’io possa respirare un poco
prima che me ne vada, senza ritornare,
verso la terra delle tenebre e dell’ombra di morte,
terra di caligine e di disordine,
dove la luce è come le tenebre».
In questo capitolo Giobbe esprime la sua solitudine, la sua incertezza, il suo dolore per
non essere ascoltato e, come succede a chi vive un forte complesso di inferiorità, si esaspera,
lotta per avere ciò che vuole da Colui che ritiene possa e debba darglielo, con la stizza di chi
non è sicuro di sé e però pretende i suoi diritti.
Lotta con Dio, ma ancora molto con se stesso, con la smoderatezza dei suoi pensieri,
con il senso di inferiorità che lo assale, con l’insicurezza che lo rode interiormente e dalla
quale vorrebbe uscire con parole minacciose. Talora, le persone che verbalmente
aggrediscono di più sono le più deboli, le più fragili e si accaniscono contro l’altro nella
paura di non ottenere ciò che desiderano.
avverrà dopo e anche la gioia dell’evangelista mentre proclama che Gesù diede inizio ai suoi
miracoli in Cana di Galilea (cfr. v. 11) si deve a Maria che pur lottando, pur chiedendo con
insistenza e ponendosi in una situazione di esigenza, conserva la fiducia propria di chi ha
ormai superato la lotta per l’obbedienza della mente.
Forse noi ci troviamo, nelle nostre lotte con Dio, tra Giobbe e Maria e dovremmo
cercare di avvicinarci maggiormente a Maria, per quanto è possibile al nostro cammino
spirituale, passando attraverso quella obbedienza della mente che è l’atteggiamento
fondamentale del credente rispetto a Dio.
fiduciosa: «È vero, Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla
tavola dei loro padroni» (v. 27).
La risposta è di una superiorità incomparabile, indice di una persona che crede
veramente in Gesù, nella misericordia di Dio, nella forza universale dell’alleanza, al di là
delle stesse parole ascoltate. Così la donna vince.
E Gesù vuole essere vinto. Il mistero della lotta con Dio sta proprio nel fatto che
l’angelo è contento di essere vinto da Giacobbe (cfr. Gn 32,23 ss.). Come dice un apologo
rabbinico: Dio è contento di essere superato e vinto dai suoi figli.
Esplode l’esultanza di Gesù: «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come
desideri» (v. 28). Davvero grande perché ha compreso il cuore di Cristo al di là di tutto ciò
che velava l’amore del Signore proprio per suscitare la fede eroica.
È interessante notare il parallelo di Marco, forse ancora più illuminante: «Per questa
tua parola, va’, il demonio è uscito da tua figlia» (Mc 7,29). Dunque, è potente la parola della
donna; e la gioia di Gesù è che il miracolo non è quasi neppure suo, ma della potenza della
fede umana. Egli ha vinto perché è riuscito ad innalzare la Cananea a una qualità di fede
inaudita, nella linea di quella di Abramo. La donna ha vinto perché ha fatto sì che Gesù si
manifestasse nella sua verità divina.
Mi sono talora domandato che cosa sarebbe accaduto se la Cananea, di fronte al
comportamento di Gesù, si fosse messa a inveire. Certamente il Signore non compie miracoli
per chi li rifiuta, e tuttavia credo che anche in questo caso egli avrebbe distinto gli
atteggiamenti.
Se la donna avesse inveito come Giobbe, quindi con fede e nel desiderio di ricerca,
penso che Gesù le sarebbe andato ugualmente incontro. Ma ci avrebbe perso la Cananea. Se
la Madonna avesse inveito, Gesù le sarebbe andato incontro cogliendo la verità del suo
atteggiamento. Ma Maria sarebbe rimasta un passo indietro rispetto alla profonda pace della
mente che aveva raggiunto.
Siamo noi a perderci; Gesù agisce sempre con amore e con misericordia verso chi si
mostra desideroso di accoglierlo.
costituiscono una visione unitaria della salvezza con la quale siamo chiamati a confrontarci
nelle nostre lotte quotidiane col mistero di Dio.
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TRE ESEMPI
DI OBBEDIENZA DELLA MENTE
Tenendo sempre presente il Libro di Giobbe, scegliamo alcune pagine della Scrittura
che ci inducono a una riflessione di tipo cristologico.
Abbiamo già approfondito l’importanza dell’obbedienza della mente e ora
esemplifichiamo il tema in tre casi concreti:
Abramo (Gn 22);
Giobbe (Gb 40-42);
Gesù (Mc 14).
Per la domanda di grazia che facciamo prima della meditazione ci ispiriamo alla parola
della Lettera agli Ebrei, che si può considerare riassuntiva di tutto un Corso di Esercizi:
«Anche noi, dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è
di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti,
tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli, in cambio della
gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso
alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una
così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo» (Eb 12,1-3).
Gesù, autore e perfezionatore della fede, è colui che è passato nella grande prova; tale
prova ha avuto il suo culmine nell’ignominia della croce a cui si è sottoposto sopportando
una grande ostilità dei peccatori. Questo ci incita a correre con perseveranza nella corsa che
ci sta dinanzi, deponendo quanto ci è di peso e il peccato che ci assedia, circondati da un
grande nugolo di testimoni, che sono tutti i santi dell’Antico e del Nuovo Testamento, in
particolare quelli ricordati nella Lettera agli Ebrei, tra cui Abramo (cfr. Eb 11).
“Donaci, o Gesù, di tenere anzitutto lo sguardo fisso su di te. Tu sei colui da cui la
nostra fede deriva, sei colui che la porta a perfezione, colui che ha corso nella prova prima
di noi, colui che ci conduce, che non ci lascia sbagliare nel cammino.
Fa’ che noi ti contempliamo con affetto profondo e possiamo trovare forza e gioia nel
seguirti anche nelle scelte difficili”.
L’obbedienza di Abramo
«Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo!”» (Gn
22,1). Siamo al momento culminante della vita di Abramo, che resterà per tutta la tradizione
un momento altissimo, misterioso, drammatico, tale da essere addirittura letto
simbolicamente in riferimento a Cristo sulla croce e al rapporto del Padre col Figlio, quel
Padre «che non ha risparmiato il proprio Figlio» (cfr. Rm 8,32).
Dio mette dunque alla prova Abramo. Lo chiama per ben due volte e gli dice: «“Prendi
tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto
su di un monte che io ti indicherò”. Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con
sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il
luogo che Dio gli aveva indicato» (vv. 1b-3). Ci sorprende l’asciuttezza del racconto, quasi
che tutto vada da sé: Dio ordina, Abramo obbedisce e alzatosi di buon mattino si mette in
cammino.
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È tuttavia facile immaginare quale lotta si sia scatenata nella mente di Abramo, quali
pensieri, obiezioni, ribellioni l’abbiano assalito, quale ripugnanza abbia provato mentre
esteriormente poneva gesti semplici, come se si trattasse di una gita in campagna. E ci
sorprende che il testo biblico non commenti il fatto, non alluda all’Ulteriore lotta drammatica
di Abramo. Ne parla, invece, la Lettera agli Ebrei: «Per fede Abramo, messo alla prova, offrì
Isacco. E proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era
stato detto: “In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome”» (Eb 11,17-18). In
maniera sintetica, è espressa tutta la guerra interiore che Abramo deve combattere: Proprio a
me questo comando? a me che sono erede delle promesse, che sono stato lusingato,
affascinato dalla promessa di discendenza, che l’ho attesa per anni? Se almeno avessi più di
un figlio! Ma Isacco, proprio l’unico, proprio lui di cui mi è stato detto: “In Isacco avrai una
discendenza che porterà il tuo nome”?.
Da una parte Abramo lotta e sente in sé tumultuare le obiezioni così facili, così
ragionevoli, così logiche — come quelle di Giobbe — ma dall’altra, come dice ancora la
Lettera agli Ebrei: «Egli pensava che Dio è capace di far risorgere anche dai morti; per
questo lo riebbe e fu come un simbolo» (v. 19).
Riesce ad attuare l’obbedienza della mente perché si fida oltre ogni fiducia, spera
contro ogni speranza, secondo la fortissima parola di Paolo.
Mentre cammina nel silenzio e cerca di reprimere, di dominare la folla di pensieri che
lo tormenta, il figlio, con semplicità e ingenuità, fa la domanda che non si doveva fare e che
avrebbe potuto scatenare anche esteriormente la bufera interiore che Abramo stava vivendo:
«Isacco disse: “Padre mio!”. Rispose: “Eccomi, figlio mio”. Riprese: “Ecco qui il fuoco e la
legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”». Abramo si sente trafiggere il cuore e però
risponde: «Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!» (Gn 22,7-8).
Questa è obbedienza della mente: l’abbandono, al di là di ogni evidenza, al Dio più
grande di noi, che tiene in mano ogni cosa, che tutto sa e tutto può e a tutto provvede. Di fatti
il nome di quel luogo sarà «Il Signore provvede»; «perciò oggi si dice: “Sul monte il Signore
provvede”» (v. 14).
È un primo esempio drammatico di obbedienza della mente, ossia di ossequio a un
mistero di cui non si colgono le ragioni, e però se ne avverte la forza dentro di noi.
Per questo Abramo è il capostipite della fede.
Gli esegeti cercano di rispondere in vari modi. A me sembra che forse una delle
risposte più pertinenti sia che, dopo aver parlato della natura, si parla della storia: si allude
cioè, sotto l’immagine delle bestie, alle due grandi potenze che per Israele appaiono
invincibili e capaci di distruggere l’universo: l’Egitto — l’ippopotamo che è la bestia dei
fiumi — e la Mesopotamia — il Leviatan, bestia mitica, ferocissima —. Ebbene, Dio
considera anche queste realtà dall’alto, quasi con gioco, perché le conosce dall’interno e, pur
se sono crudeli, le tiene nella sua mano.
Ma qualunque sia il significato del brano, certamente Dio riprende le sue contestazioni,
entrando non direttamente nel discorso di Giobbe bensì allargandogli gli orizzonti fino ai
limiti del possibile e pure oltre, facendo leva sulla forza di quell’uomo:
Alcuni commentatori osservano che Dio è così uscito dal dilemma di Giobbe che
consisteva nel sapere se aveva torto o ragione. Il Signore dice: Anche tu sei forte, anch’io ti
glorifico, ma anch’io ho ragione.
La giustizia di Dio è diversa dalla nostra; è possibile una glorificazione insieme di Dio
e del mondo e dell’uomo, attraverso disegni misteriosi. Questo sembra essere il senso delle
parole.
Dopo la lode a Giobbe, Dio prosegue:
«Ecco, l’ippopotamo,
che io ho creato al pari di te,
mangia l’erba come il bue.
Guarda, la sua forza è nei fianchi
e il suo vigore nei muscoli del ventre.
Rizza la coda come un cedro,
i nervi delle sue coscie s’intrecciano saldi,
le sue vertebre, tubi di bronzo,
le sue ossa come spranghe di ferro» (cfr. 40,15 ss.).
E più avanti:
«Puoi tu pescare il Leviatan con l’amo
e tener ferma la sua lingua con una corda,
ficcargli un giunco nelle narici
e forargli la mascella con un uncino?
...Chi mai lo ha assalito e si è salvato?
Nessuno sotto tutto il cielo.
Non tacerò la forza delle sue membra:
in fatto di forza non ha pari.
...Nessuno sulla terra è pari a lui,
fatto per non aver paura.
Lo teme ogni essere più altero;
egli è il re su tutte le fiere più superbe» (cfr. 40,25-41,2 6).
Giobbe incomincia con una parola molto bella, che sarà ripetuta dall’angelo a Maria, e
poi da Gesù a proposito del giovane ricco e della salvezza di quanti hanno ricchezze: «Nulla
è impossibile a Dio». Il disegno divino è inscrutabile, al di là di tutte le possibili evidenze sia
fisiche sia morali. Dio è il Vivente, la regola ultima di amore di tutto l’universo.
«Chi è colui che, senza avere scienza, può oscurare il tuo consiglio?»: san Paolo, dopo
aver contemplato il mistero terribile di Israele, intuisce che deve racchiudere un disegno
impenetrabile ed esprime la medesima certezza di Giobbe (cfr. Rm 11).
E Giobbe fa l’atto finale di obbedienza della mente e insieme di confessione:
«Ho esposto dunque senza discernimento
cose troppo superiori a me, che io non comprendo».
È un giudizio su ciò che ha detto: le sue parole contenevano una parte di verità ma
l’insieme del discorso tendeva a esplorare cose che non gli competevano, che sfuggono
all’uomo.
Segue il versetto 5, che a mio avviso è il momento più alto di tutto il Libro, in
particolare per l’insegnamento che viene a noi:
«Io ti conoscevo per sentito dire
ma ora i miei occhi ti vedono».
Ecco il senso del lungo travaglio di Giobbe. Conosceva Dio dalla catechesi, dalla
teologia, dalle disquisizioni, dai libri. Non si trattava, bene inteso, di conoscenze false,
tuttavia non riuscivano a fare unità, a mettere veramente a fuoco il volto di Dio; e Giobbe si
perdeva nel tentativo di mettere insieme la molteplicità dei ragionamenti. Ora gli occhi gli si
sono illuminati ed è giunto a intuire direttamente che di Dio non si parla; lo si ascolta,
invece, e lo si adora.
Mettendosi in questa disposizione, che ho chiamato “affettiva” perché non pretende di
scoprire tutto con la forza dell’intelletto ma si sottomette al mistero, ci è donata la
connaturalità con questo stesso mistero, espressa da Gesù quando dice «Rimanete in me e io
in voi»: allora possiamo affermare di vedere Dio con i nostri occhi. Ovviamente è necessario
il ragionamento, sono necessario la teologia e la pastorale, ma al di là di tutto ciò conta
l’intuizione ultima. È questo il motivo dei motivi, anzi il motivo senza motivo, dal momento
che in Dio c’è soltanto il suo essere, il suo essere per noi, il suo essere per me, e tutte le
ragioni tacciono. Nella sottomissione al mistero noi conosciamo veramente Colui dal quale
tutto deriva, al quale tutto ritorna, e che fa unità nella nostra esistenza.
Notiamo che Dio ha ritenuto i ragionamenti di Giobbe migliori di quelli dei suoi amici
che si sono limitati a un’espressione teologica molto timida, troppo prudente, troppo legata
alla geometria più che alle profondità teologiche. Giobbe si è spinto più avanti, ha osato di
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più, è stato più animoso, più passionale, e quindi si è avvicinato di più al mistero trinitario
che è dedizione e passione, che è totalità e dono. Tuttavia, avendo preteso di farlo a parole,
ne è rimasto ancora lontano: «Perciò mi ricredo, e ne provo pentimento sopra polvere e
cenere» (v. 6).
Finalmente è giunto all’obbedienza della mente che è amore, umiltà, riverenza
amorosa, sottomissione che riassume tutta la spiritualità dell’alleanza: fiducia in chi mi è
alleato, abbandono a lui, non bisogno di sapere tutto né su lui né su me, e di conseguenza
una conoscenza ben più profonda di quella che si può raggiungere con la sottigliezza dei
ragionamenti.
Come Gesù reagisce in questa lotta per l’obbedienza della mente, il cui esito, per
molti, è di fuggire, di ritirarsi, di abbandonare tutto?
Reagisce restando. Chiede ai discepoli di restare, di non fuggire, di non cambiare
situazione, ma di affrontare la lotta. Poi, andato un poco innanzi, si getta a terra e prega
perché, se è possibile, passi da lui quell’ora.
È molto bello che Gesù affronti direttamente il male ma a partire dalla propria
debolezza: «che passasse da lui quell’ora».
La sua è una lotta col Padre, ed egli vuole ad ogni costo che sia vittoriosa la volontà
del Padre. Infatti «diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo
calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”» (Mc 14,36).
Egli sa di volere altro, di volere che si allontani da lui quel calice, ma la parola decisiva
è «ciò che vuoi tu».
È la parola ultima della fede, dell’obbedienza della mente, parola che interpreta
Abramo, Giobbe, tutti i santi della via della fede nell’Antico Testamento.
Possiamo restare in contemplazione affettiva di Gesù nel Getsemani e chiedergli: Che
cosa dici tu a me? come vivo io queste realtà?
Riflessioni conclusive
Suggerisco tre riflessioni conclusive.
1. Se c’è una lotta per l’obbedienza della mente, il modello è Gesù nell’orto, Gesù
orante; lui è il modello ultimo che riassume tutto il combattimento di Giobbe nella sua
violenza e nella sua vittoria, il luogo migliore per rileggere l’insieme del Libro di Giobbe e
coglierne lo sbocco nel disegno divino.
2. Chi prega per non entrare in tentazione ha già vinto per metà. Difatti Gesù supplica
i suoi apostoli: «Pregate per non entrare in tentazione» e obbliga noi a ripetere questa
incessante domanda nella preghiera domenicale, domanda di cui non sempre comprendiamo
l’importanza e che spesso formuliamo a fior di labbra. Con essa si chiede al Padre di cogliere
il carattere di lotta e di prova di tante situazioni, di non entrarci a capofitto senza capire che
sono una prova, ma di affrontarle nella preghiera. Quando ci si accorge che una certa realtà,
un evento, sono una prova in cui Dio ci pone abbiamo già superato per metà la difficoltà;
quando invece li si legge come destino cattivo, come malvagità della gente, della società,
come ignoranza dei superiori o pigrizia di quanti ci sono affidati, è assai difficile uscirne se
non con discorsi razionali o con provvedimenti di tipo programmatico che però solo in parte
risolvono il problema.
Se colgo l’aspetto di prova emerge il grido:
“Signore, non permettere che io cada in tentazione! Fammi comprendere che sto
vivendo un momento importante della mia vita e che tu sei con me per provare la mia fede e
il mio amore”.
“Donaci, o Padre, di conoscerti così. Fa’ che i nostri occhi ti conoscano e ti vedano
con quella verità che è la verità del kerygma, dell’evangelo, della salvezza definitiva”.
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IL COMPIMENTO
DELLA CHIESA SOFFERENTE
Omelia nella festa di san Bartolomeo
Ap 21,9-14, 1 Cor 4,9-15, Gv 1,45-51
— Il vangelo presenta un uomo che ci ricorda Giobbe. Natanaele infatti è uomo retto,
integro, semplice, tutto d’un pezzo, capace di aprirsi alla verità.
Avevamo letto: «Il Signore disse a satana: “Hai posto mente al mio servo Giobbe?
Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male”» (Gb
1,8).
E Gesù esclama: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità» (Gv 1,47).
Anche Natanaele è un uomo giusto, eppure dovrà passare per la prova.
Tutta la sua vita sarà partecipazione al mistero della passione di Gesù, fino alla prova
suprema del martirio che oggi la Chiesa ci fa meditare.
— Il tema della prova dell’apostolo è ampiamente descritto da Paolo: Noi, gli apostoli
— coloro che sono scelti, che hanno creduto, che si sono lasciati inviare accettando che la
giustizia di Dio si manifestasse nella loro persona — siamo stati messi da Dio «all’ultimo
posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e
agli uomini». Sono parole sorprendenti.
L’espressione «spettacolo al mondo» fa pensare alla lotta impari che si svolge in un
anfiteatro tra uomini e bestie feroci.
Quindi Paolo elenca una serie di aggettivi negativi: «stolti, deboli, disprezzati,
affamati, assetati, nudi, schiaffeggiati, vagabondi, affaticati, insultati, perseguitati, calunniati,
spazzatura del mondo, rifiuto di tutti» (1 Cor 4,9-13).
Viene alla mente, ancora una volta, Giobbe che beve il calice fino all’ultima goccia.
Il mistero della prova del giusto diviene, nel brano paolino, il mistero della prova
dell’apostolo, con un’apertura neotestamentaria che in Giobbe è implicita e scoppierà
soltanto nella conclusione.
Qui è già presente tra le righe della stessa sofferenza: l’apostolo che partecipa alla
condizione del giusto sofferente esprime la pienezza della risurrezione: «insultati,
benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo».
È lo splendore della potenza della croce.
— Tutto questo ci riporta alla visione celeste della prima lettura, tratta dal Libro
dell’Apocalisse, che possiamo leggere come visione conclusiva della meditazione della
Chiesa sull’apostolo Bartolomeo. Non a caso le orazioni liturgiche di questa Messa sono
tutte centrate sul tema della Chiesa.
Essa, riflettendo su san Bartolomeo, riflette sul proprio mistero nel quadro dell’Apo-
calisse, dove la Chiesa appare perseguitata, sofferente, colei che realizza in se stessa la figura
di Giobbe e insieme guarda al proprio compimento.
Bellissima la descrizione della Gerusalemme messianica, che è chiamata con
appellativi dolcissimi: «la fidanzata, la sposa dell’agnello» (Ap 21,9).
Nella tradizione orientale i due termini si equivalgono, perché fidanzata vuol dire
definitivamente promessa come sposa, legata a un contratto che dura tutta la vita.
Si vuole indicare dunque la pienezza della sponsalità, il rapporto paritario, affettivo,
indissolubile che Dio stringe col suo popolo, la fiducia che il popolo, la Chiesa ha verso Dio.
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Gesù dice ancora, all’inizio dell’ultima cena: «Ho desiderato ardentemente di mangiare
questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22,14-15). E la stessa ansia di buttarsi
nella prova noi la leggiamo nel gesto simbolico della lavanda dei piedi: «Gesù, sapendo che
era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano
nel mondo, li amò sino alla fine».
Poi si alza da tavola, depone le vesti, prende un asciugatoio, se lo cinge, versa
dell’acqua, lava i piedi; per significare che dà la vita per noi, per la nostra vita, per
purificarci.
Infatti dice a Pietro: «Se non ti laverò, non avrai parte con me» (cfr. Gv 13,1-8).
Cerchiamo dunque di entrare nella coscienza di Gesù, in quella coscienza che da una
parte è esemplare per tutta l’umanità, essendo egli il capo dell’umanità redenta, il
primogenito dai morti, il primogenito della creazione, colui nel quale riconosciamo la nostra
vocazione umana creaturale, perché siamo stati creati e ricreati in lui; dall’altra ci permette
di contemplare in Gesù il mistero della Trinità, della vita intima di Dio.
1. Giobbe procede a tentoni, sembra un cieco che avanza nel buio e tuttavia nel suo
travaglio appare qualche lampo. Un lampo ampiamente commentato dagli esegeti, pur se
come tutto il Libro è difficilissimo da interpretare, è verso la fine del capitolo 19:
Parole enigmatiche, anche perché le traduzioni date dagli interpreti sono diverse, e
tuttavia sono tutti d’accordo nel ritenere che esprimono un lampo di certezza, di fiducia, che
supera ogni premessa perché si appoggia su qualche cosa che è al di là di ciò che l’uomo può
intuire.
L’ansia di ricerca, tipica del Libro di Giobbe, è espressa anche nel Cantico, ma è
espressa pure la delusione. Una delusione che non si dà per vinta, che non rinuncia perché
chi cerca è mosso dall’amore, non da motivi razionali e logici.
Infatti, continua a cercare anche dopo che non ha trovato:
«Mi alzerò e farò il giro della città;
per le strade e per le piazze;
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Comincia allora il lungo dialogo prima con le guardie, poi col coro e questa volta
sembra che la sposa non riesca più a trovare il diletto.
Nel corso del Cantico, tra un dialogo e l’altro, riappare il tema fondamentale: «Il mio
diletto per me e io per lui». È una parola di fiducia, pronunciata sempre in assenza dell’a-
mato, e ricorre tre volte come tutte le realtà importanti nella Bibbia:
«Il mio diletto è per me e io per lui» (Ct 2,16);
«Io sono per il mio diletto e il mio diletto per me» (6,3);
«Io sono per il mio diletto
e la sua brama è verso di me» (7,11).
Dunque, tu sei il mio Dio, noi siamo il tuo popolo; tu sei il mio popolo, io sono il tuo
Dio. Come non vedere in queste parole la formula dell’alleanza espressa in termini di
reciprocità e di intimità?
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“Signore, le nostre prove sono le tue e le tue sono le nostre. Meditando la tua beata
passione, noi vogliamo acquisire quella koinonia con le tue sofferenze che ci dà la certezza
di conoscere la forza della tua risurrezione”.
UN LUMINOSO ESEMPIO
DI AMORE GRATUITO
Omelia nel venerdì della XX settimana «per annum» (Anno dispari)
Rut 1,3-8.14-16.22; Mt 22,34-40
La storia di Rut, di cui si comincia oggi la lettura nella liturgia feriale, costituisce un
intermezzo pacifico nel quadro di sangue, di guerre, di lotte, di conflitti, di crudeltà, di
infedeltà, descritto nel Libro dei Giudici.
Il racconto di Rut mostra che, anche nei periodi in cui l’uomo sembra diventare “lupo”
per l’altro, in cui gli uomini sembrano ridotti a trattarsi come belve, ci sono tuttavia degli
episodi di amore, di carità, di bontà, di gratuità. È dunque molto bello questo piccolo libro
incastonato a modo di pietra preziosa nel quadro fosco della vita feudale di Israele.
Ed è bello anche perché parla della nonna di Davide, quindi del Messia; si nomina
Betlemme, città in cui è nato Gesù. Tutto fa presagire l’intimità, la tenerezza, la gioia del
Natale.
La storia si apre con la descrizione di una grande prova sociale, politica, culturale: la
carestia e, di conseguenza, l’emigrazione con tutte le sofferenze proprie di chi è costretto ad
andare in paesi lontani. Questa sofferenza un tempo è stata vissuta da molti italiani, mentre
oggi è sperimentata da altri uomini che giungono nel nostro paese e in tutta l’Europa.
Domani andrò a Francoforte per un incontro con la città, in occasione di un centenario della
Cattedrale, e dovrò tenere una relazione sul tema della nuova civiltà multirazziale europea,
che si sta costituendo a partire dalle massicce immigrazioni dal Terzo mondo; nella sola
Germania si calcolano oggi oltre cinque milioni di immigrati, per la maggior parte turchi.
La situazione di sofferenza da parte degli emigrati caratterizza dunque ancora oggi la
situazione mondiale. Ed è una prova grande per l’uomo quella di essere sradicato dalla
propria terra, dai propri affetti, per affrontare l’insicurezza.
Il libro di Rut descrive questa prova nella quale si innesta poi una dolorosissima prova
familiare: muore Elimélech, marito di Noemi, e muoiono i due figli. È una famiglia
perseguitata dalle disgrazie, si direbbe quasi una famiglia di cui Dio si è dimenticato. Noemi
è rimasta priva di tutto, priva di speranze e di avvenire. Allora, con un gesto eroico e
gratuito, invita le due nuore moabite a salvarsi, a ritornare a casa loro, lasciandola morire nel
pianto. Noemi vuole il bene delle due donne. Proprio qui risalta maggiormente il coraggio di
Rut, una moabita, perciò una straniera per Israele e membro di un popolo inviso agli israeliti.
Moab è simbolo di gente che si rigetta, come dice il Salmo: «Moab è il catino per lavarmi»
(cfr. Sal 108,10). Ma da questo popolo viene, con Rut, un luminosissimo esempio di amore
puro, autentico, gratuito.
Rispose Rut a Noemi: «Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza
di te; perché dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il
mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu morirò anch’io e vi sarò sepolta...
Così Noemi tornò con Rut, la Moabita, sua nuora, venuta dalle campagne di Moab. Esse
arrivarono a Betlemme quando si cominciava a mietere l’orzo» (Rut 1,16-17.22).
Quando leggiamo il comportamento di questa donna nella cornice della forza delle
tradizioni familiari, ancora molto vive oggi nei popoli dell’Africa per esempio, rimaniamo
sorpresi per la semplicità con cui rinuncia a tutto questo sistema di relazioni e sceglie di
andare con la suocera verso un popolo che non è suo, che non conosce e con cui non ha
legami al di fuori di quello del marito morto che quindi non può più difenderla. Pur di essere
vicino a Noemi sceglie l’insicurezza, la solitudine, il possibile disprezzo.
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Il suo gesto è totalmente gratuito, non ha ragioni; era logico tornare a casa propria,
rifarsi una vita, dimenticare l’avventura con lo straniero israelita e, invece, spinta da una
forza interiore affronta l’ignoto, rimane fedele alla memoria del marito e alla madre di lui.
«Dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo
e il tuo Dio sarà il mio Dio». Risuona la formula dell’alleanza: Tu sei il mio popolo, io sono
il tuo Dio.
Rut viene attratta dal mistero dell’alleanza e vi entra con amore, con gioia, con fiducia.
E il seguito del racconto mostrerà che questo abbandono fa di lei una donna nuova, creativa,
ardente. Uscendo dalle strettoie delle tradizioni che l’avrebbero vincolata in un ruolo chiuso
nell’ambito del suo clan, ha accettato il gioco d’amore che le viene proposto, il nuovo
mistero che conosce poco e di cui però sente la meravigliosa attrattiva.
Questa donna, per la sua meravigliosa storia e poi per il matrimonio felice con Booz,
sarà inserita nella genealogia di Cristo e ogni volta che noi leggiamo l’inizio del vangelo di
Matteo ci ricordiamo di lei, della sua fedeltà, del suo amore senza ragione che trova alla fine
la pienezza della sua giustificazione.
Abbiamo meditato a lungo, nei nostri Esercizi, sul mistero della prova e dell’amore e
vogliamo chiedere ancora una volta, davanti all’effigie della Madonna addolorata, di poter
penetrare più profondamente in questo mistero.
Preghiamo molto, ora e nei giorni che verranno, gli uni per gli altri, nel desiderio che
l’amore gratuito, frutto soltanto dello Spirito santo, ci venga abbondantemente elargito per
intercessione di Maria e di tutti i santi.